INDICE
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Il portafoglio
A cavallo
Deposizione
La rivale
La sedia
La terrazza fiorita di rose
La palma
La tartaruga
Uccelli di nido
Cura dell'amore
Un pezzo di carne
Ecce Homo
Il nome del fiume
Biglietto per conferenza
Piccolina
Il nemico
Il tesoro degli zingari
Viali di Roma
Il vivo
Il pastore di anatre
Il figlio del toro
Lo spirito dentro la capanna
La prima confessione
Il leone
Acquaforte
Strade sbagliate
Mattino di giugno
Il sigillo d'amore
IL PORTAFOGLIO
Aveva appena finito di predicare, il grosso frate barbuto, e se ne tornava
al convento, anzi del convento già rasentava il muro dell'orto, di sopra
del quale le nuvole bianche dei peri e dei susini in fiore lasciavano cadere
una silenziosa nevicata di petali sul marciapiede deserto. Sul marciapiede
opposto, di là dalla strada larga dove il sole già caldo sebbene
al tramonto e un venticello che sapeva ancora di neve giocavano un loro gioco
malizioso e sensuale, solo una donna passava quasi di corsa, agitata, con le
mani gesticolanti, le falde della giacca che si aprivano e si chiudevano come
due ali nere di sopra e viola di sotto.
Rimasto indietro di qualche passo, il frate si accorse che la borsetta rotonda
oscillante come un pendolo sotto il braccio della donna, apriva la bocca con
uno sbadiglio smorfioso e vomitava un portafogli rossastro.
Anche lui aprì la bocca per chiamare e avvertire la donna che proseguiva
rapida, ma come avesse timore di farle paura, in quel grande silenzio solitario,
non riuscì ad articolare parola; poi attraversò la strada e raccolse
il portafoglio; e lo sentì gonfio e tiepido nella sua mano; gonfio sebbene
leggero, chiuso forte da una borchia di metallo, e con un odore fra di cuoio
e di muschio che gli diede un'impressione di carne viva, quasi fosse un membro
stesso della donna staccatosi da lei.
Fu per questo che il diavolo lo costrinse a farsi scivolare il portafogli entro
la manica, nell'atto stesso che si sollevava? Egli pensò subito così,
appena ebbe coscienza dell'atto, ma immediatamente si accorse che il suo pensiero
voleva solo nascondere a sé stesso la vera bassezza della rapina: era
l'interno del portafogli, il denaro altrui, che lo tentava. E si sollevò un
altro uomo.
Ma appena si volse per attraversare di nuovo la strada, gli parve che la coscienza,
fuggitagli via in quell'attimo, gli si affacciasse di fronte, inesorabile,
col viso bianco del convento e alla finestra più alta gli occhi azzurri
cerchiati di nero del Padre Superiore.
Un gelo mortale gli fece sentire tutto il suo grande corpo freddo entro la
tonaca d'improvviso pesante: e gli parve di camminare nell'acqua, e andare
sempre più giù: eppure non pensò di correre appresso alla
donna e restituirle il suo.
A che? Il Padre lassù aveva veduto ogni cosa: e lo giudicava come Dio.
Ma arrivato sul marciapiede sotto l'orto respirò profondamente, come
appunto uno scampato dai gorghi di un fiume: pensava di andar subito su dal
Padre, consegnargli il portafogli, e lasciar cadere ai piedi di lui il peso
del suo già infinito dolore.
Ma quando arrivò al secondo piano del convento si trovò in mezzo
a un correre misterioso di frati che attraversavano i corridoi e salivano le
scale con un pesante svolazzare di tonache come uccellacci molestati dal passare
del nibbio: e nessuno parlava, e quel silenzio rendeva più tragica la
confusione.
Anche lui continuò a salire, col cuore sempre più agitato: sul
pianerottolo ultimo della scala, dove questa si restringeva per arrampicarsi
alla terrazza, sotto la grande luce della finestra aperta, vide i confratelli
che sollevavano di terra, leggero come fatto della sola tonaca e del viso e
delle mani di cera molle pronta a sciogliersi, il Padre Superiore.
- È morto per colpa mia - pensò con terrore: terrore raddoppiato
dal subito accorgersi che non andava disgiunto da un senso di sollievo: poiché col
Padre gli pareva se ne andasse la sua vergogna, se non il suo peccato.
Il Padre era solamente svenuto; cosa che del resto gli succedeva qualche volta
perché soffriva di asma.
- Si vede che è salito qui per respirare un po' d'aria, e l'aria stessa
gli ha fatto male: forse non mi ha neppure veduto - pensa il frate affacciandosi
a sua volta alla finestra, mentre i confratelli portano giù fra le braccia
il Padre Superiore.
E guarda verso il punto dove ha raccolto il portafogli: è abbastanza
lontano, questo punto, e difficile è il distinguervi un oggetto piccolo.
Se andasse e vi mettesse appunto qualche oggetto, per fare la prova? Ma che
importa? Non ha deciso di confessarsi? Una tristezza di morte lo investe e
lo calpesta; e l'orto giù con la sua marea di fiori, i giardini più in
là, tutti freschi e frementi, il sole e il vento in amore, la città ronzante
come un alveare in maggio, il mondo e tutto infine gli sembra un cimitero,
poiché sente che la sua coscienza è malata di un male mortale.
Ridiscese, e si mise accanto all'uscio del Padre Superiore, deciso a non muoversi
di lì finché non gli permettevano di entrare e compiere il suo
dovere. Dentro la cella il medico, pure lui frate, da poco entrato nell'ordine
dopo essere stato un gaudente, adesso legato al dolore da un cilizio che portava
notte e giorno, pronunziava ad alta voce qualche parola come parlasse fra sé.
Così il frate, di fuori, seppe che l'infermo andava meglio: il cuore
si calmava, le forze vitali tornavano: poi si sentì un bisbiglio.
- È rinvenuto, e forse comunica all'altro la causa del suo svenimento.
Questo dubbio lo accese di sdegno: perché nella sua rigida santità,
egli aveva sempre sentito disprezzo e ripugnanza per il medico convertito,
e adesso questi sentimenti gli si ritorcevano contro come serpi calpestate.
Attese ancora, attaccato alla parete come un frate dipinto. Nelle finestre
del corridoio il cielo si sfioriva; il vento cessava, ritirandosi poiché si
ritirava il sole, ma di quel loro gioco rimaneva la dolcezza voluttuosa nell'aria;
musiche lontane tremolavano coi profumi dei giardini; e la donna del portafoglio
correva nelle strade della città maledicendo il ladro che aveva aperto
la sua borsa. Il ladro non esisteva, eppure quella maledizione avvelenava l'aria
e la soavità della sera.
Finalmente l'uscio della cella fu aperto e il lungo monaco dal viso di diavolo
vi balzò fuori come da una scatola.
L'altro lo fermò, senza guardarlo in viso.
- Ho bisogno di vedere il Padre Superiore.
- Impossibile. Dorme.
Dormì placido tutta la notte, il vecchio Padre malato; quello sano e
grasso invece si struggeva nel suo giaciglio in mezzo a una torma di brutti
sogni che lottavano a chi più farlo soffrire, spingendolo su per le
strade di montagna che a un tratto rasentavano precipizii o si stringevano
in modo da imprigionarlo, o in nere paludi dove si rinnovava l'angoscia di
soffocamento provata nell'attraversare la strada dopo la raccolta del portafogli.
E questo era sempre lì, in cima agli incubi come uno stendardo rosso
sopra una tumultuosa processione di demoni; o era lì sotto la sua testa
e gli si appiccicava alla nuca come un tumore pestilenziale; si gonfiava in
forme oscene o cadeva sotto il letto dove un terribile topo lo rosicchiava
e lo trascinava poi intorno alla cella producendo un rumore misterioso che
risvegliava tutti i frati del convento; e tutti correvano su e giù svolazzando,
con un battito metallico di tonache dure, e uno di essi, il lungo diavolo convertito,
trascinava per i capelli la donna del vestito nero foderato di viola: poiché era
lei, con la sua furia di andare forse a un convegno peccaminoso, la radice
del male.
- Infine, - pensò il paziente, scuotendosi e ribellandosi, - sono un
uomo e devo vincere io. Vado alla delegazione municipale e rimetto il portafogli
fra gli oggetti smarriti. E col Padre Superiore sono sempre in tempo ad aggiustarmi.
Ma era notte ancora, e contro i muri neri del buio i buoni propositi battono
e svaniscono come bolle di sapone. I nani della coscienza tornavano a stringere
coi loro fili taglienti l'uomo grande e grosso che si rotolava nel piccolo
letto come un delfino nella rete: finché arrabbiato sul serio, egli
afferrò di sotto il guanciale il portafogli caldo e odoroso di carne
sudata e lo scaraventò nel buio.
Poi si alzò e lo riprese: e aspettò l'alba con l'impressione
di uno che va verso un fiume per lavarsi.
Finalmente poté essere ricevuto dal Padre Superiore.
- Padre, avanti che le venisse male, ieri, lei stava alla finestra ed ha veduto
quanto mi è occorso.
Il piccolo Padre lo fissava con lo stesso sguardo lontano e vago di quando
era alla finestra: non rispose. Aveva veduto o no?
E la tentazione di travisare le cose, di nascondere in parte la verità riassalì il
frate: egli la ricacciò subito e trasse dalla manica il portafoglio.
L'altro guardò l'oggetto, poi guardò di nuovo in viso il colpevole:
i suoi occhi s'erano come avvicinati, ed esprimevano una viva curiosità.
E il frate sentì che tutte le sue pene erano state inutili; che il piccolo
Padre non aveva veduto e non sospettava il vero. Poteva dunque salvarsi ancora
dalla vergogna: ma come salvarsi se sopra di loro il Cristo nero con la testa
sanguinante si piegava per ascoltare?
- Padre, questo portafogli lo ha perduto ieri una donna, che passava davanti
a me. L'ho raccolto, e invece di avvertire la donna e restituirglielo, ebbene,
me l'ho tenuto io, con l'intenzione di profittare dei denari che forse contiene.
Il Padre sorrise: un suo antico sorriso di beffa, che ai suoi tempi migliori
era stato la sua arma più fina contro amici e nemici, e che punse il
colpevole più che un atroce rimprovero.
- E cosa voleva farne dei denari?
- Non lo so. So che ho passato una notte infame, per il rimorso e sopratutto
per la vergogna di aver compiuto l'azione sotto gli occhi di lei, Padre, di
lei che vidi solo dopo. Adesso penso di andare alla delegazione municipale
e depositare l'oggetto.
- Ma dentro non c'è per caso qualche indicazione della donna?
- Non so: non l'ho aperto.
- Lo apra e guardi.
E il terribile sorriso ravvivò ancora il viso di morto del piccolo Padre
quando dal portafogli spalancato sgorgò solo una voluminosa lettera
d'amore.
A CAVALLO
Un tempo io ero, pare impossibile, una intrepida amazzone. Ma da noi, in quel
tempo, si nasceva, si può dire, a cavallo. Invece che sulle sedie i
bambini s'arrampicavano sui mansueti ronzini invariabilmente legati nelle stalle
dei ricchi proprietari e sotto le tettoie dei pastori poveri: a cavallo i proprietari
andavano a visitare le loro terre, a cavallo si viaggiava da un paese all'altro,
a cavallo le nobili dame si recavano a sciogliere qualche voto nelle belle
chiese di stile pisano che arricchiscono l'isola, e le serve a portare l'acqua
dalla fontana.
E a cavallo si partiva, nelle luminose albe di primavera e d'autunno, in allegre
brigate, per le feste campestri: il cavallo, quindi, era per noi ragazze di
buona famiglia condannate ancora a una vita orientale, chiusa e sorvegliata
gelosamente dai genitori, fratelli, zii e cugini, un simbolo di libertà e
di gioia.
Si diventa alti, a cavallo, e si ha l'illusione di essere, come i centauri,
creature favolose agili e forti capaci di camminare, senza mai stancarsi, fino
ai limiti della terra.
Dall'alto di un piccolo cavallo baio legnoso e pensieroso, simile, nelle forme
arcaiche, a quelli decorativi delle cassepanche e degli antichi ricami sardi,
ho viaggiato mezza Sardegna, e veduto i più bei paesaggi che la mia
memoria ricordi.
Accusata di avere, nei miei racconti, sciupato troppo colore e troppa vernice
per questi paesaggi, ho voluto rivederli nell'età in cui la fanciullezza
non fa più belle della realtà le nostre visioni esterne colorandole
del suo divino splendore interno: riveduti dalle impazienti automobili che
adesso palpitano nelle vene stradali dell'isola e le riempiono di vita nuova,
li ho trovati ancora più belli, nella loro immota e sacra solitudine
che vive di sé stessa e pare anzi si rattristi quando viene turbata.
Ricordo sempre il misterioso suono dell'eco che rispondeva alle nostre voci
quando costeggiando il monte Orthobene si scendeva al bianco villaggio d'Oliena:
era una voce potente, cavernosa, che pareva scaturisse davvero dalle grandi
roccie simili alle rovine enormi di una città titanica; e ripetesse
sdegnata le vane parole di noi piccoli sopravvissuti ad un'epoca in cui l'uomo
anche nelle sue costruzioni materiali tentava di vincere il tempo e avvicinarsi
al cielo.
La gita più avventurosa ch'io ricordi si fece con una mia cugina maggiore
di me di parecchi anni, e per la quale io professavo il rispetto e l'ammirazione
dovuti ad un'eroina: poiché era una ragazza di una forza e un coraggio
da Ercole: spezzava sul ginocchio grossi rami di legno verde e sparava il fucile
senza mai fallire il colpo. Fu lei a combinare una gita arrischiatissima, al
paese d'origine delle nostre famiglie, l'aquila dei paesi di Sardegna accovacciata
alle falde del Gennargentu: Fonni. Questo era il mio sogno: risalire la strada
donde erano scesi i nostri nonni arguti e artisti.
E si cominciò con l'astuzia, domandando ai genitori il permesso di passare
due giorni e una notte nella vigna, dove ci si poteva dormire, e il guardiano,
fidato e affezionato, era un nostro parente.
La vigna era nella strada per Macomer; ma noi, arrivate al trivio dopo Nuoro,
nel mattino di maggio che dava tutti i colori dell'iride al meraviglioso panorama,
si tirò dritto per lo stradone di Mamoiada.
La paura d'incontrare qualcuno che ci spiasse e tradisse, turbava alquanto
il piacere del viaggio: per fortuna non si incontrò che una donnina
di Fonni; anche lei sola e spavalda sul suo ronzino carico di bisacce di patate,
ci salutò con un semplice:
- Ave Maria.
Dopo la cantoniera davanti alla quale si passò di corsa (la cugina aveva
lo sprone e se ne serviva spietatamente), si cominciò a respirare; la
strada, in salita, è sempre più amena, i prati più ricchi
di pascoli in fiore; le quercie vibrano tutte per il canto degli usignoli;
pastori di Mamoiada scendono, a cavallo, fra i loro sacchi e le bisacce istoriate,
tranquilli come i pastori diretti a Betlemme: e non badano a noi: solo un vecchio,
affacciato a una muriccia, ci domanda dove andiamo.
- A Fonni a portare un cero alla Basilica dei Santi Martiri - dice pronta la
cugina; e gli fa vedere un bastone che tiene come un'arma sull'arcione.
Si costeggiò Mamoiada: non c'interessava visitarla, anche perché abitata
da numerosi compari di battesimo e relativi figliocci di
mio padre: arrivate al bivio la cugina esitò un momento, poi diede una
bastonata al fianco del cavallo e lo aizzò con un grido selvaggio.
La bestia andò, scuotendo la testa come per salutare qualcuno e chiamarlo
a testimone della sua ingiusta persecuzione: e il mio piccolo baio sornione
gli tenne come sempre dietro, rigido e raccolto a pensare cose sue particolari.
Quando Mamoiada sparve nella sua piccola conca piena di sole, io espressi il
desiderio di fermarci: avevo fame e cominciavo ad essere stanca.
- Tu sei pazza, - gridò la cugina piegandosi per trarre qualche cosa
dalla bisaccia, - sai che il viaggio è lungo e non dobbiamo perdere
un attimo di tempo. Prendi e mangia; i denti non hanno bisogno di star fermi
per masticare.
E diede un pezzo di pane a me e una bastonata alla mia innocente cavalcatura.
Da quel momento il nostro viaggio prese un carattere alquanto fantastico. Si
saliva sempre; nel meriggio luminosissimo le grandi vallate molli di una vegetazione
intensa che aveva l'ondulare lucente del lampasso, i placidi mostri addormentati
delle roccie argentee, gli alberi tutti scintillanti, i prati coloriti di fiori,
lo sfondo grandioso delle montagne che parevano di marmo azzurrognolo venato
di rosa e di viola, prendevano una bellezza esasperante: paesaggi così,
fatti di luce e dei colori liquidi delle gemme, si vedono solo in sogno o nelle
vetrate istoriate.
Ed ecco siamo su un altipiano: la strada si insinua in un bosco; attraverso
i tronchi dei lecci secolari, bruni ancora delle foglie vecchie, gli sfondi
svaporano più chiari in uno spazio infinito: ed io comincio ad avere
l'impressione che i monti del Gennargentu invece di avvicinarsi si allontanino
o meglio si sciolgano in quella luminosità aerea.
L'ombra del bosco ci ridona un poco il senso della realtà e dell'orientamento:
si cammina in silenzio per molto tempo: fiori bellissimi, grandi margherite
d'oro, rose peonie simili a quelle coltivate nei giardini, garofani violetti
il cui profumo si distingue fra gli altri come la nota del violino in un'orchestra;
e rose, rose, rose di macchia, rallegrano come fuochi di notte la solitudine.
Di nuovo il bosco si spalanca; di nuovo si sale; la strada, adesso, come presa
da un capriccio di avventura rasenta un precipizio che davvero ha il fascino
dell'abisso; giù per una cascata di roccie granitiche scendono processioni
di cespugli selvaggi che pare tendano all'acqua brillante del ruscello in fondo
al vallone: di là ricomincia l'ondeggiare immenso delle chine verdi
e grigie, rosee e azzurre, che risalgono verso l'orizzonte.
La strada, pentita, ritorna nel bosco, e vi si interna sempre più; ed è sempre
in piano, fra prati e alberi, come il viale di un parco.
Quello che più impressiona è la solitudine assoluta del luogo:
il sole declina e noi camminiamo ancora, ed io ho un vago timore che ci si
sia smarrite.
Anche l'intrepida cugina è pensierosa: il suo viso lungo, un po' animalesco
quando è triste, rassomiglia a quello del mio cavallo.
D'un tratto ella si rianima e si mette a cantare a voce alta: a me pare lo
faccia per paura, come i ragazzi nelle stanze buie.
Il suo canto è spavaldo, nella sua desolazione.
In chenapura so nadu,
In die de tribulia:
Su coro est de preda ia,
E de attargiu temperadu [1]
Ed ecco all'echeggiare del ritornello ripetuto con forza come una sfida al
pericolo e alla mala sorte, risponde l'abbaiare di un cane, e le cose intorno
si svegliano di soprassalto dal loro sonno incantato.
Un uomo con una fiera barba rossa appare nell'arco verde fra due quercie, un
altro, a cavallo, nella lontananza azzurra della strada; e noi ne riconosciamo
con orgoglio il costume.
È
il costume di Orgosolo, e noi siamo nella foresta di Morgogliai.
Così, invece che a Fonni, culla dei nostri avi poeti e vescovi, passiamo
la notte ad Orgosolo, nido di uomini dei quali ancora oggi solo Dante potrebbe
incidere il profilo.
DEPOSIZIONE
Quest'agosto scorso - raccontò l'accusato - mi trovavo a Ghinfe, che è frazione
di una piccola stazione balneare sull'Adriatico.
Nelle piccole stazioni di villeggiatura c'è, più che nelle grandi,
probabilità di essere aiutati dal prossimo. La gente che le frequenta è semplice,
di pochi mezzi e quindi di buon cuore.
I ricchi vanno nelle stazioni di lusso, e i ricchi non sentono compassione
del povero perché non sanno cosa sia la miseria. Prima di arrivare a
Ghinfe avevo tentato Rimini, dove certe signore esili, dall'aria triste e sofferente,
alle quali mi ero avvicinato con la speranza di essere inteso e aiutato, mi
risero in faccia con denti crudeli: la mia grande miseria parve anzi divertirle;
e poiché insistevo mi diedero del mascalzone, del vagabondo, e chiamarono
un bagnante per farmi allontanare. Quel giorno veramente pensai a morire: non
mangiavo da quarantotto ore. Poi la rabbia e l'umiliazione mi sostennero.
Cammino: lungo la spiaggia vado su, su, fino a Viserba: ma i bagnanti, e specialmente
le donne, alle quali è sempre meglio rivolgersi, hanno ancora un aspetto
troppo elegante che non mi incoraggia ad avvicinarli.
Cammino: evito le guardie di dogana che si volgono a guardarmi sospettose. È doloroso
come il povero emani un odore di bestia selvatica: anche i cani lo sentono
e abbaiano al suo passare. Ed egli cerca di nascondersi, di fuggire. Questo è il
segreto del vagabondo, e il suo tormento: la necessità di star solo,
in un isolamento terribile che è già quello della morte.
Cammino, dunque: sono abituato a camminare anche se ho fame, se ho la febbre,
anche se dormo.
E mi sembra appunto di camminare e sognare quando da un sentieruolo fra le
tamerici dell'arenile verso Ghinfe vedo sbucare una signorina in lutto.
Sulle prime mi sembra una bambina, tanto è piccola, coi vestiti corti,
bionda e rosea sotto l'ombrellino nero che tiene rasente alla testa come un
grande cappello. Cammina tranquilla, in quel perfetto deserto, come nella piazza
del paese: e mi viene quasi incontro fissandomi coi grandi occhi celesti che
però abbassa a misura che anch'io muovo verso di lei rispettoso e fiducioso.
- Ecco il fatto mio - penso, e col cappello in una mano e la scatoletta dei
bottoni nell'altra, sinceramente turbato le dico: - Perdoni, signorina, sono
gli ultimi che mi rimangono di una partita di mercerie. Non vorrebbe acquistarli?
Ella guarda attentamente la scatoletta aperta, poi solleva gli occhi ed io
mi sento avvolgere tutto come da un velo azzurro. Ed ho l'impressione che oltre
il mio corpo quegli occhi vedano l'anima mia, nella sua
più profonda miseria, e che al riflesso di questa si coprano d'infinita
tristezza.
Ella ha inteso chi sono. - Quanto è? - mi domanda senza toccare la scatola.
E mai ho sentito una voce più soavemente rauca. D'un colpo mi vergogno
di me stesso: ho voglia di piangere, di caderle ai piedi come una foglia morta.
Ella vede e indovina tutto, riprende a camminare permettendomi di accompagnarla
e anzi sollevando alto l'ombrellino quasi per fare ombra anche a me.
Io chiudo la scatoletta e vorrei offrirgliela in dono; ma mi vergogno; mi vergogno
di tutto, oramai.
- Lei ha indovinato chi sono - mormoro seguendola a testa bassa come un cane
umiliato. - Sono un ragazzo di buona famiglia: ho anche studiato; ma adesso
mi trovo senza occupazione. Vado in cerca di lavoro e non trovo: spaccherei
anche le legna, farei anche lo sguattero, eppure non trovo. La sciagura mi
accompagna. Tutti mi guardano, vedono che non sono del popolo e lavoro non
me ne danno. Anche lei crede che il mio vestito sia di persona civile: lo guardi
bene; è tutto logoro, rammendato da me: guardi bene, non ho camicia,
ma la pettina col collo rovesciato ha pretese d'eleganza. Il guaio è che
non ho più la mamma e il babbo non l'ho conosciuto. Ho un fratello giudice,
con la moglie malata e molti figli, e non può soccorrermi, né io
lo pretendo. Ma perdoni, signorina, io l'annoio: perdoni, sono un debole. Da
due giorni non riesco a procurarmi da mangiare.
La signorina ascolta, a testa bassa anche lei, anche lei umiliata nella sua
più viva umanità: crede ad ogni mia parola, ma a poco a poco,
pur senza ch'ella parli o muti viso, sento che il suo primo turbamento svanisce:
già un senso istintivo di diffidenza rende opaca la sua pietà.
Tuttavia lascia ancora che l'accompagni e cammina tranquilla accanto a me lungo
la spiaggia: e il suo silenzio pensieroso di me, e sopra tutto la sua fiducia
volontaria mi umiliano più che la crudeltà delle donne di Rimini.
Finalmente, con la voce di uno che ha risolto un problema, mi dice:
- Perché non va dal sindaco? Qui il Comune è socialista: potranno
procurarle lavoro.
- Andrò, - rispondo io con accento di obbedienza, - ma non spero.
- Ascolti, - ella riprende dopo un momento di esitanza, - io posso far poco
per lei: sono qui in pensione e i denari li ho misurati. Ma ho qui qualche
oggetto d'oro, e posso darle un paio d'orecchini che non mi servono e che lei
può facilmente vendere alle contadine della spiaggia. Posso anche...
Non finisce la frase, ma apre rapidamente la sua borsa e vi fruga dentro confusa
e mortificata di farmi l'elemosina. Ne trae un astuccio, poi una tavoletta
di cioccolata, e tutto mi porge: e tutto io prendo; si arrossisce entrambi
come ci si scambiasse una promessa d'amore. Poi si cammina di nuovo in silenzio;
ella ha messo la borsa sotto il braccio, e di tanto in tanto la tira su e la
stringe meglio.
Il mare mormora accompagnandoci, ed io ho l'impressione di andare con lei verso
una montagna azzurra. Ma questo non importa. Quello che importa è che
lei d'improvviso, quasi abbia sentito il racconto che io le faccio in silenzio
di tutto il mio patire, dice, piano, come per non farsi ascoltare neppure dalla
rena che calpestiamo:
- Del resto si ha diritto all'esistenza. Se lei è così non è certo
per sua volontà. La letteratura è piena di uomini come lei, e
dunque vuol dire che molti ne esistono. Ma io dico che se la società non
l'aiuta, lei ha diritto di mettersi fuori della società. Questo glielo
consiglio in confidenza, s'intende.
- Non ho mai rubato - dico io: e mi sento più triste del solito.
- È peggio mendicare - ella ribatte, aspra, e cammina più rapida,
quasi voglia lasciarmi indietro perché si vergogna improvvisamente di
camminare con me.
Allora un cataclisma mi scoppia dentro: tutto si rovescia; ho la sensazione
fisica che il mio corpo vuoto si riempia di un liquido velenoso e salato, come
il corpo di uno che annega.
Ed io che volevo farle dono della mia scatoletta di bottoni, come di uno scrigno
di perle, penso di rubarle la borsa: e come colpita dal mio pensiero, la borsa
le scivola di sotto il braccio.
Qui c'è una lacuna sinistra nei miei ricordi: e in mia coscienza non
posso affermare se ho raccolto la borsa o se veramente, come la signorina afferma, è stata
la mia mano a strappargliela destramente di sotto il braccio.
E perché, allora, ella non si è subito rivoltata e non ha gridato?
Ella afferma che aveva paura, che ha camminato con l'ombra della morte accanto,
fino a veder gente. Allora mi ha indicato come un ladro, mentre io, già pentito,
la chiamavo per restituirle la borsa.
E mi presero d'assalto, come un malfattore, e mi impedirono anche di rompere
con la mia vita la mia vergogna.
Adesso però non voglio più morire: voglio espiare, piangere;
nascere veramente dalla mia pena come l'uomo che nasce dalla colpa dell'uomo.
I giudici, una volta tanto, esaudirono l'accusato, condannandolo a nove mesi di carcere.
LA RIVALE
Quindici giorni precisi dopo quello delle nozze la sposina si accorse per
la prima volta che il marito la tradiva.
Erano andati in montagna, forse per vedere più da vicino la famosa luna
di miele; non in una delle solite pensioni dove le nuove coppie sono invidiate,
spiate e spesso prese in giro, ma in casa di una vecchia paesana che era stata
un tempo a servizio presso la famiglia dello sposo: tutta la casetta, in mezzo
a un fitto bosco di castagni, era a loro disposizione.
Luogo più bello non poteva inventarsi per due giovani sposi innamorati
come gatti: e come felini essi passavano la giornata fra i cespugli, nell'ombra
odorosa di funghi, tra i fiori lisci e dorati che brillavano come ceri nella
penombra del bosco e non partecipavano all'amore che li sfiorava con la mano
della sposa.
La vecchia preparava i pasti che erano quasi sempre a base di funghi, squisiti
ed eccitanti. A mezzogiorno gli sposi mangiavano nella cucina fumosa, che sembrava
un'antica cucina fiamminga: di sera preferivano le camerette al piano superiore
perché la cucina si riempiva di figure rosse e nere, di maschiacci giovani
e vecchi, marito, figli e parenti della vecchia, tutti rudi boscaiuoli che
tornavano dalla selva dove tutto il giorno avevano tagliato e fatto rotolare
lungo il torrente grossi tronchi d'alberi, e dopo aver mangiato come lupi,
bevevano, e fumavano la pipa.
L'odore della pipa, sopratutto, dispiaceva alla sposa; la raggiungeva fino
alla camera nuziale e le dava nausea.
Anche lo sposo non fumava che sigarette profumate, e pochissimo del resto.
Nella seconda settimana di matrimonio cominciò però a fumare
un po' di più: evidentemente cominciava ad annoiarsi: e la sposa, col
suo finissimo intuito di donna innamorata, se ne accorse.
La sua prima gelosia fu dunque per la sigaretta del marito, sebbene anche lei,
riguardo a fumare sigarette, non scherzasse.
Inoltre il tempo si fece brutto: e allora, aspettando che il tempo tornasse
bello, i due sposini, quando non avevano di meglio da fare, fumavano e fumavano.
Il guaio era che nei giorni di pioggia forte gli uomini non andavano a lavorare:
riempivano la cucina con le loro figure tumultuose e col fumo delle loro pipe:
qualcuno saliva anche nelle camere di sopra, e allora tutta la casa tremava
per quei passi di gigante ferrato. I due sposi quindi dovevano restarsene nella
camera nuziale, quasi tutta occupata dal letto che pareva proprio un monumento,
e il fumare e il resto non bastava a dissipare la loro noia.
Anzi avevano deciso di partire, se il tempo continuava così.
Una sera la sposa andò a letto presto. Era raffreddata e la vecchia
le preparò una bevanda calda, di fiori secchi misteriosi, che realmente
le diede subito un senso di benessere e di sonnolenza dolce come quello provocato
dall'aspirina.
Allora lei stessa pregò lo sposo di andar fuori, nel paese, in una pensione
dove si faceva della musica, o dove lui voleva.
Egli preferì scendere nella cucina della vecchia, fra quei bei tipi
di montanari, alle spalle dei quali voleva divertirsi.
Tornò su tutto pregno dell'odore delle loro pipe. La sposina dormiva
e sudava, e non si accorse che vagamente della cosa: sognò, cioè,
che anche lei fumava la pipa.
I guai cominciarono la sera dopo, quando egli le consigliò di andarsene
ancora a letto presto e di prendere la bevanda sonnifera, e lui tornò giù di
sua spontanea iniziativa.
Nel suo dormiveglia ella pensava che razza di divertimento poteva procurare
la compagnia di quei zoticoni puzzolenti di vino e di cattivo tabacco, dei
quali, del resto, non si capiva il linguaggio ostrogoto.
Ma la mattina dopo vide, con una prima puntura di gelosia, una bellissima donna
la cui presenza pareva illuminasse la nera cucina. Era vestita con un costume
quasi zingaresco, rosso e viola, con catenelle, medaglie di rame, spilloni
raggianti sulla torre dei capelli d'un nero verdognolo. Anche gli occhi erano
verdi, nel viso bianchissimo, d'una trasparenza straordinaria. Alta e forte,
sembrava infine una degna fata di quelle selve ancora primordiali, nata coi
funghi e le orchidee selvatiche in mezzo ai borri muschiosi.
Era una nuora della vecchia, venuta da un paese più giù sotto
la montagna.
Arrivata la sera lo sposo rinnovò alla sposa l'invito di andarsene
a letto.
Ella si ribellò.
- Se tu vuoi andare vai - disse con una voce sorda che non pareva la sua. -
Io sto su alzata a leggere.
Rifiutò anche la bevanda che la faceva dormire: aveva l'impressione
che la vecchia e lo sposo fossero d'intesa contro di lei per un'azione malefica.
Egli rimase. Rimase, ma era di un umore tetro, col viso cattivo e gli occhi
stralunati. Nel silenzio si sentiva di tanto in tanto come uno sbattere arrabbiato
di ali: erano le pagine dei giornali che gli sposi leggevano.
Infine risonò anche una specie di piccolo ruggito: era l'uomo che sbadigliava.
Questa melanconia durò per qualche sera: di giorno, poi, egli trovava sempre scuse per allontanarsi dalla sposa, ed ella osservava con crescente angoscia che ciò avveniva quando la donna vestita di rosso e viola non era a casa. Un giorno, infine, si accorse con orrore che egli, al ritorno da queste gite misteriose, puzzava tutto di tabacco da pipa, odore del quale erano impregnati i capelli e le vesti della presunta rivale.
Allora ella decise di fare una prova.
Venuta la sera, richiese la bevanda e finse di andarsene a letto, accusando
una recrudescenza del suo raffreddore. Poi consigliò al marito di
uscire; ed egli uscì come un gatto al quale dopo una lunga reclusione
in casa, viene aperta la porta su un giardino pieno di altri gatti.
Ella palpitava e sudava.
Piano piano si alzò, si rivestì, scese scalza al buio la scaletta
di legno, penetrò nella cameretta terrena sulla quale dava l'uscio della
cucina.
L'uscio era spalancato: e ciò ch'ella vide non lo dimenticò mai
più.
I boscaiuoli avevano finito di cenare e sulla tavola si vedevano ancora le
stoviglie grigie fiorite d'azzurro, con avanzi di polenta e di sugo rossiccio,
e i boccali per il vino compagni alle stoviglie.
La vecchia e la nuora s'erano già alzate di tavola: in mezzo agli uomini,
giovani e vecchi, rossi e neri, chi barbuto chi calvo, tutti col bicchiere
in mano e la pipa in bocca, come Gesù fra gli apostoli sedeva il biondo
e pallido sposo, e anche lui, con gli occhi nuotanti in un languore di voluttà,
fumava una corta pipa di radica in colore delle castagne.
LA SEDIA
Un giorno del settembre scorso passavo, verso sera, in una strada popolare
di Roma. La strada, come del resto tutte le altre della città, era allora
completamente rotta per il rinnovamento del selciato; e nel primo velo del
crepuscolo aveva l'impressione di uno di quei sogni quando si cammina lungo
gli abissi o fra le gole dei monti, e arrivati a un certo punto non si può andare
più avanti né tornare indietro: solo un provvido risveglio ci
salva dalla morte per spavento.
Arrivata a un certo punto, come in quei sogni strani, fra uno scavo lungo e
profondo e una striscia di marciapiede ingombra di cumuli di pietre livide
che mi ricordavano i natìi nuraghes, un ostacolo
fermò davvero il mio insolitamente cauto procedere: era una bella sedia
nuova, bassotta, solida, coi bastoni delle gambe e dello schienale bianchi
e forti come colonne, e il fondo, pure bianchiccio, alto rafforzato da liste
di legno: insomma un tipo di sedia per cucina perfezionato e ingrandito. Nonostante
il suo probabile peso, la sedia poteva rimuoversi per passare; il fatto è che
era seguita e accompagnata da una interminabile fila di ottime consorelle,
tutte appoggiate al muro di un vecchio casamento. Pareva si godessero il fresco
e lo spettacolo, così sospese sull'abisso degli scavi, e nello stesso
tempo si offrissero, fra benevoli e beffarde, allo smarrito e stordito passeggero.
Indispettita e stanca, pensavo di approfittare davvero dell'invito e aspettare
che la provvidenza, nella quale ho profonda fiducia anche nei casi più disperati
della vita, mi dimostrasse la sua bontà, quando alla porta del piccolo
negozio che aveva messo fuori così imperterrito la sua merce monumentale,
si affaccia la padrona e mi squadra dall'alto coi suoi occhi bovini, aumentando
la mia impressione di smarrimento. È una vecchia, una di quelle terribili
vecchie come se ne vedono solo nei quartieri popolari delle grandi città,
alta, grassa, barbuta e con la pancia a cupola. Rossiccia ancora di capelli,
vestita dello stesso colore, dava l'idea che i suoi antenati fossero una tigre
e una leonessa, di quelli ammaestrati per divorarsi con appetito i cristiani
nei circhi dell'antica Roma.
Quando ebbe indovinato con chi aveva da fare, mi salutò con un cenno
del capo, come si usa coi dipendenti.
- Vuole?
- Vorrei passare - dico io umilmente.
- Passi, passi pure - concede lei, senza smuovere una sedia: e poiché mi
vede incerta e candida, riprende con voce mutata: - Non le occorrono sedie
per cucina? Sono magnifiche, guardi, (ne solleva una e la sbatte per terra).
Durano eterne: e poi sono comode, provi a sedersi, provi.
Dà l'esempio lei, e a dire il vero ci si adagia così bene, col
suo superbo sedere, che convince la nuova cliente ad imitarla. Provo dunque;
e mai sedia al mondo, neppure quella vellutata e girevole del mio dentista,
mi è parsa più comoda e fantastica: quel paesaggio di pietre
smosse, di scavi, di case gialle sospese come sopra una frana, contemplato
così di fronte, prende un aspetto diverso, nuovo, piacevole e riposante.
Mi pare di essere come in viaggio, quando d'improvviso il treno si ferma per
un guasto alla macchina, e il paesaggio dapprima fuggente, che stordiva lo
sguardo, si cristallizza come dipinto sul cielo in un misterioso sfondo di
silenzio.
La gratitudine per questa gradevole impressione e anche la fantastica idea
che la sedia, messa sulla mia terrazza al posto della banale poltrona di vimini
riesca a farmi vedere diverso il solito stucchevole orizzonte, mi convince
a intavolare le trattative per un probabile acquisto.
- Quanto viene?
- Quante ne vuole? Una dozzina? - domanda la donna tutta premurosa e amabile.
Sentito che me ne occorre solo una, cambia accento e torna a squadrarmi con
disdegno.
- Una le viene sulle quaranta lire.
- Spavento! Ma se ho pagato quaranta lire una poltrona di vimini?
Non lo avessi mai detto. La donna balza in piedi come una bomba pronta a scoppiare.
Mi sento il dovere di alzarmi anch'io, frenando la mia paura.
- Ma quando l'ha comprata? Mezzo secolo fa? O nel paese della cuccagna? Ma
lei mi porti qui cento sedie di vimini ed io gliele pago subito, a pronti contanti,
cento lire l'una.
E faceva atto di contare i biglietti, buttandoli verso di me con rabbia e disprezzo.
Sentivo che una sola parola poteva perdermi: una sola parola di discussione
ed io andavo a finire nel fosso con tutte le sedie sopra. Ho però anch'io
la mia dignità, e come sempre in simili casi penso di battere in silenziosa
ritirata.
La donna mi richiama: sento che è disposta a seguirmi: ho davvero paura.
Mi fermo, senza voltarmi, come la tartaruga quando si sente inseguita. Se il
cacciatore ha da pigliarmi mi pigli, purché non mi ammazzi.
Così la vecchiona mi raggiunse, scavalcando le sue sedie, e me la sentii
alle spalle col suo ventre di gomma.
- Senta, signora, - le dico gentilmente, tanto per salvare la dignità,
- le dò trentacinque lire. Va bene?
Ella ne chiese trentasette: ed io sborsai, tirando fuori anche una carta da
visita con l'indirizzo, onde la sedia mi venisse mandata a casa.
Ma la donna mi fa sapere che non ha chi mandare, e devo quindi far ritirare
io l'acquisto.
Qui cominciò davvero l'avventura.
Come uno spirito sotterraneo balzò fuori dagli scavi e si arrampicò su
un cumulo di ciottoli un ragazzetto nero arruffato e seminudo.
Di lassù stette ad ascoltare la nostra vicenda, e capito subito di che
si trattava, senza essere interpellato si offrì di portarmi lui subito
la sedia a casa. Io gli avrei insegnato la strada che egli diceva di non conoscere.
La donna però doveva conoscere bene lui perché mi consigliò di
far prima i patti.
- Facciamo a tassametro, - disse lui, sempre dall'alto, - primo scatto una
lira, dieci centesimi ogni cento passi di poi.
- Allora la sedia la pago una seconda volta a te - osservo io. Interviene la
donna e si fissa il compenso in lire due: di queste il ragazzo ne vuole subito
una, per il primo scatto, vale a dire per il salto dal cumulo delle pietre
a terra.
- E non lo perda d'occhio - mi consiglia la donna: al che egli brandisce la
sedia per vendicare il suo onore offeso, poi mi passa davanti, sull'orlo dell'abisso,
e dice con accento marziale:
- Andiamo.
Andiamo. Sul principio egli cammina rapido ed io stento a seguirlo in quel
labirinto di rovine. Ma più giù la strada si fa meno difficile
e il ragazzo incontra un primo amico, col quale si scambiano un mucchio di
insolenze e di scherzi, a proposito della sedia. Io li raggiungo e convinco
il ragazzo a proseguire con me; anzi tento una benevola conversazione con lui.
- Come ti chiami? Vai a scuola? Cosa fa tuo padre?
È
come parlare con la sedia, ch'egli adesso s'è caricato sulla testa;
e con la testa irrequieta sotto quella specie di tettoia, egli si volge di
tanto in tanto a guardare indietro, arrabbiato e provocante, e fischia acutamente
appuntando le labbra perché il suono ne esca più lungo e sottile.
