INDICE
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Scialle nero
Prima notte
Il «fumo»
Il tabernacolo
Difesa del Mèola (Tonache di Montelusa)
I fortunati (Tonache di Montelusa)
Visto che non piove... (Tonache di Montelusa)
Formalità
Il ventaglino
E due!
Amicissimi
Se...
Rimedio: la Geografia
Risposta
Il pipistrello
SCIALLE NERO
I
Aspetta qua, - disse il Bandi al D'Andrea. - Vado a prevenirla. Se s'ostina
ancora, entrerai per forza.
Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro.
Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti,
magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con
meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro,
l'uno non aggiustasse all'altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o
il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare,
non toccasse all'altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo.
E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore
dei volti.
Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all'Università,
dove poi l'uno s'era laureato in legge, l'altro in medicina. Divisi ora, durante
il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme
quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all'uscita del paese.
Si conoscevano così a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo,
una parola, perché l'uno comprendesse subito il pensiero dell'altro.
Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve
scambio di frasi e seguitavano poi in silenzio, come se l'uno avesse dato all'altro
da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi;
entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione
di volgere un po' il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista
dell'aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani,
col mare in fondo, che s'accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista
di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero
passar davanti così, senza neppure voltarsi a guardare.
Giorni addietro il Bandi aveva detto al D'Andrea:
- Eleonora non sta bene.
Il D'Andrea aveva guardato negli occhi l'amico e compreso che il male della
sorella doveva esser lieve:
- Vuoi che venga a visitarla?
- Dice di no.
E tutti e due, passeggiando, s'erano messi a pensare con le ciglia aggrottate,
quasi per rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano
tutto.
Il D'Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa
d'uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di
lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch'essa a diciotto anni col fratello
molto più piccolo di lei, industriandosi dapprima con minute e sagge
economie su quel po' che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando
lezioni di pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello,
e anche l'amico indivisibile di lui.
- In compenso però, - soleva dire ridendo ai due giovani - mi son presa
tutta la carne che manca a voi due.
Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti
del volto, e l'aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle
chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri, che
le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva
volessero anch'essi attenuare, con un certo studio che le dava pena, l'impressione
d'alterigia che quel suo corpo così grande poteva destare sulle prime;
e ne sorrideva mestamente.
Sonava e cantava, forse non molto correttamente ma con foga appassionata. Se
non fosse nata e cresciuta fra i pregiudizii d'una piccola città e non
avesse avuto l'impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata
alla vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno; nient'altro
che un sogno però. Aveva ormai circa quarant'anni. La considerazione,
del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensavano,
almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d'averne invece attuato
un altro, quello cioè d'avere schiuso col proprio lavoro l'avvenire
a due poveri orfani, la compensavano del lungo sacrifizio di se stessa.
Il dottor D'Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l'amico ritornasse
a chiamarlo.
Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di mobili
già consunti, d'antica foggia, respirava quasi un'aria d'altri tempi
e pareva s'appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro, dell'immobile
visione della sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di famiglia
appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo,
c'era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d'Eleonora, che le
figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco.
Spazientito, alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino
alla soglia, sporse il capo, udì piangere nella camera di là,
attraverso l'uscio chiuso. Allora si mosse e andò a picchiare con le
nocche delle dita a quell'uscio.
- Entra, - gli disse il Bandi, aprendo. - Non riesco a capire perché s'ostina
così.
- Ma perché non ho nulla! - gridò Eleonora tra le lagrime.
Stava a sedere su un ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero,
enorme e pallida; ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva
più che mai strano, e forse più ambiguo che strano, per un certo
indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch'ella voleva tuttavia
dissimulare.
- Non ho nulla, v'assicuro, - ripeté più pacatamente. - Per carità,
lasciatemi in pace: non vi date pensiero di me.
- Va bene! - concluse il fratello, duro e cocciuto. - Intanto, qua c'è Carlo.
Lo dirà lui quello che hai. - E uscì dalla camera, richiudendo
con furia l'uscio dietro di sé.
Eleonora si recò le mani al volto e scoppiò in violenti singhiozzi.
Il D'Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò:
- Perché? Che cos'ha? Non può dirlo neanche a me?
E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s'appressò, provò a
scostarle con fredda delicatezza una mano dal volto:
- Si calmi, via; lo dica a me; ci son qua io.
Eleonora scosse il capo; poi, d'un tratto, afferrò con tutt'e due le
mani la mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette:
- Carlo! Carlo!
Il D'Andrea si chinò su lei, un po' impacciato nel suo rigido contegno.
- Mi dica...
Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente,
a bassa voce:
- Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo il modo;
mi manca il coraggio, la forza.
- Morire? - domandò il giovane, sorridendo. - Che dice? Perché?
- Morire, sì! - riprese lei, soffocata dai singhiozzi. - Insegnami tu
il modo. Tu sei medico. Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo
morire. Non c'è altro rimedio per me. La morte sola.
Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a guardarlo,
ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi in sé,
quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo.
- Sì, sì, - disse poi, risolutamente. - Io, sì, Carlo:
perduta! perduta!
Istintivamente il D'Andrea ritrasse la mano, ch'ella teneva ancora tra le sue.
- Come! Che dice? - balbettò.
Senza guardarlo, ella si pose un dito su la bocca, poi indicò la porta:
- Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi,
dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò che
sia una medicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio,
non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest'agonia, senza trovar
la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici?
- Che ajuto? - ripeté il D'Andrea, ancora smarrito nello stupore.
Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con
occhi supplichevoli, soggiunse:
- Se non vuoi farmi morire, non potresti... in qualche altro modo... salvarmi?
Il D'Andrea, a questa proposta, s'irrigidì più che mai, aggrottando
severamente le ciglia.
- Te ne scongiuro, Carlo! - insistette lei. - Non per me, non per me, ma perché Giorgio
non sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami
ora, salvami! Debbo finir così, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto
sofferto? così, in questa ignominia, all'età mia? Ah, che miseria!
che orrore!
- Ma come, Eleonora? Lei! Com'è stato? Chi è stato? - fece il
D'Andrea, non trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa
domanda per la sua curiosità sbigottita.
Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprì il volto con le
mani:
- Non mi ci far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a
Giorgio questa vergogna?
- E come? - domandò il D'Andrea. - Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto.
Piuttosto, mi dica: non si potrebbe in qualche altro modo... rimediare?
- No! - rispose lei, recisamente, infoscandosi. - Basta. Ho capito. Lasciami!
Non ne posso più...
Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone, rilassò le
membra: sfinita.
Carlo D'Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese
un pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione,
né riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio
di virtù, d'abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa. Possibile?
Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventù, per amore del fratello, rifiutato
tanti partiti, uno più vantaggioso dell'altro! Come mai ora, ora che
la gioventù era tramontata... - Eh! ma forse per questo...
La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo così voluminoso,
assunse all'improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio
e osceno.
- Va', dunque, - gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo,
in quel silenzio, si sentiva addosso l'inerte orrore di quel sospetto negli
occhi di lui. - Va', va', a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di
me quello che vuole. Va'.
Il D'Andrea uscì, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco
il capo per vederlo uscire; poi, appena richiuso l'uscio, ricadde nella positura
di prima.
II
Dopo due mesi d'orrenda angoscia, quella confessione del suo stato la sollevò,
insperatamente. Le parve che il più, ormai, fosse fatto.
Ora, non avendo più forza di lottare, di resistere a quello strazio,
si sarebbe abbandonata, così, alla sorte, qualunque fosse.
Il fratello, tra breve, sarebbe entrato e l'avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio!
Non aveva più diritto a nessuna considerazione, a nessun compatimento.
Aveva fatto, sì, per lui e per quell'altro ingrato, più del suo
dovere, ma in un momento poi aveva perduto il frutto di tutti i suoi benefizi.
Strizzò gli occhi, colta di nuovo dal ribrezzo.
Nel segreto della propria coscienza, si sentiva pure miseramente responsabile
del suo fallo. Sì, lei, lei che per tanti anni aveva avuto la forza
di resistere a gli impulsi della gioventù, lei che aveva sempre accolto
in sé sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio
sacrifizio come un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria! miseria!