È
un fischio di richiamo, di quelli che usano gli uomini della malavita per comunicarsi
qualche cosa di sinistro, ma che ha pure una nota di allegra ironia per chi
lo ascolta senza intenderlo.
Io non mi sorprendo quindi nel vedere che l'amico del ragazzo ci raggiunge
con un rinforzo di altri monelli: tutti rassomiglianti fra loro come membri
di una stessa famiglia zingaresca. In un attimo la squadra volante si dispone
intorno a me al ragazzo e alla sedia, e questa è presa di mira dai loro
frizzi e anche dal tiro di qualche sassolino.
- Eccola lì la torre girante. Ammazzala, come è alta.
Il ragazzo è pronto: con i bastoni della spalliera ben stretti fra le
mani si piega e corre verso l'uno o verso l'altro dei persecutori e li investe,
come un toro infuriato, coi piedi della sedia.
- Mo' vi faccio vedere le stelle, dalla torre girante.
Anche i passanti ne sono travolti; cominciano a protestare e cambiano marciapiede;
finché uno della compagnia, un zoppetto intrepido e più feroce
degli altri, non si afferra alla sedia, dietro le spalle del ragazzo, e lo
costringe a fermarsi.
- E fammi sedere - grida forte. - Apposta mia madre mi ha fatto zoppo, per
zompare su questa cattedra.
Allora il ragazzo cambia tattica: lascia andar giù la sedia, l'afferra
con una mano per la spalliera e comincia a rotearla vertiginosamente intorno.
- A chi tocca tocca.
Se non mi scosto a tempo tocca pure a me, mentre i nemici tentano un accerchiamento,
si stringono, riescono ad afferrare chi il ragazzo chi la sedia e tutti assieme
piombano a terra in un gruppo infernale.
Allora intervengo io.
- Sentite ragazzi, se non la smettete chiamo una guardia.
- Chiamane anche dieci - grida lo zoppetto, e tutti, ancora attaccati alla
sedia e gli uni sugli altri come scarabei, ridono d'intesa affratellati contro
di me.
Finalmente, con comodo loro, si rialzano e riprendono la marcia: adesso però è un
altro guaio, perché ridivenuti amici, ogni tanto si fermano e discutono
di affari loro.
Arrivati poi alla svolta della strada alcuni si sbandano, altri dicono di fermarsi
lì ma solo per tre minuti, ad aspettare il ritorno dell'amico.
Allora questo, che prosegue solo con me, diventa svogliato, dice che è stanco,
che la sedia pesa, e ad ogni passo domanda se c'è molto ancora.
Siamo in una strada solitaria, poco distante dalla mia, ed è quasi notte:
anche qui scavi, ingombri, ostacoli.
- È questo il suo cancello? Lei mi ha detto che c'è un cancello
sotto gli alberi. È questo? - domanda con insistenza il ragazzo, fermandosi
in un punto scuro della strada, davanti a un cancello chiuso.
- È questo, sì - si risponde da sé.
Non c'è verso di convincerlo a proseguire: rinunzia piuttosto al resto
della mancia, pur di raggiungere gli amici prima che i tre minuti siano passati;
e sparisce in un lampo.
Che dovevo fare? Feci come quel filosofo che avendo molti problemi da risolvere
pensò bene di andarsene a dormire. Così io sedetti sulla mia
sedia, accanto al cancello chiuso di là del quale, intorno a una villa,
un giardino solitario già dormiva anch'esso nel silenzio dolce della
sera. Io sembravo la portinaia seduta fuori a prendere il fresco. E la sedia
mi pareva ancora più comoda di prima, e me le sentivo già affezionata
per le comuni vicende.
Ma non potevo passare la notte in quel posto, per quanto la luna nuova sospesa
sopra gli alberi mi invitasse a restare: d'altra parte non mi sentivo semplice
e forte fino al punto di trasportare io la sedia: l'aggiustai quindi bene contro
il muro, all'ombra sporgente di un salice, e ancora una volta mi affidai alla
divina provvidenza.
Ed ecco fatti pochi passi vedo una coppia d'innamorati. La donna è appoggiata
al muro e piange e dice male parole: l'uomo è un giovanissimo operaio
che io riconosco perché ha lavorato ultimamente in casa mia. Anche lui
parla fitto fitto e inveisce contro la ragazza; a quanto capisco è una
scena di gelosia; e una luminosa idea mi attraversa la mente: fare del bene
a quei due e ricuperare la mia sedia.
- Buona sera - dissi al giovine, che riconoscendomi salutò anche lui
con rispetto. - Non potreste farmi un favore?
Racconto la mia vicenda, e prego l'operaio di prendere con suo comodo la sedia
e portarmela a casa.
La donna s'era sollevata e rideva, con gli occhi ancora pieni di lagrime. Era
una bellissima ragazza bruna, alta, con le labbra che parevano tinte; ed io
intesi la giusta gelosia del piccolo operaio.
Per non disturbarli oltre tirai avanti: e passò bene del tempo prima
che la sedia arrivasse sana e salva a casa. Per castigo delle tribolazioni
che mi aveva procurato la feci mettere in cucina, dove del resto parve subito
troneggiare nel vero senso della parola; poi volli dare una piccola mancia
al giovine operaio; egli però se ne schermì, non solo, ma si
profuse in ringraziamenti.
- Lei non sa, signora, che m'ha salvato forse la vita, certamente la libertà,
perché stavamo sul punto di accopparci, con la ragazza. Crede lei che
la scena di gelosia la facessi io? La faceva lei, e ci aveva il coltello con
la punta in fuori giù dentro il pugno. E io perdevo il lume degli occhi.
Che vuole? Eravamo stanchi tutt'e due, perché anche la ragazza lavora
da sarta; e quando si è stanchi si litiga anche senza ragione. E così siamo
andati a cercare la sedia, ci si è seduti un poco, in quel bel sitino
all'ombra, dove non c'era nessuno, e abbiamo fatto pace.
LA TERRAZZA FIORITA DI ROSE
La duchessa Di Flores ricordava che nella sua lontana giovinezza, quando voleva
attirare nel suo salone uomini famosi per intelligenza o per galanteria, usava
far loro sapere, in modo garbato e indiretto, che al ricevimento avrebbero
preso parte giovani e belle donne.
Adesso, vecchia di ottant'anni, ma ancora arzilla e maliziosa, vigile e giovane
di spirito nonostante la solitudine in cui la sua fortuna alquanto diminuita
la costringeva a vivere, in una sua villa campestre, metteva in opera lo stesso
mezzo per attirare i suoi numerosi nipoti, quasi tutti brillanti ufficiali
sparsi nei varî reggimenti dell'esercito italiano. Quando sapeva che
qualcuno di essi andava in licenza, scriveva invitandolo nella sua villa, almeno
per otto, almeno per tre, almeno per due giorni, e non mancava di accennare
a qualche sua ospite giovane e bella. Conoscendo l'umore dei suoi discendenti,
l'esca variava a seconda: per cui al suo ventenne pronipote Beniamino (di nome
e di fatto) scrisse che l'ospite, pronipote di una sua amica di giovinezza,
era un pallido fiore di loto galleggiante ancora nelle limpide acque di una
purissima fanciullezza.
Beniamino aveva dunque venti anni: figlio unico d'una nipote della duchessa
e di un ricco industriale, allevato fra l'incuranza paterna e lo sfarzo indolente
materno, ne aveva già fatte di cotte e di crude: nel suo attivo c'erano
molte cattive amicizie, un tentativo di fuga dalla casa dei genitori, bocciature
che ogni anno maturavano con le zucche, tre anni di collegio militare, debitucci
di gioco e altre piccole cose: con tutto questo, già sottotenente di
cavalleria, bel giovane, con un metro e settanta di statura e novantotto centimetri
di torace, Beniamino non conosceva quasi ancora la donna e sognava una fidanzata
della quale voleva essere il primo e l'ultimo amore.
E la duchessa lo sapeva.
Beniamino non amava la vita militare, che è un po' come la luna, brillante
di lontano e aspra e pietrosa da vicino: quindi non amava neppure la divisa:
quindi si vestì in borghese per andare dalla duchessa.
Il viaggio era lungo e noioso: per fortuna egli riconobbe in treno un suo compagno
di collegio, anche lui appena uscito dalla scuola allievi-ufficiali; e fra
i racconti, le spacconate, le narrazioni di avventure galanti straordinariamente
fantastiche, e sopratutto le storielle spiritose, le ore passavano rapide e
inavvertite come i paesaggi fuori dei finestrini dello scompartimento. Basti
dire che a poco a poco anche gli altri viaggiatori si misero ad ascoltare come
incantati: e di tratto in tratto una risata generale faceva coro al recitativo
dei due. Per dare un'idea di questi meravigliosi racconti basta riferirne uno,
inventato o plagiato dal compagno di collegio.
- Dunque si deve sapere che in Francia i trasporti funebri in ferrovia costano
enormemente: allora, due fratelli di nobile famiglia decaduta, dovendo far
trasportare da Lione a Parigi un terzo loro fratello morto, pensarono di vestirlo
di tutto punto e in carrozza lo condussero alla stazione: poi lo presero sotto
braccio, uno da una parte l'altro dall'altra, e lo portarono in uno scompartimento
ancora vuoto, lo adagiarono bene in un posto d'angolo, col cappello tirato
sugli occhi, in modo che pareva dormisse, e per non dar sospetto, loro si misero
in uno scompartimento molto avanti. Or ecco che ad un'altra stazione sale un
viaggiatore e prende posto nello scompartimento del morto. Bisogna avvertire
che era notte e mezzo treno dormiva: quindi il viaggiatore non si meravigliò del
profondo sonno del suo compagno; un bel momento, anzi, si addormenta anche
lui. Ma un altro bel momento si sveglia e con terrore vede che il suo fino
allora poco importuno compagno è stramazzato a terra e si muove solo
per il traballamento del treno. Premuroso egli si precipita sul disgraziato,
lo scuote, lo solleva, lo interroga, e infine si accorge che è morto.
- È morto, è morto, - pensa, con le mani fra i capelli, - e adesso
Dio sa quante seccature avrò, se pure non mi accuseranno di averlo ucciso
io.
Allora, cosa fa? Piglia e butta fuori dal finestrino il morto, col cappello
bastone e tutto.
Ed ecco si arriva a Parigi, e i fratelli del morto vanno nello scompartimento
per rinnovare il giochetto fatto alla stazione di Lione: prelevare cioè il
caro cadavere, farlo scendere, condurlo in carrozza alla tomba di famiglia.
Che è che non è, guarda qua, guarda là, il morto non si
vede più. Disperati interrogano il viaggiatore che tira giù le
valigie e pare un bravo uomo.
- Per piacere, signore, non ha veduto lei qui un viaggiatore che dormiva?
- Sì, sì - risponde l'altro, gentilissimo. - L'ho veduto. È sceso
all'altra stazione.
Arrivati anche loro, Beniamino e il compagno, alla piccola stazione del paese
dove abitava la duchessa, scesero assieme.
Scesero assieme perché durante l'ultimo tratto di viaggio erano rimasti
soli e Beniamino aveva confidato all'altro lo scopo intimo della sua visita
alla bisnonna, vale a dire la certezza di ritrovare finalmente la fidanzata
ideale.
- Nonnina però, sebbene ami la gioventù, è molto austera
e non mi permetterà di stare neppure un momento solo con la fanciulla.
Tu dovresti accompagnarmi: avrai un'ospitalità regale. Farai un po'
di corte a nonnina, ed io potrò così fare una passeggiatina in
giardino con la fanciulla.
- Ma bravo! Tenerti il moccolo e addizionare i miei venti agli ottant'anni
della duchessa per formare un secolo giusto. Bravo davvero!
Ma poiché erano tutti e due buoni e bravi ragazzi davvero, si misero
d'accordo e scesero assieme.
La notte era calda, serena. Grandi stelle verdognole illuminavano il cielo
scuro, e i due giovani camminarono per un pezzo col viso in aria quasi orizzontandosi
al loro chiarore. Del resto la strada lievemente in salita era abbastanza rischiarata
dai lumi dei casolari e da un fuoco di stoppie che ardeva in un campo: e la
villa della duchessa era lì a due passi, bianca sullo sfondo nero e
stellato degli alberi del giardino. Già se ne vedeva il profilo merlato;
e un profumo di rose, a tratti, pareva illuminasse l'aria.
- Nonnina ha la passione delle rose - spiega Beniamino con una voce che non
pare più la sua; una voce tenera, musicale, colorita anch'essa di quel
profumo e dei riflessi delle stelle. - Ne fa venire le piante da tutte le parti
del mondo, anche dalla Persia, e il giardino, la casa, le terrazze ne sono
sempre piene.
- È il profumo che più amo - disse l'altro, serio e grave. -
Quando odoro una rosa sento uno stordimento misterioso; mi ricorda come una
vita anteriore, bellissima.
Intanto erano arrivati sotto la villa: una figura di donna, tutta vestita di
nero, con un fazzoletto nero legato a benda intorno alla testa, stava seduta
immobile sul paracarri della strada e guardava verso la valle. Dall'altra parte
della strada la villetta appariva silenziosa, con solo qualche finestra all'ultimo
piano, dove dormiva la servitù, debolmente illuminata: pareva che già tutti
si fossero ritirati, ma quando i due amici si avvicinarono al cancello, Beniamino
si meravigliò di trovarlo socchiuso.
Pratico del luogo andò avanti per il viale d'ingresso, e vide la terrazza
al primo piano, nascosta fra gli alberi, con le vetrate aperte e illuminata;
e anche lassù, fra le ghirlande di rose rampicanti che salivano dalle
colonne del portichetto sottostante, una figurina bianca di donna, seduta accanto
alla balaustrata, appariva immobile nell'incanto della notte.
- È lei, dev'essere lei - dice sottovoce Beniamino, piegandosi sul compagno.
- Quella è la camera che nonnina di solito assegna agli ospiti. E quante
volte mi sono arrampicato dal portico alla terrazza per entrare di sorpresa
dalla mia mamma.
- Perché non lo fai ancora? Forse lei ti aspetta - dice l'altro, fra
il serio e il beffardo.
Un attimo; e il cuore di Beniamino palpita come quello del principe che vuol
rapire la bella prigioniera dell'orco. Gli antichi istinti di animale rampicante
si ridestano nelle sue vene giovani, e lo spirito avventuroso che è la
parte più viva del suo carattere, eredità degli avi spagnuoli,
lo prende e spinge come un vento di ubriachezza.
Il lieve accento di beffa dell'amico lo ha punto: in fondo forse egli cerca
l'avventura per dimostrare la sua agilità e il suo ardire; ma è anche
una specie di scalata al sogno che egli vuol tentare, poiché l'occasione
si presenta e il sogno si prende solo così, come i giovani cacciatori
prendono l'aquila in cima alla roccia.
Senza più parlare butta giù il cappello: poi rapido e silenzioso
si avventa verso il portico, giungendovi quasi piegato a terra; abbraccia la
colonna, vi si allunga, sale, sale, è in cima come il vincitore dell'insaponato
albero di cuccagna; salta dritto sulla terrazza. Un grido incrina il silenzio
cristallino della notte.
- Nonnina! Perdonami. Ti ho spaventato? Volevo farti una sorpresa.
La piccola vecchia sebbene spaventata gli sorride con tutti i suoi denti falsi,
e mentre abbandona al bacio di lui la mano destra inanellata, con la sinistra
gli dà dei colpi non troppo lievi alla testa.
In un attimo tutta la villa si desta. Anche nel giardino si sente parlare
e ridere, e Beniamino dice che ha lasciato giù il suo amico. Allora
la duchessa, non senza una punta di malizia, gli spiega che l'ospite era giù a
passeggiare nella strada, in cerca di fresco: nel vedere i due uomini entrare
per il cancello lasciato socchiuso da lei, li ha certo seguiti, e dietro le
spiegazioni del compagno rimasto nel viale ride con lui per la prodezza di
Beniamino.
Ma Beniamino non si scompone, anzi, pensando che le donne che passeggiano sole
la notte per le strade non gli vanno a genio, si allunga e fa il saluto militare.
- Tutte le esperienze son buone nella vita. E ride bene chi ride l'ultimo.
LA PALMA
Uno scrittore, del quale forse s'indovina il nome, aveva stabilito di regalare
la sua penna alla cuoca, per la nota della spesa.
Troppi dispiaceri la letteratura gli dava. Qui non si parla del lavorio interno
che fa dell'artista un eterno arrotino occupato ad affilare il proprio coltello:
si tratta di dispiaceri più gravi. Il più solido glielo aveva
ultimamente procurato l'Agente delle imposte, con un avviso di accertamento
di redditi di ricchezza mobile, che lo tassava per la sua professione di
scrittore; seguiva il Comune, che senza tanti complimenti lo tassava non solo
per professione ma anche per esercizio (rivendita dei propri
libri). Venivano dopo i nemici minori: l'editore che s'infischia della diffusione
dei volumi; i librai che fanno altrettanto, i critici che candidamente confessano
di non capire nulla del libro letto; infine certi scrittori che in buona o
mala fede prendono lo spunto dai suoi romanzi e novelle e riescono a interessare
più di lui.
Considerate bene tutte queste cose, egli decise dunque di non scrivere più,
e neppure di pensare più come un artista. Voleva ridiventare un uomo
qualunque, occuparsi solo di affari comuni: del resto, fatto bene il calcolo
delle sue rendite patrimoniali, scoprì che aveva abbastanza da vivere
e spassarsela coltivando il suo giardino.
Così, regalò la sua penna alla cuoca, che gliene aveva richiesta
una, e scese nel giardino per passarci le ore durante le quali usava scrivere.
A dire il vero egli non conosceva a fondo tutto il suo giardino del quale non
si era mai personalmente occupato: e anzitutto fece un giro di esplorazione.
Gli parve di passeggiare su una pagina di geometria, intorno ai circoli, ai
triangoli e ai quadrilateri delle aiuole, in mezzo a ognuna delle quali sorgeva
una pianta diversa. E si meravigliò di vedere, in settembre, i crisantemi
fioriti.
C'era anche un pergolato di vite americana con sotto una bella panchina verde
che gli destò una delle solite immagini. «Questa panchina verde
pare far parte della vegetazione intorno, nata pur essa nel giardino, col suo
profumo di vernice».
Si ribellò immediatamente: all'inferno le immagini letterarie, che sono
come una lebbra sulla pelle nuda e sana della realtà; la panchina, per
quanto d'origine boschiva, è opera del falegname e fatta per sedercisi.
Egli ci si siede e guarda in su, non più per godersi il gioco del verde
e dell'azzurro, ma come il gatto che finge di contemplare il cielo mentre guata
l'uccellino sul ramo: cioè per contare i grappoli dell'uva calcolando
quanti chilogrammi possono pesare.
Questo calcolo però è attraversato da altri pensieri involontarî;
si direbbe che il cervello funzioni per conto suo; e così egli si accorge
con spavento che pensa all'invidia di certi scrittori se lo vedessero così in
mezzo al suo bel giardino a goderselo in panciolle; e le immagini, è inutile,
sono lì a portata di mano come i grappoli dell'uva che sullo sfondo
smerigliato del cielo sembrano dipinti su una lacca giapponese.
Maledizione delle maledizioni; eppure bisogna ammazzarlo questo come,
schiacciarlo come i grappoli dell'uva per trarne il vino schietto della semplicità.
E qui egli cerca di spiegarsi perché l'artista accoppia sempre le cose,
come il contadino i buoi, per tirare meglio avanti: perché in realtà tutte
le cose si rassomigliano, e alcune formiche leste e intrepide, condotte da
un formicone con la testa rossa, che assalgono la torre del suo fianco fino
all'orlo della tasca, gli ricordano un qualche gruppo di soldati da ventura
o di ladri in grassazione. Egli lascia tuttavia che l'assalto prosegua; già il
condottiero s'è introdotto nella tasca e le formiche lo seguono; ma
come respinti da un esercito nascosto ne vengono subito tutti fuori sbaragliati
e fuggono: è l'odore del tabacco da pipa che produce la ritirata. Più tenace
e famigliare è un piccolo grazioso ragno bianco che lieve e rapido lo
esplora dai piedi alla testa e gli si ferma di preferenza sui risvolti della
giacca girando intorno ai bottoni: gira e rigira finalmente sosta e medita:
medita senza dubbio un colpo straordinario; tessere la sua tela sul nobile
petto dell'artista. Già attacca un filo a un bottone...
Qui bisogna essere sinceri: questo avvenimento commuove l'uomo; le immagini
letterarie lo abbandonano ed egli a sua volta si abbandona alla realtà semplice
e meravigliosa: gli pare di essere eguale all'albero, alla vite, e di aver
finalmente ritrovato l'equilibrio nello spazio. Ma una voce lo riscuote da
questo sogno; ed egli manda via brutalmente il ragno, vergognandosi di essere
sorpreso in corrispondenza con la natura. La voce che viene di dietro le sbarre
della cancellata è del resto timida, e l'uomo che chiama: - Signore?
Signore? - pare un giovine mendicante, vestito di tela, con le scarpe rotte.
Il contrasto fra tanta miseria e la luce viva di due grandi occhi verdi attira
l'attenzione dell'artista.
- Che volete? - domanda accostandosi indolente alla cancellata; e lo sguardo
col quale l'altro lo esamina, chiaro e scrutatore come quello del gatto che
osserva un animale sconosciuto, gli rinnova l'impressione della corsa del ragno
sulla sua persona. E come il ragno l'uomo deve provare un senso d'improvvisa
confidenza perché senz'altro la sua voce si fa sicura:
- Volevo chiederle se le foglie della palma sono da vendersi.
Lo scrittore si volge tutto d'un pezzo a guardare la palma: a mala pena egli
sa che nel giardino esiste una palma: adesso se la vede sorgere a un tratto
davanti nel reparto a sud del giardino, grave, un po' massiccia, col tronco
che pare un'enorme pigna donde si slanciano come da un vaso scolpito le grandi
foglie raggianti. È bella; ha qualche cosa di religioso, e il cielo
sopra la guglia delle ultime foglie si ravviva e ricorda quello del deserto.
- Vede, - dice l'uomo introducendo il braccio nella cancellata, - quelle foglie
sotto sono tutte malate: bisogna levarle; mi pare che quest'anno la pianta
non sia stata potata. Bisogna potarla e curarla.
L'artista lascia la sua contemplazione.
- Ma, non so, è mia moglie che se ne incarica.
- E dov'è adesso la sua signora moglie?
- È fuori in campagna coi ragazzi.
- E lei non va in campagna?
- Io odio la campagna - si confida serio l'artista: e l'altro non domanda di
meglio che prendersi confidenza.
- E quale più bella campagna di questa? Ma questo giardino è mal
tenuto.
- Ma come, se ci son già i crisantemi?
- Quelli si chiamano astri e fioriscono in agosto.
L'artista non fiata più: l'altro insiste:
- La palma va curata, potata, spruzzata di cenere; altrimenti chi sa dove va
a finire.
E discorri discorri andò a finire che lo scrittore aprì il cancello
e l'uomo entrò.
L'uomo teneva nascosta sotto la giacchetta, come un ladro, una sega a mano
che pareva la mascella di un coccodrillo. Piano piano, con cautela, poiché le
spine della palma sono velenose, segò un primo cerchio di foglie: a
misura che queste cadevano le sollevava delicatamente, come ventagli di piume,
e le metteva una sull'altra.
- Adesso mi pare che basti - disse l'artista, pensando a sua moglie.
Quell'accidente d'ometto indovinava però i suoi più intimi pensieri.
- Non si preoccupi: la sua signora moglie sarà contenta. Vede come le
foglie sono tutte nere e scabbiose? Hanno proprio la scabbia: questo secondo
cerchio è anch'esso infestato e la pianta morirà se non si leva.
Queste foglie, poi, che io posso lavare e vendere gliele pago: una lira l'una.
- A che servono?
Questa volta gli occhi verdi s'illuminarono di compassione.
- Per le corone dei morti.
- È vero, - esclamò l'artista; - e anche per metterle in mano
ai màrtiri.
E rise: rideva di sé stesso.
Poi mentre l'uomo continuava a rodere come un topo intorno alla palma, egli
fu ripreso dal gorgo dei soliti pensieri: chi quelle grandi foglie ricoperte
di fiori dovevano accompagnare all'estrema dimora? Forse una fanciulla uccisa
dall'amore, forse un potente della terra, forse un uomo che aveva scelto nella
vita la via del male.
- Va all'inferno - disse a voce alta a sé stesso, ritraendosi ancora
una volta dal vortice della fantasia.
L'uomo cessò immediatamente di segare, pur fingendo di non aver sentito
quelle parole. Contò le foglie ristrette in due gruppi: erano sedici,
delle quali, al suo dire, solo dieci buone ancora per le corone. E trasse palpandolo
bene dal suo portafogli un biglietto nuovo da dieci lire.
L'artista prese il denaro con una certa soddisfazione: pensava che il giardino
cominciava a rendere: e tutto era buono dopo che egli rinunziava al lavoro
di tavolino.
- Se vuole, - disse l'uomo vedendolo così interessato, - posso lasciarle
i mozziconi delle foglie: sono buoni per la stufa: fanno un calore terribile.
Lo scrittore accettò: e dopo qualche minuto si trovò ai piedi
come tanti grandi scorpioni i sedici mozziconi irti di zampe velenose.
Così, sotto la palma che dava l'idea di una pecora stordita dopo la
tosatura, lo trovò la sua cuoca quando venne a consultarlo come doveva
cucinare il cefalo che teneva fra le mani e dal quale faceva sprizzare con
un coltello le scintille delle scaglie d'argento.
Nell'accorgersi del disastro ella si appoggiò ad un albero: veniva meno.
- Ma che è accaduto? - balbettò infine. Egli le fece vedere le
dieci lire, osservando che il cefalo se lo era ben guadagnato anche senza scrivere;
ma la cuoca gli agitò il pesce sulla faccia come volesse percuoterlo.
- Adesso la sua signora moglie! Adesso la sua signora moglie!
- Ma che ti senti male?
- Ma non capisce che quello ha veduto la sua faccia? Che lo ha derubato? Che
le ha rovinato la palma? Che lui rivende le foglie a dieci lire l'una?
Mai in vita sua lo scrittore si sentì più umiliato di così.
- Capisco - disse a testa bassa, come parlando ai mozziconi della palma. -
Chi è nato artista non può morire uomo di affari. È meglio
che mi rimetta a tavolino, a scrivere le mie favole.
E poiché era abituato alla sua penna la richiese alla cuoca.
- Prima almeno mi lasci fare il conto - disse lei.
Il conto lo aveva già fatto e il cefalo vi era segnato per lire undici;
ma pensando che il padrone lo si poteva dunque imbrogliare allegramente, corresse
in questo modo: cefalo, lire sedici.
E il padrone le regalò anche un'altra penna.
LA TARTARUGA
Anelante la donna tornò nella sua tana, che era una di quelle tettoie
sulle terrazze a riparo dei cassoni per il deposito dell'acqua. I cassoni erano
stati ingranditi e portati più in là sotto una tettoia più vasta,
ed ella aveva ottenuto quel riparo dal padrone dello stabile, della cui famiglia
da molti anni era donna di fatica: tutto è buono per i proprietari di
case e tutto è buono per i disgraziati senza alloggio.
Ella possedeva una chiave della terrazza, dove a turno le serve degli inquilini
stendevano i panni ad asciugare. Anche quella notte, dalle corde e dai fili
di ferro pendevano panni bianchi e di colore e file di calze lunghe e corte.
La luna, a piombo dal cielo bianco di luglio, dava forme e trasparenze spettrali
a quei corpi vuoti e alle loro ombre sul pavimento bianco della terrazza; e
la donna provava, nel passare in mezzo ai panni per arrivare al suo rifugio,
l'impressione di essere toccata da fantasmi.
Arrivata là dentro si gettò sul suo giaciglio corto che non permetteva
alla sua lunga persona di stendersi bene: col piede spinse la porticina, ma
con lo stesso piede la riaprì. Soffocava; le pareva di essere un topo
agitato dentro la trappola: ma non voleva muoversi, non dar segno neppure all'aria
di questa sua agitazione interna. I piedi però le pulsavano tanto che
le pareva di sentirli parlare; si cacciò via le scarpe e si allungò in
modo da metterli sulla striscia di luna che imbiancava la soglia: e a poco
a poco il bagno della notte glieli rinfrescò. A poco a poco il sangue
le si chetò nelle vene e il pensiero smarrito tornò nel suo cervello
come lei era tornata nella sua buca: allora l'istinto della salvezza, più che
il rimorso o il pentimento, la costrinse a ricostruire la scena del suo delitto.
Si rivide nell'appartamento al secondo piano, abitato da un vecchio signore
al quale, dopo sbrigate le grossolane faccende nella casa del padrone, ella
ripuliva le camere. Il vecchio aveva piena fiducia in lei, tanto che le lasciava
le chiavi mentre egli era fuori per la colazione. Ed ecco ch'ella, con la pesante
sveltezza dei suoi cinquant'anni robusti, riordina la camera di lui: una camera
vasta con due finestre, coi mobili di mogano e il letto grande coi lenzuoli
di lino dolci a toccarsi più che la seta. Fa caldo, e lei pensa con
terrore al suo buco su nella fornace della terrazza: fa caldo, tutte le cose
puzzano, e anche lei sente un cattivo fermento di perversione ribollirle nel
sangue: quel fermento di dolore antico che ricorda all'uomo, quando la natura
lo opprime, la maledizione della sua carne.
La donna lavora e si domanda perché il vecchio scapolo egoista e sporcaccione,
che non ha mai fatto nulla in vita sua, deve dormire in quel letto, fra due
finestre aperte sul giardino verde, e lavarsi con acqua profumata, e andarsene
a mangiare nelle trattorie fresche dove le mense sembrano coperte di neve e
di oggetti di ghiaccio iridescente, mentre lei ha le ossa ingrossate dalla
fatica e mangia gli avanzi altrui e non ha mai pace né gioia e nessuno
le vuol bene.
Qui, nel ripulire lo specchio dell'armadio, vede la sua grande figura di Giunone
pezzente, e sente in sua coscienza di esagerare. C'è qualche gioia per
lei, quella fra le altre di andare all'osteria, dove tutti, specialmente verso
sera, si vogliono bene; e c'è la soddisfazione della sua libertà,
in quelle ore, il riversarsi della sua fatica nelle chiacchiere e nel bicchiere
di vino.
E c'è, a sera, una creatura di Dio che l'aspetta negli angoli umidi
della terrazza, e quando ella torna stanca e si butta sul giaciglio, le gira
attorno per sentirne l'odore di fatica e di ubbriachezza serena; e le slaccia
le scarpe come una piccola serva fedele; poi si ritira nel suo angolo umido
e il suono di un bacio continuo, fra lei e la terra, addormenta la donna ricordandole
i campi donde è venuta e l'infanzia e le fresche origini della vita.
Ma questi ricordi, che accompagnano quello della tartaruga sua compagna di
solitudine nella terrazza, non le rinfrescano l'anima; la certezza che lei
non potrà mai tornare indietro, mai ritornare alla terra se non come
cadavere, accresce anzi la sua arsura.
Quasi per tentare di rinfrescare davvero quest'arsura, in quel momento più interna
che esterna, per la prima volta dopo che serve fedelmente e rispettosamente
il vecchio signore, osa lavarsi con l'acqua e il sapone di lui. In un cassetto
del lavabo ella sa che ci sono anche certe polveri rinfrescanti: apre adunque
il cassetto e i suoi occhi si spalancano, la mano rimane sospesa nell'atto
di prendere.
Una specie di libretto, con figure, ghirigori, numeri e cifre, è dentro
il cassetto, fra le scatole di ciprie e di pomate che hanno un profumo nauseante;
sullo sfondo bianco di un medaglione inciso sulla prima paginetta, una donna
melanconica, con un lungo ricciolo azzurro pendente dalla tempia destra, s'appoggia
ad un'ara fumante: ha strani oggetti in mano; quello che sostiene con la destra
sembra un bastone; e alcuni bambini nudi, ai suoi piedi, si divertono a guardarlo
e forse a tentare di prenderglielo.
Anche lei, la serva, guarda così il libretto: si china meglio a osservarlo,
infine lo prende e lo sfoglia; è fatto di molti biglietti di cinquanta
lire nuovi, ancora appiccicati gli uni agli altri.
- Con questi - pensa - potrei filare subito alla stazione e tornarmene laggiù da
noi. Chi sa niente di me? Cercala! Il vecchio è appena uscito
e non tornerà che fra due ore: e a lui questi soldi non fanno né caldo
né freddo.
Un attimo: e il potrei del primo impeto si cambia in posso.
Si cacciò il libretto nel seno e finì di riordinare la camera:
un ragionamento errato di salvezza la guidava; se la raggiungevano e la prendevano,
laggiù dove voleva andare, faceva a tempo a negare: però si affrettava:
chiuse le persiane, tornò nell'ingresso buio.
Ma mentre sta per aprire la porta, questa, come nei sogni, si spalanca da sé,
e nel vano grigio appare la piccola figura del vecchio.
- Buon giorno, buon giorno - dice lei, untuosa e vibrante. - Ho finito e vado.
- Aspettate un momento, ho dimenticato una cosa - egli dice, lasciando la porta
aperta. E va di là, nella camera, e apre il cassetto.
Da quel momento, come tutti i delinquenti dicono per scusarsi, ella perde la propria coscienza. Fuggire? La prenderanno per le scale. Negare: non le resta che negare: ma il vecchio la investe, le salta addosso come un gatto arrabbiato, grida con la sua piccola voce che vuole denunziarla, che chiamerà gente se lei non restituisce subito i denari. Lei tace, si lascia spingere e stringere; ma d'un tratto chiude con un calcio la porta e a sua volta soverchia l'uomo, gli afferra il collo con le sue mani che il lavoro millenario suo e dei suoi avi ha mantenuto gigantesche, e glielo torce come quello di una gallina.
Un rumore, se così può chiamarsi, più tenue e indefinibile
di quello del rosicchiare del tarlo la destò dall'incubo.
Ella lo riconobbe subito. Era la tartaruga che veniva a farle la sua visita
notturna e cominciava il suo giro d'ispezione nella tana. Ella si alzò a
sedere, coi capelli pesanti di sudore, ritrasse i piedi poiché la luce
della luna glieli fece apparire enormi, e attese. Si sentiva il rumore notturno
della città, come quello di una nave in rotta nell'oceano; ma il succhiar
della bestia, nell'angolo dove c'era la brocca dell'acqua e quindi un po' di
umido per terra, sembrava alla donna la voce più potente della notte.
Il cuore le si scioglieva dalle catene infernali della disperazione: quel ritorno
della tartaruga era come un ritorno di speranza e quindi di vita.
Aspettò che la bestia si avvicinasse: si avvicinava, le fu presso i
piedi, e lei sentì sulla caviglia come la punta di una spina. Allora
si piegò e prese la sua amica in mano, la sentì fredda e dura
come una scatola, eppure le parlò, avvicinandosela alla guancia come
si fa con l'orologio per ascoltare se cammina.
- Le scarpe me le ho già levate - le disse, piano. - Avevo tanto caldo.
Ho corso tutta la giornata, oggi, al sole, di qua di là, non so, per
tutte le strade, fino giù alla campagna, al fiume. Volevo buttarmi nel
fiume, ma non ho avuto il coraggio. Dio non vuole, che si uccida. E adesso
aspettiamo: verranno a prendermi; sia fatta la volontà di Dio. I denari
li ho rimessi a posto, mica per paura che mi accusassero, ma perché così dovevo
fare. Mi dispiace di lasciarti, in questa fornace, dove ti ci ho portato io;
le serve ti butteranno giù, perché sono tutte cattive, e tu ti
romperai come un vetro, come sono rotta io.
La tartaruga tirava fuori dalla sua cupola la testina e le zampe; e sul suo
polso di legno la donna sentiva quelle unghie molli scavarle la pelle come
per arrivare al sangue e succhiarne i germi avvelenati.
Allora l'idea di salvare la sua amica, di ridonarla alla terra, dominò l'istinto
stesso della salvezza propria. L'avvolse in un fazzoletto, si rimise le scarpe
e scivolò giù per le lunghe scale, passando a occhi chiusi davanti
a quella porta: trovò il modo di uscire inosservata
e camminò ancora, a lungo, attraversando come in sogno la città notturna
ardente dei colori dell'arcobaleno; finché arrivò agli orti fuori
le mura, dove Dio parlava ancora con la voce solitaria dell'acqua corrente.
UCCELLI DI NIDO
Tranne che per i funzionari in via di far carriera, le scale di certi uffici
pubblici sono dure per tutti: quelle della Questura, per esempio. Luride scale
continuamente animate di figure che solo per essere lì appaiono equivoche
e sinistre, anche se rappresentano disgraziate vittime di ladri, o afflitti
padri di famiglia che vanno a denunziare l'allontanamento di
un figlio giovinetto dalla casa paterna.
Questa volta è la madre, a salire l'ignoto calvario: il padre è in
giro per il mondo, all'affannosa ricerca dell'uccello scappato dal nido. È stato
a Napoli, è stato a Genova, porti dove si dirigono invariabilmente questi
uccelli aspiranti migratori, persuasi che per conquistare il mondo basta il
biglietto da mille e gli anelli presi dal cassetto della
mamma: Napoli e Genova avendo dato risultato negativo, il padre è corso
anche alla Spezia, poi a Livorno; infine ha spedito un telegramma alla moglie
consigliandole di recarsi subito in Questura, possibilmente dal Commissario
Finzi, famoso per il ritrovamento di persone scomparse.
E la madre a sua volta va alla ricerca del Commissario come il malato di un
terribile male dal medico che lo può guarire.
Il primo rampante della scala, in fondo a un ingresso ove il pavimento era
tornato allo stato naturale di terra polverosa, riceveva luce solo dall'alto:
un rimasuglio di luce che proveniva dal secondo rampante e si versava nel primo
come per pietà o per curiosità.
La madre saliva piano, curva sotto il peso della sua croce, domandandosi ancora
una volta quali erano i peccati che doveva scontare così: la coscienza
non le rinfacciava nulla, se non forse il peccato originale che, per quanto
lavato e raschiato, grava ancora sugli uomini. Arrivata al pianerottolo si
fermò ansando. Il secondo rampante delle scale era illuminato da una
finestra alta velata di una grigia tenda di ragnatele. Ma il calvario non finiva
lì; c'era un terzo rampante da superare. Una vecchia ricoperta di stracci
raggiunse anche lei a stento il pianerottolo, e anche lei si fermò guardando
in su.
- Sa dirmi, per gentilezza, signora, dov'è l'ufficio del Commissario
Finzi?
- Veramente non sono molto pratica del luogo - dice la madre, stranamente rianimata
per l'incontro di questa compagna di sventura. - Lo cerco pure io, il Commissario
Finzi.
- Pure lei! Le è scappata la serva?
- Magari - sorride tristemente la madre; e riprende a salire piano piano la
scala.
La vecchia la segue rispettosa, ammirandone alle spalle il ricco mantello e
le scarpette fini. Altre persone scendono e salgono, e gli uni non badano agli
altri: tuttavia la madre ha l'impressione di essere osservata da tutti, e al
suo dolore si unisce la vergogna, e anche un po' di dispetto contro il marito
che, per un pregiudizio umano e la speranza di rintracciare il figlio, non
ne ha immediatamente denunziato la scomparsa.
Ed ecco superato il secondo rampante; ma neppure in cima al terzo il calvario
finisce.
- Oh Dio, Dio, - geme la vecchia, appoggiandosi alla parete, - mi viene fastidio.
È
pallida, infatti; le grosse mani gonfie le tremano: e nonostante il suo proposito
di diffidare di tutti, in quel luogo di perdizione, la madre prova un senso
di pietà. Si ferma, aiuta la vecchia a sedersi sullo scalino alto sotto
il vano della finestra, e le si mette davanti come per ripararla dalla curiosità inutile
dei passanti. La vecchia straluna gli occhi, due poveri occhi che conservano
un rimasuglio di tinta celeste, arrossati dal lungo piangere, e pare abbia
una irresistibile voglia di addormentarsi.
- Su, su, - dice sottovoce la signora, - coraggio.
Anche lei però si sente venir meno, come per il contagio dell'altra;
le ginocchia le si rammolliscono, e istintivamente, senza volerlo, si lascia
cadere seduta accanto alla vecchia stracciona, sullo scalino nel vano della
finestra.
La vecchia è la prima a rimettersi dal suo stordimento e a sua volta
aiuta la signora a sollevarsi: riprendono assieme, sostenendosi a vicenda,
la triste ascesa; assieme penetrano nei foschi ambulacri del luogo, finché riescono
a farsi indicare la stanza dove il Commissario Finzi riceve. Ma occorre aspettare;
ed entrambe aspettano, di nuovo sedute assieme in un angolo scuro del corridoio.
Il posto è favorevole alle confidenze e la vecchia non chiede di meglio
che chiacchierare; ma la sua pena adesso pare attutita dalla curiosità di
sapere che ha quell'altra, così ben vestita, eppure così afflitta
anche lei. E la investe di domande, senza riuscire però a sapere tutta
la verità.
- Sì, - dice la signora, sottovoce, parlando suo malgrado, - una persona
di servizio è scomparsa di casa, portando via qualche cosa.
- Non dubiti, gliela pescano subito, - afferma la vecchia, - quelle si ritrovano
sempre: sono disgraziate anche loro. E scommetto che lei le aveva fatto del
bene, che ci si era affezionata, che ci soffre.
- Oh, sì, sì - geme l'altra, tutta ripresa dalla sua pena.
- Lei è buona, signora mia; come si fa a tradire una persona così?
- E voi non siete buona? Eppure...
- Figlietta mia! Lei è indovina. Sono buona, sì; che cosa non
ho fatto per quella creatura? Adesso le racconto tutto. Lei mi vede così,
come un gufo spennacchiato, ma non sono una mendicante: mi sono ridotta così per
loro, mia figlia e il marito suo, che non amava lavorare e ha fatto morire
di crepacuore la disgraziata. Poi lui è scappato; ed ho tirato su io
la loro creatura, un bambino bello e forte; l'ho tirato su come figlio di signori,
come lei, amore mio bello, può aver tirato i suoi, Dio glieli benedica
e glieli tenga da conto. Sì, eh, l'ho mandato a scuola, sempre vestito
bene, sempre col suo cestino pieno, sempre coi libri che ci volevano. Io ho
fatto di tutto, per lui; lei mi avrà veduto anche a scopare le strade,
mangiando un tozzo di pane condito con polvere; ebbene, adesso anche lui se
n'è andato; ieri se n'è andato, portandosi via la sua roba e
la coperta di lana. La coperta di lana... - ella ripete stordita, e comincia
a piangere sommessamente, come, più che per altro, per la scomparsa
della coperta di lana.
La madre non seppe dirle una parola di conforto. Le pareva di essere davanti
a uno specchio che rifletteva ingrandita e orribilmente deformata la sua stessa
miseria: ma che poteva dire per cancellare sia pure una linea di questa miseria?
D'altronde la vecchia smise subito di piangere: sollevò uno dei suoi
stracci e s'asciugò gli occhi, poi si soffiò rumorosamente il
naso volgendosi per educazione verso la parete; e la luce della speranza le
rianimò il viso.
- Io penso che tornerà: tutti i ragazzi che scappano di casa tornano.
Sono i grandi quelli che non tornano.
- Quanti anni ha? - domandò la madre.
- Tredici, figlietta mia; tredici compiti il giorno di San Giuseppe.
- Come il mio - pensò la madre; e la speranza della vecchia si accese
anche nel suo cuore.
- Il Commissario Finzi, poi, mi aiuterà. Tutti me lo hanno detto. Non
importa ch'io sia così, così, come una scopa da buttarsi via,
- riprese la vecchia sollevando di nuovo i lembi sfrangiati del suo grembiale,
- egli dà ascolto ai poveri; dicono che li riceve male, che li carica
di rimproveri, ma poi fa di tutto per aiutarli, perché a lui pure un
tempo è scappata di casa una figlia. Ah, lei non lo sapeva, signorina
mia? Sì, una figlia di tredici anni: e quella non è più tornata,
e per quante ricerche in tutto il mondo si facessero nessuno più l'ha
veduta. Proprio così. Ah, e lei non lo sapeva? Tutti lo sanno; e lui,
il signor Commissario, è diventato come pazzo, e ha preso questa specialità di
ricercare le persone scomparse, sopra tutto i ragazzi, per via della disgrazia
accaduta a lui in persona.
Di nuovo la madre non sa commentare il fatto. È vero, non è vero?
Forse è una fantasia popolare; ma ha tale un soffio di dolore e di mistero
che fa piegare l'anima smarrita. E se fosse vero? Se anche il suo ragazzo,
che per lei è ancora il suo bambino, non dovesse tornare mai più?
La pena è così forte che ella balza in piedi per non lasciarsi
di nuovo venir meno: poi si ricompone perché l'uscio della stanza dove
il Commissario riceve si apre e varie persone ne escono.
- Adesso tocca a noi - dice la vecchia, alzandosi anche lei: e trema tutta.
- Andate voi, prima, andate; la vostra disgrazia è più grave
della mia - dice l'altra, spingendola piano piano verso il bianco vano dell'uscio.
La vecchia allora si piega e le bacia il lembo del mantello, come fosse quello
della Madonna.
- Dio la benedica, lei e le sue creature.
E quando uscì rimase a sua volta ad aspettare che l'altra avesse finito;
poi se ne andarono assieme, un po' disilluse per il freddo e secco interrogatorio
del Commissario, ma sostenute, in fondo, da uno spirito di solidarietà umana
e sopra tutto di fede e di speranza nell'aiuto, più che degli uomini,
di Dio.
- Quell'uomo non doveva amare la figlia, - dice la vecchia, - se no la ragazza
sarebbe tornata: l'amore fa molto, figlietta mia, fa più che i poliziotti.
Infatti i due ragazzi tornarono a casa, prima che la Questura si movesse a
ricercarli.
CURA DELL'AMORE
Con l'arrivo del nuovo medico condotto si sparse nel paese la voce delle sue
arditissime teorie scientifiche, alcune delle quali egli intendeva mettere
in pratica immediatamente: fra le altre quella del dottore americano Betmann,
sull'amore.
L'amore, secondo il Betmann, è una malattia come tutte le altre. Si
nota, infatti, in essa, il periodo d'incubazione, l'ascesa, la crisi e la discesa.
A volte, non curata in tempo, diventa cronica; e allora prende forme morbose
d'idea fissa e di manìa, e può avere conseguenze funeste.
Si sa che il cranio dell'uomo è suddiviso in tanti scompartimenti o
bernoccoli, entro ognuno dei quali si annida il seme delle nostre diverse tendenze:
uno di questi bernoccoli è riserbato all'idea o tendenza dominante;
che può essere l'ambizione, la religione, la criminalità: nelle
donne, invariabilmente, è l'amore: spesso anche negli uomini. E quando
questa idea degenera in malattia mentale basta un lieve atto operatorio per
sradicarla.
Una sera dopo cena si parlava di tutte queste cose in casa del prevosto. E
si rideva tanto, sopratutto per i commenti salaci dei gaudenti amici convenuti
intorno alla mensa ben fornita, che qualcuno sentiva il bisogno di uscire nella
vigna attigua per renderle il suo vino.
La vigna era in fiore e il suo profumo indefinibile si fondeva col chiaro di
luna come fosse questo a succhiarlo dalla vite e spanderlo nell'aria azzurra.
Anche la sorella del prevosto, a un certo punto, sentì bisogno di allontanarsi
dall'allegra compagnia, e uscì nella vigna. Aveva riso anche lei, troppo
aveva riso: adesso ne provava disgusto, quasi avesse anche lei bevuto come
il fratello e i suoi compagnoni.
Non bisogna tradire la verità col dire che anche lei la sua brava parte
di lambrusco non se l'era trincata: è necessario bere dopo aver mangiato
egregiamente, e per mangiato, questo non è vergogna, avevano mangiato
bene tutti.
Ella sentiva dunque quell'irritazione e quella melanconia feroce che prova
anche il lupo quando col corpo gonfio dell'intero agnello divorato gira e non
trova la fontana dove dissetarsi. Dov'era questa fontana? La donna ne sentiva
la frescura nell'aria, e quel profumo che pareva venire dall'alto come l'odore
dell'uva fragola del pergolato nelle sere d'autunno, accresceva la sua sete
interna.
Andò fino alla siepe e guardò verso i campi grigi alla luna,
tutti tranquilli e inanimati come disegni geometrici; qualche canale scintillava
qua e là, ma non era acqua da bere, quella. Anche l'orizzonte si sprofondava
vuoto, e su tutto quel paesaggio grasso ed eguale la luna piena guardava con
viso materno.
La donna tornò indietro: vedeva la sua ombra rotonda sul viale erboso,
e le pareva di essere così, grottesca e ridicola; non tanto di fuori
come di dentro, con le sue inquietudini e le inutili fantasie. Ma durante la
notte e il giorno dopo il suo malessere aumentò. Era una donna forte,
verso i quaranta, che non aveva mai avuto bisogno del medico; anzi si piccava
d'intendersi dei mali altrui e curava il fratello nelle sue frequenti indigestioni,
e la vecchia serva che viveva con la loro famiglia da oltre mezzo secolo.
Adesso quell'agitazione nervosa, l'insonnia, gli incubi dopo, e la vertigine
che la portò via in un turbine quando si piegò a pettinarsi i
lunghi capelli neri, la impensieriscono: è l'età critica, o la
minaccia dell'arteriosclerosi che il farmacista di malaugurio, reggente la
condotta durante il concorso per il nuovo medico, ha gettato come una corona
di spine sul capo del prevosto e dei suoi compagni di tavola?
Il prevosto si ride di questa minaccia, e lo dimostra sfidando il farmacista
a bere e mangiare più di lui: fra i due è una gara pantagruelica,
innocente del resto, che può condurre a una morte onorata. La donna
però ha un vago senso di paura e si confida con la serva.
- Perché non chiami il nuovo dottore? - dice la serva. - Dicono che
l'è bravo come un Solone.
Il nuovo dottore è venuto. È un giovanottone alto, calvo, con
un viso d'affamato: ma i suoi occhi sono belli, azzurri, un po' tristi un po'
maliziosi. Ha sempre con sé una busta nera misteriosa, che attira la
curiosità delle donne.
Nella sala da pranzo della parrocchia, che dà sulla vigna quieta, sta
seduta rigida sul canapè di giunco la sorella del prevosto. Il suo viso,
che ricorda quello di Minerva, è un po' pallido sotto la corona delle
trecce di bronzo: ma dal resto dell'aspetto florido non si giustificherebbe
la visita medica. I suoi occhi sfuggono quelli del dottore, i quali occhi d'altronde,
mentre egli le tasta il polso, sembrano occupati a spiare solo qualche dettaglio
della persona di lei, come per esempio i piedi stranamente piccoli per una
donna così formosa.
Il polso è normale; solo, al contatto di quelle dita d'uomo, il sangue
si agita un poco, nel ramo della vena, come le foglie sul ramo dell'albero
al passare del vento.
È
un attimo. Ma basta perché l'uomo della scienza senta di trovarsi davanti
a una malata immaginaria e lei di essersi già confessata.
- Mi dica cosa si sente - egli domanda, sedendosi davanti al canapè;
in modo che i suoi lunghi piedi vanno a raggiungere quelli di lei che si ritraggono
smarriti.
Ella abbassa la testa, ma sente lo sguardo di lui fastidioso come un riverbero
che le danzi sul viso.
- Sono vertigini; e la notte o non dormo o faccio tali sogni che ho terrore
di riaddormentarmi: e a volte mi sveglio con la parte destra del corpo come
paralizzata.
- È da molto che sente questi fenomeni?
- Sì, da qualche tempo: questa notte, poi, peggio che mai.
Egli le rivolse alcune domande intime, alle quali ella rispose arrossendo:
cosa che stabilì già un senso di familiarità fra loro:
e quello che doveva accadere accadde. Ella era una bella donna, con una pelle
meravigliosa sotto la quale il sangue, nutrito di buoni cibi e di buon vino,
scorreva troppo denso e quindi a volte si fermava come una folla festiva nelle
vie strette. E il dottore la desiderò: spinto quindi da un senso più personale
che professionale, le domandò se non aveva mai pensato a sposarsi.
Allora lei sollevò la testa, piano piano, e lo guardò in viso
trascolorata, con due occhi d'animale preso al laccio.
- Il male è questo - disse con voce rauca e lagrimosa. - Anni fa sono
stata fidanzata, poi egli mi ha lasciato e non pensa più a me. Io invece
non ho cessato un momento di pensare a lui, un giorno come l'altro, un anno
come l'altro. Ho fatto di tutto, per dimenticare: mi dissero che bastava ingrassare
e viver bene per scacciar via questa debolezza; invece è peggio, più si
sta bene di corpo, più l'anima soffre. Non sono una stupida, e, creda,
faccio di tutto per togliermi da quel pensiero; ma è come una mala radice
sottoterra, che soffoca ogni altra cosa. È infine un'idea fissa che
a volte mi conduce fino alla riva del canale. Lei mi capisce: lei, dicono...
Si fermò accorgendosi ch'egli si scostava e arrossiva come sfiorato
da una vampa. Capì confusamente di averlo offeso e tornò a reclinare
la testa, disperatamente. Non c'era più scampo.
- C'è, c'è, lo scampo - egli le disse un giorno, dopo che anche
lui fu diventato un assiduo frequentatore della mensa parrocchiale, e seduti
soli sul canapè di giunco aspettavano che sopraggiungesse il prevosto
coi suoi amiconi. - Il farmacista ha sparso quelle voci sul conto mio perché non
voleva concorrenti: e voi donne guardate la mia busta nera come se dentro ci
fossero davvero i ferri capaci di estrarre dalle vostre teste i pensieri d'amore.
E, almeno riguardo a lei, dentro la mia busta c'è davvero un ferro buono
a guarirla.
- Cos'è? - domanda lei, un po' intimidita, un po' accesa dal contatto
premente di lui.
- È un chiodo - egli le soffia all'orecchio; e scoppiano entrambi a
ridere, con dentro gli occhi il riflesso delle stoviglie e delle coppe di cristallo
della tavola apparecchiata. Poi fu silenzio.
Quella sera egli fu il più allegro compagnone della mensa: ci si sentiva
oramai padrone; e il suo viso macerato dai mezzi digiuni di una giovinezza
famelica, pareva quello di un Cristo risorto.
Anche il prevosto era allegro, di una sua muta allegria che ravvivava quella
dei commensali come la luce delle lampade la letizia della mensa. La presenza
alla sua tavola del giovine dottore lo rassicurava contro le sinistre profezie
dell'altro: la corona di spine tornava ad essere di rose.
E in fondo alla sua gioia c'era qualche cosa di religioso; tanto che, quando
l'allegria un po' corrusca dei commensali minacciava di scoppiare malamente
come le bottiglie a quei primi calori estivi, egli sollevava la coppa, la mostrava
agli uni, la mostrava agli altri, con un segno di benedizione, poi la tracannava
mormorando:
- <I>Pax vobiscum!</I>
Tutti ridevano. E fra le discussioni e gli scherzi, e l'inchinarsi delle bottiglie,
e il gioco dei piatti e il fantastico sparire delle vivande, gli sguardi del
dottore e della donna s'incrociavano a volo, si prendevano e si lasciavano,
come passeri sopra un albero carico di frutti.
Ma il punto massimo di quel miracolo che si chiama felicità fu raggiunto
quando, per spegnere un'ultima discussione stridente fra due grossi mercanti
di scope che per nascoste ragioni di concorrenza si sfogavano a distinguere
i veri dai falsi lavoratori, il dottore disse:
- Siamo tutti lavoratori, tutti operai: solo i morti non lavorano.
- E non bevono - disse qualcuno.
- Ma neppure passano male la notte - disse qualche altro.
Allora il dottore prese la sua busta nera, e fra la curiosità di tutti
ne trasse un fascicoletto che sfogliò leggendo fra sé e sé parole
misteriose che v'erano scritte. Amore fanciullo. Notte. A Francesca.
Il chiodo (sollevò rapido e malizioso le sopracciglia). L'aratro, ah, ecco, Canto di lavoratori ubbriaconi. D'improvviso la
sua voce si alzò, come quella di un ragazzo che declama la sua lezione.
CANTO DI LAVORATORI UBBRIACONI
A stento, navigando,
S'è attraversato il fiume nero della notte,
Con isole di sonno, zone agitate d'insonnia,
Scogli mostruosi di cattivi sogni:
E all'alba siamo approdati
Alle bianche rive del giorno,
Stanchi, sfiniti, ma pronti
A vivere, a lavorare, a trincare ancora.
Tutti risero e applaudirono, sebbene non tutti avessero capito bene.
Il prevosto ordinò alla sorella di portare altre bottiglie per festeggiare
il poeta: e pregato da tutti il poeta lesse altre poesie: alcune, come <I>Amore
fanciullo</I> e L'aratro commossero l'uditorio fino
alle lagrime.
Il prevosto ordinò altre bottiglie.
- Legga Il chiodo - pregò finalmente la donna sulle
cui guance ardeva il riflesso delle ciliegie che rallegravano la tavola.
- Quella no: è un segreto professionale - egli disse: ma il suo sguardo
iridescente promise alla donna di leggerle i versi quando sarebbero di nuovo
soli.
E senza che il fratello glielo ordinasse ella portò a tavola altre bottiglie.
Ma durante la notte il prevosto si sentì male, e invece che alle «bianche
rive del giorno» approdò al nero lido della morte.
E la donna pensò d'interrompere immediatamente la sua cura.
UN PEZZO DI CARNE
Una signora, antica mia conoscenza, è venuta oggi a trovarmi, dopo
molti anni che non ci si rivedeva. Al primo vederla, vestita di nero, piccola,
umile, ho creduto ch'ella avesse bisogno di qualche cosa: ma il suo viso è calmo,
chiaro, e gli occhi hanno una luce com'è solo negli occhi dei bambini
felici.
Ella intuisce subito il mio pensiero, e dopo essersi informata, gentilezza
che molti visitatori si dimenticano di usare, dello stato della mia salute
e del mio umore, mi rassicura sul conto suo.
- Ho finalmente affittato la mia casa a una famiglia per bene, - dice, - una
famiglia ordinata e che paga puntuale: ma ne ho passate, finora, dopo la morte
del mio povero marito. Il mio povero marito è morto senza lasciarmi
altro che questa casa, con rate ancora da pagare, e non bene finita ancora.
Morto lui, sapendosi delle mie tristi condizioni, il vuoto si è fatto
intorno a me; ed io stessa mi sono rintanata nel mio dolore, nella mia miseria.
Bisogna proprio aver fede in un'altra vita, dove solo ai buoni è concesso
di riunirsi a Dio e alle persone amate, per vincere il terrore della solitudine
interna ed esterna di questa vita mortale. Pare di camminare al buio, nella
nebbia, in un luogo deserto dove neppure esistono le emozioni del pericolo
perché anima vivente non si cura di te; pare così, ma in fondo
non è; la luce e la compagnia delle persone amate è dentro il
nostro cuore; altrimenti questo cesserebbe di camminare, e se cammina è appunto
per attraversare lo spazio desolato che ci separa dal grande paese dove il
dolore non esiste più.
Ma tutte queste cose le sai meglio di me, - dice poi con un risolino di compiacenza
per l'evidente interesse con cui si vede ascoltata: - piuttosto ti racconterò un
fatto curioso, dal quale, se vuoi, puoi trarre una novella. Mettendoci un po'
di arte, come tu puoi fare, diventa una novella straordinaria: io ci ho pensato,
anzi volevo scriverla io, ma mi tocca troppo, è una cosa troppo mia
perché io possa scriverla. Però ho bisogno di raccontarla, e
sono venuta da te per questo.
Dunque, dopo il primo stordimento per la mia disgrazia, per campare la vita
e tener fronte ai miei impegni, ho dovuto affittare la casa: io mi sono ritirata
in due stanzette del sottosuolo, dalle quali una scaletta conduce al giardino,
portandomi giù solo il letto dov'è morto lui e la macchina da
cucire.
Come puoi pensare non facevo che piangere: la notte sognavo di lui e di tutte
le cose care lasciate, con l'impressione di esser io la morta: morta e sepolta
sotto la nostra casa. Nessuno più mi cercava né io cercavo nessuno.
Con la somma depositata per garanzia dai miei inquilini avevo sistemato tutti
i miei impegni, e mi restava il necessario per arrivare alla fine del mese:
inoltre avevo qualche lavoro di cucito, procuratomi appunto dagli stessi inquilini.
Era una famiglia straniera, di profughi, ricchi ma disordinati, con cameriere
e bambini che giocavano tutto il giorno fra di loro rincorrendosi come matti
nel giardino. Di sopra si suonava e si cantava, e si ballava anche, sebbene
nel contratto questo fosse proibito. Era insomma un chiasso continuo; ma il
fitto stabilito era talmente vantaggioso per me che lasciavo correre. Ero poi
così piegata dal mio dolore, così distaccata da tutto, che nulla
più mi premeva. Vivere per tacere e aspettare la grande ora. Eppure
il poco riguardo di quella gente, che sapeva di aver sotto i piedi una pena
come la mia, accresceva il mio accoramento. I bambini e le serve, poi, erano
anche, sia pure senza volerlo, veramente crudeli. I loro giochi, le risate,
gli urli davanti alla mia finestruola, irridevano la mia paziente solitudine.
Un giorno di carnevale, coprirono gli alberi e i viali di stelle filanti e
di coriandoli rossi, gialli e verdi. Era bello; pareva che il giardino fosse
fiorito; tutti si fermarono a guardare, e un giorno sento una signora che dice
ad un'altra:
- È il giardino della vedova Pistuddi.
- Si vede che è una vedova allegra - dice l'altra.
Io piangevo.
Ma adesso veniamo al fatto.
I bambini si divertivano anche con un gattino molto bello, bianco e nero, che
pareva avesse sul faccino bianco una bautta di velluto nero attraverso la
quale gli occhioni azzurri guardavano come da una lontananza di sogno. Era
giovine, e quindi molto allegro: se si affacciava al mio finestrino e se
lo guardavo s'inarcava tutto e raspava l'inferriata; ma non osava saltare
dentro perché una volta l'avevo scacciato malamente. I bambini ci
giocavano, ma bestialmente; si divertivano a tormentarlo, e il più piccolo
lo martoriava in tutti i modi. Un giorno ch'erano loro due soli in giardino
sento il gatto miagolare così disperatamente che salgo la scaletta
e mi affaccio per vedere che cosa succede.
Il piccolo boia aveva legato il gatto a un palo e gli girava intorno frustandolo
senza pietà. L'animale si contorceva, stralunava gli occhi, e dalla
bocca gli colava una bava sanguigna.
- Lascialo, - dico io, - non vedi che è arrabbiato e se riesce a morsicarti
muori?
Il monello, spaventato, si ritira: io slego il gatto che corre stordito qua
e là e salta infine sul mio finestrino: non osa penetrare nel mio rifugio,
ma trema tutto contro l'inferriata. Io torno dentro e lo chiamo: allora non
esita a saltare nella mia cameretta, ma ancora accecato dal terrore va a nascondersi
sotto il letto. Io lo lascio tranquillo: i bambini vengono a cercarlo, più tardi;
io dico che non so dove sia, e, sebbene chiamato e richiamato, lui non si fa
vedere.
Sul tardi gli metto da mangiare in un piatto accanto al letto: vedo la sua
zampetta allungarsi, afferrare qualche cosa e sparire.
A poco a poco, rassicurato, viene fuori leccandosi i baffi, gira qua e là in
esplorazione nella mia cameretta, mi guarda tranquillo, poi salta sul finestrino
e se ne va; dopo un momento lo vedo che gioca sul muro del giardino con un
altro gatto. Ho l'impressione che si burli di me; però mi sbaglio, perché da
quel giorno siamo diventati amici. Sempre che io lo voglio entra in casa mia,
fruga dappertutto, si corica sul mio letto, gioca col mio gomitolo: se lo chiamo
mi salta in grembo, e io gli confido le mie pene, gli parlo male dei suoi padroni.
Questi padroni sono divenuti insopportabili: è già scaduto il
mese e non solo non hanno pagato il fitto ma neppure il lavoro manuale che
io ho eseguito per loro. Il gattino ascolta, ma dei miei guai gliene importa
nulla; lo interessano meglio i bottoni del mio vestito coi quali tenta di giocare.
Eppure la sua compagnia mi è di conforto: lo accarezzo e lo sento caldo,
dolce e vivo sotto la mia mano: è un essere anche lui, per me più vicino
e umano degli uomini.
E che abbia un'anima, o almeno un istinto superiore a quello che si attribuisce
alle bestie, e specialmente ai felini, me lo dimostra il fatto al quale infine
vengo.
Dunque i miei inquilini non mi pagavano: per timidezza o per fierezza io non
li sollecitavo; le mie risorse erano completamente esaurite, e piuttosto che
prendere roba a credito dal droghiere o dal fornaio avrei preferito patire
la fame. Tutte queste miserie le confido al gattino, quando viene silenzioso
a trovarmi e prende posto nel mio cestino da lavoro.
E arriva un triste giorno; un giorno di pioggia, di freddo, di malessere: io
non ho più nulla in casa, tranne un po' di carbone che accendo perché almeno
il colore e il tepore delle brace mi ricordino la vita.
È
verso sera, tutto è fuliggine e disperazione, fuori; io tremo per la
tristezza e il malessere, e neppure le brace mi scaldano. Vado per chiudere
gli scurini della finestra e poi seppellirmi nel mio letto freddo, e vedo sul
davanzale il gatto. Mi pare strano che sia in giro con questo tempo: forse
lo hanno maltrattato ancora e cerca scampo presso di me. Allora apro; esso
balza via fuori e scompare: ma sul davanzale trovo un bel pezzo di carne fresco
e intatto.
L'ha rubato per sé, nella cucina disordinata ma sempre ben fornita dei
suoi padroni, l'ha rubato per me? Io non lo so; so che ho accettato il dono
con superstizione religiosa, non per ciò che rappresentava di materiale:
so che anch'io, come il gattino di sotto il letto dove il terrore per l'incoscienza
umana l'aveva cacciato, ho teso la mano diffidente ma non più tremante
di spavento, verso quel segno tangibile di una legge di pietà e d'amore
che deve unire tutti gli esseri viventi, anche se la nostra coscienza la ignora
e non la vuole.
ECCE HOMO
Eravamo entrati in una pasticceria all'angolo fra una grande strada e un vicolo
poco frequentato, e il conoscente col quale mi trovavo per caso in compagnia
sceglieva alcune paste da portare ai suoi bambini. Il pacchetto roseo era pronto,
e l'uomo aveva già pagato, quando il cameriere balzò di scatto
contro un individuo che si disponeva ad andarsene, gli afferrò le braccia,
per di dietro, lo scosse ruvidamente, gridandogli contro le spalle:
- E adesso per Dio basta, sa! È già tre giorni che fa lo stesso
giuoco. Ma che prende la gente per cretini? Si vergogni, si vergogni.
L'assalito era un uomo alto, anziano, distinto. Vestiva anzi con una certa
eleganza, con le ghette grigie sopra le scarpe di lustrino, i guanti in mano,
il cappello chiaro col nastro turchino. Dal mio posto io vedevo solo di scorcio
il suo viso, una guancia rasa alquanto appassita e l'orecchio che all'assalto
del cameriere s'era fatto rosso come insanguinato.
Del resto egli non diede alcun altro segno di turbamento: non si volse, non
aprì bocca. Il cameriere adesso gli era passato davanti, senza lasciarlo,
come girando di posizione intorno a una fortezza, e mentre continuava a gridargli
vituperi, gli frugava con una mano le tasche. Ne trasse alcune paste, già un
po' schiacciate, e le buttò con rabbia per terra.
- Non per questo, sa, ma perché lei dovrebbe vergognarsi. Si vergogni.
Vada via, vada via, - urlò in ultimo, spingendolo fuori della porta,
- e si guardi bene dal lasciarsi rivedere.
E quando l'uomo se ne fu andato, senza mai volgere il viso per non farsi vedere
dai pochi ch'eravamo dentro la pasticceria, il cameriere si asciugò la
fronte congestionata, poi automaticamente si chinò a raccogliere le
paste che rigettò più indietro, sotto il banco, come si trattasse
di cosa sporca: infine si calmò e diede spiegazione di quello che già tutti
avevamo capito.
- È tre giorni che viene qui, mangia, ruba e se ne va senza pagare.
Nessuno fiatava; eravamo tutti come colti da vergogna per il nostro simile,
e ci si guardò anzi a vicenda, con un vago smarrimento, come se ciascuno
di noi sospettasse nell'altro un compagno del disgraziato.
- Disgraziato! - dissi io, mentre subito dopo col mio compagno si lasciava
la pasticceria, uscendo dalla porta verso il vicolo. - Avrà forse fame:
forse voleva portare le paste ai suoi bambini. Non importa il vestire e le
apparenze. Io conosco un impiegato che non riesce a sfamare completamente la
sua famiglia.
Il mio compagno, che oltre ad essere un ottimo padre di famiglia è un
colosso sempre famelico, mi ascoltava pensieroso. La scena lo aveva profondamente
disgustato e quasi atterrito, e le mie considerazioni, mi confessò dopo,
gli destarono un fremito. Disse burbero:
- Ad ogni costo, anche a veder morir di fame i propri figli, queste vergogne
non si fanno. L'uomo non deve, specialmente a una certa età, far arrossire
per lui gli altri uomini. E quel cameriere ha fatto male a non dargli una lezione
migliore. Doveva chiamare una guardia. Adesso quel miserabile fa il giuoco
in altri posti. Ah, eccolo lì, che cammina come se niente fosse... -
disse poi sottovoce, fermandosi e fermandomi per il braccio, come se davanti
a noi, nel vicolo nero, solitario, poco illuminato da una sola lampada ad arco
alta e bianca come la luna, scivolasse un essere pericoloso.
Posso dire che ho quasi sentito battere il cuore del mio compagno: certo era
il suo orologio, ma mi parve il suo cuore. Certo ho sentito digrignare i suoi
denti. Mi diede da tenere il suo pacchetto, poi senza dire una parola si slanciò avanti
calcandosi il cappello sulla fronte come uno che vuol compiere una corsa vertiginosa.
La sua ombra grottesca mi parve che lo seguisse affannosa, trascinata da lui
con violenza. In un attimo raggiunse l'uomo del quale nella penombra si distinguevano
le ghette e il cappello, come dipinti con la biacca per risalto al resto della
forma scura: in un attimo lo investì, e mentre anche le due ombre si
mischiavano per terra in una lotta misteriosa, lo volse con le spalle contro
il muro e gli cacciò il pugno sotto gli occhi.
Anch'io correvo, atterrita, ma nello stesso tempo curiosa e presa da un senso
d'ilarità. Perché i movimenti di quei due erano veramente ridicoli
e la tragedia era solo nel mischiarsi informe delle ombre che pareva lo scontro
interiore dei due uomini.
Il mio compagno parlava forte, ma in modo diverso del cameriere, con una voce
lenta e cavernosa che non mi pareva più la sua.
- Si vergogni! Abbiamo veduto tutti, e ci siamo vergognati per lei. E devo
dirle che se non la conduco in Questura è per riguardo alla signora
che accompagno: ma badi che mi tengo a mente i suoi sporchi connotati, e che
se l'incontro un giorno che siamo soli glieli cambio a furia di pugni.
L'altro non rispondeva. Fermo contro il muro, con le braccia abbandonate e
la testa china, pareva un morto appoggiato per forza a una parete. E il suo
viso era come scavato da una croce nera, senz'altri connotati che quelli di
un dolore senza nome e senza forma.
Mai in vita mia ho provato un senso di pietà così straziante
nella sua impotenza come quello che quel viso mi destò.
- Lo lasci - imposi all'assalitore - non vede che è un poveraccio? Forse
non ha la camicia.
La camicia ce l'aveva, e di seta; ma io dissi così perché realmente
avevo l'impressione di vedere il buon ladrone nudo ai piedi della croce: il
vero ecce homo che è in tutti i disgraziati fuori
dell'umanità.
Il mio compagno non poteva capire: si irritò anzi contro di me.
- Mò le faccio vedere se la camicia ce l'ha. Aspetti...
E gli frugò nelle tasche come aveva fatto il cameriere: ne trasse il
portafoglio, lo aprì: era pieno di denaro. Lo buttò per terra
e ci sputò sopra.
- Andiamo - disse, con terrore.
L'uomo non si moveva. Solo quando noi due si fu un poco avanti e io mi volsi,
vidi che raccoglieva il portafogli, con cautela, per non macchiarsi con lo
sputo.
- È fuori dell'umanità. Ma troverà la sua - borbottava
il mio compagno.
Eppure io sentivo crescere in me la pietà, fino alla desolazione, fino
alla vergogna di sé stessa.
IL NOME DEL FIUME
Quell'anno cominciò a nevicare in novembre, e non la smise più:
e poiché noi si abitava un po' fuori del paese, per essere ancora in
comunicazione col prossimo si dovette aprire un sentieruolo fra la neve come
in una foresta vergine. Una povera servetta mocciosa di natura, e che il freddo
rendeva ebete, andava e veniva per questo filo di strada, portando i viveri
e la posta; e mai personaggio potente e grandioso rappresentò per me
la forza della vita come questa legnosa ragazzina avvolta di stracci e assiderata.
Con ciò si capisce che oltre i giornali col tumulto del mondo dei vivi,
e le prime comunicazioni con l'Editore, che è come dire col pianeta
Marte, ella mi portava le lettere del fidanzato.
Anche questo fidanzato viveva ad una rispettabile distanza che di giorno in
giorno minacciava di farsi sempre più misteriosa e terribile.
Era un esploratore; e si preparava ad una spedizione di grande stile, cioè verso
una regione assolutamente sconosciuta. Lui di me non conosceva che una poesia,
io di lui non conoscevo che il nome: eppure eravamo fidanzati.
Bisogna dire che, oltre tutto il resto, mi lusingava in lui una qualità senza
la quale il coraggio, la fantasia, la tenacia, la bellezza morale e la forza
fisica di un personaggio di tal genere contano come zeri senza il numero avanti:
l'essere egli ricco.
E bisogna essere fanciulli, soli, poeti e poveri, per intendere il vero significato
di queste parole.
Si è peggio che poveri e soli in una famiglia numerosa della quale
da poco è morto il padre, la madre è debole e malata, i fratelli
e le sorelle piccole si stringono intorno alla maggiore che è l'unica
responsabile di tutto e deve provvedere a pagare, con le scarse rendite di
un vasto patrimonio incolto, la tassa di successione del padre, le imposte
e tutti gli altri obblighi.
Le tasse e tutto il resto pagato, pochi denari rimangono in casa; si deve vivere
quindi con le provviste casalinghe che danno un ottimo ma preistorico pasto,
a cominciare dal pane biscotto e le carni salate del maiale e terminare col
formaggio pecorino rosso come la cera vergine, e le olive violette e amarognole
come il fiore del radicchio. Chi si accorge di tutto questo? Inquietudini,
privazioni, disagi del tempo cattivo, sono coperti dal velo iridescente della
speranza: ogni settimana è segnata da una tacca sullo spigolo dell'anta
del camino e questa misteriosa scaletta sale e sale verso il punto ove batte,
nelle belle giornate, un occhio di sole.
Ma le belle giornate sono rade e accompagnate dalla tramontana che coi denti
di lupo morde i muri; ed ecco ricade la neve e il suo peso fa scricchiolare
il tetto: bisogna puntellarlo, il tetto, e si vive così, come gli abitanti
delle palafitte nei primi albori dell'umanità in consorzio.
Ad accrescere l'impressione di questa vita sull'acqua corrente, una vena si
apre davvero nella cantina e la inonda, e ci travolgerebbe come le lepri dei
boschi fiumani se non si provvedesse a un tubo di zinco che fa scolare l'acqua
fuori. E il tubo di zinco si porta via con l'acqua anche il vino della cantina
che viene venduto a vile prezzo per pagare le spese del disastro.
Di notte, quando tutti dormivano, io leggevo. Leggevo accanto al camino della
cucina, perché era il posto più caldo: la tenue luce del lume
ad olio si mangiava i miei occhi: che importava? Quando si è ricchi
di una cosa non si esita a scambiarla con un'altra che sembra egualmente preziosa:
e sono invece scambi di perle vere con perle false.
Dei libracci letti in quel tempo non ne ricordo uno; eppure non li rinnego
perché la loro prosa era come il libretto scempio di un'opera musicale
grandiosa. L'orchestra dei venti, del torrente ingrossato, dei boschi sul Monte
contorti dal dolore dell'inverno, rombava intorno alla casa minacciata dalla
rovina: e pareva d'essere davvero in una imbarcazione protetta solo da Dio,
che andava, andava giù per un grande fiume ignoto, verso una lontana
riva di sogni.
Una notte però la barca parve arenarsi; l'impressione di un pericolo
inevitabile mi fa sospendere la lettura: fra il chiasso del vento sentivo vaghi
lamenti, richiami di soccorso: il cane cominciò a urlare, poi tacque
d'improvviso: il vento spazzò via tutto. La mattina dopo ci si accorse
che i ladri ci avevano rubato le galline e strangolato il cane.
Il vento della speranza spazzava a sua volta le orme di queste piccole miserie:
le tacche sull'anta del camino salivano, la neve si scioglieva e qua e là la
terra faceva rivedere il suo materno viso bruno. Il carnevale scuote i suoi
sonagli dipinti, e fino alla casa in duolo arrivano le musiche dai ballabili
lenti e sensuali.
Un giorno un uomo mascherato batte alla nostra porta. Ci si deve aprire? Noi
non abbiamo nemici, nessuno può farci del male. La maschera però è,
sempre, un segno di mistero, e l'uomo viene ricevuto con curiosità paurosa. È alto
e smilzo, vestito con un antico costume da caccia di velluto verde. Il fucile è rassicurante,
perché tutto di legno; più rassicurante la polveriera piena di
confettini colorati. Egli s'inchina di qua e di là, bacia la mano alla
mamma, rivolge frasi graziose alle ragazze, compresa la servetta paurosa nascosta
dietro l'uscio. I suoi occhi sono dolci, castanei, fatti più belli e
vivi dall'immobilità della maschera di cera. Dev'essere, in realtà,
un cacciatore di dote; ma in fondo io non penso così. In fondo il cuore
mi batte come quello di un uccello ferito: quegli occhi che si rivolgono spesso
a me, dal mistero del viso sconosciuto, e quella voce mai sentita che esce
come dalla bocca di una statua, mi destano un tremito più indefinibile
di quello della servetta dietro l'uscio.
Poiché l'esploratore mi aveva scritto che i preparativi per la sua spedizione
erano finiti ed egli stava per partire: e il pensiero che egli fosse venuto
a conoscermi così, di nascosto, nel suo bel costume del colore delle
foreste vergini, mi travolgeva la mente.
È
venuto; è l'annunzio squillante della primavera, è il cacciatore
che prende i sogni senza colpo ferire e li butta sui capelli delle adolescenti
come i coriandoli del carnevale.
Ma perché tu, o madre, fai portare il bicchiere dell'ospitalità,
e preghi l'uomo di togliersi la maschera?
Sotto la maschera tirata in su di un colpo appare il viso dell'accalappiacani
del paese.
La primavera arriva davvero: anche i monti si tolgono la loro maschera bianca
e solo i mandorli della valle conservano ancora sui loro rami neri la neve
dei loro fiori. L'esploratore è partito: mi ha scritto una lunga lettera
prima d'imbarcarsi sul grande transatlantico, e chiede di chiamare col mio
nome la regione che scoprirà. In fondo alla lettera è scritto
con caratteri chiari l'indirizzo d'oltre oceano per la risposta. Io copio lettera
per lettera l'indirizzo e mando la risposta: due mesi devono passare prima
che arrivi un'altra lettera di lui. Passa aprile col fiore dello zafferano,
passa maggio con le rose e le api ronzanti nel sole: arriva con giugno il primo
alito della disperazione che rende oscure anche le giornate più azzurre.
Scrivo ancora, con ricevuta di ritorno: passa luglio, il più bel mese,
il re dei mesi dell'anno, ma il chiaro di luna è più triste del
chiarore della neve, e al canto dell'usignuolo, all'invito d'amore delle serenate,
alla dolcezza piccante dell'uva moscata, si contrappone con infinito rimpianto
il ricordo dei venti, del freddo scricchiolare della casa, delle castagne arrostite
fra la cenere.
In agosto la casa è riattata, le dispense rifornite: il frumento, le
mandorle, il sughero, persino i fichi d'India si convertono in denaro: ma io
mi sento mille volte più povera che nell'inverno passato; ogni giorno
più povera, povera per l'eternità.
In settembre mi arrivarono, con la ricevuta di ritorno non firmata, le mie
due lettere respinte dall'ufficio postale d'oltre oceano. Nessuno si era presentato
a ritirarle: e mai più nulla ho saputo dell'esploratore, del quale,
del resto, ho dimenticato anche il nome.
Adesso, però, una persona mi dice che molti anni fa un esploratore ha chiamato col mio nome un grande fiume da lui scoperto in una regione sconosciuta. Non sa dirmi altro, non ricorda da chi la notizia gli è stata riferita: ed io non domando altro. È vero? Non è vero? È l'avventura fantastica dell'adolescenza che prende forma e nome? O è ancora la maschera verde dell'illusione che nasconde la realtà grottesca? Che importa? In queste sere di agosto, quando le stelle filanti mi ricordano le scintille del fuoco che si spegneva nel camino paterno, sento ancora quel rombo di fiume lontano, che mi porta con sé, ed è la forza della poesia, unica ricchezza della vita.
BIGLIETTO PER CONFERENZA
Questo biglietto era concepito così:
«
La signora Rosa Bianca Marchini è invitata alla conferenza che avrà luogo
giovedì 21 corrente alle ore 18 nella sala del Circolo Giapponese. Parlerà il
principe
Tai Oiokama
su "La Corte Giapponese nel secolo XIX". Assisterà Sua Altezza
il principe Ereditario.
Il biglietto è strettamente personale».
- Il biglietto è strettamente personale - ripeté a voce alta
la piccola signora Marchini, che ha l'abitudine di pensare parlando. - Chi
può essersi ricordato di me, in luogo così aristocratico? E perché di
me e non del povero Marchini?
Al ricordo del marito, al quale lei nel suo pensiero, e quindi nelle sue espressioni,
dà costantemente la qualifica di povero, sebbene sia un uomo aitante
nella persona e con la borsa piena, il suo sentimento di vanità lusingata
e un tantino perversa, si tinge di malumore.