L'unica ragione che sentiva di potere addurre in sua discolpa, che valore poteva
avere davanti al fratello? Poteva dirgli: «Guarda, Giorgio, che sono
forse caduta per te»? Eppure la verità era forse questa.
Gli aveva fatto da madre, è vero? a quel fratello. Ebbene: in premio
di tutti i benefizi lietamente prodigati, in premio del sacrifizio della propria
vita, non le era stato concesso neanche il piacere di scorgere un sorriso,
anche lieve, di soddisfazione su le labbra di lui e dell'amico. Pareva che
avessero entrambi l'anima avvelenata di silenzio e di noja, oppressa come da
una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s'eran subito buttati al lavoro,
come due bestie; con tanto impegno, con tanto accanimento che in poco tempo
erano riusciti a bastare a se stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche
modo, come se a entrambi non ne paresse l'ora, l'aveva proprio ferita nel cuore.
Quasi d'un tratto, così, s'era trovata senza più scopo nella
vita. Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano più bisogno
di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la gioventù.
Neanche coi primi guadagni della professione era tornato il sorriso su le labbra
del fratello. Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch'ella aveva fatto
per lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la vita,
condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventù, la libertà dei
proprii sentimenti alla sorella? E aveva voluto parlargli a cuore aperto:
- Non prenderti nessun pensiero di me, Giorgio! Io voglio soltanto vederti
lieto, contento... capisci?
Ma egli le aveva troncato subito in bocca le parole:
- Zitta, zitta! Che dici? So quel che debbo fare. Ora spetta a me.
- Ma come? così? - avrebbe voluto gridargli, lei, che, senza pensarci
due volte, s'era sacrificata col sorriso sempre su le labbra e il cuor leggero.
Conoscendo la chiusa, dura ostinazione di lui, non aveva insistito. Ma, intanto,
non si sentiva di durare in quella tristezza soffocante.
Egli raddoppiava di giorno in giorno i guadagni della professione; la circondava
d'agi; aveva voluto che smettesse di dar lezioni. In quell'ozio forzato, che
la avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero che, dapprincipio,
quasi l'aveva fatta ridere:
«
Se trovassi marito!».
Ma aveva già trentanove anni, e poi con quel corpo... oh via! - avrebbe
dovuto fabbricarselo apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l'unico mezzo
per liberar sé e il fratello da quell'opprimente debito di gratitudine.
Quasi senza volerlo, s'era messa allora a curare insolitamente la persona,
assumendo una cert'aria di nubile che prima non s'era mai data.
Quei due o tre che un tempo l'avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai
moglie e figliuoli. Prima, non se n'era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava
dispetto; provava invidia di tante sue amiche che erano riuscite a procurarsi
uno stato.
Lei sola era rimasta così...
Ma forse era in tempo ancora: chi sa? Doveva proprio chiudersi così la
sua vita sempre attiva? in quel vuoto? doveva spegnersi così quella
fiamma vigile del suo spirito appassionato? in quell'ombra?
E un profondo rammarico l'aveva invasa, inasprito talvolta da certe smanie,
che alteravano le sue grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue
risa. Era divenuta pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto
lei stessa del cangiamento della propria indole; provava in certi momenti quasi
odio per se stessa, repulsione per quel suo corpo vigoroso, ribrezzo dei desiderii
insospettati in cui esso, ora, all'improvviso, le s'accendeva turbandola profondamente.
Il fratello, intanto, coi risparmi, aveva di recente acquistato un podere e
vi aveva fatto costruire un bel villino.
Spinta da lui, vi era andata dapprima per un mese in villeggiatura; poi, riflettendo
che il fratello aveva forse acquistato quel podere per sbarazzarsi di tanto
in tanto di lei, aveva deliberato di ritirarsi colà per sempre. Così,
lo avrebbe lasciato libero del tutto: non gli avrebbe più dato la pena
della sua compagnia, della sua vista, e anche lei a poco a poco, là,
si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di trovar marito all'età sua.
I primi giorni eran trascorsi bene, e aveva creduto che le sarebbe stato facile
seguitare così.