- Non mi permetterà di andarci, no - ella confida al biglietto giallo
sul quale reclina la piccola testa che per il carico di trecce castanee pare
grossa e sproporzionata al minuscolo corpo infantile. - Quando è che
lui mi ha dato mai una soddisfazione? Adesso poi! Adesso che l'invito è solo
per me, figuriamoci. Dirà magari che hanno sbagliato, o che si tratta
di un pesce di aprile, o che ho intrigato e brigato io, per averlo. Proprio
io, - aggiunse con tristezza: - io che non sono buona neppure a dire «la
smetta, imbecille» se qualche scimunito mi segue per la strada. Ah, ma
che sia stato quello? Che sia lui? Quel signore lungo vestito di nero, che
l'altro giorno mi seguì fino al portone di casa? La faccia del giapponese
ce l'aveva. Ma no, stupida, va a farti benedire, va.
Ella aveva di queste reazioni contro la sua fantasia. Eppure il suo viso pallido di anemica, succhiato da tutti quei capelli prepotenti, s'era tinto di un rosa quasi violaceo, al ricordo dell'uomo alto che ogni tanto le appariva nella strada come un fantasma e la seguiva, senza mai rivolgerle una parola. A lei quest'uomo non piaceva, ma le destava ogni volta un senso di mistero, e lusingava la sua vanità femminile, perché aveva proprio l'aspetto di un gran signore, di un diplomatico a spasso, e anche di uno che non cerca l'avventura d'amore ma l'amore vero; e lei, così piccola, quasi nana, non possedeva che questa sola specialità per attirare l'attenzione della gente. Queste cose però le diciamo noi, perché, su questo punto lei non parlava mai e quindi non si sa quale fosse il suo occulto pensiero.
Il suo pensiero adesso era affermato solo dal progetto di profittare a tutti
i costi del biglietto d'invito.
- Voglio andarci. Voglio e voglio - disse sollevando la testa, con un balenìo
di luce nei grandi occhi celesti. E anche le sue miti sopracciglia si sbatterono
come due piccole ali dorate. - Dopo tutto un piccolo divertimento posso permettermelo,
io che lavoro e dalla mattina alla sera compio il mio dovere come nessun'altra
donna al mondo. Vuol dire che ci andrò di nascosto del povero Marchini.
Tanto peggio per lui.
E di nuovo un senso di cattiva allegria la prese, non tanto per la decisione
di andare alla conferenza quanto al pensiero di fare un piccolo torto al povero
Marchini. Tanto peggio per lui se egli era così diffidente e meticoloso,
se non le permetteva di fare la vita che fanno le altre donne, non per gelosia
o per paura ch'ella, così fragile e di poca salute, ne avesse danno,
ma per semplice spirito di contraddizione e di autorità maritale.
Del resto ella subiva quasi allegramente quest'autorità perché sapeva
di sfuggirvi sempre che voleva: lontano di casa il povero Marchini, lei faceva
quello che le pareva e piaceva; riusciva anche a piegare la volontà di
lui, quando le tornava comodo, e adesso pensava di andare di nascosto alla
conferenza non perché fosse certa di esserne impedita da lui, ma perché alla
faccenda si mischiava un odore di frutto proibito.
- E adesso, amico mio, - disse al biglietto, rimettendolo nella busta e il
tutto nascondendo sotto il marmo del comodino, - adesso bisogna pensare al
vestito.
- Marco mio, coccolino, piccolino, mammolino - cominciò a susurrare
aggirandosi intorno al marito, mentre lui, mangiato bene e bevuto meglio, si
disponeva a fumare la sua pipa. Era il momento psicologico, lei lo sapeva,
e quell'omaccione tutto d'un pezzo, becero e sentimentale, lo si poteva prendere
con una semplice rete di paroline dolci e ridicole.
- Be', lasciami in pace - egli disse, calcando la punta nera del pollice sulla
pipa ripiena. - Lo sappiamo che vuoi qualche cosa: sbrigati e smettila con
le scempiaggini.
Ella gli tolse un capello grigio dal bavero della giacca e si appoggiò con
tutte e due le mani sull'omero di lui.
- Marco, lo sai, ho bisogno di un vestito. Lasciami spiegare. Ho bisogno del
solito vestito di mezza stagione, però fa già caldo non senti?
E io sono nervosa e non ho la pazienza di sottomettermi alle torture che mi
infligge con le sue prove e riprove quella smorfiosa della mia sarta. E poi
lei mi dà così ai nervi col suo eterno chiacchierare, col suo
Parigi di qua Parigi di là, lei che non è stata mai neppure a
Frascati. Tu devi preoccuparti della mia salute, Marco, se non altro perché io
sono necessaria alla famiglia, e se manco io neppure ti sogni quello che può succedere
qui. Perché io il mio dovere lo faccio, come nessuna altra donna al
mondo, e sono contenta di farlo, e sono felice di vivere e di lavorare, per
te, per tutti: e non ho grilli per la testa, e non sono leggera né vanitosa
né bugiarda, come sono le altre donne. Questo non per vantarmi, ma insomma
per dire che qualche riguardo anche alla mia salute si deve avere. Io non me
la sento, dunque, di sottopormi adesso al supplizio di farmi fare il vestito
dalla sarta, che poi me lo finirebbe per l'altra mezza stagione. Ho bisogno
di comprare subito il vestito già bell'e fatto.
Respirò, come dopo una corsa vertiginosa, e anche il marito respirò.
Aveva temuto di peggio, tanto che, sotto quella sottile pioggia di parole non
s'era deciso ad accendere la pipa come si trovasse sotto una pioggia vera:
però, conoscendo anche lui a fondo la sua donnina, presentì subito
qualche birbonata di lei.
- Comprati pure il vestito, - disse con la sua solita voce calma e sonora,
- ma adesso lasciami fumare in pace.
Questa sua subita e insolita condiscendenza turbò la moglie, anzi le
destò un senso di scrupolo. Le venne il desiderio di rivelare il suo
segreto: ma pensò che c'era tempo a farlo, anche per mantenere il suo
prestigio presso il povero Marchini.
Che il povero Marchini sospettasse però di qualche cosa, ella se ne
accorse subito, perché egli le domandò se era uscita, chi aveva
veduto, se aveva ricevuto posta; poi quando si trattò di comprare il
vestito volle accompagnarla, con la solita scusa che lei non doveva andare
in giro con molti denari in tasca perché già due volte era stata
borseggiata.
Il vestito lo scelse lei, con questo interno ragionamento: qui, cara amica,
bisogna essere furbi. Lui forse crede che io voglia scegliere un abito vistoso
e di effetto, anche perché gli ho dato sempre ad intendere che i vestiti
chiari che mi sono fatta venivano a costare molto di più di quanto realmente
spendevo. Adesso ti servo io, caro Marco. E fra i cento stracci che venivano
fuori dagli armadî come palloncini sgonfiati e fra le abili mani del
commesso si rigonfiavano e pareva volessero volare, ella scelse un vestito
scuro, semplice, con solo un fiore rosso ricamato dalla parte del cuore.
- Lei ha buon gusto - la complimentò il commesso.
Era il vestito che costava di più.
E per non dare ulteriori sospetti al marito lo indossò il giorno dopo:
doveva fare una visita, e le visite almeno le erano permesse, sempre previo
avvertimento.
Il vestito, indossato da lei, diveniva un altro: pareva si animasse della gioia
di lei, e il fiore sul petto palpitava come un fiore vero sul cespuglio natio.
Ella non avrebbe sfigurato, no, tra la folla aristocratica della conferenza:
solo le spiaceva di non potervi andare a testa nuda, incoronata come la regina
delle bambole dalle sue trecce meravigliose.
Ed ecco, neppure a farlo apposta, quel giorno le riapparve il suo fantasma.
Egli la seguiva, di lontano, e per non raggiungerla coi suoi lunghi passi ogni
tanto si fermava a guardare qualche vetrina.
Non c'era più dubbio: egli la seguiva, ma alla soddisfazione vanitosa
ch'ella ne provava, più per il suo vestito che per sé stessa,
un dubbio seguì: un dubbio che le diede un senso di calore alla testa
come se i capelli le bruciassero.
- Adesso lo so chi è quello spilungone: è un agente segreto,
ed è lui, Marco, che mi fa pedinare.
Ma poi, per dignità verso sé stessa, scartò l'ipotesi,
tanto più che nei giorni seguenti l'uomo non riapparve più. Qualche
altro però si voltava a guardarla, e un vecchione le rivolse parole
galanti. Ella camminava felice nelle strade pur esse felici sotto il cielo
di maggio, e quando tornava a casa sollevava il marmo del comodino per visitare
il biglietto e ringraziarlo ad alta voce di averle procurato tutte quelle emozioni.
Ma la più grande delle emozioni le era riserbata proprio per il giorno
della conferenza. Il marito le disse che andava a fare una gita in campagna:
sarebbe tornato la sera sul tardi. Non la invitò ad andare con lui per
la semplice ragione che non l'aveva mai fatto: e lei sulle prime fu tutta contenta,
poi ricordò che i mariti fingono di partire e poi piombano sul più bello
a disturbare la moglie in colloquio con l'amante.
Qui sorrise: non perché il suo dubbio le sembrasse ridicolo ma perché s'immaginò il
viso che avrebbe fatto il povero Marchini se realmente l'avesse sorpresa con
un uomo. E quando quest'uomo prese, nella fantasia di lei, la lunghezza e il
vestito funebre dello sconosciuto che la seguiva per strada, il sorriso sbocciò in
una risata infantile: infantile ma non sincera.
Perché qualche cosa di torbido c'era dentro il suo cuore; e lei lo
sapeva e in fondo si sorvegliava. In fondo fino all'ultimo momento fu indecisa
di andare alla conferenza, non perché ci fosse del male ma perché lei
ci metteva della malizia. E appunto per dimostrare a sé stessa che male
non c'era, e per dare una lezione al marito, decise di andare e poi raccontargli
tutto.
Ci andò, senza affrettarsi, all'ora indicata. Se non trovava posto tanto
meglio, sarebbe tornata indietro: e poi in certi posti è più aristocratico
arrivare tardi.
Eppure quando arrivò la sala era ancora quasi vuota: solo alcune vecchie
signore straniere e alcuni piccoli uomini gialli con gli occhi obliqui sedevano
compunti e quasi tristi nelle prime file delle sedie: e pareva che tutti meditassero
qualche cosa di religioso guardando sulla tavola in alto per il conferenziere
un mazzo di tulipani e un bicchiere pieno d'acqua.
Ma quello che la colpì come un pugno alla faccia, fu, nel volgersi per
scegliere il posto che le sembrava migliore, lo sguardo del povero Marchini.
Egli l'aveva seguita davvero, e vista la poca affluenza degli invitati, l'usciere
gli aveva permesso di entrare senza biglietto.
PICCOLINA
In quel tempo - raccontò la mia amica - io non entravo in cucina che
due o tre volte al mese. Ad ogni modo il mio domestico Fedele si teneva sempre
pronto, poiché la mia visita alla cucina segnalava un cataclisma. Si
teneva pronto, vale a dire stava davanti ai fornelli anche se non cucinava,
col grembiale pulito, e tutto intorno ordine perfetto.
Sulla tavola coperta da una tovaglia ricamata verdeggiava, entro un vasetto
di terra, una pianticina di capelvenere; i recipienti appesi alle pareti erano
in parte misteriosamente avvolti in fogli di carta velina; e la stessa cassetta
per le immondezze, nell'angolo dietro l'uscio, col suo bravo coperchio lucidato,
pareva un mobile da salotto.
La finestra poi, socchiusa, lasciava intravedere un fresco cielo turchino di
tramontana che faceva dimenticare di essere nel cuore di un grande casamento
nel centro di una grande metropoli.
Era un cielo che, come noi, non conosceva il verde delle foreste, eppure richiamava
al pensiero un puro orizzonte sopra un bosco di montagna: e il rumore confuso
della città intorno accresceva questa illusione.
Del resto io e Fedele non si era romantici, e non c'importava nulla della campagna.
Si viveva bene in città, in quel grande appartamento fresco d'estate
e riscaldato d'inverno; ed io anzi preferisco quest'ultima stagione che permette
di stare in casa o di uscire, di veder gente o no, secondo il proprio umore.
Di umore molto variabile, in quel tempo, io avevo periodi di sociabilità,
e periodi di misantropia. Vedova e senza figli, senza stretti parenti, pienamente
libera di me, senza preoccupazioni materiali, a volte sentivo un grande vuoto
intorno a me, come se il palazzo dove abitavo fosse crollato lasciando salvo
solo il mio appartamento. Uscire non si poteva, restare in casa era pericoloso;
in quei giorni ispezionavo la cucina, e anche Fedele sentiva odore di tempesta.
Eppure nessuna cattiva parola veniva pronunziata. Io avevo di lui lo stesso
terrore ch'egli aveva di me. Sapevo che se io lo rimproveravo in malo modo
egli era pronto a dirmi che se ne andava. E questa sola minaccia accresceva
il senso di abisso intorno a me: in fondo ero certa che non se ne sarebbe mai
andato se io frenavo il mio desiderio di maltrattarlo, ma questo sforzo aumentava
il mio scontento di lui e di tutto.
E non la gratitudine per il suo lungo e fedele servizio, per il suo rispetto,
il suo modo di vivere presso di me come una macchina buona a tutte le faccende
domestiche, ma il pensiero che a girare tutto il mondo non avrei trovato un'altra
macchina simile, mi tratteneva dal trattarlo con ingiustizia. D'altronde ero
certa che anche lui stava presso di me per tornaconto, perché non avrebbe
anche lui trovato un posto migliore; e quindi non mi credevo in obbligo di
riconoscergli alcun merito. Se commetteva davvero una mancanza non esitavo
a dirglielo: ed egli riconosceva giuste le mie osservazioni; ma oltre di là non
si andava. Forse anche lui, che era intelligente, mi riteneva la più perfetta
macchina di padrona che esistesse al mondo.
Una mattina però lo scontro avvenne. Era un giorno di scirocco e tutto
il casamento tremava e scricchiolava sinistramente: cattivi odori salivano
dal cortile, sul quale davano le finestre delle cucine e dei ripostigli; si
sentivano le padrone sgridare aspramente le serve, e queste rispondere sullo
stesso tono.
Entro anch'io da Fedele, con la convinzione che quella mattina si doveva una
buona volta rompere il lungo armistizio. Facevo i più brutti pensieri
sul conto suo: che mi rubasse sulla spesa, che ricevesse donne in casa, quando
io non c'ero, che parlasse male di me con la gente del mercato: quel giorno
poi, tutte le cose sembravano sporche, e la colpa non era del tempo, ma sua.
All'affacciarmi sull'uscio lo vedo al solito posto, davanti ai fornelli: tutto
intorno è pulito e in ordine; anche il cestino con le verdure ha qualche
cosa di elegante e di pittoresco.
Io non trovo nulla da ridire, ma volgendomi verso l'angolo dietro l'uscio vedo
la cassetta per i rifiuti insolitamente aperta, e una goccia come di mastice
sciolto che vi cade d'improvviso dentro mi fa sollevare gli occhi.
Un senso di allucinazione mi fa restare per un momento immobile e smarrita;
davanti a me, appollaiato su un bastoncino collocato tra l'uscio e la parete,
vedo un uccello nero, con un grande becco aquilino, e vicini fra di loro due
occhi di un azzurro pallido che mi fissano severi.
- Che cos'è? - grido quasi impaurita, come se l'uccello misterioso fosse
penetrato da sé nella mia casa con cattive intenzioni.
- È una cornacchia - rispose Fedele, senza muoversi.
- E perché è qui? Chi l'ha portata?
- Io.
Allora mi rivolsi a lui, terribile.
- E perché? Chi vi ha dato il permesso? Da quando è qui?
- Da una settimana. L'ho comperata e mi tiene compagnia. Non può volare
perché ha le ali e la coda mozze - aggiunse, scusando, più che
sé stesso, l'uccello.
Il suo accento dimesso, quasi idiota, mi disarmava: eppure l'idea che egli
si credesse così disperatamente solo nella mia casa da cercarsi la compagnia
di una cornacchia, mi irritava e umiliava allo stesso tempo. Volli, per questo,
fargli del male: e frenando il mio sdegno, anzi mostrandomi quasi dolente del
mio volere, dissi:
- Oggi stesso porterete via di casa quest'uccello. Voi sapete che non amo le
bestie in casa: né cani, né gatti, né uccelli. Lo sapete:
eppoi voglio che la cassetta sia chiusa.
Così dicendo io stessa rimisi alla cassetta il coperchio: e la cornacchia,
nel sollevarmi che feci, mi beccò i capelli: poi lasciò cadere
insolentemente, sul lucido legno, un'altra goccia che vi si impresse come un
sigillo di cera gialla. E mi fissava coi suoi occhi vicini, inumani eppure
per me beffardi, e pareva volesse dirmi: ringrazia il cielo che non te l'ho
fatta addosso.
Fedele si avvicinò, con uno straccio tolse la goccia e si chinò per
alitare sulla lieve macchia che, ripassatovi su lo straccio, scomparve.
- Va bene, - disse risollevandosi, - oggi stesso provvederò a me e alla
mia Chia: intanto posso metterla nella mia camera.
Mise il braccio piegato davanti alla cornacchia e questa vi saltò su,
con un lieve strido di gioia. Ed egli le posò una mano sopra, per accarezzarla
e proteggerla. Io provai di nuovo una strana impressione: mi pareva di sognare.
Fedele aveva pronunziato il nome della cornacchia come quello di una persona,
e i suoi occhi d'un azzurro verdastro avevano preso una espressione simile
a quella degli occhi di lei. Qualche cosa di selvaggio, d'irriducibile ad ogni
umano sentimento, si rivelava improvvisamente in lui, risaliva dal fondo del
suo essere primordiale. Ed io ebbi la stessa misteriosa paura che mi inspirava
l'uccello da preda: così fragili entrambi, in apparenza addomesticati,
pronti ad affondarvi il becco negli occhi. E uniti entrambi da uno stesso amore
che solo i simili fra di loro, quelli di una stessa razza, possono sentire.
- Va bene - dissi anch'io, ritirandomi dignitosamente.
Sentivo invece che tutto andava male: se Fedele mi lasciava, una parte, sia
pure la parte più meccanica, ma appunto per questo la più necessaria,
della mia esistenza quotidiana, crollava. Sentivo che per ottenere i servizi
da lui resi, occorrevano per lo meno altri due domestici, maschi o femmine
che fossero; e già pensavo a loro come a dei nemici in agguato dietro
la mia porta. Forse esageravo: forse c'era un fondo sentimentale nel mio
disappunto, poiché con Fedele se ne andava un periodo, se non felice
almeno quieto e sicuro, della mia esistenza.
Mi ritirai nello studio, mentre lui, silenzioso come non ci fosse, rimetteva
in ordine la mia camera da letto; e tentai di scrivere una lettera alla direttrice
di un'agenzia di collocamento, che per caso conoscevo, onde pregarla di trovarmi
una persona di servizio fidata e abile.
Ma non mi riusciva. Aspettiamo, pensavo; forse Fedele cambierà idea
e butterà dalla finestra l'uccellaccio.
E d'improvviso sentii che eravamo ridicoli tutti e due: e che l'uccellaccio,
in fondo, ci univa più di prima, mettendo a prova il nostro egoismo
e la nostra calcolata indifferenza reciproca.
Finito ch'egli ebbe di riordinare la camera, - e mi parve che lo facesse con
più rapidità e accuratezza del solito, - vi entrai col proposito
di vestirmi e uscire. Volevo andar di persona dalla direttrice dell'Agenzia:
ma le finestre della mia camera davano una a levante e l'altra a mezzogiorno,
e il vento vi batteva così forte che i vetri pareva dovessero spaccarsi.
Io amo il vento, quando ne sono difesa, forse perché il pensiero di
affrontarlo all'aperto mi riempie di terrore. Aspettiamo dunque ancora, pensai; è ridicolo
che io mi agiti così per una persona di servizio. Tanto più che
Fedele mi dava il buon esempio: eseguiva le sue faccende con calma e silenzio,
quasi ignorasse la mia presenza nella casa. La casa era abbastanza grande perché servo
e padrona non ci si incontrassero che nei momenti stabiliti: così, rientrando
nello studio ritrovai sulla tavola i giornali e la posta, come venuti da per
sé; e più tardi nella sala da pranzo la tavola apparecchiata
e Fedele pronto a servirmi, zitto e silenzioso come un fantasma. Non ci si
scambiò una parola, non uno sguardo. Solo quando venne a servirmi il
caffè, egli mi domandò sottovoce:
- La signora oggi non va fuori?
- Sì, esco - risposi aspra; subito pentita aggiunsi: - Perché?
Volete andar fuori voi?
- Sì, volevo chiederle un'ora di permesso.
Egli andava certo a cercarsi un altro servizio: e poiché il pericolo
adesso mi appariva di fronte, vivo e immediato, mi sentii tutta fredda. Per
vendicarmi, poiché istintivamente sapevo che Fedele rifletteva i miei
sentimenti, e aspettava una sola parola per rassicurarmi e rassicurarsi, risposi:
- Se volete andate pure. Non ho bisogno di voi.
Ed egli uscì, lasciandomi spaurita.
Date le abitudini e le circostanze della mia esistenza di quel tempo, bisogna
dire che quell'ora concessa a Fedele fu una delle più brutte della mia
vita. Invano mi proponevo di uscire anch'io e cercare un'altra persona di servizio,
certa che l'avrei trovata. Pagando bene si ottiene tutto. Anzi volevo vendicarmi:
congedarlo appena rientrava, e non pensarci più. Per aver una scusa
dignitosa andai a vedere se dalla cucina era sparita la cornacchia.
La cornacchia era lì, sul bastoncino dietro l'uscio, e allungò il
collo guardandomi fisso negli occhi con gli occhi severi. E d'un tratto, non
so perché, mi parve che la mia casa non fosse più così solitaria
come un momento prima. Un essere misterioso l'abitava, incarnato in quell'uccello
austero e silenzioso. Mi accostai per guardarlo meglio, tendendo però l'orecchio
per paura che Fedele tornasse e mi sorprendesse in quell'atto. Anche la cornacchia,
senza dimostrare sfiducia per me, tendeva il collo guardando lontano sopra
la mia spalla, come scrutasse un pericolo ignoto: o forse vedeva il pericolo
in me, e fingeva per salvarsi.
Infatti io avevo desiderio di prenderla e buttarla dalla finestra nel cortile.
Nel cortile i ragazzi della portinaia avrebbero pensato loro a farne scempio:
il pensiero però di destare la loro curiosità e le conseguenti
chiacchiere mi trattenne. Tuttavia cercai di afferrare la cornacchia, ma dovetti
ritirare la mano per evitare una beccata; tentai di prenderla di sorpresa,
per di dietro; essa si volse subito, allungò il collo, mi beccò forte
le dita. Sdegnata le diedi un colpo sulla testa: essa parve sghignazzare, oscillò sul
bastoncino, cadde sbattendosi sul pavimento, si sollevò di scatto e
cominciò a svolazzare qua e là come una farfalla ferita.
Allora pensai con terrore a Fedele, come s'egli fosse il padrone ed io la serva
colpevole. - Adesso, se ritorna e ci trova così! - pensavo correndo
dietro la cornacchia col vano proposito di riprenderla e rimetterla su. Impresa
più difficile non mi era mai capitata: l'uccello mi svolazzava spaurito
davanti; e alle mie preghiere false, di lasciarsi prendere, per il suo bene,
e infine alle mie maledizioni rispondeva con dei cra cra rauchi
e beffardi che mi impaurivano. Finalmente trovò da rifugiarsi nell'angolo
dietro la colonna del forno a gas, e per quanto mi piegassi e cercassi di scovarla
non uscì più di lì. - Va bene, benone anzi, - dissi ad
alta voce, passeggiando furiosa su e giù per il corridoio dall'uscio
della cucina alla porta d'ingresso, - così quando quel mascalzone torna
darò la colpa a lui se l'uccello gira liberamente per la casa; e sarà una
migliore scusa per licenziarlo.
Se Fedele fosse rientrato in quel momento avrei forse dato ascolto ai miei
rabbiosi propositi: ma egli non rientrava. Era già passata l'ora ed
egli non rientrava. Forse, come certe serve maleducate, se n'era definitivamente
andato. Questo timore mi calmò; e quando egli rientrò non gli
feci osservazione alcuna. Anche lui non mi disse nulla, a proposito della sua
uscita; più tardi, mentre io lavoravo nello studio, venne a domandarmi
alcuni ordini per la sera, e vidi che si chinava premuroso a togliere un filo
dal tappeto.
Tutto questo mi rassicurò. Rinunziai anch'io ad uscire, decisa di fingere
di dimenticare la scena della mattina.
La sera scendeva triste e scura: il vento soffiava con violenza, velando col
suo rumore i rumori della città. Nessuno venne a trovarmi, quel giorno,
perché io non avevo amici abbastanza affezionati da ricordarsi di me
anche nelle cattive giornate: né io me ne dolevo. I miei veri amici,
in quel tempo, erano i libri belli; e di questi ne possedevo molti. Quando
le lampade furono accese ripresi dunque a rileggere Anna Karenine:
i casi di questa infelicissima donna, che mi avevano sempre interessato come
quelli di una persona di mia conoscenza, quella sera mi lasciavano indifferente.
Il rumore del vento richiamava la mia attenzione; e mi pareva di veder giù nella
strada correre la gente, gli uomini tenendosi fermo il cappello in testa e
le donne con le vesti svolazzanti: qualcuna di esse, forse, correva nella bufera,
verso l'amore e verso la morte, come l'eroina del mio libro. E il ricordo di
quel terribile senso di solitudine, ch'ella prova durante la sua ultima passeggiata,
quel senso di vuoto e d'inutilità della vita anche se felice, mi tornava
al pensiero: quante volte, senza aver amato e sofferto, o appunto per questo,
avevo pure io sentito qualche cosa di simile!
E anche quella sera mi sentivo sola, nel vento, come in cima a una torre sopra
un luogo deserto, e intorno a me fino ai limiti estremi della vita non vedevo
che vuoto e desolazione.
Fedele è uscito per comprare i giornali della sera e fare altre spese:
io sono di nuovo curiosa di vedere dove ha messo la cornacchia, e furtivamente
ritorno nella cucina. Non accesi la luce, poiché le persiane erano aperte
e non volevo che per caso egli rientrando dal cortile vedesse la finestra illuminata.
Del resto ci si vedeva ancora, e al barlume lontano del crepuscolo distinsi
la cornacchia sul suo bastoncino, immobile, con la testa un po' piegata e gli
occhi socchiusi. Dormiva. Dormiva appoggiata su una zampa sola: l'altra la
teneva sospesa, semi-nascosta fra le piume del ventre: e tutto il suo aspetto,
nella penombra, era così dolce e timido, così triste di abbandono
che uscii in punta di piedi per non svegliarla.
Si era verso la fine dell'inverno, e quelle giornate di vento si ripetevano
spesso; ma era un vento caldo, il vento dei pollini, che portava fin lassù nella
nostra casa un alito di terre lontane già fiorite. Fedele poi ogni due
giorni rientrava con fasci di fiori comprati al mercato, e mi diceva che costavano
poco. Insomma tornava il bel tempo, e il mio cuore non si era ancora tanto
indurito da non risentirne una certa gioia.
La domenica seguente a quel giorno dello scontro in cucina, Fedele, che aveva
il diritto di alcune ore di libertà, uscì appena ebbe rigovernato.
Non disse dove andava: io avevo sempre l'impressione che si cercasse un nuovo
servizio, ma nel frattempo non osavo chiedergli nulla. Si era quindi più che
mai in armistizio.
Anche quel giorno soffiava il vento, ed io non sentivo desiderio di uscire:
mi annoiavo però: le giornate si erano tristemente allungate, e fin
lassù, nonostante il vento, si sentiva la città rumorosa insolitamente
sfaccendata, la esasperante città domenicale.
Dopo aver fatto cento inutili cose, esco per caso nel corridoio, ed ecco vedo
una strana creatura venirmi incontro confidenzialmente, anzi con una certa
curiosità. Era la cornacchia. Fedele aveva dimenticato l'uscio della
cucina aperto ed essa era scesa dal suo rifugio ed esplorava la casa. Non ebbi
il coraggio di scacciarla: veduta così per terra era graziosa, quasi
bella: rassomigliava a una pollastrina nera senza la cresta. Arrivata davanti
a me cominciò a beccarmi la punta delle scarpe, poi ne tirò i
lacci come volesse scioglierli: questo mi divertì. Feci alcuni passi
e lei mi seguì coi suoi passetti silenziosi: mi piegai per prenderla,
e lei indietreggiò, non come la prima volta però, nemica e selvaggia,
anzi quasi scherzosa, aprendo un poco le ali mozze e con quello strido di gioia
che usava quando Fedele le porgeva il braccio per salirvi su.
Il desiderio di prenderla mi vinse. Mi piegai ancora di più inseguendola
fino all'angolo del corridoio e parlandole come a un bambino capriccioso: e
con mia grande meraviglia, anzi, adesso posso confessarlo, con improvvisa commozione,
sentii sulla mia mano le sue zampine fredde.
Quando mi sollevai, con lei afferrata al mio polso, ero un'altra donna. Quelle
zampine fredde sulla mia calda carne mi riattaccavano a un mondo che da molto
tempo avevo dimenticato. La natura umana, con tutti i suoi istinti di tenerezza
per ciò che è piccolo, che ha bisogno di protezione e di aiuto,
e solo per questo si fa amare, poiché l'uomo vero ama negli altri quanto
vi è di buono e di grande in lui, si ravvivava in me.
Accostai il viso alla testina della cornacchia: ed essa mi beccò lievemente
il lobo dell'orecchio. Anche lei seguiva il suo istinto, che era in fondo malvagio;
ma pareva lo frenasse nel sentire il calore di affetto che oramai l'avvolgeva.
La portai davanti ai vetri della finestra chiusa: vi beccò subito un
moscherino solitario che ingoiò vivo, poi allungò il collo, piegò la
testa da un lato, e con un occhio solo fissò il cielo. E l'occhio, che
nella penombra era verde, si rifece azzurro.
Si stette così qualche tempo. Io non osavo accarezzarla perché ad
ogni mio tentativo del genere sbuffava e si rivoltava per beccarmi la mano,
ma la guardavo come una cosa straordinaria. E lei, se io stavo ferma, pareva
non accorgersi neppure di me: ferma sul mio braccio caldo come sul ramo di
un albero fissava il cielo volgendo e rivolgendo la testina in su. E pareva
ascoltasse il rumore del vento, forse ricordando il mormorio degli alberi della
selva dove era nata.
Così cominciò la nostra amicizia segreta. La riportai sul suo
bastoncino, e osservai che sopra la credenza c'era un vasetto con dentro della
pasta minuta, e un altro vasetto alto pieno d'acqua: immaginai fossero destinati
a lei e infatti, nel vedermi a toccarli, essa aprì le ali e si protese
in avanti. Mi parve un segno di grande intelligenza; o forse era già un
segno di debolezza mia verso di lei. Ad ogni modo le accostai il vasetto con
la pasta e lei vi beccò dentro avidamente: pure avidamente bevette,
sollevando dopo ogni sorso la testa e schizzandomi l'acqua sulla mano: quando
fu sazia afferrò a tradimento col becco l'orlo del vasetto e tentò di
rovesciarlo: poi si scosse tutta e, con le piume della testa dritte e gonfie,
mi guardò severa. Questa era la sua gratitudine. Io mi divertivo: raccolsi
qualche granellino di pasta caduto per terra, e rimisi ogni cosa a posto, per
cancellare le tracce del mio passaggio, poi feci appena a tempo ad andarmene
perché Fedele rientrava.
E nella notte mi sorpresi a pensare alla cornacchia: mi pareva di vederla dormire
su una sola delle sue zampe di corallo nero, con gli occhi socchiusi a sognare,
in quel suo melanconico esilio, le macchie e gli acquitrini dove l'avevano
presa e le sue compagne con le lunghe code e le ali possenti volano a stormi
alte sul cielo solitario. Sentivo compassione di lei.
- Se la teniamo qui, vivrà anche lei senza gioia e senz'amore.
Anche lei. Poiché ricordavo bene i miei lunghi anni vissuti
senza amore e senza gioia.
- Le faremo crescere le ali e la coda e in primavera la lasceremo volare, in
cerca del suo compagno.
Non so perché mi figuravo fosse una femmina: forse per concatenazione
d'idee. E non sorridevo di me stessa, no: anzi provavo un senso di gioia nel
ritrovare in fondo al mio cuore il filo spezzato della poesia.
Questo filo si riallacciò stranamente, per opera dunque di una cornacchia.
Una pianticella, un ragno, un uccellino, bastano per rallegrare la solitudine
di un prigioniero, di un eremita. Il pane che il corvo portava al profeta Elia
era forse, nel pensiero di chi scrisse l'episodio, il nutrimento di vita, vale
a dire di amore, necessario anche agli uomini che credono di poterne fare a
meno.
Io conoscevo molta gente ma non amavo nessuno perché credevo di avere
abbastanza esperienza per non illudermi sull'amore degli altri. Lo stesso Fedele
brontolava quando invitavo gente a pranzo o davo qualche ricevimento. Una volta
mi disse: - Provi a non dar loro né da mangiare né da bere e
vedrà che nessuno ritorna -. Era probabile che anche la cornacchia,
pure dandole da mangiare e da bere, non si affezionasse a me: eppure sentivo
di volerle bene.
Quando il giorno dopo Fedele uscì per le spese, andai a visitarla. E
attraverso il corridoio scuro sentii d'un tratto che il bel tempo tornava.
La cornacchia cantava. Era un vociare aspro, con fischi e lamenti, ma aveva
un tono infantile, come il canto di un monello che per attirare nella rete
gli uccelli di macchia ne imita i sibili e i richiami.
La primavera entrava nella mia casa, con quel canto selvaggio.
Quando mi vide, la cornacchia sollevò le ali e si protese tutta verso
di me: dunque mi riconosceva. Eppure rifiutò il cibo che le porgevo.
Accettò invece di venire sul braccio, e cominciò a beccare i
bottoni della mia veste, e sulle falde di questa mi regalò una goccia
di mastice per nidi! In cambio accettò per la prima volta, ma sbuffando
e ritraendosi, una carezza sulla testa. Mai ho sentito una cosa più morbida
delle sue piume vive: e quella testa che pareva grossa e nella minaccia lo
diveniva ancora di più, era piccola come una nocciuola, attaccata alla
cordicella finissima del collo flessibile. Istintivamente allora le diedi un
nome, che la distingueva nettamente dalla Chia di Fedele.
Chia era la cornacchia di Fedele: la mia la chiamai Piccolina.
Si accorse Fedele di tutto questo?
Se ne accorgesse o no mi pareva di non curarmene; ad ogni modo ero certa che
egli non me ne avrebbe mai fatto cenno né rimprovero. Altre cose mie,
altre debolezze, altre vicende della mia vita egli conosceva, e a sua volta
non se ne curava. In fondo ci si rassomigliava, in questo, nella perfetta
indifferenza per i fatti altrui, anche se questi fatti ci riguardavano indirettamente.
Tutto era sopportato e scusato purché non ci si toccasse nel nostro
interesse.
Così ero pure certa che l'avrei più molestato col far palesi
le mie visitine alla sua cornacchia che col fingere di essermene completamente
dimenticata. Un giorno però lei stessa fu per turbare il nostro tacito
accordo.
Io stavo a lavorare nello studio: nonostante lo strepito della strada, al quale
del resto ero così abituata che non lo sentivo più, il silenzio
dentro era tanto profondo che mi colpì un piccolo suono strano all'uscio
del salotto precedente; era come se un bambino vi raschiasse lievemente con
una punta acuta. Incuriosita vado a guardare e vedo la cornacchia che appena
socchiuso l'uscio allunga il collo e mette dentro la testa col proposito fermo
di entrare nel salotto. Come sempre, la sua presenza mi desta un senso di sorpresa
e di allegria, per non osar dire di gioia. Quest'essere selvatico, quest'uccello
di rapina, carnivoro e ladro, che gira tranquillo per la casa, curioso e petulante,
bisognoso di compagnia, mi dà sempre l'impressione di un essere misterioso
la cui affinità e la distanza con noi non riusciremo mai ad esplorare.
Fu un uomo un giorno? Ladro e feroce fu condannato a rinascere nell'uccellaccio
delle paludi: eppure conserva gli antichi istinti della casa e il bisogno di
riavvicinarsi all'umanità. E stavo per aprire di più l'uscio
quando sentii il fruscio particolare del passo di Fedele in fondo al corridoio.
Rapida e silenziosa come lui chiusi e ritornai al mio posto.
La domenica seguente aspettai che egli uscisse, per andare a vedere la cornacchia.
Di nuovo era cattivo tempo e lei doveva sentirlo perché se ne stava
melanconica e intirizzita, sebbene nella cucina facesse caldo. O forse sentiva
la sua solitudine. Nel vedermi, infatti, si rianimò. Beccò, senza
avidità, anzi quasi svogliatamente i granellini di pasta che le porgevo
nel cavo della mano, scegliendo quelli più piccoli che si nascondevano
fra le mie dita, e rifiutò di bere. Ad ogni granellino che ingoiava
sollevava la testa e mi guardava. Pareva volesse dirmi: lo faccio per compiacerti,
ma desidero sapere che cosa vuoi da me.
Il contatto del suo becco quando frugava fra le mie dita mi faceva piacere.
Ecco, pensavo, potrebbe beccarmi e strapparmi la pelle e invece pare mi accarezzi:
dunque mi vuole già bene.
- Piccolina, - le dissi, parlandole come si fa coi bambini, - è vero
che mi vuoi bene? Siamo tutte e due sole, disarmate e lontane dal mondo: sole
sole peggio che nella foresta. Piccolina, vuoi darmi un bacio?
Sorridevo di me stessa e sentivo di essere un po' rimbambita; e non scambiai
certo per un bacio la lievissima beccata che Piccolina mi diede al labbro inferiore,
ma la scambiai per un segno di intelligenza o almeno di simpatia.
- Andiamo, - le dico porgendo il braccio, - tu sei curiosa e voglio soddisfarti.
Voglio farti visitare tutta la casa -. Lei mise una dopo l'altra le sue zampe
sul mio braccio e si lasciò condurre. - Cominciamo di qui, dalla sala
da pranzo.
La sala da pranzo era la stanza più simpatica della casa: mobili antichi,
in quercia; vecchie maioliche, pesanti argenterie di grande valore. La vetrata
di cristalli gialli la rallegrava: pareva ci fosse anche nei tristi giorni
il sole.
Piccolina allungava il collo e guardava di qua, di là, sotto e su, veramente
curiosa e con interesse. Nessuno mai dei miei invitati aveva osservato con
tanta franchezza la mia sala da pranzo. Peccato che lei si permettesse di lasciare
di tanto in tanto cadere, con naturalezza senza esempio, la solita goccia di
mastice; ma io aveva provveduto a questo mettendo sotto il braccio che la sosteneva
un pannolino come si usa coi bambini innocenti.
Così si fece il giro di tutto l'appartamento: arrivate nello studio
lei parve infinitamente sorpresa per la grande abbondanza di carte che vi si
trovava: i suoi sguardi di traverso, anche di sopra della mia spalla, i suoi
allungamenti di collo, il volgersi e rivolgersi della testa, non finivano mai.
Quando poi la deposi sull'ampia tavola da studio diede quel suo caratteristico
strido che pareva uno strillo di gioia. E dapprima saltò sopra un giornale
e parve leggerne il titolo; poi lo beccò producendo un rumore secco
sul legno sotto, e lo afferrò, lo trascinò qua e là finché,
nonostante la mia impotente difesa, non lo ridusse in minutissimi brani.
- Adesso Fedele, adesso stiamo fresche - io gridavo rincorrendola. Ma in fondo
mi divertivo.
Fu quella sera che Fedele rientrò tutto stravolto in viso, con gli
occhi lagrimosi e i denti serrati.
Alle mie domande rispose che aveva preso freddo.
- Procurerò di sudare, questa notte: domani sarà tutto passato
- disse.
Infatti si alzò all'ora solita, accudì alle faccende solite e
uscì a fare la spesa. Il tempo era orribile: il cielo bianco e basso
dava un senso di tristezza funebre: ed io provai un presentimento di sventura.
Fedele rientrato dalla spesa lavorava in cucina: tutto intorno era pulito e
in ordine come sempre; solo osservai che egli non aveva rinnovato i fiori nel
vaso della tavola da pranzo; però mi guardai bene dal rimproverarlo,
quando venne a servirmi la prima colazione. Era livido in viso e stringeva
i denti.
- Fedele - dico io quasi sdegnata. - E perché non sei rimasto a letto?
Tu sei malato.
- È un po' di freddo, passerà: prenderò adesso un po'
di aspirina.
L'aspirina parve fargli bene: all'ora solita mi servì la seconda colazione,
poi riordinò la cucina e mi chiese il permesso di mettersi un po' a
letto. Più tardi mi si ripresentò tutto vestito per uscire, ma
col viso rosso per la febbre e gli occhi lucenti.
- Ascolti, - disse, umile e fermo, - io vado fuori a farmi visitare qui nella
clinica accanto. Ho un dolore al fianco; è certo un reuma: è meglio,
però, assicurarsi. Non s'impensierisca se tardo: se mi permette telefonerò dalla
clinica: intanto per questa sera c'è tutto pronto. Le manderò poi
su la Lauretta che si incaricherà di portar via la cornacchia.
Io cerco invano di oppormi: lo afferro anche per il braccio e lo supplico di
restare. Farò venire il medico, farò venire un infermiere; lo
curerò io. Invano. Egli andava verso la porta come uno che è aspettato
in qualche posto e deve assolutamente non mancare: la sua sola preoccupazione
era di assicurarmi l'intervento di Lauretta, la figlia del portiere, che spesso
ci rendeva servizio. E se ne andò quasi ruvidamente, senza guardarmi,
senza salutarmi.
L'anima nostra ha momenti di chiaroveggenza terribili. Io sento, nel momento
che Fedele tira dietro a sé la porta, che egli mai più rientrerà in
casa nostra. Sì, nostra, poiché quella casa
apparteneva tanto a lui che a me. Ebbi desiderio di uscire sul pianerottolo,
di guardarlo a scendere le scale, come si fa con una persona cara che parte:
il pensiero del suo giudizio malevolo mi trattenne. Allora mi aggirai smarrita
per la casa. Sopra tutto il pensiero delle difficoltà materiali che
l'assenza di lui mi procurava, pareva destasse il mio turbamento: chi pulirà più così accuratamente
le stanze, chi mi servirà puntualmente i pasti? Io ero la negazione
assoluta di tutto ciò che è donnesco: e diffidavo profondamente
delle altre donne, specialmente quelle di servizio. La speranza che Fedele
tornasse era il mio solo conforto; ma la sentivo fallace.
Egli non era forse arrivato ancora alla clinica che già mi disponevo
a telefonare domandando notizie: il timore di diminuirmi ai suoi occhi mi trattenne
di nuovo.
Ed ecco suonano alla porta. La sola idea che sia lui, che tutto ritorni nell'ordine
di prima, mi fa sobbalzare di gioia. È Lauretta, invece, che già viene
a domandarmi se mi occorre qualche cosa. È una buona e allegra ragazza,
spesso afflitta da dispiaceri amorosi: ad ogni sua delusione segue però una
nuova illusione, e l'amore per lei non è che questione di scelta: cambiano
i fidanzati ma l'amore è sempre lo stesso.
- Per il momento non ho bisogno di nulla - le dico senza lasciarla entrare.
- Se puoi vieni verso sera -. E ho desiderio di chiederle che cosa ne pensa
della malattia di Fedele: lei stessa mi previene, con una smorfia di poca speranza.
- Poveraccio: aveva un brutto aspetto. Speriamo che se la scampi; ma la peste è di
nuovo in giro, e lui lo sa. E adesso mi consegni la cornacchia.
La cornacchia? L'avevo completamente dimenticata. La cornacchia? Perché sento
un lieve calore alla fronte? Abissi dell'anima nostra! Il pensiero che l'uccello
adesso è tutto mio, che finalmente posso allacciare la mia infinita
solitudine alla selvaggia solitudine sua, mi rende quasi contenta che Fedele
sia andato via.
- La porterai via più tardi - dico alla ragazza: e sento che le parlo
così per vergogna di me stessa, per nasconderle il mio disumano sentimento.
Desolato e nero il giorno moriva sopra la città fangosa che per il contrasto
pareva rumoreggiasse più del solito, ma di rumori meccanici, come una
grande macchina in rotazione.
Anche il silenzio della mia casa veniva interrotto da squilli frequenti. Il
telefono era in contatto con quello di un ufficio d'avvocato, e tutto il corridoio
tremava per le incessanti chiamate. D'altronde non volevo togliere la comunicazione
in attesa di notizie di Fedele.
A questa continua vibrazione metallica rispondeva quella dei miei nervi scossi:
mai mi ero sentita più sola e senza aiuto in mezzo alla grande città ove
pure gli uomini possono comunicare fra di loro anche senza muoversi dalla loro
camera, e gli uni sono legati agli altri dai fili infrangibili della civiltà:
a me pareva di essere entro una rete, come gli uccelli nei giardini zoologici,
segregata oramai dall'umanità. E l'ombra della morte che minacciava
il servo si allungava fino a me, si stendeva su tutta la casa, coi veli neri
della notte.
Accesi tutte le lampade: ma sotto quella luce anch'essa fredda e senz'anima
la casa mi parve ancora più funebre: era come una casa rimessa in ordine
dopo che vi è stato portato via un morto. E quel morto, lo sentivo bene,
era tutto il mio passato.
Lo squillo atteso risonò infine, e mi parve ancora un segno di vita.
- Pronti, pronti, sono Fedele. Mi hanno visitato: ho un principio di polmonite,
ma non è niente; fra due o tre giorni è risolta. Resto qui;
ho preso una cameretta a pagamento; il letto ha il numero undici. Non si
preoccupi. È venuta Lauretta? Lei come sta?
La sua voce era un'altra, quasi giovane, quasi famigliare. Non l'avevo mai
sentita e mi sembrava quella di un estraneo, tanto che volevo chiedere, all'uomo
misterioso che mi parlava, notizie precise di Fedele.
- Io sto bene, - dissi, - solo mi dispiace che tu non sii rimasto a casa. Domani
mattina verrò a vederti.
- Non si disturbi. Farò telefonare dall'infermiera. È venuta
Lauretta? - ripeté con insistenza. Poi tacque. Sentii che tossiva: la
voce ritornò la sua, bassa e umile e come logorata dal tempo: - Si ricordi
di far chiudere le persiane: si faccia far tutto da Lauretta.
- Sì, sì, non ti preoccupare. Cerca di guarire presto. Buona
notte.
- Buona notte, signora.
Solo dopo che la comunicazione fu tolta mi parve di aver dimenticato di dirgli
qualche cosa. Ah, la cornacchia. Ne ebbi rimorso, e fui per riattaccare discorso:
ma di nuovo quel senso di distanza che era fra noi, - poiché speravo
ch'egli guarisse e tornasse, - mi allontanò da lui.
La mattina dopo andai a trovarlo.
Era una clinica quasi di lusso, quella dove egli si rifugiava, quieta e circondata
di giardini: una specie di pensione per malati, la presenza dei quali non si
sarebbe avvertita senza il passare silenzioso delle infermiere vestite di candidissimi
camici, e quell'odore lugubre di disinfettanti che desta il pensiero della
morte.
Ed io recriminavo ancora una volta i gusti spenderecci di Fedele, che accumulava
i suoi risparmi e poi li buttava via in un momento, quando pensai che forse
era entrato in quel luogo con la certezza di starci poco...
L'infermiera che mi condusse da lui rispose con una smorfia d'indifferenza
alle mie domande: pareva non sapesse, o neppure si curasse di sapere di che
malattia si trattava.
La prima cosa che mi colpì, entrando nella cameretta dov'ella m'introdusse,
fu un pesco fiorito che rosseggiava sullo sfondo della finestra grande quanto
la parete. Da quanto tempo io non vedevo un pesco fiorito! Tutta la mia fanciullezza
mi riapparve lì; e nello stesso tempo ebbi l'impressione che fosse stato
Fedele a prepararmi quella sorpresa per distogliermi dal guardare il suo lettuccio
bianco, nel centro della camera bianca e nuda come un sepolcro, col cartellino
numerato che cambiava un uomo sofferente in una cifra, come nelle prigioni;
il suo povero corpo che sotto la coperta banale e le lenzuola ruvide appariva
più grande del solito, quasi gonfio e allungato; e sopratutto il suo
viso macchiato di lividori, già percosso dallo staffile della morte.
Neppure lui s'illudeva: anzi cercai d'illuderlo io.
- Mi pare che non stai male, Fedele. Sei rosso e fresco.
Egli mi guardò, di sotto in su, e i suoi occhi severi, con quello sguardo
già lontano che fissava qualche cosa di lontano, di là della
mia persona, mi ricordarono quelli dell'uccello.
- Lauretta è venuta? - domandò riprendendo il filo della sua
sola preoccupazione.
- È venuta; ha fatto tutto. È svelta e intelligente, quella ragazza:
non credevo.
Egli lo sapeva già, quindi non fece osservazioni: anzi parve lievemente
contrariato, come ingelosito. Che passava nell'anima sua già coperta
di nebbia? Forse vedeva Lauretta al suo posto, nel luogo dov'egli aveva lasciato
la parte migliore della sua vita, e ne provava dolore.
Non disse nulla: non mi domandò neppure della cornacchia: pareva se
ne fosse dimenticato. Ma quando io, accostando la sedia per sedermi accanto
al suo letto, dissi che non avevo permesso a Lauretta di portarla via, si animò lievemente.
Di nuovo parve contrariato.
- Perché? - domandò scuotendo la testa sul guanciale. - Sporca
troppo.
- Ma no, poverina: se ne sta tranquilla sul suo bastoncino, sopra la cassetta
aperta. Le ho dato io da mangiare e da bere; non ti preoccupare. Dimmi piuttosto
cos'è che ti senti. Che dice il dottore?
- È la polmonite; null'altro. Passerà.
- Passerà - ripeto io con fiducia. Ma l'aspetto di lui non mi piace.
Adesso egli è calmo, rassegnato: non ha tosse e neppure difficoltà di
respiro: i suoi occhi guardano verso la finestra, senza vedere il pesco fiorito,
come aspettando di là un segno misterioso; ma questo suo raccoglimento,
questa sua indifferenza per me e per le cose che gli vado stentatamente dicendo,
e sopratutto il calore intenso che si spande dal suo corpo come se dentro tutto
gli si arda e consumi, mi preoccupano più che se egli si agitasse e
lamentasse.
Solo quando accennai ad andarmene e gli chiesi se aveva bisogno di nulla, se
dovevo regolare io i conti con la direzione della clinica, si agitò alquanto.
- No, no, - disse con voce sibilante: - è tutto regolato. E lei non
si agiti, non torni.
- Sei tu che ti agiti; sta quieto - gli risposi, mettendogli una mano sulla
testa. - Se ti dispiace non torno, no.
Egli fremeva tutto; non replicò, e al tocco della mia mano parve a poco
a poco calmarsi. E io mi avvidi che chiudeva gli occhi per nascondere le sue
lagrime.
Diedi una buona mancia all'infermiera, perché lo trattasse bene, avvertendola
di telefonarmi di tanto in tanto per darmi notizie. Domandai anche di parlare
col dottore: ma il dottore a quell'ora non si poteva avvicinare.
Avevo stabilito di mangiar fuori, quella mattina, anche per distrarmi: nella
strada però mi parve di ricordarmi che qualcuno mi aspettava, a casa:
qualcuno che era solo e aveva fame e sete e forse soffriva per l'abbandono
completo in cui veniva lasciato.
Piccolina! Una tenerezza improvvisa mi riassale, per lei, come si tratti di
un piccolo essere umano affidato ormai alle mie cure.
Compro qualche cosa da un rosticciere e torno a casa. La casa ha un odore di
chiuso, di morto; ma nell'attraversare il corridoio sento lo strido della cornacchia,
che ha riconosciuto il mio passo, e mi pare un grido di vita.
Si sollevò tutta, nel vedermi, aprì le ali; ed io la presi con
me alla mia tavola e mangiai con lei, parlandole infantilmente. Le racconto
la mia visita al suo amico, le confido le mie speranze e i miei timori: essa
becca nel mio piatto e beve nel mio bicchiere, tentando poi di rovesciarlo:
non le importa nulla di quanto le dico; è piuttosto curiosa di sapere
che cosa contengono gl'involtini da me deposti sulla mensa, e tenta di slegarli;
si diverte col tappo della bottiglia e s'impunta a forarlo col becco: si allunga
tutta verso la lampada, guardandola bene in giro, e tende l'orecchio al battito
eguale della pendola: quando io verso l'acqua nel bicchiere lei introduce il
becco nel collo della bottiglia e beve; forse ricorda la sorgente nel bosco:
tutto la interessa fuori che le mie inquietudini. Eppure io non mi sento più sola,
con lei, e la sua compagnia basta per attenuare la mia tristezza.
L'infermiera, nonostante la buona mancia, anzi avendola già ricevuta,
non telefonava: ed io non domandavo notizie per orgoglio. Orgoglio di che?
Di tutto e di nulla. Si può sapere chi è superiore e inferiore
a noi? Noi stessi: ed è di fronte a noi stessi che noi ci si umilia
e ci si esalta. Verso sera tornò Lauretta e mi domandò notizie
di Fedele: e parve rallegrarsi sinceramente quando le dissi che egli non stava
poi tanto male; aggiunse però:
- Però se lui, Dio non voglia, avesse a morire, verrei tanto volentieri
io, qui da lei. Si sta bene, qui: pare di essere fuori del mondo. Mi vuole?
A dire la verità io avevo paura a star sola, specialmente la notte.
Le dissi quindi che se voleva venire, provvisoriamente, sarei stata contenta.
Ella si mise a ballare per la gioia: poi prese sul braccio la cornacchia, l'accarezzò,
cominciò a dirle frasi d'amore. Eppure di lei non sentivo gelosia: e
i suoi passi di danza, il colore vivo dei suoi capelli e del suo vestito mi
comunicavano un senso di gioia.
Andò giù a chiamare il padre, e col consenso di lui rimase presso
di me.
La mattina dopo si alzò presto, andò a fare la spesa di sua iniziativa,
fece tutti i servizi che faceva Fedele, come una sua scolara; mi contentò in
tutto. Una sola cosa osservai: ella non aveva comprato i fiori, come egli usava.
Ecco dunque risolto il grande problema: con questo di più: che ella
destava in me un senso completo di fiducia, di intimità, di solidarietà femminile.
Non mi dispiacque, infatti, ch'ella entrasse in camera mia mentre mi pettinavo:
cosa che mai avevo permesso a Fedele.
- Se l'infermiera non telefona vuol dire che la malattia segue il suo corso
regolare - penso. Tuttavia nel pomeriggio mando Lauretta a domandare notizie.
Io resto a casa, e mi diverto a portare la cornacchia sul davanzale della mia
finestra. Il tempo s'è rasserenato; un cielo infinitamente grande e
puro si stende sopra la città ancora lievemente assopita in quel primo
calore primaverile. Pare che un velo sia disteso sotto le mie finestre: e i
rumori vi arrivano attutiti, sotterranei; mentre di sopra, nell'aria trasparente,
tutto vibra con armonia. Ed ecco l'uccello si mette a cantare: ma è una
voce nuova, la sua, come di un altro uccello; è quasi dolce, è un
richiamo insistente, squillante, che vuole, vuole, e si meraviglia di non ottenere
quel che vuole e gli è dovuto.
Infine, stanca, Piccolina tace, si abbatte, si arruffa, china la testa e pare
si sottometta a un comando superiore.
- Così è - le dico io, riprendendola sul braccio e riportandola
nel suo angolo melanconico. - È tempo d'amore; ma i tuoi compagni sono
nel bosco e non ti sentono.
Lauretta tornò dalla clinica stravolta e agitata.
- Che luogo, Dio mio, che luogo! Pare bello eppure là dentro si muore. È vero,
dunque, che si muore.
È
vero, sì, e per i giovani il pensiero della morte sarà sempre
inverosimile e inumano; per noi invece che discendiamo la china, la morte appare
come il placido porto ove c'imbarcheremo su una nave meravigliosa. Così le
notizie poco buone di Fedele non mi comunicarono il terrore risentito dalla
fanciulla: ma il mio pensiero rimaneva fisso laggiù,
dove l'uomo arrivava lentamente al porto, mentre lei già aveva dimenticato
la sua impressione e canticchiava ogni tanto volgendosi alla cornacchia per
prodigarle carezze e languide frasi d'amore.
- Ti ha chiesto di lei? - domando io, che contro il solito mi attardo nella
cucina. La cucina è bella, con le sue maioliche bianche, il merletto
verde intorno alla cappa del camino, gli arnesi lucenti che riflettono la lontana
luminosità del cielo. Fedele aveva il culto della bellezza, anche nelle
cose umili: era, nelle sue condizioni, un artista e un aristocratico: e lo
ricordo ancora, in certe sere quando egli indossava il frak, e la sua linea,
il viso un po' duro e angolare, coi freddi occhi verdoni, lo trasformavano
in un qualche gentiluomo nordico venuto misteriosamente fra noi.
- Non mi ha chiesto nulla - dice Lauretta, oscurandosi ancora in viso. - Guarda
sempre verso la finestra e pare non si accorga di nulla.
Più tardi tento di telefonare alla clinica. Prima che l'infermiera risponda
passa un lungo minuto: ed ecco sento il silenzio lugubre della clinica, nella
notte, quando i malati tacciono e le lampade notturne sembrano già vegliare
i loro cadaveri.
Fedele peggiorava: e l'infermiera lo disse a voce alta con la convinzione che
la mia indifferenza fosse pari alla sua.
Il giorno dopo tornai a visitarlo. Non so per quale ragione, forse perché pensavo
di acquistarne per me al ritorno, mi venne in mente di portargli dei fiori.
Poi tirai dritta: non si portano fiori ad un servo: una barriera insormontabile,
accumulata da millenni di odio e di interessi feroci, divide ancora servi e
padroni.
Comprai invece dolci e arance: cose che gli piacevano: ma appena vidi il suo
viso deposi la borsa come una cosa mortalmente inutile.
Eppure il suo viso esprimeva una certa volontà: era ancora il viso duro,
angolare, con gli occhi verdoni, dei quali la pupilla grande e mobile si fissava
su gente sconosciuta, forse odiata, che però bisognava servire in silenzio.
Per un attimo mi guardò: mi riconobbe, ma tosto volse di nuovo le pupille
in là, come già si fosse dimenticato di me, o non volesse più riconoscermi.
L'avevano un po' sollevato a sedere, perché l'affanno era già grave;
egli però non si lamentava, anzi quel suo sforzo di volontà pareva
destato dal desiderio preciso di vincere l'affanno. Le mani, abbandonate sulle
lenzuola, aride e tristi, erano già vinte; e la testa, a un tratto piegatasi
giù, coi capelli grigi arruffati, mi ricordava quella dell'uccello che
dopo aver chiamato invano si sottometteva a un comando superiore.
Chiesi insistentemente di conferire col dottore che curava Fedele. Ero sdegnata:
mi sembrava che non avessero fatto nulla per aiutare e salvare il malato. Il
dottore passava rapido nel corridoio, dando ordini a destra e a sinistra alle
infermiere che entravano ed uscivano dalle camere dei malati e s'incrociavano
come spole. Dovetti andargli appresso, mentre egli, invece di rispondere alle
mie domande, mi chiedeva a sua volta se il malato aveva parenti. Null'altro:
ma da queste semplici parole spirava l'alito della morte.
Rientrai presso Fedele, sedetti accanto al lettuccio: lo guardavo, poi guardavo
il pesco fiorito, dietro i vetri chiusi, con l'impressione confusa che la vita
dell'uomo, spegnendosi, accrescesse quella dell'albero. Oramai che sapevo la
sua sorte mi sentivo quasi tranquilla; ma l'assistere al lento trapasso di
un'anima da un mondo ch'è tutto luce e realtà ad un altro del
quale ancora non conosciamo il mistero, è certamente pauroso e triste.
Eppure m'illudevo ancora: l'aspetto di Fedele non mi sembrava mortale: il suono
stesso della mia voce, mentre tentavo di sottrarre il malato al suo affanno,
parlandogli di cose inutili, mi dava un senso di vita. E fuori la grande giornata
primaverile, il sole che tingeva di sangue roseo i fiori del pesco, i voli
degli uccellini pazzi di gioia, tutto negava l'esistenza della morte. Oh, questa
non esiste finché siamo vivi noi.
Così lasciai la clinica dandomi la speranza che Fedele migliorasse:
il tempo buono aiuta il malato a guarire. Del resto io compivo il mio dovere
verso di lui: se egli moriva non era colpa mia. E s'egli se ne fosse andato,
un giorno, come aveva minacciato di fare, non ci si sarebbe separati lo stesso?
Compro dunque i fiori per me: rientrando a casa sento Lauretta che canta una
canzone d'amore e la cornacchia che imitando il grido del cuculo si crea forse
d'intorno l'illusione della foresta in primavera. Tutti si cerca la gioia dove
meglio si può.
Fedele non aveva parenti. Figlio illegittimo di un'antica cameriera di casa
nostra, che si era illusa di poterlo far studiare, dopo la morte di lei, rimasto
solo e senza mezzi, anche lui era entrato al nostro servizio. Aveva qualche
anno più di me. Ricordo che un giorno mentre la madre mi sorvegliava,
bambina, in un giardino pubblico, egli era arrivato di corsa, con altri ragazzi,
e che tutti assieme, tumultuosi e violenti, mi avevano destato un senso di
paura. Aggrappata alla donna tremavo tutta, finché lei non chiamò Fedele
accanto a noi.
- Vedi, non è niente, sono bambini che giocano. Fedele, sta un po' tranquillo.
Egli aveva messo una mano sulla mia spalla: ansava per la corsa e la lotta
coi compagni, ma la voce era buona, dolce.
- Ma no, piccolina, perché devi aver paura?
Nel pomeriggio telefonarono dalla clinica: Fedele stava meglio e desiderava
vedermi. Dio sia lodato; sì, durante tutta la giornata mi ero sentita
serena, con l'impressione che una gioia, invece che un dolore, dovesse attendermi.
E quello stesso desiderio di Fedele, che durante le mie visite s'era mostrato
indifferente e quasi infastidito di me, mi confortava.
Egli stava ancora seduto sul letto, e questa volta i suoi occhi mi vennero
incontro, ma opachi, quasi neri, con già dentro l'ombra del mistero:
e fin dalla soglia sentii l'affanno che egli non reprimeva più. Pareva
avesse corso a lungo, follemente. Mi ritornò l'immagine di lui ragazzo
e la mia paura e il sollievo della sua voce.
Sedetti al solito posto: il piccolo spazio fra me e il letto mi dava un senso
di angoscia, come un abisso. L'infermiera stava dall'altro lato, ferma, in
attesa, quasi pronta a raccogliere e portar via l'anima che come un fiore stava
per sbocciare sulla bocca del morente.
Ma egli forse voleva che altri cogliesse e portasse via questo fiore, perché allungò la
mano col dorso in su, facendo atto di scansare la donna. Anch'io le accennai
di andarsene: ella obbedì.
- Fedele, - domandai sottovoce, - hai da dirmi qualche cosa?
Egli non poteva parlare per l'affanno: rovesciò la testa sui guanciali,
chiuse gli occhi e aprì la bocca, come chi è molto, molto stanco.
D'impulso, io gli afferrai la mano, per trattenerlo, ma anche per sostenermi.
Avevo paura, ed egli lo sentì. Sollevò la testa, sorpreso, e
la sua mano rispose alla mia stretta.
- Piccolina... - mormorò, ma come fra sé. Ed io ebbi l'impressione
che egli avesse l'abitudine di pronunziare spesso, anche senza volerlo, quella
parola.
Sulle prime pensai che chiamasse la cornacchia: ma no, egli non le dava quel
nome. A chi dunque lo dava?
- Fedele! - gridai spaventata. Egli teneva ancora gli occhi aperti, con la
pupilla che andava in su, in su, finché scomparve. Era l'anima che se
ne andava.
Nella sua camera abbiamo trovato i libri dei conti: null'altro. Ma in questi
libri non appare mai il conto dei fiori ch'egli comprava quasi tutti i giorni.
Questo è l'unico segno che un'anima vera e viva è passata accanto
all'arida e meccanica anima mia.
E anch'io gli ho portato i fiori al cimitero: ma egli non li sentirà come
io non ho sentito i suoi.
E il tempo passa, e facilmente si dimentica chi non si è amato.
Lauretta, quasi felice per la scomparsa di lui, canta, ride, mi ruba nella
spesa, si fa amare da me e dalla cornacchia che le salta continuamente sull'omero
e le becca lievemente e come con delizia i peli biondi della nuca e delle orecchie.
Con me invece Piccolina è sempre un po' selvatica, a giorni anche nemica,
e se può mi becca sul serio senza tanti riguardi. Però mi viene
sempre appresso, ed io le voglio egualmente bene, anzi più è selvaggia
e lontana dalla mia natura umana, più mi piace: uccelli di solitudine
tutti e due, uniti da un vincolo inspiegabile d'amore come quello che avvince
uomini in apparenza infinitamente diversi fra loro, eguali in fondo nella loro
essenza divina.
IL NEMICO
La vecchia Marala saliva al paesetto per vendere la sua roba ai villeggianti. E non intendeva venderla per poco, al giorno d'oggi costando parecchio la roba anche ai produttori; ma neppure ad un prezzo d'usura, come fanno gli altri contadini. Poiché lei era donna di coscienza, e per questo, e perché in fondo non aveva bisogno di vendere, si credeva da più di una semplice vecchia contadina. Ma quando la roba si ha, non si deve buttarla; e così lei saliva al paesetto per venderla ai villeggianti.
Sedette un momento sul parapetto della strada, dando le spalle all'abisso selvoso che vi si sprofondava sotto, e guardò questa sua famosa roba della quale era colmo il cestino deposto al suo fianco. C'era di tutto: uova, insalata e altre verdure, frutta, caciole fresche e secche, e polli già pelati. Poiché lei era una donna pietosa che non amava veder soffrire le bestie; e non faceva come gli altri sordidi contadini che legano barbaramente per le zampe, a coppie, gli infelici giovani polli e li portano a testa in giù vivi al mercato; e se non li vendono a peso d'oro li riportano a casa. Lei strozzava e pelava i polli, per portarli ai villeggianti; tanto, era sicura di venderli.
D'improvviso trasalì e ricoprì la sua roba; si sollevò e guardò in su. Le era parso di sentire un bisbiglio, come di gente che sottovoce parlasse male di lei: e un bisbiglio si sentiva infatti, sopra la strada deserta, nel grande silenzio del monte; ma era un soffio di vento che saltando come un daino di macigno in macigno metteva in subbuglio i ginepri e le felci.
Marala riprese a camminare, col cestino fermo sulla testa come un semplice
copricapo. Camminava più diritta di prima, adesso, con la lunga persona
rigida come un fuso, gli occhi fissi in alto ad esplorare la strada. Altre
volte aveva camminato così, con l'impressione, se era buio, che i suoi
occhi fossero lanterne e illuminassero la via da percorrere. Così, badando
ai propri passi, fingendo di non aver paura e pronti a sfuggire agli agguati,
camminano coloro che hanno qualche nemico.
E la contadina credeva di averne uno. Non sapeva chi era, se uomo o donna,
ma era certa di averlo.
Per quanto, ogni volta che andava a confessarsi, facesse con scrupolo l'esame
di coscienza, non le riusciva di aver mai fatto male a nessuno. E non era vanitosa,
non si curava dei fatti degli altri, non domandava a Dio che di vivere e morire
in pace, lavorando, senza peccato: eppure un nemico ce l'aveva, e da lungo
tempo, dagli anni della giovinezza. E in quel tempo si poteva spiegare l'esistenza
di lui: forse era un pretendente respinto, o un vicino invidioso, o un parente
offeso da ragioni d'interesse: forse lo stesso sagrestano che ancora pretendeva
si pagassero alla parrocchia le decime, e le otteneva dai paesani superstiziosi.
E lei era donna di coscienza; ma la sua roba non la buttava via così,
per leggerezza o per paura.
Fatto sta che il nemico si era manifestato più volte, perseguitandola
di nascosto, ma in modo tale che parecchie delle sue cattive azioni ella se
le era legate alle dita.
Ed ecco che ella solleva la mano destra, chiude il pugno che sembra un nodo
di vecchio ramo, e aprendone poi una dopo l'altra le dita comincia a contare.
Dapprima la persecuzione di quando si era fidanzata col ricco mercante di legname
e carbone. Non lo amava: pensava però che col matrimonio, i figli, la
vita agiata, l'amore sarebbe venuto. Qualcuno, il nemico, andò a riferire
al mercante ch'ella aveva già una relazione col cugino, e il ricco matrimonio
andò a monte.
È
vero che tutti sapevano della sua relazione col cugino, e nessuno si meravigliò quando
loro due si sposarono: le maldicenze cominciarono dopo, sempre per opera del
nemico. Il cugino era un bel ragazzo, molto innamorato della moglie ma poco
del lavoro. Marala cominciò quindi a maltrattarlo e a rinfacciargli
che per colpa di lui non s'era sposata col ricco mercante: questi modi, invece
di spingere il marito verso la zappa e il campo, lo spinsero all'osteria. Furono
tristi anni. Ella però avrebbe sopportato cristianamente la sua disgrazia,
senza le mormorazioni della gente: brutte voci correvano sul conto suo; ch'ella
bastonava il marito, che lo tradiva, che lo minacciava di morte. E tutti parteggiavano
per lui, che oltre il conforto dell'osteria aveva trovato quello di qualche
facile donnina pietosa. Così a lei restavano il danno e la beffa.
Al ricordo di quei tempi Marala si ferma in mezzo alla strada, ancora assalita
da un impeto di rabbia e di dolore.
- Era lui, era lui certamente che spargeva le calunnie sul conto mio: era lui
che aizzava contro di me quel disgraziato del mio povero uomo, e ne ha causato
la morte. Perché senza tutte le nostre discordie il mio povero uomo
non avrebbe bevuto fino a morire di un colpo. Lui, lui.
- Lui - gridò, ancora esasperata dal ricordo. E l'eco nascosta nei macigni
le diede ragione. - Lui.
Il nemico.
E qui ritorna alla memoria il mercante di legname e carbone. S'era sposato
anche lui, ma ogni volta che se ne presentava l'occasione, passava, sul suo
bel cavallino sardo da montagna, davanti alla casa di Marala. Voleva farle
dispetto o voleva farle la corte? Tutte e due le cose assieme. E poiché la
faccenda continuò anche dopo la disgrazia del marito, lei, che non intendeva
di essere sbeffeggiata oltre, un giorno affrontò il suo antico pretendente
e lo caricò di male parole.
Senza scomporsi, egli scese di cavallo e la pregò di riceverlo un momento
dentro casa. Voleva parlarle. Aveva modi insinuanti, ed era ben vestito, con
gli orecchini, due catene d'oro e la pistola guarnita d'argento.
Ella lo ricevette. Egli tornò altre volte, anche di notte. Che male
c'era? Ella era libera e poteva ricevere in casa sua anche il frate che passava
per la questua, come infatti lo riceveva.
Ma il nemico stava all'erta. E se per il frate non fiatava, per il mercante
ricominciò a soffiare sul fuoco della calunnia. Ricominciarono le persecuzioni.
Alla moglie del mercante, che s'era mangiata un cocomero di tre chili, vennero
i dolori di ventre: e Marala si vide in casa il brigadiere dei carabinieri
in persona, che la interrogò a lungo: la interrogò circa il veleno
ch'ella doveva aver fornito al mercante per liquidare la moglie.
E per giunta il mercante non si fece più vedere. Chiusa nel suo campo intorno al quale aveva fatto mettere una siepe alta tre metri, Marala lavorava e piangeva. Pregava anche, ma arrivata alle parole del paternostro: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo...» si fermava. Si fermò ancora: ancora sedette sul parapetto della strada, come oppressa dalla stanchezza di tanti anni di solitudine e di umiliazione. E sospirò. Meno male, da quel tempo il nemico l'aveva lasciata in pace. Lei però passava veloce sulle parole del paternostro, senza impegnarsi circa la remissione dei debiti altrui.
Una donna scendeva quasi di corsa la strada. Nel vedere e riconoscere Marala
si fermò d'un botto e si fece il segno della croce.
- Non sono poi il diavolo - disse lei con la sua voce d'uomo.
- Marala! Voi, voi! Io scendevo per cercarvi. E il Signore mi vi manda incontro!
Come non farsi il segno della croce? Marala, Marala, amore santo, ho bisogno
di voi.
- Peccato che non sia un maschio: sarebbe il momento di prendervi, tanto sembrate
innamorata.
La donna le si inginocchiò davanti, le mise la testa quasi fra le ginocchia.
Ansava, e davvero pareva basisse d'amore.
- Marala, mio figlio, che è garzone nel caffè dei villeggianti,
ha commesso una cattiva azione: ha rubato cento lire al padrone, e il padrone
mi ha mandato a chiamare perché le rivuole entro oggi; altrimenti caccia
il ragazzo in prigione. Ho pensato a voi, Marala. So che date denari a interessi...
Marala guardò su e giù per la strada, poi disse ad alta voce:
- Un corno, interessi! Aiuto qualche buon cristiano, quando capita l'occasione
di fare del bene.
- Sì, lo sappiamo: siete una santa donna. Datemi le cento lire.
E poiché Marala la guardava quasi deridendola, l'altra riprese, sottovoce:
- Ve le renderò sabato, quando ritorna mio marito dalla foresta. Vi
renderò cento venti lire.
- Non le ho - disse burbera la vecchia. - Venite più tardi a casa e
vedremo.
La donna si volse verso il cestino della roba, con le mani giunte.
- Non è il cestino col Bambino Gesù - disse allora Marala, ridendo
come una ragazza. - Ho già capito.
- Sì, Marala; datemi la vostra roba: la vendo io e poi vi rendo il cestino.
Cento lire ci si ricavano di certo.
Marala aveva calcolato sulle ottanta lire: dignitosamente disse:
- Oh, se ne ricaveranno anche cento venti. Solo i polli valgono dodici scudi.
Sollevò con religione il fazzoletto che copriva la roba, e toccò con
un dito i polli.
- Vedi, sono grassi, bianchi e teneri come bambini appena nati.
Così Marala si risparmiò la fatica di andare fino alla stazione
dei villeggianti. Ma appena la donna scomparve in alto come divorata dal macigno
mostruoso che si sporgeva alla svolta della strada, ella sentì distintamente
una voce:
- Usuraia.
Si sporse a guardare. Giù nel torrente turchino della valle i pastori
lavavano il gregge prima di tosarlo, e una donna coglieva i frutti di un ciliegio
più rosso che verde. Sembrava il paradiso terrestre, e Marala si sollevò col
cuore in pena. No, la cattiva voce non poteva venire di laggiù. Piuttosto
dall'alto della strada, dai macigni che sembravano grandi diavoli con la barbaccia
verde e le corna di rami secchi. Lassù stava nascosto lui, il nemico.
L'aveva aspettata per anni, in diabolico agguato, e adesso avrebbe ricominciato
la persecuzione.
Un senso di follia le ottenebrò la mente. Nascoste fra i macigni le
parve di sentire a sogghignare le persone alle quali dava in segreto denari
a forti interessi: ma queste, no, non potevano tradirla: erano persone dignitose
che non confessavano di aver debiti.
Gridò infuriata, sfidando i macigni:
- Chi sei dunque, per Dio?
L'eco rispose:
- Io.
E lei sentì che era finalmente la sua coscienza a rivelarle il nome
del suo vero nemico.
IL TESORO DEGLI ZINGARI
La notizia del tesoro ritrovato dagli zingari arrivò anche alla piccola
Madlen, che da settimane giaceva malata nella prima tenda del loro accampamento;
e non l'avrebbe distolta troppo dal suo soffrire senza i particolari misteriosi
coi quali la sorella maggiore l'accompagnava.
- Pare sia stata la vecchia, a sognarselo. Sentiva come un rumore d'acqua,
sotto la testa, mentre dormiva; e vedeva una grande luce. Allora hanno scavato,
lei e il figlio, e hanno subito trovato un vuoto, perché pare che qui
sotto esistano grotte profonde, dove si nascondevano i cristiani e vi seppellivano
i loro morti. Il tesoro è, dicono, dentro un vaso di oro: non si sa
di preciso in che consista, forse in monete, forse in diamanti. A guardarci
dentro, nel vaso, viene un barbaglio che acceca. La vecchia piange e ride;
pare divenuta matta, mentre quel barbone del figlio è più nero
che mai: non parla con nessuno e non si allontana più dalla loro tenda.
- Essi sono i padroni - mormorò Madlen, volgendosi verso la parete di
tela. Pareva infastidita; eppure da quel momento il pensiero del tesoro le
alleggerì il mal di testa e il dolore alle reni che la stroncavano tutta.
Il tesoro, infine, apparteneva a tutti; perché tutto, nella tribù,
era della comunità. Dunque apparteneva anche a lei, e lei doveva rallegrarsene,
o almeno interessarsene. Non che le premesse il valore delle cose contenute
dal vaso: ma il mistero delle cose stesse, e quella luce che emanavano.
Che cosa sarà? Qualche cosa più fulgida degli zecchini, delle
sterline, delle perle false e delle patacche rilucenti che brillano sui corsetti
delle sue parenti e compagne: qualche cosa che non si può fissare, come
il sole. Ma il sole lei era buona a fissarlo, quando stava bene, e dentro il
vaso d'oro lei sola, forse, è capace di guardarci a lungo come dentro
un pozzo senza fondo.
Prima che la vecchia e il figlio lo lascino vedere ci vorrà del tempo,
però. Loro sono i capi della tribù: veramente il capo dovrebbe
essere il figlio, ma è talmente attaccato e ligio alla madre, che la
vera padrona di tutti è lei. Lei tiene la cassa della comunità,
lei impartisce ordini, da lei dipende lo stare in un posto o nell'altro: lei
presiede ai lavori degli zingari magnani e ramai; infine è lei che adocchia
se c'è qualche cosa da prendere nei dintorni e comanda
sia presa, o se la piglia lei senza far chiacchiere.
- Adesso possono anche far venire il dottore a visitarmi - pensava Madlen,
rivoltandosi con dolore nel suo giaciglio. - Io sono stanca, stanca, stanca.
E più che stanca si sentiva infinitamente triste: il pensiero che la
morte poteva dar fine al suo male non le passava neppure in mente: la sua mente,
anzi, era piena di immagini di vita, e questo continuo impotente fantasticare
accresceva la sua stanchezza.
Dall'apertura della tenda intravedeva l'officina primordiale dove gli zingari,
coi calzoni di velluto nero e la camicia gialla o turchina, lavoravano il rame.
I bei paiuoli dalle cupole splendenti, le teglie rotonde che luccicavano al
sole, le padelle fuori d'oro e dentro di argento, le richiamavano continuamente
al pensiero il misterioso vaso ritrovato dai capi della tribù.
Eccola lì, la vecchia, con le mani sui fianchi, alta e dura come una
regina. Dall'ampia sottana rossa pieghettata si slancia la vita sottile circondata
d'una cintura di perline: un fazzoletto verde e viola le stringe la testa serpentina,
e dalle orecchie le scendono, coi lunghi pendenti, due treccioline bianche
con due uncini in fondo. Anche il viso pare tinto con la terra gialla e il
bistro; gli occhi dorati, il naso, le dita adunche, ricordano un qualche uccello
da preda. Va di qua, va di là, osservando tutto, parla con la più giovane
e bella delle zingare, quella che con gli occhi che sembrano finti, di cristallo
nero, legge la sorte sulla palma della mano sinistra ai giovanotti che s'avvicinano
all'accampamento; infine si ferma davanti alla siepe sopra gli orti intorno
e forse osserva se c'è qualche cosa da prendere.
Madlen la segue con uno sguardo fra di ammirazione e di odio. Di lei ha una
grande stima, mista a terrore, perché oltre il resto la sa brava a fare
i sortilegi: ma dal giorno della notizia del tesoro sente anche di odiarla.
Il tesoro appartiene a tutti, perché dunque non lo lascia vedere, almeno
vedere, se non toccare? E perché non spende una delle monete ritrovate,
per chiamare il medico?
- Io sono stanca, stanca, stanca - ripete fra sé Madlen; e chiude gli
occhi per sentire meglio la sua infinita stanchezza.
Le pareva che la sua pelle se ne andasse, attaccata agli stracci che la coprivano;
che le ossa si disgiungessero, e si bucassero come quelle dei morti.
La notte, specialmente, era lunga e tormentosa; anche se i beveraggi di estratto
di papavero e di lattuga, preparati dalla madre, la facevano sonnecchiare.
Sogni terribili le finivano di succhiare il sangue.
E la mattina presto, quando il canto del gallo le faceva intravedere il rosseggiare
dorato del cielo, e gli zingari si alzavano uno dopo l'altro, tutti, anche
i più piccoli, e si sentivano tossire, ridere e starnutare, intorno
ai fuochi che fuori le donne accendevano; e lei sola rimaneva nel suo giaciglio,
straccio fra gli stracci, e la pelle d'orso che la copriva, puzzava e pesava
come ancora grave del corpo della bestia, una tristezza senza conforto le invecchiava
l'anima e il viso. In fondo però la speranza non l'abbandonava. Solo
una mattina provò un primo senso di disperazione. Era il lunedì dopo
Pasqua: svegliandosi dopo una notte più febbrile delle altre, ella sentì qualche
cosa di insolito fuori nell'aria e nel recinto della tribù, e nel crepuscolo
stesso della capanna dove i suoi parenti già si agitavano e qualcuno
anche mangiava e beveva. La pelle d'orso le pareva più pesante del solito,
più repugnante e paurosa, come fosse l'orso vivo; mentre la polvere
sollevata dalla madre nel pulire il pavimento con uno straccio le ricordava
quella delle strade nei caldi giorni di estate e di gioia.
D'un tratto si mise a piangere infantilmente. La madre, che era la sola a curarsi
di lei, e non troppo, le fu sopra, spaurita. Da quando era malata, Madlen non
aveva mai pianto: adesso i suoi stridi parevano quelli di un bambino appena
nato, dolorosi e incoscienti e senza ragione.
- Che hai? Che hai? Ti senti male?
Madlen volse il visetto livido contro il guanciale, sotto la matassa intricata
dei capelli oleosi, e parve vergognarsi del suo pianto. La madre la rivolse
in su, la sollevò, le aggiustò il giaciglio: poi le fece bere
un po' di caffè freddo con acquavite: e credette che la piccola avesse
la febbre, perché toccava con ripugnanza la pelle d'orso e diceva:
- Levami questo, levami questo: ho paura.
- Di che hai paura, piccola stella? L'hai tenuta sempre addosso, e ti piaceva.
Adesso avrai freddo.
- Non vedi che c'è l'orso? - strillò Madlen, con terrore, torcendosi
tutta.
- Va bene, me la metterò io - disse la sorella maggiore, tirando giù dal
lettuccio la pelle calda: e vi si sdraiò subito a pancia in aria come
un gatto al sole.