Aveva già preso l'abitudine di levarsi ogni giorno all'alba e di fare
una lunga passeggiata per i campi, fermandosi di tratto in tratto, incantata,
ora per ascoltare nell'attonito silenzio dei piani, ove qualche filo d'erba
vicino abbrividiva alla frescura dell'aria, il canto dei galli, che si chiamavano
da un'aja all'altra; ora per ammirare qualche masso tigrato di gromme verdi,
o il velluto del lichene sul vecchio tronco stravolto di qualche olivo saraceno.
Ah, lì, così vicina alla terra, si sarebbe presto rifatta un'altr'anima,
un altro modo di pensare e di sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie
del mezzadro che si mostrava così lieta di tenerle compagnia e che già le
aveva insegnato tante cose della campagna, tante cose pur così semplici
della vita e che ne rivelano tuttavia un nuovo senso profondo, insospettato.
Il mezzadro, invece, era insoffribile: si vantava d'aver idee larghe, lui:
aveva girato il mondo, lui; era stato in America, otto anni a Benossarie; e
non voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile zappaterra.
Da tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole; voleva dargli «un
po' di lettera», diceva, per poi spedirlo in America, là, nel
gran paese, dove senza dubbio avrebbe fatto fortuna.
Gerlando aveva diciannove anni e in tredici di scuola era arrivato appena alla
terza tecnica. Era un ragazzone rude, tutto d'un pezzo. Quella fissazione del
padre costituiva per lui un vero martirio. Praticando coi compagni di scuola,
aveva preso, senza volere, una cert'aria di città, che però lo
rendeva più goffo.
A forza d'acqua, ogni mattina, riusciva a rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi
una riga da un lato; ma poi quei capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti
e irsuti di qua e di là, come se gli schizzassero dalla cute del cranio;
anche le sopracciglia pareva gli schizzassero poco più giù dalla
fronte bassa, e già dal labbro e dal mento cominciavano a schizzare
i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti. Povero Gerlando! faceva
compassione, così grosso, così duro, così ispido, con
un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una camicia, certe mattine,
per scuoterlo dai saporiti sonni profondi, di porcellone satollo e pago, e
avviarlo ancora intontito e barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina
città; al suo martirio.
Venuta in campagna la signorina, Gerlando le aveva fatto rivolgere dalla madre
la preghiera di persuadere al padre che la smettesse di tormentarlo con questa
scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne poteva più!
E difatti Eleonora s'era provata a intercedere; ma il mezzadro, - ah, nonononò -
ossequio, rispetto, tutto il rispetto per la signorina; ma anche preghiera
di non immischiarsi. Ed allora essa, un po' per pietà, un po' per ridere,
un po' per darsi da fare, s'era messa ad ajutare quel povero giovanotto, fin
dove poteva.
Lo faceva, ogni dopo pranzo, venir su coi libri e i quaderni della scuola.
Egli saliva impacciato e vergognoso, perché s'accorgeva che la padrona
prendeva a goderselo per la sua balordaggine, per la sua durezza di mente;
ma che poteva farci? il padre voleva così. Per lo studio, eh, sì:
bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse trattato
d'atterrare un albero, un bue, eh perbacco... - e Gerlando mostrava le braccia
nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso di denti bianchi e forti...
Improvvisamente, da un giorno all'altro, ella aveva troncato quelle lezioni;
non aveva più voluto vederlo; s'era fatto portare dalla città il
pianoforte e per parecchi giorni s'era chiusa nella villa a sonare, a cantare,
a leggere, smaniosamente. Una sera, in fine, s'era accorta che quel ragazzone,
privato così d'un tratto dell'ajuto di lei, della compagnia ch'ella
gli concedeva e degli scherzi che si permetteva con lui, s'appostava per spiarla,
per sentirla cantare o sonare: e, cedendo a una cattiva ispirazione, aveva
voluto sorprenderlo, lasciando d'un tratto il pianoforte e scendendo a precipizio
la scala della villa.
- Che fai lì?
- Sto a sentire...
- Ti piace?
- Tanto, sì signora... Mi sento in paradiso.