La madre credeva che Madlen avesse la febbre forte; forse era al termine della
sua malattia e doveva andarsene. Bisognava avvertire la vecchia.
Di solito era la vecchia, che curava i malati; nella sua tenda esisteva un
piccolo reparto farmaceutico, e lei distribuiva continuamente il chinino agli
zingari, e preparava unguenti contro le malattie della pelle: per questo aveva
fama di fare stregonerie.
Fu chiamata presso Madlen: il solo suo entrare maestoso e luminoso nella capanna
fece bene alla fanciulla. Le parve che il sole stesso, coi suoi zecchini scintillanti
e il rosso il giallo il viola dei suoi raggi guardati ad occhi socchiusi, si
affacciasse all'apertura del suo triste covo. E quando le dita sottili della
vecchia, dure e rossastre come i pampini secchi, le toccarono il polso e le
sollevarono le palpebre, rabbrividì tutta.
- Adesso le domando che mi faccia vedere il tesoro. Adesso le dico che è di
tutti; che deve farlo vedere a tutti - pensava con audacia. Ma non osava neppure
guardarla in viso ed anzi aveva paura che quella indovinasse i suoi pensieri.
Dopo aver bevuto un bicchierino d'acquavite offertole dalla madre della piccola
malata, la vecchia andò sull'apertura della tenda e sputò fuori.
- La bimba non ha niente - disse, senza voltarsi. - Piuttosto dovreste metterla
un po' fuori, al sole. Oggi è davvero una giornata di primavera.
Madlen fu rivestita dei suoi stracci e messa fuori, sulla pelle dell'orso
stesa sull'erba, nell'angolo dell'accampamento dove il sole batteva più forte.
Ella volle portare con sé una cosa che teneva nascosta sotto il guanciale,
la sua unica proprietà, uno di quei piccoli specchietti che le donne
tengono dentro le loro borsette, e che al tempo dei tempi, quando correva scalza
con gli altri ragazzi, uno di questi aveva preso alla bella
zingara che leggeva la sorte, e ceduto a lei per un soldo nuovo.
Ella teneva lo specchietto nascosto, per paura che la zingara glielo vedesse;
ma aspettava il momento opportuno per trarlo fuori e servirsene per giocare col
sole.
Il sole era lì, sopra di lei, caldo e buono; la copriva tutta, le penetrava
attraverso i poveri vestiti che pur nella miseria conservavano i colori vivi
che danno gioia agli occhi, le gonfiava le matasse dei capelli come le piume
bagnate degli uccelli quando si asciugano in cima al ramo. Ed ella provava
invero un senso di gioia e di sollievo come devono sentirlo gli uccelli dopo
la bufera: la sua pelle si dilatava e il sole penetrandole fino alle ossa gliele
ricomponeva e riallacciava.
Si stese supina e tentò come altre volte di fissarlo, il grande sole;
ma gli occhi erano deboli: li chiuse e le parve che l'azzurro vivo del cielo
le coprisse il viso come una stoffa di seta. E sotto questa meravigliosa coperta
si addormentò.
Questa cura le giovò meglio che se avessero chiamato il più famoso
dei dottori. Già al terzo giorno poté, sorretta dalla madre,
fare qualche passo fino alla siepe dell'accampamento; vide gli orti giù tutti
fioriti, le canne che rinascevano, i carciofi che parevano, sugli alti gambi
argentei, grandi bocciuoli di rose. Un odore di giaggioli e di glicine portato
dal venticello d'aprile dava l'idea, a Madlen, che una bella signora passasse
dietro la siepe lasciando nell'aria il suo profumo. Era la signora primavera.
Allora pregò la madre di portare la pelle d'orso più in qua,
verso la siepe: voleva veder da vicino gli uccellini che vi si posavano.
Uccelli, farfalle, calabroni, mosche, api, tutto un popolo laborioso nel suo
ozio apparente, si agitava in mezzo alla siepe: un ragno, sospeso al suo invisibile
filo, danzava per aria e pareva volasse. Venne anche, come una freccia, una
giovane cornacchia con gli occhi azzurri e la coda come un ventaglio dalle
stecche di ebano. Un'altra cornacchia la raggiunse, e tutte e due gridarono
assieme volando in alto fino a sperdersi nel sole.
Madlen sentì voglia di piangere: ma di un pianto le cui lacrime avevano
il sapore aspro e dolce delle goccie d'acquavite che la madre le concedeva
nei grandi momenti.
Stesa sulla pelle il cui pelo e l'odore si confondevano con quelli dell'erba,
pensava al tesoro della vecchia e al modo di poterlo vedere.
Oh, ci arriverà certo: fra un anno, fra dieci, quando anche lei avrà venti
anni e leggerà la sorte sulla palma liscia dei bei ragazzi che vengono
nell'accampamento per vedere le zingare belle, e sarà furba e forte
anche lei, arriverà a vederlo, il tesoro. E poi è di tutti, è della
comunità, e la vecchia dovrà bene tirarlo fuori.
- È di tutti, come il sole - mormora Madlen; e per farsi un'idea del
misterioso splendore che sgorga dal vaso d'oro, trae lo specchietto rotondo
e lo contrappone al sole. Lo specchietto brilla e vuole davvero follemente
parere un piccolo sole. Madlen lo fissa, ma non è soddisfatta: altra
luce è quella che splende dentro il vaso d'oro. Allora, dopo essersi
divertita a giocare un po' col sole, agitando lo specchietto
e facendone balzare il riverbero intorno sull'erba e la siepe, pensa che forse
il tesoro si vedrà meglio nel sole stesso.
Si butta supina e poiché gli occhi non vogliono stare aperti si tira
in su le palpebre con le dita: un grande barbaglio la investe tutta: le lagrime
che le velano gli occhi lo accrescono: le pare di essere sotto una pioggia
di perle, di monete, di gioielli e di stelle. E finalmente ha davvero l'impressione
di quello che è il tesoro della comunità degli uomini tutti,
la gioia di vivere.
VIALI DI ROMA
È triste eppure bello, in queste sere dell'estremo autunno, dopo una
giornata di lavoro e di solitudine, andarsene soli lungo certi viali di Roma,
ancora praticabili dai sognatori che non vogliono finire con le ossa stritolate
da un'automobile.
Quello che io preferisco è il viale davanti al Policlinico. Ci si può camminare
ad occhi chiusi, e il marciapiede di asfalto è così molle e soffice
che il passo non vi risona.
Verso sera è quasi sempre e quasi del tutto deserto. Gli alberi già spogli
disegnano i loro rami sul cielo pallido, e solo qualche foglia scura, secca
e dentellata, dà l'idea di un qualche uccello addormentato.
Lo sfondo arioso, con vapori colorati, dà l'impressione che laggiù vi
sia il mare.
E mentre a destra di chi cammina verso quello sfondo, le mura romane, coi loro
ciuffi d'erba in cima, appaiono come i bastioni di una città della quale
si sente il rumore sonoro di vita, di lavoro e di gioia, a sinistra, dietro
le cancellate e le sagome delle palme, fra il biancheggiare dei viali e il
profumo dell'erba che vince quello dei disinfettanti, i padiglioni con le vetrate
illuminate, i balconi ancora chiari al crepuscolo, i portici che sembrano preludere
all'ingresso di palazzi incantati, danno anch'essi l'illusione che là dentro
tutto sia bello e felice.
Una festa si svolge, là dentro; le figure bianche di agili donne che
corrono silenziose attraverso i viali, sono forse di giovani dame pronte per
la danza, e corrono verso le sale illuminate per perdersi nel sogno del piacere.
Una festa è là dentro, sì: è la festa eterna del
dolore umano.
Il sognatore che cammina rasente la cancellata trasalisce al pensiero: per
distrarsi guarda verso il centro del viale, d'un tratto animato da gruppi di
persone; e lo spettacolo interessa subito la sua ricerca di colore e di induzioni
psicologiche.
In apparenza lo spettacolo non è allegro, ma è riposante, solenne,
e si armonizza straordinariamente col luogo, l'ora, con la maestà stessa
dello sfondo.
È
infine un triplice funerale, eseguito con ordine, con calma, con silenzio.
Il primo è senza dubbio quello di un vecchio militare, perché sulla
bara del carro funebre di terza classe sta ripiegata una bandiera, i cui vivi
colori, rosso, bianco e verde, risaltano sul nero più che i colori smorti
dei fiori delle corone.
Soldati in fila accompagnano il carro: sono giovani, dritti e seri, e paiono
in marcia verso una battaglia; precedono i trombettieri, e le trombe risplendono
come d'oro sul grigio della massa; non suonano, però, forse per non
dare l'allarme a quelli che restano e sperano ancora di vincere la battaglia
contro la morte: se ne vanno tutti silenziosi, certo pensando ciascuno ai casi
suoi, contando i passi che li avvicinano all'ora della libertà: sono
giovani, e la morte per loro non ha senso. E il vecchio soldato morto, in mezzo
a loro, sotto i colori caldi della bandiera, aspetta forse lo squillo vivo
delle trombe, per scuotersi dal suo sonno momentaneo ed entrare a suon di marcia
nei campi dell'eternità.
Il secondo funerale è, a giudicarne dal veramente mesto corteo che
lo segue, quello di una popolana.
Era vecchia? Era giovane? Non si sa. Sole donne, e qualche ragazzo, seguono
il modesto carro senza corone; sopra la bara un fascio di crisantemi bianchi
e gialli, di quelli che crescono negli smossi orti di Roma, dà una tenue
nota di colore al quadro grigio che pare si muova nella nebbia.
Le donne sono tutte popolane, alcune giovani, col bel profilo di Minerva mortificato
sinceramente da un improvviso dolore. Quando il corteo sarà sciolto
anch'esse, come i soldati del primo funerale, torneranno a ridere e a dir male
parole; per adesso dimostrano sul viso tutto quell'impeto di solidarietà col
dolore altrui che è la caratteristica più generosa delle donne
del popolo di Roma. Le anziane e le vecchie sembrano più indifferenti;
più pronte a raccogliere contro il loro cuore, come fanno coi lembi
dei loro poveri scialletti, il pensiero della morte. Esse accompagnano la morte,
ma si sentono anche accompagnate da lei; e non se ne sgomentano. Sono tutte
donne stanche di lavorare, di lottare contro le lunghe interminabili avversità della
vita: si vede dal modo come camminano, strascinando i piedi logori, dal modo
come pregano, con quella rassegnazione che viene dall'abitudine a tutte le
tristezze quotidiane. E forse invidiano la donna morta, che ha finito la sua
giornata faticosa, e se ne va tranquilla finalmente, non coi passi delle sue
rosicchiate calzature, ma come una signora in carrozza, tirata dai cavalli
i cui pennacchi sembrano i meravigliosi fiori neri del giardino della morte.
Il crepuscolo intanto si è addensato ma anche rischiarato per uno splendore
lontano che viene dall'orizzonte tutto acceso di rosso.
Anche i fanali accanto agli alberi si accendono d'un tratto, come di volontà propria,
e una luce fantastica dà colori violetti e gialli ai rami nudi, alle
foglie secche e allo sfondo delle mura di là dal viale.
In quest'atmosfera quasi di allucinazione si svolge il terzo funerale: e pare
di vederlo in una scena di teatro o su una pagina illustrata a colori di un
libro di fiabe.
È
il funerale di un bambino.
Adesso non c'è da sbagliarsi; il piccolo carro è tutto bianco,
con lievi decorazioni dorate: sembra un cofano nuziale, e i cavalli bianchi,
i necrofori in livrea bianca, le bambine del corteo vestite di bianco, i bambini
tutti coi mazzolini di fiori bianchi in mano, le corone di rose bianche, tutto
dà un senso quasi di gioia come al passare di un corteo di nozze.
La morte stessa si rischiara e prende i veli di sposa per accoglierti nei suoi
regni, o bambino.
E i compagni e le compagne di scuola, che guidati dalle Suore grigie sembrano
piccoli allegri pulcini in fila dietro le chioccie che li portano a razzolare
nel prato, pensano a tutt'altro che a piangere. Qualcuno succhia di nascosto
una caramella, qualche altro dà a tradimento uno spintone al compagno.
Le bambine osservano i particolari dei loro vestitini, pronte a ridere se una
di loro ha sporgente un lembo del sottanino bianco o la scarpetta slacciata.
Sono un po' tutti anch'essi come i soldati che accompagnano il loro superiore
ai bruni prati dove la stagione è sempre una, senza più mutamenti
né pericoli: finito il funerale torneranno ai loro giochi; e col passare
degli anni il piccolo compagno morto avrà su tutti loro, che lo hanno
veduto svanire nel crepuscolo come una bianca nuvola portata via dai bianchi
cavalli del vento, il vantaggio di restare bambino, felice di non crescere
e di non conoscere il terrore della vita e il terrore della morte.
IL VIVO
Due anni or sono, di questi tempi, è stata la sora Maddalena a raccontarmi
i suoi guai.
Lei e il marito vignaiuolo ci avevano affittato per l'estate la loro casupola.
Casupola che se il sor Andrea vignaiuolo fosse disposto a cedermi, piglierei
in cambio del mio villino di Roma. Come un castello costruito da un architetto
e da operai nani, sorge, fabbricata di piccole pietre calcari cementate con
la semplice terra, su un poggio che si dà l'aria di una cima di montagna;
e se da una parte guarda arcigna sulla vigna ardente di sole, dall'altra stende
la sua ombra mite fino a raggiungere le ombre di una tremula pioppaia che a
loro volta si precipitano giù per la china erbosa e vanno a confondersi
con quelle più basse e nascoste della brughiera.
Giù è il mare. E intorno al poggio, dal mare al mare, una fantasmagoria
di altri poggi verdi, coi laghetti d'oro del grano quasi maturo, i gomiti azzurri
dei fiumi, le mille migliaia di fiammelle delle ginestre in fiore.
I giovanetti pioppi scherzano fra di loro, e giù sull'erba è un
barbaglio di ombre e di luci che pare destato dal soffio del mare. Ma che ne
sa, la sora Maddalena, di questi incantesimi? Lacera e sporca e coi capelli
pieni di ragnatele, ella conta i parecchi denari che io le ho dato, tanto per
la sua casupola quanto per gl'incantesimi intorno; e dopo averli stretti bene
in un fazzolettino se li caccia nel seno dalla parte del cuore.
- Così è, - disse sollevandosi sulla sua gobba, - il denaro è mio,
la casa e la vigna e la pioppaia sono mie; eppure Andreino non è contento.
Non che mi maltratti, ché allora si troverebbe il modo di fargli ritrovare
la strada donde è venuto, ma non è contento no, non è contento.
E scuoteva la testa in su in giù, di qua di là, come dando ragione
una volta a sé stessa un'altra al suo Andreino. Riprese:
- La sua idea è di andarsene in città. Là, dice, si aprirebbe
una rivendita di vino. Si comincia col vendere il nostro a tre lire il litro,
invece di darlo via per pochi centesimi, come adesso si fa; poi si compra altro
vino appunto per pochi centesimi e lo si rivende caro: in breve si è ricchi
sfondati. E va bene, dico io, non sono di parere contrario: ma qui chi si lascia?
Lui non risponde, ma si fa scuro e storto in viso e va via sacramentando: perché la
sua idea è di lasciare qui la moglie gobba, che non attirerebbe certo
la gente nell'osteria, e di andarsene lui solo laggiù. Laggiù,
- ella aggiunse stendendo la mano a indicare la strada che conduce alla città sconosciuta,
- egli trova quante donne belle vuole, per metterle a vendere nell'osteria.
E così si mangiano e si godono assieme la mia roba, mentre a me, qui,
lavora e lavora, la gobba cresce allegramente.
Ella diceva queste cose senza agitarsi, anzi con un lieve accento d'ironia
verso sé stessa: ma i suoi occhi piccoli rotondi e duri come due nocciuole
erano pieni di lagrime. Io volevo dirle per consolarla che il destino suo era
quello di tutte le ricche donne brutte che sposano i bei giovanotti poveri:
manco a farlo apposta però in quel momento emersero su dalla pioppaia
la testa pelata e il naso a zucca del piccolo sor Andrea.
Solo gli occhi del piccolo sor Andrea erano belli: grandi, glauchi, attoniti,
ad ogni parola ch'egli pronunziava od ascoltava si animavano ed esprimevano
i variabili sentimenti del suo cuore sensibile. Egli voleva bene alla moglie,
a modo suo, e a sua volta mi confidò che solo gli dispiaceva di non
aver figli da lei, nascessero pure gobbi.
- È una gran brava donna, silenziosa e tranquilla. Vede come tiene la
casa in ordine? Ha mai veduto, signora, una casa più in ordine e più pulita
di questa?
È
vero, sor Andrea, la casettina è un modello di rifugio per gente che
arriva dalla città ancora sotto l'incubo della lucidatura dei pavimenti,
della pulizia dei tappeti e della baraonda degli oggetti inutili che risucchiano
la nostra vita dandosi anche l'aria di essere necessari.
Specialmente le tre stanze in fila affittate a noi, che aperti gli usci ne
formano una sola e tutte s'affacciano sulla ridente pioppaia, hanno pur esse
qualche cosa di fantastico. Non c'è nulla e c'è tutto: e qui
ci si parla da camera a camera come da cuore a cuore, e basta stendere la mano,
senza muoversi e senza staccare gli occhi dal materno viso della natura, per
trovare quello che pur materialmente ci è necessario per vivere.
Come la fata trasformata in gobbina per provare il cuore della gente, la sora
Maddalena passa ogni tanto in queste stanzette e rimette a posto le cose che
le nostre abitudini di disordine scompongono: ed è lei a renderci dolce
il ritorno dalle escursioni col farci miracolosamente ritrovare la tavola apparecchiata
e il cibo pronto. Peccato che la sua tristezza, sebbene sepolta, guasti l'aria
intorno.
Un altro suo difetto era la ripugnanza per le cose superflue.
Un giorno che portai a casa un mazzo di ginestre, invano le domandai un vaso
dove metterle. Anzi s'irritò.
- I fiori bisogna lasciarli stare sulla pianta. Non si vedono dalla finestra?
Staccati servono solo per i morti.
«La mia povera moglie è morta - scrisse il sor Andrea lo scorso anno, quando si trattò di rinnovare l'affitto della casetta. - È morta il giorno di Pasqua, dopo che tutto l'inverno è stata a letto malata. Per fortuna è venuta ad assisterla una sua nipote, ch'era al servizio in città, e questa ragazza, educata e pratica, se lei crede, signora, potrà servirla. Sa anche leggere e scrivere». Questo lo credo, perché la lettera non è scritta coi soliti caratteri primordiali del sor Andrea; la notizia però non ci commuove; perché in quanto a leggere e scrivere è meglio non pensarci, lassù.
Ci si dovette pensare, invece, appena tornati lassù, perché la
nuova padrona non faceva altro che leggere e scrivere.
- Da un mese ho sposato la nipote della povera Maddalena - ci annunziò il
sor Andrea venuto giù alla stazione per incontrarci. - Che si poteva
fare? Senza una donna in casa non si sta. Eppoi è una gran brava ragazza,
bella anche, e sembra una signorina di città. Vedrà, signora,
le piacerà.
- Come si chiama?
- Anche questo c'è di buono. Si chiama Maddalena; così non capita
di sbagliare nome, se la chiamo ricordandomi la prima.
- Perché, diventerebbe gelosa? - domando io con cattiveria.
Ma il sor Andrea è proprio un buon uomo, e passandosi la mano sulla
testa, come fanno le persone preoccupate, risponde pensieroso:
- Non è questo, non c'è pericolo; però tante volte capita
che occorre una cosa e allora, ricordando che la povera Maddalena era sollecita,
la si chiama come fosse ancora lì. Ma si capisce, questa qui è tanto
giovane ancora.
Questa sora Maddalena seconda ci apparve, come una fata anche lei, al limite
della pioppaia; una fata autentica, questa volta, vestita d'azzurro, bionda
e rosea, incoronata di pettini e pettinini di celluloide. Non le mancava neppure
la collana, dello stesso genere, e le gambe dritte parevano nude per il colore
delle calze dei merciai ambulanti.
Teneva in mano un mazzo di fiori, fatto con arte, con lo sfondo di felci e
il giallo della ginestra mescolato al cremisi della digitale porpurea; e me
l'offrì piegando alquanto il ginocchio destro: così avevo veduto
una signorina dell'aristocrazia offrire un mazzo di fiori a una principessa
di sangue reale.
Mi fece buona impressione, non tanto per i fiori e l'inchino quanto per la
speranza ch'ella sapesse anche stirare i vestiti come le cameriere fini: speranza
che cadde senza più rialzarsi quando si entrò nella casetta.
Disordine, polvere, sporcizia, fiori appassiti e dispense sgualcite di romanzi
popolari, nonché foglietti della Canzonetta d'amore si
facevano bella compagnia. E neppure una goccia d'acqua per lavarci, e il fuoco
spento come nelle case di nessuno.
- Maddalena? Maddalena?
Maddalena si provava davanti allo specchio inclinabile del cassettone il cappellino
ch'io m'ero levata; ed anzi trovò un altro specchietto per guardarsi
di profilo e di dietro.
- Sor Andrea, - dissi allora al vignaiuolo rimasto di fuori, - per piacere
non ha un po' d'acqua per lavarci le mani?
- Maddalena? Maddalena?
Anche lui chiamava, ma era come se davvero chiamasse l'altra: e dalla pioppaia
rispondeva il fringuello lieto e melanconico assieme.
Così si tirò avanti alla meglio, industriandoci da noi.
Del resto il povero sor Andrea si faceva a pezzi per aiutarmi, visto e provato
che rivolgersi alla giovine sposa era come supplicare una santa sull'altare.
Bella e buona e sempre adorna come una santa di terracotta, Maddalena rispondeva
invariabilmente: - Vengo, faccio, sì - ma non si muoveva dallo specchio
o dalla tavola di cucina dove scriveva indirizzi su cartoline illustrate.
Poi a volte spariva, e la si vedeva tornare dal fitto della pioppaia con
gli occhi stralunati e in mano un fascicolo arrotolato del grande romanzo
La
principessa cieca.
Il sor Andrea era già stato a fare la spesa, aveva messo a cuocere la
verdura e preparava il vino per la tavola. Lei si degnava di rifinire le faccende,
ma con aria stanca e nauseata.
Doveva essere figlia bastarda di qualche grande signore.
Il marito non la sgridava mai: era triste però, come la prima sora
Maddalena. Un giorno si tornò a confidare con me.
- Che vuole? Il torto è mio, di averla voluta sposare. È un uccellino
di città, non di bosco, lei. E il suo desiderio è di tornare
laggiù; - anche lui con la mano indicava la strada che conduce alle
grandi città; - e credo mi abbia sposato solo perché le ho promesso
che s'avrebbe ad aprire una rivendita di vino a Roma. Ma non ce la conduco,
no. No, e no - affermò infine a sé stesso, con due energiche
scosse del capo.
Eppure ce la dovette condurre; in novembre, quando i pioppi cessano di ridere
e di scherzare e le foglie stanche di gioia si ammalano e muoiono. Anche lei
tossiva, aveva sempre freddo e ricordava la pelliccia leggera e calda ch'ella
si provava a insaputa della sua ultima padrona.
Il sor Andrea la portò da uno specialista, che gli consigliò di
ricondurla su, dove c'è l'aria buona; ed egli pazientemente se la ricondusse
a casa, finché un giorno di marzo la riportò ancora giù,
accanto alla prima sora Maddalena, nel piccolo cimitero dove si sentiva già l'odore
delle giunchiglie.
Siamo tornati ancora nella casetta. Il sor Andrea è venuto come sempre
alla stazione e carica il bagaglio sul suo calesse. Sta bene, il sor Andrea;
s'è ingrassato e ringiovanito, e i suoi occhi mi ricordano la pioppaia
mutevole ridente.
- Vedrà come starà bene, quest'anno, signora. Vedrà, non
dico altro.
Tutto infatti è ordinato e pulito, come il primo anno: e c'è un
mazzo di fiori in mezzo alla tavola. Le brocche sono piene d'acqua fresca,
il fuoco acceso.
- Comanda, signora?
È
il sor Andrea che per ridere s'è messo il grembiulino bianco ricamato,
ricordo della sua seconda moglie.
IL PASTORE DI ANATRE
Pino si recava di mala voglia dai contadini Bilsi, presso i quali lo inviava
sua madre con queste precise istruzioni:
- I Bilsi hanno rimandato al Signore il loro unico figlio Polino, che tu conoscevi;
e adesso cercano un ragazzino a giornata, per guardare le anatre: tu vai là e
dici alla Marta Bilsi: mi manda mia madre, per l'affare delle anatre. Poi,
a tutte le sue osservazioni, devi rispondere con rispetto, e dire sempre di
sì. Hai capito? Va: prendi un pezzo di pane, e non farti vedere affamato.
E Pino andava, col pezzo di pane in mano, i calzoncini rimboccati fino alle
ginocchia come dovesse guadare il fiume, e un nero pensiero negli occhi chiari.
Perché la sera innanzi egli aveva sentito confabulare i suoi genitori;
e la madre diceva sospirando:
- Dio volesse davvero, che gli si affezionassero fino a tenerlo con loro per
figlio.
Ecco, sì, i suoi genitori lo mandavano dai Bilsi come i Bilsi avevano
rimandato al Signore il loro Polino.
Trecento passi lungo l'argine bastarono a Pino per raggiungere la casa dei Bilsi. Volgendosi vedeva benissimo la sua: grande differenza però c'era, fra la sua e la casa dei Bilsi, quella nera e screpolata come la casa dei gufi, questa nuova e bianca con le persiane verdi, l'aia grande quanto un prato. Piante di girasoli alte come alberi, con tanti piccoli soli che si volgevano di qua e di là dondolandosi, circondavano il campo di zucche che la precedeva: e anche le zucche, tra le foglie già vizze, erano dorate come il fuoco. Tutto bello, tutto ricco; ma non ci si vedeva un bambino, e Pino guardava sempre verso la sua catapecchia, sembrandogli di vedere nel prato sotto l'argine i suoi numerosi fratellini mocciosi giocare e azzuffarsi, già immemori di lui come del comune amico Polino.
La madre di Polino, con un fazzoletto nero legato intorno alla testa in segno
di lutto, lo accolse quasi con ostilità. Il dolore la rendeva cattiva;
le faceva odiare tutti i bambini rimasti nel mondo, mentre il suo se n'era
andato non si sa dove. Pino aveva sperato di ricevere almeno, per buona entrata,
una fetta di polenta calda con un pezzetto di burro: invece gli fu messa in
mano una lunga fronda di salice, e gli furono subito presentate le anatre.
- Le vedi? Sono dodici. Contale un po'. Sei buono a contare?
Egli non era certo di contarle senza sbagliarsi, ma ricordò le avvertenze
della madre e rispose franco di sì.
- Allora le conduci qui nel prato sotto l'argine, verso il fiume: se hanno
voglia di entrare in acqua lasciale entrare; purché non vadano lontano.
A mezzogiorno ritorna su. Bada che ci siano tutte. Hai capito? Tutte.
I modi di lei erano così bruschi che a Pino veniva voglia di svignarsela
senz'altro; ma ricordava il rimbombo di tamburo delle sue spalle quando il
padre gli dava senza risparmio le busse; e per non risponder male alla donna
inghiottiva la saliva come dopo aver bevuto la purga. Meno male che le anatre
lo circondavano gracchiando, sempre più strette ed espansive. Era a
chi più poteva metter su il becco verso le mani e il petto di lui; una
gli si slanciò fin quasi al viso. Pareva volessero baciarlo. Oh, come
già dimostrarono di volergli bene. Ma lui non si scomponeva; sapeva
che era il suo pezzo di pane ad attirarle.
E andò via con loro: fuori sull'argine ebbe la tentazione di recarsi
con loro verso casa: si avvide però che la padrona lo osservava e tirò dritto.
Tirò dritto per modo di dire perché le anatre, perduta la speranza
del pane, si allontanavano da lui e tendevano a sbandarsi. Ed era un gran da
fare, correndo da una parte all'altra con la fronda su e giù, per riunirle;
poiché sebbene paressero sciancate e stupide, esse camminavano rapide
e con pretese d'indipendenza; solo una, che rimaneva in coda al branco, si
metteva ogni tanto giù accucciata per terra perché era zoppa
davvero.
Come Dio volle si andò giù dunque per l'argine, fino al prato
in riva al fiume. Pino respirò, e le anatre gracchiarono di gioia tendendo
in alto i grandi becchi gialli e grigi che parevano nasi di cartone come quelli
delle maschere grottesche. Si sentiva il soffio dell'acqua corrente e l'odore
dei gigli palustri: ma la vera poesia che sollevava il cuore di Pino e i becchi
delle anatre scaturiva dal fatto che innumerevoli chioccioline coprivano di
una crosta simile alla lebbra i cespugli della riva.
Era d'agosto e faceva caldo anche laggiù: le zanzare poi pareva nascessero dall'erba e senza riguardo s'introducevano nei calzoni di Pino, punzecchiandogli anche il sedere. Abituato a ben altre disavventure, adesso che le anatre stavano tutte attaccate ai cespugli e li succhiavano come mammelle, egli si abbandonava ai suoi ricordi. Gli sembra di essere ancora nel prato, di là dall'argine, coi fratelli e i cugini: si bastonano a vicenda, contendendosi un toporagno che è stato preso dalla trappola combinata in comune. L'animaletto, con gli occhi lucenti e aguzzi come punte di ago, si dibatte anche lui dentro la trappola di giunchi, piccola quanto un pugno: le bambine piangono e scappano, perché hanno paura di tanto mostro, e in casa si sente la mamma questionare col nonno. Tutto è triste e movimentato laggiù: e in mezzo alla calma del prato ove le grosse anatre di Maria Bilsi fanno strage di chiocciole, pure il cuore di Pino è triste e agitato perché è rimasto laggiù.
Quando furono sazie, le anatre si riunirono e parvero far consiglio: e Pino
ne profittò per contarle. Una, due, tre; una, due, tre; le contava a
gruppi, ma non gli riusciva di raggiungere il numero di dodici: allora pensò di
sciogliere il consiglio e farle camminare. Un colpo di fronda, e le anatre
si misero in fila: allora egli osservò che erano una diversa dall'altra,
anche di fisionomia, chi grigia, chi bruna, chi bianca, chi gialla; persino
la punta di colore turchino delle loro ali variava di tinta. Questo lo confortò;
perché lo aiutava a distinguere se c'erano tutte.
E dopo averle lasciate un po' diguazzarsi nell'acqua bassa di una pozza del
greto le ricondusse non senza una certa soddisfazione a casa. Aveva indovinato
anche l'ora, o meglio l'aveva indovinata il suo stomaco, e Marta poteva dirsi
contenta di lui. Ella però non poteva più essere contenta di
nulla, in questo mondo, e lo accolse con la solita freddezza, come se dandogli
da pascolare le anatre gli avesse concesso un favore.
Anche il desinare non corrispose alle speranze di Pino. Egli aveva pensato
che i Bilsi, specialmente adesso che non avevano più a chi lasciare
i loro campi, mangiassero polli e salame tutti i giorni: ed ecco, invece, non
venne a tavola che la minestra di riso e fagioli con la quale lui aveva antica
dimestichezza. Meno male che il lungo contadino Bilsi era di buon umore: cominciò a
scherzare col ragazzo, stuzzicandolo ogni tanto con un bastoncino per farlo
meglio ridere. Si fece raccontare da lui, a più riprese, com'era andata
la storia del nonno, al quale alcuni burloni avevano attaccato sul dorso un
cartellino con su scritto: «Fusto da vendere» (il nonno di Pino
era il più famoso ubbriacone di tutti i dintorni); e ogni volta rideva
da tenersi la pancia.
Pino lo guardava sorpreso. Era un padre, quello, il quale da appena dieci giorni
aveva rimandato al Signore il suo unico figlio? E non sapeva, il piccolo pastore
d'anatre, che il lungo contadino rideva e scherzava così per cercare
di distrarre la moglie.
Ma anche il Bilsi cambiò d'umore quando ritornò al lavoro. S'era fatto accompagnare da Pino, poiché solo più tardi si dovevano ricondurre le anatre al pascolo, e gli ordinò di cavare certe erbacce rampicanti che si abbarbicavano ai pomidoro ancora carichi di frutti. Non era una fatica lieve, perché se le radici venivano via facilmente dal terreno umido, i viticci non intendevano di staccarsi dai fragili rami ai quali stavano tenacemente attorcigliati. Qualche pianta un po' tenera si sradicò quindi assieme col suo parassita: il contadino se ne accorse e sgridò il ragazzo chiamandolo persino «figlio di un cane». Sembrava davvero un altro, adesso, il Bilsi, con una faccia arrabbiata come d'uno ch'è stato mortalmente offeso e non può vendicarsi. Anche Pino era offeso e sdegnato. Erano modi, quelli, da trattare la gente? Neppure il padre quando gli dava le busse lo chiamava «figlio di un cane». È vero che parlando così avrebbe dato del cane a sé stesso; ma Pino a questo non ci pensava, anche perché s'era tagliato un piede con un pezzo di vetro e il sangue che ne veniva fuori, più rosso dei pomidoro intorno, gli destava un senso di terrore. Per fortuna la madre gli aveva dato un fazzoletto, che egli s'era proposto di tener pulito. Con grandi sospiri lo trasse e lo spiegò: con grandi sospiri si legò il piede: e non dimenticò mai l'amarezza che provò quando il Bilsi, senza alcun senso di pietà, pur vedendolo così gravemente ferito, gli gridò di riprendere il lavoro.
Le giornate di agosto non sono poi tanto lunghe: ma per Pino quella fu la
giornata più lunga dell'anno.
Verso il tramonto egli conosceva già una per una le dodici anatre, il
modo di ciascuna di camminare, di guardare, di starnazzare: e le odiava dalla
prima all'ultima. Quando era sicuro di non esser veduto le maltrattava, battendole
con la fronda o buttando loro manciate di terra. Prese la zoppa e la scaraventò nell'acqua,
e rise nel vederla dibattersi come un nuotatore al quale è venuto il
crampo ai piedi. Sentiva di essere diventato pure lui cattivo. Oh bella, e
gli altri non lo erano con lui, cominciando dai genitori? E non pensava che,
dopo tutto, per lui forse era meglio che i Bilsi lo trattassero così,
da povero servetto: non pensava né questo né altro, intontito
dalla solitudine e un po' anche dalla fame. Nulla gli avevano dato, dopo la
minestra del mezzogiorno; e giù nello sterpeto fra l'argine e il fiume
dove lo costringevano a restare per via delle chioccioline, altro non c'era
che le chioccioline.
Si nutriva di sola speranza. Al ritorno, certo, Marta Bilsi avrà fatto
già la polenta, e gliene darà una bella fetta calda. Egli rinunzia
anche al burro; ci rinunzia perché non ci spera: come avviene per lo
più in tutti i comuni casi di rinunzia.
Al ritorno dovette rinunziare anche alla fetta di polenta. Marta Bilsi non
aveva acceso ancora il fuoco, e pareva non ne avesse neppure l'intenzione.
Seduta sulla soglia, assieme con una vecchietta che filava, raccontava come
s'era ammalato, come era morto e come era stato sepolto il suo Polino. Dal
suo accento e dalla cadenza della sua voce s'indovinava ch'ella aveva raccontato
questa storia almeno centocinquanta volte. La sapeva a memoria e la recitava
come una canzone o come una preghiera. Di tutto il resto non le importava nulla.
E così, quando Pino, mentre le anatre navigavano unite nell'immensità dell'aia
come una flotta in mare, le si piantò davanti e la guardò coi
suoi grandi occhi di gatto affamato, ella lo fissò trasognata e gli
disse:
- Allora puoi andare, allora.
Ed egli se ne andò, con la testa e lo stomaco vuoti. Per distrazione
s'era portato via la fronda, e camminando lungo l'argine gli pareva di aver
ancora davanti le anatre che tentavano di sbandarsi: egli agitava la fronda,
qua e là, tagliando il silenzio del rosso crepuscolo.
Ma il digiuno aguzza le idee: e così egli d'improvviso ne ebbe una,
che gli sollevò finalmente il cuore.
- Se dico che sono stato trattato male mi piglio anche qualche ceffone dalla
mamma - pensò. - Ecco che lei grida: per colpa tua, perché non
sai fare. Dice sempre così, lei. Invece io...
Si mise a correre. Oh, ecco il buon odore di casa sua! Odore di letame, di
bambini sporchi, di erba falciata, di latte lasciato andare sul fuoco. Odore
di gente viva. La mamma ha già fatto la polenta: già l'ha versata
sull'asse; e la luna piena che s'affaccia alla finestra spalancata nella sera
verdolina è meno bella di quel mezzo globo dorato fumante.
- Be', Pinetto, com'è andata?
Egli si piantò davanti alla mamma come davanti a Marta Bilsi: i suoi
occhi però adesso luccicavano, al riflesso della luna, come quelli del
gatto che ha preso il sorcio.
- Ma bene, è andata. Forse i Bilsi mi prendono per figlio - disse con
noncuranza imitata alla perfezione.
E la prima fetta di polenta fu per lui, con un pezzo di burro che vi si scioglieva
sopra come una nuvoletta sul cielo dorato del mattino.
IL FIGLIO DEL TORO
Il toro aveva due anni e mezzo, e doveva essere venduto perché, come
a tutti quelli della sua razza, già la forza virile gli scoppiava in
ferocia. Alto, ossuto, pareva scolpito a colpi di scure nel legno di qualche
favoloso tronco di sandalo, e che sotto la pelle lucente gli scorresse fuoco:
anche gli occhi erano velati di sangue e la coda si agitava come una cometa
di malaugurio.
Solo il bifolco della masseria e la giovane moglie di lui lo potevano avvicinare:
la donna spiegava questa lusinghiera preferenza col dire che lo aveva curato
lei, di una indisposizione, facendogli bere caffè caldo amaro; il padrone
galante replicava però che lei era tanto bella da affascinare anche
i tori andati in ferocia.
Per ordine del padrone, il bifolco partì dunque un giorno, per condurre
il toro nella stalla di un mercante di bestie da macello. Ed era triste, l'uomo,
perché voleva bene al grande animale che lo seguiva docile come un cane
al guinzaglio. Per non spaventare le donne e i bambini, percorrevano di buon
passo le strade meno frequentate; ma quando in una di queste, che pareva una
gola di montagna, tanto era incassata fra due siepi scure alte e fitte, con
gli sfondi lontani azzurrini, apparve un piccolo tabernacolo ricoperto d'edera,
l'uomo vi si fermò davanti, facendosi il segno della croce, e parve
incantarsi come un bambino a guardare attraverso le sbarre del cancello. Vi
si vedeva solo un piccolo altare e, sopra, sulla parete verdastra ed umida,
tra fiori di carta che parevano strane farfalle morte, un quadro sbiadito dove
un avanzo di San Cristoforo dava da mangiare ad un avanzo di cervo; eppure
il bifolco aveva l'impressione di trovarsi davanti ad un bosco incantato, con
le fontanelle d'oro dei lumicini accesi ai piedi dell'altare: poiché i
migliori ricordi della sua vita svolazzavano là dentro come gli uccelli
fra la siepe sovrastante.
Là era venuto la prima volta, bambino, con la nonna che lungo la strada
gl'insegnava le preghiere in versi, dolci come ninne nanne;
là aveva assistito lui la messa in suffragio del padre morto, là davanti
aveva avuto il primo convegno d'amore con la moglie. Questa moglie era allora
la più bella ragazza della contrada, e aveva preferito lui a tutti gli
spasimanti che la corteggiavano nell'osteria campestre tenuta dal padre, dove
i grossi mercanti di saggina e di frumentone venivano apposta per vedere lei,
e vi sostavano bevendo fino ad ubbriacarsi in omaggio alla sua graziosa bellezza.
Ella aveva preferito a tutti il semplice bifolco della masseria accanto, brutto
e anziano; e lui non se ne meravigliava. Sapeva di possedere una forza miracolosa
che lo faceva amare anche dai malvagi e dai cani di guardia: quella di voler
bene a tutti.
Ed ecco, mentre egli sta incantato a guardare il suo San Cristoforo mutilato
dal tempo, ed a chiacchierare con lui delle cose passate, il toro dà uno
scossone alla catena e muggisce annoiato.
- Sì, è tempo di andare: e tu, piccolone, non sai dove vai.
Si rimise a camminare: ma un profondo peso dietro di lui lo fermò subito.
Era l'animale che non voleva più muoversi: solo scuoteva la testa, come
cercando di liberarsi dal collare che lo infastidiva. Un po' di bava gli colava
dalla bocca digrignante.
L'uomo lo guardò negli occhi e non tentò di trascinarlo oltre.
Quegli occhi spaventati gli dicevano che la bestia si sentiva male.
Fu un male che si manifestò subito con violenza. Il toro muggì,
con un lamento cupo che risonò nel grande silenzio del tramonto come
il ruggito del leone nel deserto; poi vomitò; infine si piegò sulle
zampe anteriori e parve inginocchiarsi davanti alla cappella.
L'uomo non si spaurì. - È una colica - pensava. La pietà per
la bestia, e la sua impotenza ad aiutarla, cominciarono a turbarlo quando il
toro invece di risollevarsi si abbatté del tutto e giacque pesante come
morto.
Per fortuna passò in quel momento un ragazzo in bicicletta, diretto
verso il paese dove risiedeva il veterinario.
- Se tu mi fai venir subito il veterinario ti regalo due scudi - gli gridò il
bifolco, senza permettergli di fermarsi: e il ragazzo corse via come una lepre.
Ma le ore passavano e nessuno arrivava. Dopo il tramonto pallido scendeva una
sera fresca e scura: in quel mistero, nel cerchio di funebre chiarore che usciva
dalla cappella, col grande animale che ogni tanto si sollevava per muggire
come invocando aiuto e poi ricadeva contorcendosi, il bifolco credeva di aver
la febbre o di essere sotto l'opera di un cattivo incantesimo. Guardava di
qua, guardava di là, verso gli sfondi della strada, e gli occhi nebbiosi
dell'orizzonte gli sembravano quelli del toro morente.
- San Cristoforo caro - disse infine, parlando verso il tabernacolo con accento
di rancore - da voi questo non lo aspettavo.
Subito brillò un lume volante, ed un grande ventaglio di splendore violetto
parve sollevare di terra l'uomo e il toro. Anche l'interno della cappella rifulse
fantastico come quello di una grotta marina.
Era l'automobile del veterinario.
- Questa bestia è stata avvelenata - disse l'uomo della scienza, appena
ebbe guardato la bava del toro.
- Da chi? E perché? - domandò il bifolco.
Ma il veterinario non era uomo di parole: tutt'al più rivolgeva qualche
improperio alle bestie riottose che rifiutavano il medicamento. Questa però si
mostrava docile: trangugiò la miscela che le fu versata per le fauci
aperte, e si sottopose senza lamenti alle lavande posteriori.
Poi si alzò, col ventre gonfio, enorme, e quando cominciò a scaricarsi,
davanti e di dietro, parve il monumento di una fontana mostruosa.
- Dio sia lodato, Dio sia lodato - mormorava il bifolco; e fra di sé pregava,
ringraziando il Signore perché la bestia era salva.
Ma quando il pericolo fu scongiurato, l'eco della sua domanda da chi e perché era
stato avvelenato il toro, gli risonò dentro con un muggito implorante,
simile a quello della bestia straziata.
- Solo mia moglie poteva avvicinarsi alla mangiatoia - disse al veterinario,
con un istinto di terrore.
Il veterinario disprezzava gli uomini, e sopratutto gli uomini semplici: quello
lì, poi, lo irritava perché gli pareva un campione deteriorato
della razza umana.
- E sarà stata tua moglie, per farti passare la notte fuori di casa
- disse, ripulendo e rimettendo a posto i suoi strumenti. E neppure cercò di
stendere sulle sue parole il velo pietoso dell'ironia.
Ritornato nell'ombra, il bifolco palpò il toro tutto umido e freddo,
e si sentì umido e freddo anche lui.
- E va bene - esclamò. - E adesso dove andiamo?
Aveva in mente di tornare a casa e sorprendere la moglie infedele e ribalda;
ma forse era già tardi e tutta la masseria avrebbe riso di lui vedendolo
ritornare col toro in quello stato.
Andò dunque avanti, senza neppure salutare il suo San Cristoforo, che
tuttavia, dal fondo del suo bosco notturno, lo seguiva col suo sguardo sbiadito.
Andò avanti: la strada era molle di polvere e i passi suoi e quelli
del toro vi destavano appena un fruscìo; per un grande tratto a lui
parve però di trottare pesantemente, in un luogo aspro, roccioso: e
aveva l'impressione di essere tutta una cosa con la bestia, destinati tutti
e due a fermarsi nella stalla del macellaio per esservi massacrati.
La vita nella masseria continuò eguale, e della faccenda del toro non
si sarebbe saputo niente senza la nota salata che il veterinario mandò al
padrone. Il padrone pagò senza fare osservazioni; le coliche sono frequenti
nel bestiame in viaggio, e quella del toro non doveva essere stata che una
colica. Cominciava a crederlo anche il bifolco, quando la moglie gli annunziò che
era incinta. Neppure questa sarebbe stata una cosa straordinaria, poiché la
donna aveva già avuto un bambino, senza i fenomeni dolorosi che accompagnavano
la gravidanza.
Il bifolco vedeva la moglie deperire e farsi brutta, piena di macchie livide
in viso, col ventre sempre più gonfio come s'ella dovesse da un momento
all'altro partorire. Infatti cominciò presto ad accusare forti dolori,
e una notte si svegliò mugolando, con la bava alla bocca.
Il marito provò un senso di terrore e di pietà; gli pareva, nel
dormiveglia, di trovarsi ancora davanti alla cappella campestre, col toro che
domandava soccorso. Tutta la notte la donna spasimò, pronunziando nel
delirio del patimento strane parole: supplicava il marito di ucciderla, e fissandolo
con gli occhi spaventati e torbidi diceva:
- È giusto, è giusto: non intendi che è giusto?
Mezzo nudo, tremante di freddo e di angoscia, egli si stringeva al petto il
bambino assonnato e piangente, e per soggezione e tenerezza di questo, non
interrogava la donna; anzi aveva paura ch'ella parlasse troppo, e per confortarla
e confortarsi diceva, anche lui come vaneggiando:
- Ce ne andremo, Cata, porta pazienza: per San Michele ce ne andremo.
Ella infatti spalancava gli occhi come un bambino malato al quale si promette
un giocattolo nuovo; si assopiva un momento, poi ricominciava.
All'alba, quando le tacchine unirono i loro gridi esasperati a quelli di lei,
venne la padrona vecchia. Al contrario del figlio, che dimostrava una grande
preferenza per il bifolco e la moglie, e forse anche per la gelosia e il sospetto
destati da questa preferenza, ella non amava troppo i suoi dipendenti: nascondeva
però la sua antipatia, come del resto nascondeva ogni altro suo sentimento;
e quando vide la donna accovacciata sul letto, con un viso di Medusa, le dita
contratte dal dolore, non disse che poche parole:
- La creatura non è sola.
- Non ci mancherebbe che questo - mormorò allora il bifolco, amaro e
disperato: poi per riguardo alla padrona e a sé stesso, aggiunse: -
sia fatta la volontà di Dio.
Poiché le parole della vecchia massaia significavano che la donna doveva
partorire due o forse anche tre gemelli.
- Non importa - diceva a sé stesso il bifolco, rassegnato e triste.
- Saranno due, saranno tre, li alleveremo e insegneremo loro a lavorare. Basta
andarsene. E tu, moglie, filerai dritta.
Oh, ella filava già dritta, tormentata giorno e notte dai suoi dolori
terribili; una notte volle confessarsi, convinta che doveva morire.
La levatrice diceva ch'era finzione, o per lo meno suggestione.
- Tu devi aver sentito, forse anche in sogno, qualcuno urlare così e
lo fai per vezzo. Siete tutte canaglia, voi donne incinte.
Ma quando nacque la creatura, anche lei si sentì presa in quel cerchio
tragico di angoscia inumana, che stringeva la famiglia del bifolco.
Questi aspettava di fuori, con ansia dignitosa: aveva fatto preparare una grande
cesta, nella previsione di un'abbondante raccolta di nascituri; quando sentì ch'era
uno solo, si fece il segno della croce:
- Dio sia lodato.
E aspettò che gli presentassero il bambino. Ma la levatrice e la padrona
vecchia, che aveva voluto assistere al parto, non si facevano vedere. Egli
tentò di spingere l'uscio e sentì la levatrice confortare la
moglie che piangeva.
- Dopo tutto è morto, e non lo diremo dal pulpito, che era così.
- Anche la Barbera, del resto, mia nipote Barbera, non ha fatto una bambina
negra, perché fissava sempre il quadro con la Regina Taitù? Per
fortuna è morta anche quella. Muoiono sempre, per fortuna.
Questa era la voce, accompagnata da sospiri di sollievo, della padrona vecchia.
Il bifolco allora entrò con violenza, e senza parlare scoprì il
corpo del bambino: e quando vide quel viso rossastro camuso e peloso, con due
piccole corna sulla fronte, gli parve che non il peccato degli altri, ma il
dolore suo e quello del toro, in quella notte indimenticabile, avessero generato
il mostro.
LO SPIRITO DENTRO LA CAPANNA
Spesso, durante le mie lunghe passeggiate estive, mi fermavo a riposare su
un rialto dal quale si vedeva quasi tutta la pineta, fino al mare. In cima
al rialto sorgeva una capanna di assi rinforzate e fermate da striscie di latta
e da chiodi grossi come castagne: il tutto annerito come da un incendio. La
capanna era sempre chiusa; anzi pareva non avesse neppure porta né finestra:
e fu appunto per questo che attirò la mia attenzione. Le girai intorno
infantilmente, sul breve ripiano erboso che la circondava, e riuscii a scoprire
le connessure di due finestrini ai lati, e i cardini della porta quasi invisibile:
tesi l'orecchio e mi sembrò di sentire nell'interno un lieve strido,
o meglio come un vagito lamentoso di bambino appena nato.
Ma stringendo subito i freni alla fantasia guardai meglio intorno e mi accorsi
che il gemito veniva dal ramo di un pino, stroncato dal vento, che lentamente
finiva di staccarsi dalla pianta. E sedetti lì accanto, sull'orlo del
ripiano erboso, pensando che del resto anche gli alberi hanno i loro drammi,
e che quel ramo agonizzante, giovane ancora, ancora carico dei suoi frutti
di rame cesellato, soffriva fino a trovare un suono quasi di voce umana per
esalare il suo dolore.
La pineta era molto frequentata: per le vene dei suoi sentieri come nelle
strade di un paese passava continuamente gente. Oltre le comitive in gita di
piacere, coi relativi cestini e le macchine fotografiche, passavano donne con
carretti a mano colmi di sterpi, operai che lavoravano alle bonifiche di là dalla
pineta, e ragazzi, ragazzi, ragazzi. Questi anzi parevano una popolazione fissa
del luogo, e certo ne conoscevano tutti i meandri. I loro stridi si confondevano
con quelli delle cornacchie grigie, e il tonfo delle pigne e dei sassi che
le facevano cadere risonava continuo e regolare.
Fu ad uno di questi ragazzi che domandai che ci stava a fare sull'altura in
vista al mare la capanna nera e chiusa come un sepolcro di selvaggi.
- C'era il guardiano, una volta, adesso ci sono gli spiriti - gridò il
ragazzo e corse via con una certa preoccupazione, come se io, con l'andare
a riposarmi sull'orlo dell'altura, fossi già in relazione con gli abitanti
della capanna.
Dico la verità, questi spiriti, che abitano facilmente in molti posti,
anche nei palazzi delle città e persino nei grandi alberghi, non mi
riescono antipatici: quelli della capanna, poi, li ringraziavo di tenermi il
luogo libero e pulito per le mie soste. Mi spiegavo adesso perché i
monelli della pineta non davano la scalata al rialto, e le comitive passavano
al largo. Solo alcune colonie di formiche mi tenevano poco gradita compagnia;
ma per allontanarle bastava buttare qualche pezzetto di pane che per il loro
assalto diveniva subito nero come le more intorno. Un giorno però, mentre
mi divertivo ad osservarle, vedo una donna con un mazzolino di fiori violetti,
stretto stretto come usano farlo le contadine, salire l'altura e inginocchiarsi
davanti alla porticina ermeticamente chiusa della capanna.
Lì comincia a farsi segni di croce, a battersi il petto col mazzolino,
a pregare e sospirare. Aveva una figura strana alta e magrissima, un viso dorato
di zingara e pure di zingara due treccioline che le scappavano dal fazzoletto
nero, con le cocche del quale ogni tanto ella si asciugava gli occhi: provai
quindi nuovamente l'impressione che la capanna racchiudesse la tomba di qualche
selvaggio.
Il più strano fu, poi, che la donna, finiti i suoi sospiri e le sue
preghiere, deposto il mazzolino davanti alla porta, venne a sedersi poco discosto
da me, e tratto da una tasca di sotto la larga sottana un involtino, cominciò a
far merenda. E mangiava con gusto, piano piano, rosicchiando golosamente, come
fanno i bambini quando non hanno molta fame, la sua pagnottina imbottita di
prosciutto: per il piacere del pasto si colorì in viso e divenne bella.
Quando ebbe finito scosse le briciole dalla veste, fece un batuffolo della
carta dalla quale aveva tolto la merenda e se lo ricacciò in tasca;
poi si volse a me, fissandomi coi suoi vivi occhi azzurri, e disse nel dialetto
del paese:
- Adesso ci vorrebbe un bel bicchiere di acqua.
Così senz'altro si fece conoscenza; e a me parve cosa gentile far sapere
alla donna che poco distante dall'altura c'era una fontana.
Ella guardò subito verso il sentiero che conduceva alla fontana e il
suo viso si rifece giallo e floscio: anche gli occhi ridenti si circondarono
di rughe e parvero appassirsi come due fiori di genziana.
- Quante volte l'ho fatta, quella strada - disse, e nascose il viso sul braccio
per togliersi alla vista del sentiero e del luogo intorno.
Io m'alzai e mi avvicinai a lei: sentivo odore di dramma.
- Che cosa è successo in questa capanna? E perché è chiusa? È vero
che ci sono gli spiriti? E perché...
La donna si rianimò subito; fece un gesto, sollevando e scuotendo le
mani, come per dirmi: troppe cose vuol sapere in una volta; ma poiché non
domandava di meglio che di chiacchierare e sfogarsi, senza tanti preamboli
cominciò:
- Qui, vede, ci ha lasciato la vita il mio povero marito. Sono poche parole,
a dirle, queste; e sembrano niente, invece è una storia lunga che a
raccontarla tutta ci vorrebbe un libro.
- Meglio, meglio, - l'incoraggio io, - raccontate pure.
- Allora le dirò proprio tutto. Forse la colpa è stata mia, ma
l'ho scontata davvero come un debito. Dunque io a sedici anni avevo già marito:
Giuliano, si chiamava, Giuliano il lungo, perché era alto come quel
pino lì, e per distinguerlo dal cugino Giuliano il corto. Questo Giuliano
il corto era un ragazzo non troppo alto ma bello, svelto e bruno come uno scoiattolo.
Faceva molti mestieri, persino l'orologiaio, ed era incaricato della sorveglianza
della pineta. Siccome però lui di notte non poteva lasciare il paese,
a sua volta aveva nominato guardiano mio marito. Gli fece costrurre questa
capanna, e gli fissò un mensile buono. Questo ci faceva comodo, perché Giuliano
mio, il lungo, guadagnava poco. Ho dimenticato di dire che era stagnaio. Gira
di qua, gira di là, ma le padelle di rame e i coperchi da stagnare erano
pochi, e la gente usava già quelle brutte robe di ferro smaltato. Qualcuna
anche di queste si bucava, ma non c'era da far nulla perché sul ferro
lo stagno non attacca. E così Giuliano veniva ogni notte qui: d'estate
ci venivo anch'io, ma, dico la verità, avevo paura. Specialmente nelle
notti di luna mi sembrava di sentire i ladri a segare i pini e trascinarne
i rami. Ecco, pensavo, adesso Giuliano si alza, prende il fucile e se quelli
non la smettono, li uccide. E rattenevo il fiato per non svegliarlo: poiché non
volevo che egli si dannasse l'anima per un pino abbattuto. Meno male che egli
dormiva.
- Egli dormiva, - riprese la donna dopo un momento di silenzio durante il
quale s'era di nuovo nascosta il viso sul braccio, - ma faceva brutti sogni,
sospirava, s'agitava e parlava. Una notte si sollevò, anche, come uno
spiritato: e diceva: sì, li sorprendo e li ammazzo tutti e due. Poi
si svegliò e cominciò a stringermi. Tremava e batteva i denti
come ci avesse la febbre. E finalmente mi disse che un male davvero ce l'aveva,
e da molto tempo. Era geloso, ecco; geloso del cugino Giuliano; e credeva che
questi venisse la notte a trovarmi. D'altra parte mi voleva così bene
ed era tanto bonaccione che non aveva mai osato parlarmi dei suoi sospetti.
Ebbene, dico io, allora verrò tutte le notti qui, e tu così sarai
tranquillo. E per qualche tempo le cose andarono bene, ma col sopraggiungere
del freddo lui stesso, il povero Giulianone, che sembrava guarito del suo male,
mi pregò di restare a casa.
La mattina, però, lo vedevo tornare stravolto; girava qua e là per
la stanza e pareva fiutasse le cose come un cane sospettoso. Brutto male la
gelosia! Mi faceva pena, il povero Giuliano, ed io stessa gli consigliai di
lasciar andare il suo mestiere notturno; egli però era puntiglioso anche
con sé stesso e non mi diede retta.
Così tornò la bella stagione; e con la bella stagione il male
della gelosia crebbe nel cuore di mio marito. Egli non aveva pace neppure nelle
notti in cui io venivo a dormire qui con lui nella capanna. Io gli dicevo:
sono le streghe della pineta, che ti hanno fatto qualche brutto incantesimo.
E lui ci credeva; e pregava Dio come un bambino perché lo liberasse
dalla fattura. Una notte, poi, avvenne una cosa terribile. Era una notte di
luglio, con la luna grande, ma faceva tanto caldo che a star dentro la capanna
si soffocava. Io avevo una gran sete e chiesi a Giuliano, che già s'era
coricato, se potevo andare a bere alla fontana: lui non rispose, non dimostrò alcun
sospetto. Io vado, dunque: ci si vedeva come di giorno. E la disgrazia non
mi fa incontrare alla fontana proprio Giuliano, il corto, il cugino di mio
marito? Che male c'era in questo incontro? Lui, Giuliano il cugino, era il
vero sorvegliante della pineta, e aveva il diritto e il dovere di venirci sempre
che voleva. Ad ogni modo io lo scongiurai di andarsene: di andarsene subito.
Avevamo finito appena di scambiare qualche parola quando un'ombra grande e
nera apparve sotto i pini: io vedo ancora brillare come un occhio di fuoco,
sento ancora un rimbombo come se mi spaccassero la testa con una scure, e vedo
il piccolo Giuliano cadere lungo davanti a me con le braccia aperte come un
ragazzo che corre stordito e inciampa e cade. Pazza di paura mi metto a correre
ed a gridare:
- Hai ammazzato un cristiano: hai ammazzato il tuo fratello -. Perché sapevo
bene ch'era stato lui, mio marito, a sparare. Era stato lui, sì; l'ombra
nera sotto il pino era lui. Quando mi sentì gridare parve ritornare
in sé: non mi disse una parola, e neppure rispose alle invettive che
io, rassicurata per conto mio, gli rivolsi piangendo. - Che hai fatto, gli
dicevo, sciagurato che altro non sei? Adesso non ti resta che trascinare il
cadavere fino al mare e buttarvelo con un macigno legato al collo. Altrimenti
andrai in galera, per tutta la tua vita, come andrai all'inferno nell'altra.
Egli taceva; anzi chinava la testa e trascinava il fucile per terra come non
avesse più neppure la forza di reggerlo: tornati quassù io mi
buttai a sedere in questo punto preciso e continuai a piangere e lamentarmi.
L'hai fatta la bevuta, stanotte, dicevo a me stessa; va là che l'hai
fatta buona la bevuta, stanotte.
Giuliano non apre bocca; rientra nella capanna, chiude la porta, ed io non
faccio a tempo ad alzarmi che sento di nuovo il rimbombo di uno sparo.
Egli si era ucciso.
La donna tremava ancora, nel ricordare: io partecipavo alla sua pena, ma sentivo
che la storia non era ancora finita. Ella infatti riprese:
- L'altro non era morto: neppure ferito. Nel sentire il rumore della fucilata,
indovinando di che si trattava, s'era buttato per terra fingendo d'essere colpito.
Ed io avevo contribuito a salvarlo con le mie grida. Due anni dopo ci siamo
sposati: ed abbiamo avuto anche tre figli: ma il Signore, che tutto vede e
sa, ci ha castigato. I figli sono morti; uno dopo l'altro sono morti, quando
già cominciavano a parlare. E lui, Giuliano il piccolo, ha un'artrite
alle gambe che non gli permette di muoversi. Lavora ancora da orologiaio: e
fra tanti orologi che accomoda, che camminano, che egli guarda e smonta e avvicina
all'orecchio, ogni tanto non fa che dirmi:
- Rosa, guarda che ora è.
Così la storia pare finita davvero: io però non mi contento:
- Rosa, - dico alla donna, chiamandola anch'io per nome come una vecchia conoscenza,
- ditemi tutta la verità. La gelosia del vostro povero primo marito
aveva ragione d'essere, non è vero?
Ella tornò un'ultima volta a nascondersi il viso sul braccio, senza
rispondere. E nel religioso silenzio del tramonto, in mezzo ai pini che ardevano
sul cielo rosso come grandi torcie festive, il gemito dell'albero stroncato
pareva uscire dalla capanna; ed era forse davvero il lamento di uno spirito
non ancora placato.
LA PRIMA CONFESSIONE
Di dover un giorno o l'altro rivelare i suoi peccati a un uomo di Dio, non
importava gran che alla Gina di Ginon il pescatore d'acqua dolce: i suoi peccati
erano noti da una riva all'altra del grande fiume paterno, e lei non si curava
di nasconderli; ma che dovesse confessarli proprio a don Apollinari, il nuovo
parroco del paese, questo Gina non poteva concepirlo.
Don Apollinari era l'unico essere al mondo capace di destare in lei quel senso
fra di paura, di soggezione e di ammirazione, che la spingeva a nascondersi
come una lucertola fra i cespugli quando egli, col suo libro in mano, passava
lungo l'alto argine del fiume. La persona di lui, che senza l'abito nero sarebbe
parsa trasparente, tanto era sottile e bianca, sembrava a Gina quella di San
Luigi disceso e uscito dalla sua cappella campestre: a volte non gli mancava
neppure un fiore in mano: e i capelli rossi, se don Apollinari camminava a
testa nuda, fiammeggiavano confusi con le nuvole infocate del tramonto.
Tutti, in paese, dicevano che egli era un santo, venuto a convertire la popolazione
che negli ultimi anni, dedita solo a far quattrini e a mangiare e bere, si
era dimenticata di Dio e della chiesa.
E Gina lo credeva benissimo: ma a lei i santi piacevano dipinti come quelli
dei tabernacoli solitari aperti a tutti nei crocicchi delle strade campestri;
i santi vivi le facevano paura, e il pensiero d'incontrarne uno le dava le
ali ai piedi quando era costretta ad avvicinarsi alla chiesa arcipretale del
paese.
Ed ecco un giorno don Apollinari apparve come un fantasma nero in mezzo ai
pioppi del bosco lungo il fiume. E cercava di lei, proprio di lei, Gina di
Ginon il pescatore d'acqua dolce.
Il pescatore s'era edificato in riva al fiume un'abitazione quasi stabile,
fatta di tronchi, di assi, di rami e di stuoie di giunco: oltre ad una camera
coi suoi bravi lettucci c'era un'ampia tettoia con tavole e panche dove alla
festa i buontemponi del paese venivano a banchettare; e dietro l'accampamento
non mancava una specie di cortile dove il bravo Ginon allevava le anatre selvatiche
e alcune oche grosse e tranquille come pecore.
La Gina, orfana di madre, faceva da massaia. In principio veniva solo di giorno
a portare da mangiare al padre e badare alle oche quando egli era alla pesca:
poi col sopraggiungere della bella stagione aveva abbandonato del tutto la
casa della nonna, per fermarsi nello stabilimento paterno. E avrebbe seguito
Ginon anche nella pesca, se fosse stato in lei; ma essendole questo proibito,
trovava da pescare per conto suo, con una piccola rete da gioco.
Protesa su una barca legata alla riva, era riuscita, dopo lunga e paziente
attesa, a prendere uno di quei pesciolini che si chiamano gatti ed hanno proprio
i baffi, quando il parroco apparve. Le anatre e le oche lo circondavano, ed
egli si volgeva di qua e di là come per benedirle e conversare con loro.
Vederlo e buttarsi in fondo alla barca a pancia in giù, poiché in
altro modo non poteva nascondersi, fu tutt'uno per la Gina.
- Egli se ne andrà bene - ella pensava, chiudendo forte gli occhi e
rattenendo il respiro. - Sarà venuto a spasso e se ne andrà.
Non poteva trovare un altro posto? Non poteva proprio?
Passarono alcuni secondi. Ella sentiva la barca dondolare come una culla, e
nel silenzio le anatre gracchiare sommesse, sempre più sommesse, e infine
tacere. Anche le anatre sapeva ammaliare, il prete, con le sue parole magiche.
- Forse se n'è già andato - ella pensava; ma sentiva ch'egli
era lì ancora; poiché la presenza di lui spandeva un profumo
misterioso attorno, come i pioppi che odorano di rosa.
D'improvviso la barca dondolò forte, a lungo, avvertendo Gina che qualche
cosa di straordinario accadeva.
- Bambina, - disse una voce che pareva venire di sott'acqua, - alzati.
Ella si alzò, con gli occhi chiusi nascosti sul dorso della mano.
- Giù quella mano - disse la voce, adesso vicina ed intensa.
Gina lasciò cadere la mano; e di fra le palpebre che si aprivano e si
chiudevano spaurite vide don Apollinari seduto sull'asse, come Gesù nella
barca di San Pietro. Le mani e il viso di lui avevano il colore madreperlaceo
dell'acqua corrente; degli occhi Gina non distingueva il colore perché non
poteva fissarli coi suoi.
- Bambina, - egli disse, immobile come dipinto sullo sfondo arboreo della riva,
- io sono venuto qui per cercarti. Tutte le altre pecorelle sono tornate all'ovile;
anche tuo padre viene alla messa e s'è accostato alla santa comunione.
Tu sola fuggi via ancora, tu sola vivi ancora con le bestioline del bosco e
della riva. È tempo che anche tu ti ricordi di essere cristiana.
Ella prese coraggio, ella che contrastava a tu per tu coi peggiori ragazzacci
del paese.
- È ben quello che volevo dire, sior prevosto; non sono una pecorella,
io.
- Brava, brava - egli disse contento; - allora mettiti lì a sedere e
discorriamo.
Ella si mise a sedere in faccia a lui; voleva dirgli: - Discorriamo pure,
ma io a confessarmi non ci vengo, no -; la sua sfacciataggine però non
arrivava a tanto; l'idea che egli in persona era venuto a cercare di lei la
riempiva di orgoglio, e già anzi il pensiero di offrirgli qualche cosa,
fosse pure un uovo d'anatra, come si usa coi buoni ospiti, germogliava in lei.
- Gina, - egli disse, con le bianche mani giunte e bassa la testa, quasi fosse
lei la santa e lui il peccatore, - da molto tempo io ti conosco e ti seguo.
Tu hai già dieci anni compiuti e ancora non sai né leggere né scrivere
né, credo, dire il paternostro. Tu hai per compagni i peggiori ragazzi
del paese, che ti insegnano le brutte cose, e imprechi e maledici anche tuo
padre e quella poveraccia della tua vecchia nonna che non bada a te perché ha
da combattere con troppe altre miserie. Per questo io sono venuto da te. Se
tu vorrai, sarò io il tuo vero padre; vieni in chiesa, ascolta le parole
che io rivolgo agli altri bambini: ti sentirai un'altra. Verrai? Me lo prometti?
- Sì, sì - rispose lei, riavutasi completamente. - E lei mi darà le
immagini e le medagliette.
- Ti darò le immagini e le medagliette; ma tu, in cambio, alla notte
ritornerai a dormire presso la tua nonna e non andrai più coi ragazzi:
e se loro ti vengono appresso scansali. Del resto anche loro adesso vengono
in chiesa, e spero diventeranno migliori.
- Diventeranno migliori - ammise Gina: - uno no, però, perché è figlio
del diavolo.
- Quale sarebbe?
- Che, non lo conosce? - disse lei sorpresa. - È Nigron, quello che
porta il carbone. Egli viene di là - ella aggiunse, additando la riva
opposta del fiume dove il bosco si eleva come una muraglia nera. - Là c'è il
diavolo che fa il carbone con le pietre, e Nigron viene a venderlo con la sua
barca nera.
Il prete non conosceva questo Nigron, che apparteneva ad un'altra parrocchia,
e che del resto si tratteneva poco sulla riva dopo aver venduto la sua merce
al rivenditore di carbone del paese: le parole di Gina quindi lo interessarono.
- Perché questo Nigron non può diventare buono? E in che consiste
la sua cattiveria?
- Egli ci ruba le anatre, e l'altro giorno mi ha bastonato; e dice che se io
parlo dà fuoco alla nostra casa. A lei, sior prevosto, lo dico, però -
ella mormorò in tono di confessione; poiché sapeva che il confessore
non può riferire i segreti del penitente.
- Dimmi la verità, Gina: e tu hai fatto qualche dispetto al Nigron?
Ella chinò la testa: poi disse, piano:
- Lui aveva legato la barca ed era andato a cercare il rivenditore che ancora
non veniva. Io allora sono scesa nella barca ed ho buttato l'acqua sul carbone.
- Con questo hai forse fatto il suo interesse; - disse sorridendo il prete;
- ad ogni buon fine lui dunque ti ha bastonato e in cambio dell'acqua ti ha
promesso il fuoco. Ma dimmi un'altra cosa: è vero che anche tu non rispetti
molto la roba altrui?
Qui era il punto difficile. Gina sentì un intenso calore al viso e le
parve che i suoi capelli divenissero rossi come quelli del prete: ma poiché non
si trattava di confessione in chiesa, finì con l'ammettere che pure
lei non rispettava troppo la roba altrui.
- Quando vedo dell'uva la prendo: la me piass tant! - esclamò,
e fissò in viso il prete come per chiedergli: «E a lei l'uva non
piace?». - Poi ho veduto delle pere grosse come la mia testa e ne ho
prese due... Due sole, - confermò con l'indice e il medio tesi verso
don Apollinari: e con un impeto di sincerità aggiunse: - e se mi capita
piglio le altre.
- Tu le altre non le toccherai, - egli disse guardandola severo eppure sorridente:
ma il sorriso gli morì sulle labbra, poiché Gina faceva una smorfia
che significava: «E chi me lo impedisce?».
- Ho rubato pure una gallina, - ella riprese quasi vantandosi delle sue prodezze;
- ma l'ho lasciata andar via per paura che il babbo mi bastonasse: poi anche
una scarpa, al mio cugino Renzo; ma questo l'ho fatto per dispetto. La scarpa
l'ho buttata in acqua. Poi...
Qui veniva il grosso: lei stessa lo capiva e si fermò spaurita. Egli
l'incoraggiò:
- Poi? Di' su pure.
- Poi ho preso gli orecchini della nonna. Lei però crede li abbia presi
Vica la gobba, quella che ruba dappertutto, e nessuno le dice niente perché se
no porta sfortuna.
- Che ne hai fatto, di questi orecchini? - domandò con sorprendente
dolcezza il prete.
Ella taceva, piegandosi sulla sponda della barca come per cercare qualche cosa
nell'acqua che vi si sbatteva lieve.
- Non li avrai buttati nel fiume, quelli: di' su pure. Che ne hai fatto, Gina?
Era strana la voce del prete: rassomigliava a quella dei ragazzi quando con
altri compagni s'incoraggiavano a fare assieme qualche birbonata. Ella sollevò la
testa, senza sollevare la persona, e dopo una bestemmia disse:
- Mica li ho mangiati. Li ho nascosti.
- Dove li hai nascosti? In casa, o qui?
Ella si sollevò di scatto: pareva che tutta la sua personcina protestasse
per la dabbenaggine del prete, che la riteneva così stupida da nascondere
il furto in casa propria. E coi lunghi occhi di piccola tigre sorridenti di
malizia crudele, confessò il più grosso dei suoi peccati.
- Li ho nascosti nella barca del Nigron.
Allora fu lui, il santo prete, ad arrossire di collera.
- Che hai fatto, Gina! - esclamò con un estremo sforzo di dolcezza.
- E se vengono ritrovati nella barca il ragazzo passerà per essere un
ladro.
- E non lo è? Lo è, sicuro.
- Come sei cattiva - diss'egli allora, passandosi disperato la mano sui capelli
ardenti. E sentì che qui non c'era da procedere oltre con mezze misure.
Si eresse anche lui sulla rigida persona e si rimise il cappello in testa.
Anche la sua voce mutò: e tutto parve nero e minaccioso in lui.
- Sei tu, e non Nigron, la vera figlia del diavolo. E se continui così,
egli, il diavolo, una sera verrà a prenderti e ti condurrà certamente
alle foreste dell'inferno. Sicuro!
Questa bella promessa ebbe l'effetto desiderato. Gina impallidì e tornò a
nascondersi gli occhi sul dorso della mano.
- Ti sai almeno fare ancora il segno della santa croce?
Ella si fece il segno della croce, ma con la mano sinistra: poi, atterrita
dalla visione delle foreste dell'inferno, dove intorno ai cumuli di carboni
ardenti migliaia di diavoletti simili al Nigron danzavano sogghignando, disse
con una vocina di ranocchio:
- Verrò... verrò...
Voleva dire: verrò a confessarmi: e non pensava che la prima confessione
l'aveva già fatta.
IL LEONE
Un tempo frequentava la nostra casa un giovine pittore, nostro lontano parente:
bravo ragazzo, allegro, sano, ricco di casa sua e quindi disinteressato.
Anche troppo, disinteressato. Aveva, per esempio, la mania di far regali. Ogni
volta che veniva a trovarci portava fiori, libri, disegni, scatole di dolci.
Una volta mi regalò un bel gatto soriano, un'altra un pacco di carta
da lettere con tanto di stemma e di corona; prezioso dono del quale però non
ho mai potuto approfittare per non andare incontro ad una accusa anche giudiziaria
di abuso di titoli nobiliari.
Il peggio è che il nostro amico non voleva assolutamente essere contraccambiato,
neppure con un modesto invito a pranzo; il che, a lungo andare, continuando
egli nella sia pure inutile sua generosità, dava un certo fastidio.
Si fu quindi quasi contenti quando egli partì per un viaggio di studio
in Libia. Per qualche tempo non si seppe nulla di lui; finché un giorno
mi vedo capitare in casa un giovine servo arabo, tutt'occhi e tutto denti,
che ha da consegnarmi una lettera urgente.
È
il nostro amico che scrive: è ritornato dal suo viaggio, col bruno servetto,
con un cavallo berbero, con un leoncino, e non so quante casse di tappeti e
oggetti orientali. Annunzia una sua prossima visita.
- Adesso! - penso io spaventata. - Adesso mi riempie la casa di oggetti caratteristici
e belli, ma dei quali farei molto volentieri a meno.
Il mio spavento si mutò in terrore quando egli venne. Per la prima
volta da che ci si conosceva, non portava nulla: solo mi annunziò che
mi avrebbe più tardi regalato il leoncino.
- Prima lo lascio crescere, poiché ha bisogno di certe cure e di una
educazione speciale, poi glielo porto. Vedrà come è interessante
e diverso dal come ci si immagina sia un leone.
- Senta, - dissi io garbatamente, - perché non lo regala meglio al Giardino
Zoologico? Anche Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio ha fatto così.
- Lasci andare. Lei parla in questo modo perché naturalmente ha paura
che la bestia possa far del male. È un ridicolo malinteso attribuire
qualità feroci al leone. Il leone è l'animale più timido
che esista, ed anche generoso. Molti esempi ce lo provano. Inoltre è lui
che ha paura dell'uomo e non lo assale mai se non per difendersi. Da giovane,
come il mio, è poi anche veramente bello di aspetto, e grazioso nei
suoi giochi innocenti. Mi permetta di portarglielo; vedrà, poi mi ringrazierà.
Lei che ama le bestie, che si diverte a osservarle e descriverle, lei che ha
tratto inspirazione anche da una vile e ingrata cornacchia, vedrà quante
cose belle potrà scrivere quando avrà conosciuto il mio leoncino.
Parlava serio e convinto: convinta però non mi sentivo io, e quindi
insistevo:
- Senta, la ringrazio molto; ma io non amo più le bestie: non mi interessano
più. E poi non ho più neppure voglia di scrivere.
- Queste sono storie. Io il leone glielo porto. Quando meno pensa, lei se lo
troverà in casa e non si pentirà di accettarlo. Per adesso non
parliamone più.
E si parlò di altre cose. Egli raccontava del suo viaggio, dei suoi
lavori, delle sue avventure, del servetto arabo; io l'ascoltavo con attenzione,
ma non mi sentivo tranquilla; poiché tutti i suoi discorsi, ed anche
il suo modo di esprimersi, un tempo limpido e lieto, adesso avevano una tinta
di stramberia: quindi mi davano l'impressione che il sole d'Africa avesse non
solo abbronzato la pelle ma anche sconvolto le belle qualità mentali
del nostro amico; e la sua fissazione di portarmi in casa una belva feroce
mi dava da pensare per sé stessa.
Quando dunque se ne fu andato dissi alla mia domestica:
- Bada che quel signore io non voglio riceverlo più. Se ritorna gli
dirai che sono partita, ma che non sai per dove, né quando ritornerò.
O trova tu la scusa migliore.
Non le spiegai il perché, per timore ch'ella più paurosa di me,
mi scappasse di casa; ma il giorno dopo, con la scusa che i ladri cominciavano
a visitare i nostri dintorni, feci mettere la catena di sicurezza alla porta,
con l'avvertenza a tutti in famiglia di non aprire se non dopo essersi assicurati
chi c'era di fuori.
Fortunatamente il pittore non si lasciava più vedere. Sapevo che aveva
stretto una relazione intima, con una bella signora, e nello stesso tempo preparava
una sua importante mostra di quadri e disegni; speravo quindi che fra tante
sue occupazioni l'amicizia per noi sbiadisse o magari si cancellasse del tutto.
Un giorno però egli venne in persona a portare i biglietti d'invito
per l'inaugurazione della mostra, e la domestica, fedele alla sua consegna,
non lo lasciò entrare.
La sera stessa parecchie persone vennero a domandare notizie della mia salute.
La mia salute era ottima, e non sapevo a che attribuire tanta premura in gente
che credevo indifferente, quando la serva mi spiegò:
- Sa, poiché quel signore insisteva per sapere notizie di lei gli dissi
che era gravemente malata.
- Facciamo gli scongiuri - dico io; ma realmente comincio a sentire un certo
malessere quando so che la notizia si è rapidamente diffusa nella città e
fuori. Arrivano lettere e telegrammi di amici e parenti; i fornitori domandano
alla serva se è vero che il Papa mi ha mandato la sua speciale benedizione:
persino la signora X, che ce l'ha con me a morte per la sola innocente ragione
che al suo giovine figlio scrittore di novelle i giornali non concedono un
adeguato compenso, persino lei s'impietosisce e domanda se c'è probabilità di
salvarmi.
Di giorno in giorno la malattia si aggrava e si complica; e deve essere veramente
eccezionale perché nessuno sa dirne il nome.
Poi il tempo e la primavera dissiparono il pericolo: lo strano fu che, dopo
essere stata per venti giorni fra una vita e una morte immaginarie, io mi sentivo
davvero come una convalescente, non felice però come lo sono di solito
gli scampati a una penosa malattia. Tutto mi dava fastidio, specialmente lo
squillo del campanello della porta. Non avevo più voglia e forza di
lavorare: seduta davanti allo scrittoio mi incantavo a guardare il bianco ciliegio
che dallo sfondo azzurro della finestra mi porgeva i mazzi dei suoi fiori delicati;
e respingevo quest'omaggio, domandandomi cosa c'è dopo tutto di meraviglioso
nel periodico ritornare della primavera. Passerà di nuovo la primavera,
passeranno e torneranno le altre stagioni; tutto va e viene, tutto è vuoto
ed inutile. Sta a vedere che divento nevrastenica pure io. Avrei bisogno di
scuotermi, con qualche cosa d'insolito che mi facesse soprattutto ridere: non
mi divertono più neppure gli acrobatismi del bel gatto soriano che scherza
intorno a me, e penso piuttosto con rimpianto al leoncino rifiutato: la sua
presenza regale, i suoi giochi pericolosi, lo scuotersi della sua criniera
che deve ricordare il colore e l'agitarsi delle sabbie del deserto, sono certo
più interessanti dei salti di un gatto da salotto.
Ed ecco un pomeriggio, sul tardi, mentre ero sola in casa e non sapevo se sdegnarmi
o rallegrarmi coi bambini che giocavano nella strada e suonando ogni tanto
il campanello della mia porta mi procuravano la scusa di non andare ad aprire
neppure a qualche probabile visitatore, sento un'automobile che viene giù di
corsa rombando e si ferma sotto le mie finestre.
I bambini urlano. Poi silenzio. Poi sento che il pizzicagnolo di fronte abbassa
la saracinesca del suo negozio; poi il grido di spavento di una donna; infine
lo squillo insistente e violento del mio campanello.
Una disgrazia è certamente accaduta; qualcuno è andato sotto
l'automobile, e si suona alla mia porta in cerca di soccorso.
Corro dunque ad aprire, e la prima cosa che intravvedo sono i bambini che fuggono;
poi molte persone affacciate con curiosità ed inquietudine alle finestre
alte.
Davanti a me, fresco, sorridente, in gambali e spolverina, col berretto in
mano, è l'amico pittore. In mezzo alla strada c'è l'automobile
con dentro il leone.
A dire il vero il leone io l'avevo già intravveduto, nel mio stesso
presentimento. Quindi non ricordo di essermi spaventata e neppure stupita.
O forse il coraggio mi era cresciuto in tutto quel tempo di noia e di meditazioni
sulla inutilità dei nostri vecchi sentimentalismi e pregiudizi: fatto
sta che spalancai la porta, e mentre invitavo il giovine ad entrare, guardavo
in alto, verso i miei esterrefatti vicini di casa, pensando quasi con allegria
ai loro commenti sui personaggi e le visite che io ricevevo.
Il giovine però non si decideva ad entrare.
- Ho condotto io la macchina e non posso lasciarla sola, capirà, per
quanto la gente non si avvicini.
Non era vero. Un operaio che passava in quel momento, con la giacchetta sulla
spalla e fumando la pipa, s'era fermato a guardare; non solo, ma con tanta
tranquillità che si tolse la pipa di bocca per sputare.
Anche il leone, per dire il vero, non dimostrava la tradizionale ferocia; non
si agitava neppure come quelli dei giardini zoologici. Era davvero un leone
straordinario, con gli occhi fissi e imbambolati di agnello, e la giubba, di
qua e di là della faccia schiacciata, chiara e ondulata come una parrucca
bionda: era infine un leone imbalsamato.
Rimase freddo e buono anche quando io mi accostai alla sua gabbia di lusso
e gli accarezzai la testa; allora le donne di servizio, i bambini, il lattaio
e il pizzicagnolo, e persino un vecchio prete e una coppia distratta di innamorati
si accumularono intorno all'automobile, e tutti si rise come davanti alla baracca
ambulante delle marionette.
ACQUAFORTE
Eri venuta ospite nostra una notte d'inverno, e delle notti d'inverno avevi
il nero splendore. Solo un latteo chiarore circondava la tua grande pupilla,
e quando il giorno era limpido, piegando da un lato e dall'altro la testa,
tu fissavi il cielo or con l'uno or con l'altro dei tuoi occhi, quasi per riattingervi
e rinnovarvi la luce.
Il tuo grido era allora di gioia: un grido boschivo che ricordava la serenità ombrosa
delle foreste sui monti, e pareva rispondere a un lontano grido di gioia da
noi non sentito.
Ma quando il tempo era scuro il tuo gracchiare selvaggio accompagnava la corsa
insensata delle nuvole, lottava con l'assalto feroce del vento, e pareva una
protesta contro l'uomo che ti aveva preso dal nido e mutilato le ali e la coda,
riducendoti come una barca senza remi e senza timone, per renderti meglio prigioniera
degli uomini e impedirti di volare e di mischiarti, elemento fra gli elementi,
al movimento eterno dell'universo.
Eppure eri amica degli uomini, e, forse per ragioni di natura, di quelli più elementari,
più vicini a te. Quando gli operai barbari e sensuali ti chiamavano
dalla strada, tu rispondevi a loro, con un'altra voce tua speciale, pietrosa
e risonante, che pareva l'eco delle alte grotte dove la tua famiglia si rifugia
nei giorni scuri e freddi.
Ed eri amica anche delle persone in apparenza semplici, che si divertivano
ad osservare i tuoi molteplici movimenti d'istinto; istinto di lotta continua
che pareva un giuoco, come del resto è il gioco degli uomini; e traendone
materia di riso, di studio, di deduzioni ricercate fin nelle più profonde
origini, non si accorgevano che, pure compassionandoti e ingozzandoti, ti trattavano
crudelmente per il loro solo piacere.
Ma sopratutto eri amica di chi veramente ti amava perché eri piccola
e distolta dalla tua sorte, o solo forse perché nella tua come nella
sua pupilla ritrovava l'infinito mistero di Dio.
Illusione era forse anche questa amicizia: tu non sapevi con chi avevi da fare;
non sapevi se io ero un uccello simile a te, o un albero, o una roccia: certo,
però, tu rispondevi al mio richiamo, e salivi sul mio braccio e sulla
mia spalla come sui rami di un albero rivestiti di musco.
Non per affetto ci salivi, ma perché ti era grato il tepore della mia
veste e della mia carne; e per rubare le forcine dai miei capelli e arrotare
il tuo becco sul mio pettine.
Ti divertivi a tuo modo, ed io a modo mio. La levità dei tuoi arti feroci,
la carezza del tuo becco uncinato che, più terribile di un doppio pugnale,
può introdursi nella carne viva per strapparne meglio ad una ad una
le fibre sanguinolenti, il contatto con le tue piume tiepide, mi davano l'impressione
di essere, pure curva sull'umile lavoro domestico, un pino slanciato nell'immensità della
bianca notte estiva.
Per queste illusioni, anch'io, e non per te stessa ti amavo.
E se avevi imparato a rispondermi, se mi venivi sempre appresso e la mia camera
alle altre preferivi, era perché io ti davo da mangiare, ti difendevo
dai pericoli, ti permettevo di nasconderti nell'armadio come nelle tue grotte
natìe: ma io ti ero egualmente grata, per questo avvicinamento materiale,
illudendomi che esso potesse svolgersi in amicizia umana.
- Se tu un giorno te ne andrai, - pensavo, - tu tornerai certamente, non fosse
altro per i vantaggi che io ti offro.
Così, dopo che tu avevi fatto il tuo bagno selvaggio, ti lasciavo il
mio posto al sole, ti pettinavo col mio pettine.
E tu te ne mostravi grata; piegavi in avanti la testa e i tuoi occhi si riempivano
di una luce che mi sembrava quasi di occhi umani. Era la tua voluttà animale
che ti faceva far questo; io lo sapevo, eppure mi illudevo che fosse la gratitudine.
E se un estraneo entrava nella mia camera tu lo beccavi, gracchiando; così un
cane fedele morde e abbaia se il padrone è minacciato. Perché facevi
questo? Perché facevi questo anche contro il mite sarto dalle bianche
mani insensibili, quando, inginocchiato sul tappeto come davanti ad una santa
mi provava, senza toccare altro che la sua stoffa preziosa, il vestito di lusso?
Forse sentivi che anche lui, lui più di tutti, era un mio cattivo nemico.
O era un'illusione mia pure questa; ma io ti volevo bene appunto perché mi
creavi queste illusioni.
Da te ho tratto argomento di poesia; da te che sei, dopo il corvo, l'uccello
il più malvagio e sgraziato; la cornacchia nera: ma sei anche l'uccello
che, dopo l'aquila, ama stare più alto di tutti; la cornacchia dei campanili.
I bambini hanno riso nel leggere la storiella della tua prima fuga, quando
ancora senza coda e senza ali, ma già ingrata e irriducibile, fuggisti
di casa, e invece di raggiungere il cielo sei finita in un sottoscala. Per
te i grandi hanno pianto, leggendo la storia del servo che lungamente in segreto
amò la padrona insensibile e interessata.
Anche ieri un uomo mi disse di aver passato la giornata più triste della
sua vita confortandosi col leggere la storia del povero Fedele. Per questo
ti volevo bene; perché producevi del bene.
Ed ora scrivo la tua terza ed ultima storia, non per gli altri, ma per me.
Io ti ho lasciato crescere le ali e la coda, per farti volare. Dicevo a me
ed agli altri: è un delitto opporsi alla natura, fermarne il movimento
universale, sia pure col tener prigioniera una cornacchia e proibirle di continuare
la sua specie.
Ti facevo crescere le ali e la coda; e la natura mi aiutava nell'opera buona.
Poiché era il tempo degli amori e della cova dei tuoi simili; tempo
di autunno, quando gli uccelli carnivori e predatori, che per procreare sdegnano
il molle nido sugli alberi, si raccolgono nei ripostigli rocciosi, in alto,
o sulle cime più alte costrutte dagli uomini. Ti eri fatta bella; avevi
perduto le prime piume; te le eri strappate tutte di dosso, e le nuove ti rinascevano
meravigliose.
Dove tu passavi rimanevano i brandelli della tua prima veste mutilata; ed erano
come ricordi di dolore e debolezza che tu buttavi via dietro di te. Le piume
nuove riflettevano adesso, nere fino all'impossibile, i colori dell'iride.
Eri bella. O eri bello? Perché mai si è saputo se eri maschio
o femmina. La testa era certamente di femmina, con le orecchie coperte da ciuffi
di piume infinitamente piccole, e il resto da un casco di altre piume che a
toccarle davano il senso della cosa più morbida dolce e voluttuosa che
esista sulla terra.
Forse eri femmina, perché preferivi alle donne deboli e sentimentali
che ti dimostravano amore, i giovani dominatori ai quali obbedivi e ti sottoponevi.
Ma il corpo, o l'apparenza del corpo, era di maschio: mentre prima sembravi
un D'Artagnan volatile, speronato, con la sola penna della coda fuori del corto
mantello come la punta obliqua della spada audace, adesso, con le ali nere
armoniose ripiegate sulla coda perfetta, davi l'idea di un don Giovanni moderno
che col suo inappuntabile frak si dispone a recarsi ad un ballo di corte.
Per questo ti si voleva bene: per la tua elegante e ambigua bellezza. Anche
quelli che non vogliono bestie nella loro casa, poiché essi, per la
loro civiltà che ha raggiunto il punto piramidale della perfetta coscienza,
si sentono definitivamente fuori dello stato animale, anch'essi ti volevano
bene.
Poiché la bellezza s'impone, come la più pura emanazione di Dio.
Bellezza e fortuna. E tu rappresentavi anche la fortuna, come il gatto nero,
come il doppio frutto venuto dalla Persia, come tante altre cose rare: fantasie
orientali che si diffusero nei popoli, come il chiarore del sole, fino all'estremo
occidente, e rinnovano il mito della Terra promessa.
E c'era chi ti sopportava solo per questo. Ma infine c'era pure qualcuno che
ti voleva bene solo perché amava chi ti amava.
Per lungo tempo si parlò di te, fra noi, come di un bambino alle sue
prime prodezze, ed anche come oggetto di osservazioni profonde.
E vi furono dissensi famigliari per te; per l'acqua che sprizzava dalla catinella
del tuo bagno; per il tuo intempestivo intervento sulla tavola apparecchiata,
per i libri religiosi sul tavolino del credente che tu strappavi con furore
pagano. Ma quando eri minacciata di castigo sapevi ben rifugiarti sulla mia
spalla; e di lassù irridevi tutto e tutti come dalla cima del tuo campanile
natìo.
Per tutte queste cose, e perché col metterti a dormire nel tuo rifugio
notturno io salutavo il giorno passato in pace e in guerra, io ti volevo bene.
Per te, per difenderti dal tuo solo dichiarato nemico, altro ospite un tempo
favorito, ho scacciato crudelmente di casa il bel gatto Tigrino.
E quando Tigrino è scomparso, probabilmente tramutatosi in lepre o coniglio
sulla tavola dell'osteria accanto, ho sospirato oramai sicura della tua salvezza.
Perché tu già cominciavi a volare e ricercare la tua libertà all'aperto.
Passavano le altre cornacchie, rompendo il silenzio dei primi freddi coi loro
stridi d'amore.
E se il cielo era scuro e tu dovevi stare in casa ti agitavi come una piccola
belva. Non potendo volare sugli alti pini, volavi sui letti e sugli scrittoi,
facendo egualmente scempio dei libri e delle carte del credente, dello scienziato
e dell'umanista.
Solo sulla tavola del poeta nulla trovavi; poiché, come te, il poeta
non possiede che le sue ali ognora crescenti, e la forza, a lui stesso misteriosa,
conferitagli da Dio.
E, come te, ha la penna per becco e il nero lucente del suo calamaio; e queste
sole sue armi le tiene nascoste per evitare ogni pericoloso disordine.
Un ordine nuovo tu l'hai portato anche nel resto della casa: hai costretto
la serva a chiudere gli usci, e, poiché volavi anche sui cassettoni,
e vi rubavi gli oggetti preziosi, insegnasti a noi di nasconderli come si deve
fare coi nostri sensi più cari.
Ma quando tutto pareva sistemato, tu sei volata via. Dal balcone ti ho veduto
volare sull'albero più alto, donde mi salutasti col tuo grido di gioia:
dall'albero sul tetto; e di là hai incrinato il chiaro cielo che si è aperto
per raccoglierti.
Come la pupilla del moribondo sei scomparsa in alto e il cielo si è chiuso
sopra di te.
Così, d'improvviso, hai abbandonato la casa comoda e tiepida, il cibo
sicuro, l'amore degli uomini; così forse vola via dal carcere caldo
e molle della carne e ritorna dove nulla esiste tranne il suo stesso sogno,
l'anima nostra. Allora, Checcolina, piccola cornacchia cattiva, allora, posso
dirti la verità, ho provato con te un senso di gioia e di liberazione:
ti ho pure invidiato.
Ma quando sul cielo la sera si distese nera come una grande cornacchia morta
inchiodatavi su ad ali aperte, ho pianto come un'amante ingiustamente abbandonata.
Sapevo di piangere non per te, e per la tua fuga, ma perché tu ti eri
portata via un anno intero della mia vita, forse il migliore, con tutta la
sua collana di giorni trascorsi in pace e in guerra: anno che non tornerà mai
più. E non c'è morte che noi piangiamo come la morte di noi stessi.
STRADE SBAGLIATE
Nell'ampio e ordinato gabinetto del celebre frenologo, davanti all'imperiale
figura di lui sta seduta, tutta protesa verso lo scrittoio che li separa, una
signora ancora giovane ed elegante, ma il cui impeccabile tailleur col
relativo gilè bianco, sembra preso in prestito da una persona molto
più grassa di lei: il cappellino rosso contrasta con gli occhi azzurri
spalancati e strabici, come la linea dei denti luminosi e intatti col viso
scavato e ombroso di peli.
In un canto è seduto, rigido e con le mani incrociate sulle ginocchia
unite, pallido e consunto come un martire già morto, un uomo di mezza
età. È il marito della signora. Egli ha già ultimato tutte
le pratiche per l'"internamento" di lei, e aspetta che il Grande
Dottore interroghi la malata e l'accolga nell'Istituto che ha un fresco nome
di Villa salutare e felice mentre la contadina che vi porta le uova di giornata
la chiama semplicemente «la pazzeria».
- Dunque, cara signora, - dice con voce brusca e burlevole il salvatore delle
menti naufragate, - lei mi racconterà adesso, con calma, com'è andata
la cosa.
- Com'è andata? Devo cominciare da principio? Da quando è cominciata
la malattia? O prima ancora? Da quando ero bambina? Da dove devo cominciare,
Albino? Da quando?
- Si rivolga a me, signora, non a suo marito.
- Ma è lui che deve dirmi...
- Ma chi è il medico qui? Io o suo marito? Dunque, stia buona: risponda
a me. Quando è cominciata la sua malattia?
- Sono dieci mesi circa, sì, dall'estate scorsa. Al mare. Mi hanno condotto
al mare, capisce, mentre dovevano condurmi in montagna. Perché io sono
nervosa, e sono nervosa perché tutte le cose mi sono andate di traverso,
nella vita. Già, sono figlia di un padre vecchio: era un dottore, mio
padre, medico condotto in un paesetto sperduto di montagna: era un uomo intelligente,
ma la solitudine e il contatto con montanari rozzi e idioti lo esasperavano.
Allora beveva. Ed ecco che sono nata io. Egli lo sapeva, che dovevo nascere
disgraziata; perché mi ha fatto nascere? Lo dica lei il perché.
Lei che sa delle leggi fatali dell'eredità.
- Lasci l'eredità, signora. Neppure i polli credono più, adesso,
a queste famose leggi. E lasciamo in pace i morti. Mi parli di lei, e solo
di lei.
- Di me? Ah, sì, di me. Da bambina, dunque, anch'io sentivo la melanconia
d'esilio che tormentava mio padre, e le esaltazioni di lui dopo che aveva bevuto.
Allora egli parlava del mondo lontano, delle città grandi, come di un
paradiso conquistabile. Mia madre, ch'era del paese, scrollava la testa, e
si rattristava. Ma era una debole anche lei: non sapeva opporsi alle sregolatezze
del babbo e non sapeva sottrarmi all'influenza di lui. Così io facevo
una vita quasi animalesca, sempre fra i dirupi, a guardare le lontananze ed
a cantare, a cantare; ma un canto esasperato che era come il richiamo a cose
impossibili. Sognavo niente meno di sposare un principe, venire nella grande
città, ed essere sempre in festa, fra musiche, canti, danze, colori.
Ma io l'annoio, dottore, io parlo male; ho la testa vuota e non so quello che
dico. Io sono malata, molto malata, e lei deve compatirmi. E questo santo uomo
di mio marito, Albino, le dirà...
- Continui lei, signora, prego. Lei parla benissimo. Continui.
- Ah, dunque, non ricordo più. Ho la testa come la volta di una cattedrale,
grande, grande; e le parole vi rimbombano come il suono delle campane. Dunque;
ah, sì; sognavo un principe: e invece mi domandò in matrimonio
il veterinario. Era un bel giovane, alto, forte, che curava le bestie con affetto
paterno: anche gli uccelli feriti, curava, anche i conigli e, mi ricordo, una
volta, anche una tartaruga che noi si aveva nell'orto ed era caduta da un muraglione.
Era buono, con due occhi che sembravano due margherite brune. Mi piaceva, adesso
posso dirlo anche davanti a te, Albino; gli ho corrisposto in segreto; ma quando
si trattò di sposarmi non ho voluto più saperne. Mi vergognavo
di lui, della sua posizione, del mio e del suo amore. Poi sei venuto tu, Albino:
ti ricordi, Albino?
- Parla col dottore - ammonisce rassegnatamente il martire.
- Mio marito è ingegnere ferroviario: era capitato lassù quando
si costruiva la linea: ci si incontrò, e la sola possibilità di
andar via con lui, e la speranza di un avvenire luminoso, me lo fecero apparire
subito come un inviato da Dio.
- O dal diavolo, via! - brontola il martire, con un sorriso nero.
- No, Albino, no, - comincia a spasimare lei, tremando e sussultando tutta
come un'acqua ferma dentro la quale si buttano sassi, - non parlare così.
Zitto, zitto! Zitti tutti! Non mi date contro, non mi perseguitate. Una corda,
piuttosto, una corda per strangolarmi.
- Calma, signora, calma.
Passato alquanto l'accesso che non è stato forte perché il marito
non vi si è opposto, ella riprende:
- Ah, dunque, che cosa dicevo? Ah la mia testa è un mulino a vento;
le mie braccia sono le ali. Vede come girano? Eppoi i sogni, dottore mio, i
sogni orribili, nei brevi momenti di sonno. Dormire sarebbe guarire, ma i sogni
sono l'inferno. È il castigo: è giusto. Io mi sono sposata senz'amore,
e non ho voluto figli. Volevo divertirmi, godere la vita: e l'ho goduta. Ho
avuto le cose che sognavo, i vestiti, le feste, le musiche, le amicizie che
mi hanno stravolto la mente. Quelle donne del palazzo dove si abitava... Mi
pigliavano in giro, si beffavano di me... Ero vestita come una contadina...
Ma io ho voluto vincere. Sono andata dai grandi sarti. Albino mio marito, qui
presente, povero amore, povero cristiano, Albino mi ha comperato la pelliccia
e le perle... Ma non ero contenta; mai contenta. Leggevo le cronache mondane
e invidiavo le dame dell'aristocrazia: loro sole erano felici; e mentre si
davano le grandi feste, le prime rappresentazioni, i concerti di lusso, io
mi rodevo, a casa, costretta ai lavori domestici. Ma in fondo sentivo di essere
stupida e ignorante. Allora ho cominciato a leggere, a leggere, di giorno e
di notte, chilometri e chilometri di pagine, in una corsa pazza nel mondo dell'impossibile.
Anche libri di scienze, leggevo: volevo sapere, volevo spiegarmi il mistero
di questa nostra vita senza meta e senza scopo. E la lettura riempiva in qualche
modo il vuoto che era non fuori ma dentro di me. Allora mi riprese l'antica
passione. Pensavo sempre al mio primo fidanzato. Albino è buono, è santo,
ma è la realtà fatta persona; quell'altro era il sogno, l'amore,
la fanciullezza perduta. E ho voluto rivederlo. Lassù. Aveva moglie
e figli. Era grasso e invecchiato, con gli occhiali sporchi. Non mi guardò neppure.
Ritornai giù più disperata di prima: Albino, povera creatura,
faceva di tutto per distrarmi: i suoi guadagni se ne andavano per me. Io avevo
già il verme nel cervello: gli occhi mi si offuscavano. Dovetti smettere
di leggere, e questo fu l'ultimo crollo. D'altronde neppure i libri m'interessano
più. Tutto è vuoto d'intorno a me, tutto è vuoto d'intorno
a me, tutto è vuoto...
- Abbiamo capito, signora - dice il grande dottore, strizzando gli occhi con
una certa malizia. E d'improvviso si solleva, ancora più imponente,
ed anche sulla sua testa ferina i grandi capelli d'argento pare si gonfino
come le piume di un'aquila in collera. Eppure egli non è sdegnato: anzi
sembra sul punto di ridere: forse ha trovato nella malata un soggetto speciale,
e lo accoglie con gioia, come una fonte di nuovi studi. Volge l'orecchio verso
di lei, per ascoltarne meglio la voce.
- Lei, signora, adesso risponderà semplicemente alle mie domande. Lei
quali sintomi, oltre quelli da lei vagamente indicati, sente? Ha palpitazioni,
senso di soffocamento, freddo alle estremità?
- Sì, sì - ella risponde con ansia. E maggiore è la sua
ansia, maggiore è la soddisfazione di lui.
- Benissimo. Benissimo. Sente lei l'assenza assoluta di volontà a vincere
la sua angoscia?
- Sì, sì... Ma mi spieghi lei, perché?...
- Le spiegherò dopo. Sente lei...
E dopo il lungo interrogatorio egli spiega alla donna ansiosa il mistero della
sua malattia.
- Lei crede di essere pazza, e la sua pazzia consiste nel credersi tale. Lei è come
uno che ha lasciato la strada dritta e sicura per inoltrarsi in un'altra che
gli pareva più breve e piacevole. E invece si è smarrito; è in
un labirinto boscoso e pietroso dal quale crede di non poter più uscire
vivo. Cadono le tenebre e il terrore aumenta. L'uomo corre, cerca tutte le
uscite, torna indietro, si aggira intorno a sé stesso, chiama aiuto,
e il suono stesso della sua voce, gli sembra la minaccia di un nemico. S'egli
si buttasse a terra e facesse una bella dormita, potrebbe, al ritornare della
luce, rifare la strada percorsa e ritrovare la buona via. Invece no, corre
ancora, nel buio, urla, si ferisce con le pietre e con le spine: crede di essere
pazzo e lo è semplicemente perché si crede tale. Ma queste sono
accademie. Lasciamole lì. È meglio che io adesso, cara signora,
le faccia fare un bel bagno caldo, poi la metto a letto per venti giorni. Là ha
tempo di ripensare ancora al suo bel veterinario il quale, poveraccio, in questo
momento starà a salassare qualche cavallo.
MATTINO DI GIUGNO
Quando i primi rumori della città incrinano il silenzio antelucano
e il cielo si apre bianco verdino come una fava fresca appena sbucciata, la
madre di famiglia si sveglia; non del tutto però, poiché è sana
ed ancora giovane, e il dormiveglia dell'alba la possiede con tutta la sua
mollezza serpentina.
Ma mentre il corpo si abbandona ancora a questo tradimento, lo spirito già vigila
e concede al suo compagno la breve sosta sul margine del sogno, come un interesse
anticipato sul credito che quello sborserà durante la giornata: poi
al momento opportuno lo scuote e lo fa balzare. La madre di famiglia si alza,
e fa la sua breve ma non trascurata toeletta: è come una corazza ch'ella
indossa, per non pensarci più ed essere subito pronta al combattimento
quotidiano. Lasciato lo specchio ella non ricorda più le sue sembianze:
solo gli oggetti intorno e le persone care hanno oramai sembianze e vita per
lei.
La finestra è aperta, e il verde viso del giardino sorride, riverso,
alla padrona che lo guarda un momento dall'alto per scrutare da lui, più che
dal cielo, il colore del tempo. Se il giardino sorride e il primo sole dora
le foglie della palma come quelle della domenica avanti Pasqua, vuol dire che
la giornata è bella. Sia ringraziato dunque il Signore che ancora una
volta manda sulla terra il dono divino di una bella giornata. Questa è l'esultante
preghiera che la donna madre di famiglia ricambia in regalo a Dio.
Poi comincia a rifare la sua camera. La sua camera è grande, piena d'aria
e di luce, ma arredata ancora all'antica, con mobili a colonnine, il letto
matrimoniale ricoperto da una campagnola coltre bianca. Da questo letto ella
ha esiliato in un'altra camera il marito, non perché non si vogliano
ancora bene, ma perché egli russa, e la madre di famiglia ha bisogno
di riposare la notte.
Rimessa in ordine la sua camera, ella entra in quella attigua, per salutare
il suo sposo (da poco sono state celebrate le loro nozze d'argento) che in
mezzo al caos degli oggetti intorno si fa la barba e risponde affettuosamente
al saluto della sua compagna, a patto però ch'ella non metta neppure
la punta di un dito nelle cose rimescolate e come fatte impazzire da lui.
Ella sa aspettare: i suoi occhi dicono agli oggetti:
- Pazienza, eh? Saprò farvi poi rinsavire e tornare a posto io.
C'è da fare altro, intanto; ed ella va a picchiare all'uscio dei figliuoli
che devono andare a scuola, e poi a svegliare la sua bambina. Odore di latte,
di capelli folti, di fiore di vita, è nella piccola camera dove la bambina
dorme e alla scossa e al richiamo della madre si sprofonda col viso sul guanciale
come chiedendo aiuto al sonno perché non se ne vada.
Il sonno la tiene ancora, ma la madre è più forte di lui e con
le buone e con le cattive lo scaccia lontano. Allora la bambina torna d'un
balzo alla gioia di vivere: rivolge il viso alla madre, e la madre ha l'impressione
di vedere una rosa che sboccia sul cespo lucente. Ella non assiste alla toeletta
della bambina, alla quale ha già insegnato a vestirsi, a pettinarsi,
a curare il tesoro di perle vive dei suoi denti nuovi: ha molto da fare e non
può indugiarsi in inutili tenerezze.
Ha molto da fare; specialmente in cucina. C'è la serva, ma questa serva
sembra piuttosto un figurino di mode, con le calze di lusso e l'aria svogliata
di una principessa che è stata al ballo. Ha lasciato andare il latte
sul fuoco e spolvera i mobili e i pavimenti solo dalla parte visibile: eppure
la padrona non le dice niente: possono mai i timidi uccelli parlare con gli
spauracchi delle vigne e dire loro: levatevi di lì che ci vogliamo stare
noi? La signora anzi cerca di evitare la "signorina" come un astro
intelligente che gira al largo da un pianeta pericoloso.
E poi ha tanto da fare in cucina: prepara la tavola dove il marito e i figliuoli
fanno colazione in piedi, pronti a volarsene via dal nido domestico: il buon
pane quotidiano è già lì, e le bianche tazze vuote aspettano
la gioia di essere riempite. La madre di famiglia beve solo una mezza tazza
di latte, senz'altro, e pare lo faccia per dovere, come si trangugia una medicina,
buona ma sempre medicina. E poi ha tanto da fare: ha da rimettere in ordine
le cose ribaltate dalla serva, e cominciare il rito, davanti al fuoco violetto
del gas, dei pasti domestici.
Si comincia dal caffè: il caffè, amico dell'uomo, suo sostegno
e lieto consigliere finché l'uomo non ne abusa come fa con certi amici
troppo buoni. La cuccuma balla sulla fiamma; le dita bianche e quasi infantili
della signora stringono il cucchiaino come un fiore d'argento, e tutta la persona
di lei è protesa sul nero abisso dal quale esala un aroma d'oriente
che vorrebbe ubbriacare l'attenzione di lei. Ma non si lascia illudere; e quando
il caffè tenta di salire fino ad evadere dalla cuccuma, ella lo ricaccia
dentro col cucchiaino, rimescolandolo fino a placarlo, pronta anche a sollevare
il recipiente col pericolo di scottarsi.
Tutte le faccende vanno fatte così, fuori e dentro di noi: ella lo sa,
e forse ha imparato dalle dure lezioni della vita ad eseguire le cose più semplici
con attenzione e rischio di sé stessi.
Del resto ella sente una certa poesia anche nei colori della cucina, e più che
poesia un senso pittorico, forse perché da fanciulla dipingeva fiori
e nature morte, e faceva dei versi: tutta roba cancellata dalla gelida spugna
dell'esistenza quotidiana.
Così, il grido dell'erbivendolo giù nella strada le dà l'impressione
dei verdi orti con lo scintillio nero della terra irrigata e le macchie sanguinanti
dei pomidoro: e il coscio d'agnello del quale ella taglia senza pietà il
garretto e il tendine sopra il ginocchio, per collocarlo meglio nella teglia
d'arrosto, le ricorda i prati bianchi di margherite e la macchia rotonda del
gregge così immobile che da lontano sembra una piazza polverosa.
La teglia ben preparata è messa dentro il forno, e in breve si sente
un lamentìo, poi una cantilena come di gente che preghi col solo soffio
del suo cuore. Forse è l'offerta dell'agnello a Dio perché il
sacrifizio della sua carne innocente ridondi tutto al bene dell'uomo.
E poiché all'agnello arrosto deve accompagnarsi l'insalata tenera e
fresca, la madre di famiglia scende lei stessa a coglierla nel giardino, dove
la lattughella ondulata e rosea, con le conche delle foglie umide di rugiada
e il cuore appena assalito dalla chiocciolina golosa, fa concorrenza ai fiori.
Se la donna avesse ancora il tempo di scrivere versi, ci direbbe forse come è dolce
atto d'amore il piegarsi sulla terra e vederne da vicino le meraviglie: la
pupilla iridata della rugiada, nel centro del fiore della fragola, vale bene
la pupilla dell'occhio di un amante, con la differenza che questa vi tradisce,
quella no.
Ma la raccoglitrice d'insalata non pensa più a queste cose: pensa piuttosto
che l'annata è cattiva, per il giardino: la siccità e il vento
divoratore hanno devastato egualmente i gigli e i carciofi, e bisogna provvedersi
di un doppio quantitativo d'acqua per tener vivo il luogo.
Questo non le impedisce di cogliere le ultime rose per rendere più lieta,
col loro colore e il loro profumo di giovinezza, la casa dove lei e i suoi
cari vivono come un'anima sola.
Un vecchio mal vestito e col viso di ammalato, si ferma a guardare di fuori
fra le sbarre della cancellata, e i suoi occhi hanno lo stupore invidioso di
chi vede una cosa desiderata che non sarà mai sua. La donna lo crede
un mendicante e gli si avvicina per dargli una moneta: il vecchio solleva gli
occhi lattiginosi e dice:
- Mi dà una rosa?
Ecco la rosa: e nel piegarsi, la donna sente che porge ancora, all'eterno mendicante
che è l'uomo vecchio, l'elemosina dell'illusione.
Ma adesso è ora di rientrare a casa: la sola palpabile realtà della
vita, il lavoro, l'aspetta: realtà dalla quale, del resto, come dal
tronco i rami, si slanciano più vigorosi i sogni. Mentre la donna ricuce
le vesti dei figli, l'avvenire dei figli le si presenta alla mente intessuto
di fili d'oro: essi, i figli, ascoltano adesso la lezione dei maestri, ma domani
saranno maestri anch'essi. La bambina è nella casa austera delle Suore,
ma fra dieci anni sarà nel giardino felice dell'amore.
E il lavorare per essi dà alla necessità del
lavoro la luce miracolosa del piacere.
Forza del rematore che conduce la barca, ardire del navigatore dell'aria che
spezza il mistero dell'ignoto, non avete forse la stessa radice nella volontà che
guida la madre di famiglia a lavorare silenziosamente per il bene dei figli?
Quando questi ritornano, col peso dei libri e dei primi calori di giugno sulle
giovani carni anelanti di cibo e d'aria, e si dispongono intorno alla mensa
apparecchiata, il padre e la madre che hanno lavorato per loro e che li nutrono
adesso del loro lavoro e del loro amore, possono sentirsi anch'essi, da umili
eroi, vicini alla divinità.
Un'orchestra regale accompagna il modesto pasto. Sono gli usignuoli che cantano
nel giardino.
IL SIGILLO D'AMORE
Da venti anni Adelasia di Torres viveva nel suo castello del Goceano. Già la
leggenda ve la diceva rinchiusa dal suo secondo marito, Enzio, il biondo chiomato
bastardo di Federico II; ma in realtà ella vi si era ritirata dopo la
partenza di lui per le guerre d'Italia.
Bello, elegante, guerriero e poeta, Enzio aveva venti anni, e venti meno di
lei; e sebbene sposandola si fosse incoronato Re di Sardegna, non poteva certo
starsene quieto nella piccola reggia di Ardara, dove fino a pochi anni prima
i patriarcali Giudici di Torres dettavano leggi e sbrigavano gli affari di
Stato seduti sotto una quercia.
Egli era dunque partito, dopo soli due anni di matrimonio, lasciando suo Vicario
donno Michele Zanche, e presso Adelasia, forse per sorvegliarla e spiarla,
una giovine camerista tedesca che egli aveva portato, con altro personale di
servizio, dalla corte paterna. Adelasia non amava questa donna, dall'aspetto
maschio e dai piedi enormi; tuttavia la prese con sé nell'esilio volontario
nel castello del Goceano, e le affidò la bambina, Elena, nata dalle
nozze con Enzio.
Nella nuova dimora ella scelse, per abitarvi, le camere più alte, e
fin dal primo giorno s'affacciò alla finestra dalla quale meglio si
dominava la strada che dal castello scendeva alle terre del Goceano e si perdeva
attraverso le valli del Logudoro.
Aspettava il ritorno di Enzio. E fin dal primo giorno vide alla finestra attigua
la testa rossa quadrata di Gulna. Con la piccola bionda Elena fra le braccia,
anche Gulna, la serva straniera, aspettava il ritorno del suo signore.
La strada, che ai piedi del colle roccioso di Burgos si restringeva quasi in un sentiero, arrampicandosi fra le pietre e i cespugli fino allo spiazzo del castello, era quasi sempre deserta: gli occhi tristi della Regina non cessavano tuttavia di fissarne le lontananze, e se qualche cavaliere vi appariva, il cuore di lei palpitava come quello di una fanciulla al suo primo convegno di amore. Ma il cavaliere era spesso un paesano che viaggiava sul suo ronzino, o un armigero in perlustrazione. Anche di notte, nelle chiare notti solitarie, ella si affacciava alla finestra; poi, sola nel suo grande letto vedovile, vedeva ancora la strada che ormai le pareva appartenesse alla sua stessa persona, come le vene delle sue braccia, come la treccia che le scendeva fino al cuore; la vedeva anche nel sonno, come si partisse dai suoi occhi e scendesse al mare, e attraversasse il mare, strada di desiderio e di vana speranza, fino a raggiungere il giovine sposo. E quando al mattino i lentischi e i macigni del sentiero brillavano di rugiada, a lei pareva di averli bagnati con le sue lagrime.
Un giorno finalmente un gruppo di cavalieri autentici animò la solitudine
del luogo. Uno dopo l'altro salivano il sentiero: le loro vesti di velluto
mettevano note di colore nel grigio e nel verde triste del paesaggio, le loro
voci ne scuotevano il silenzio. Uno di essi domandò udienza alla Regina.
Gulna, insolitamente pallida, si piegò fino a terra davanti a lui, poi
lo condusse senz'altro dalla sua Signora.
Era il Vicario, donno Michele Zanche. Giovane ancora, nero ed aquilino, egli
zoppicava d'un piede, ma non nascondeva, anzi pareva esagerasse questo difetto,
tanto sapeva di piacere egualmente alle donne. La fama, infatti, già lo
diceva amante della madre di Enzio, Bianca Lancia, concubina dell'imperatore,
e la stessa Adelasia dimostrava grande simpatia per lui.
Infatti, nel riceverlo, s'era animata e fatta bellissima. I suoi occhi splendevano
come i due diamanti del fermaglio che Enzio, il giorno delle nozze, le aveva
allacciato sulla veste, fra seno e seno, per chiuderle il petto ad ogni altro
amore che non fosse quello per lui.
E questi occhi vedevano, nel Vicario nero che aveva il viso rapace e lo sguardo
nemico, quasi un messaggiero alato, biondo e bello come lo stesso Enzio: poiché notizie
di Enzio egli le portava.
- Il nostro Re sta bene. Combatte da prode e nelle soste si diverte e combina
canzoni d'amore. Una è giunta fino a noi, e noi l'abbiamo imparata a
memoria per ripeterla alla nostra Regina. La ripeteremo dopo aver parlato degli
affari del Regno.
Parlarono degli affari del Regno, che andavano molto bene, sotto il vigoroso
dominio di lui, soprattutto riguardo a lui, che vendeva favori e accumulava
denari per conto suo: Adelasia approvava tutto, si compiaceva di tutto, ma
il suo viso impallidiva come al cadere della sera. Poiché ella pensava
che i versi d'amore del suo Enzio non erano certamente per lei, e ch'egli forse
non sarebbe tornato mai più.
Eppure continuava ad aspettare, e le visite del Vicario le riuscivano crudelmente
gradite. Rompevano in qualche modo il suo monotono dolore, e le notizie dell'infedele
Enzio, anche dopo ch'egli s'era unito ad un'altra donna, le ravvivavano il
sangue.
Donno Michele si divertiva a tormentarla, a vederla soffrire: un giorno però la
trovò fredda e insensibile come già morta.
Anche lui, sebbene dentro si sentisse una letizia d'avvoltoio che piomba sulla
preda, finse tristezza.
- Il nostro Re...
Adelasia sapeva già la notizia, portata da Gulna. Enzio era stato fatto
prigioniero in battaglia e chiuso per sempre in un palazzo di Bologna.
Da venti anni la Regina viveva nel castello del Goceano, e neppure le visite
di Michele Zanche la interessavano più. La figlia Elena s'era sposata
e viveva lontano. Spento ogni raggio di giovinezza intorno a lei e dentro di
lei, Adelasia viveva come in un lungo crepuscolo: tuttavia si sentiva sempre
meno infelice, raccogliendosi e ripiegandosi in sé come il fiore che
nell'appassire si chiude intorno al suo seme.
Non usciva più dalla sua camera, inginocchiata a pregare sotto il grande
azzurro della finestra, e non voleva essere servita che da Gulna.
Gulna la serviva, premurosa, sebbene in apparenza sempre dura e fredda. Non
parlavano mai. Solo, una sera, Adelasia sentì il bisogno di confidarsi
e raccomandarsi a lei. Era d'autunno e già da qualche giorno la Regina
provava un senso di languore e di stanchezza: non soffriva, però, anzi,
sdraiata sul suo grande letto coperto di un drappo a fiori, le pareva di navigare,
incorporea, in una atmosfera nuova. I primi venti di autunno avevano purificato
l'aria, e dalla finestra il cielo appariva altissimo, con solo qualche nuvola
d'oro e di scarlatto che ricordava alla Regina il colore dei tulipani e dei
garofani di Persia che Enzio, nei giorni delle nozze, aveva fatto venire, con
altre raffinatezze delle corti di oltre mare, alla semplice reggia d'Ardara.
Ricordi. Ricordi andavano, ricordi venivano, ma tutti oramai addolciti dal
distacco, galleggianti anch'essi in quell'atmosfera irreale che circondava
la Regina.
Gli stessi mobili, nella vasta camera già vellutata d'ombra, mutavano
aspetto; specialmente le grandi arche nere scolpite che racchiudevano il corredo
di lei. Su una di queste la luce della finestra stendeva una patina d'argento;
e i colombi, le palme, i fiori del melagrano, il calice sacro e la croce che
vi erano scolpiti, prendevano, agli occhi di Adelasia, quasi colore e movimento.
Un sorriso rischiarò anche le sembianze di lei, che avevano già la
marmorea serenità della morte.
Chiamò Gulna. Gulna, che vegliava dietro l'uscio, entrò, alta
e nera, ma coi capelli rossi ancora fiammanti e gli occhi pieni di azzurro.
Si piegò inchinandosi davanti al letto della Regina e attese gli ordini.
- Gulna, apri la cassa lunga, e fammi vedere il vestito di Enzio.
La donna obbedì; nel sollevare il coperchio pesante dell'arca le grandi
mani le tremavano alquanto, per la prima volta; poiché per la prima
volta la Regina aveva, in presenza di lei, chiamato il Re col suo dolce nome.
Un velo copriva le robe dentro la cassa: ella lo sollevò e parve che
il velo stesso del tempo si aprisse per lasciar risorgere il passato.
- Gulna, avvicinati alla finestra e fammi vedere bene.
Gulna obbedì, lentamente traendo e spiegando contro luce i brani del
fantasma luminoso. Erano le vesti di sposo di Enzio; e i loro colori rinnovavano
nella grande camera triste quelli della festa nuziale.
Dapprima fu il giustacuore di velluto in colore del giaggiolo, poi un farsetto
vermiglio che pareva di donna; i calzoni di maglia di seta verdone, e il berretto
dello stesso colore; i calzari a punta ricurva, lo stiletto e la cintura: infine
due ali scure si aprirono sul pallore della finestra: era il lucco del giovine
Re.
Adelasia chiuse gli occhi prima che la visione sparisse; sentì Gulna
che rimetteva le cose a posto, le ricopriva col velo, chiudeva l'arca. Il passato
tornava nella sua tomba, e adesso si spalancavano le porte del grande avvenire.
- Gulna - disse, quando la donna si fu ripiegata davanti al letto, - anche
tu lo hai amato, anche tu lo hai atteso e pianto. Sei rimasta presso di me
per respirare nel mio amore ancora qualche cosa di lui, ma soprattutto per
obbedire a lui. Obbedisci ancora: sorveglia perché non mi si tolga dal
petto il sigillo che egli vi ha fermato.
Si coprì con una mano il fermaglio; l'altra porse alla donna che la
baciò piangendo.
Seicento anni dopo i due diamanti furono trovati nella tomba di Adelasia: il
corpo di lei s'era disciolto, ma il suo amore viveva ancora.
- FINE -
Note:
[1] Il venerdì son nato,
In un giorno di tribulazione;
Il cuore è di pietra viva,
E di acciaio temprato.