A questa dichiarazione era scoppiata a ridere; ma, all'improvviso, Gerlando,
come sferzato in faccia da quella risata, le era saltato addosso, lì,
dietro la villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone
aperto lassù.
Così era stato.
Sopraffatta a quel modo, non aveva saputo respingerlo; s'era sentita mancare
- non sapeva più come - sotto quell'impeto brutale e s'era abbandonata,
sì, cedendo pur senza voler concedere.
Il giorno dopo, aveva fatto ritorno in città.
E ora? come mai Giorgio non entrava a svergognarla? Forse il D'Andrea non gli
aveva detto ancor nulla: forse pensava al modo di salvarla. Ma come?
Si nascose il volto tra le mani, quasi per non vedere il vuoto che le s'apriva
davanti. Ma era pur dentro di lei quel vuoto. E non c'era rimedio. La morte
sola. Quando? come?
L'uscio, a un tratto, s'aprì, e Giorgio apparve su la soglia scontraffatto,
pallidissimo, coi capelli scompigliati e gli occhi ancora rossi di pianto.
Il D'Andrea lo teneva per un braccio.
- Voglio sapere questo soltanto, - disse alla sorella, a denti stretti, con
voce fischiante, quasi scandendo le sillabe: - Voglio sapere chi è stato.
Eleonora, a capo chino, con gli occhi chiusi, scosse lentamente il capo e riprese
a singhiozzare.
- Me lo dirai, - gridò il Bandi, appressandosi, trattenuto dall'amico.
- E chiunque sia, tu lo sposerai!
- Ma no, Giorgio! - gemette allora lei, raffondando vie più il capo
e torcendosi in grembo le mani. - No! non è possibile! non è possibile!
- È ammogliato? - domandò lui, appressandosi di più, coi
pugni serrati, terribile.
- No, - s'affrettò a risponder lei. - Ma non è possibile, credi!
- Chi è? - riprese il Bandi, tutto fremente, stringendola da presso.
- Chi è? subito, il nome!
Sentendosi addosso la furia del fratello, Eleonora si strinse nelle spalle,
si provò a sollevare appena il capo e gemette sotto gli occhi inferociti
di lui:
- Non posso dirtelo...
- Il nome, o t'ammazzo! - ruggì allora il Bandi, levando un pugno sul
capo di lei.
Ma il D'Andrea s'interpose, scostò l'amico, poi gli disse severamente:
- Tu va'. Lo dirà a me. Va', va'...
E lo fece uscire, a forza, dalla camera.
III
Il fratello fu irremovibile.
Ne' pochi giorni che occorsero per le pubblicazioni di rito, prima del matrimonio,
s'accanì nello scandalo. Per prevenir le beffe che s'aspettava da
tutti, prese ferocemente il partito d'andar sbandendo la sua vergogna, con
orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo commiseravano.
Gli toccò, tuttavia, a combattere un bel po' col mezzadro, per farlo
condiscendere alle nozze del figliuolo.
Quantunque d'idee larghe, il vecchio, dapprima, parve cascasse dalle nuvole:
non voleva creder possibile una cosa simile. Poi disse:
- Vossignoria non dubiti: me lo pesterò sotto i piedi; sa come? come
si pigia l'uva. O piuttosto, facciamo così: glielo consegno, legato
mani e piedi; e Vossignoria si prenderà tutta quella soddisfazione che
vuole. Il nerbo, per le nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta
tre giorni in molle, perché picchi più sodo.
Quando però comprese che il padrone non intendeva questo, ma voleva
altro, il matrimonio, trasecolò di nuovo:
- Come! Che dice, Vossignoria? Una signorona di quella fatta col figlio d'un
vile zappaterra?
E oppose un reciso rifiuto.
- Mi perdoni. Ma la signorina aveva il giudizio e l'età; conosceva il
bene e il male; non doveva far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare?
Se lo tirava su in casa tutti i giorni. Vossignoria m'intende... Un ragazzaccio...
A quell'età, non si ragiona, non si bada... Ora ci posso perdere così il
figlio, che Dio sa quanto mi costa? La signorina. Con rispetto parlando, gli
può esser madre...
Il Bandi dovette promettere la cessione in dote del podere e un assegno giornaliero
alla sorella.
Così il matrimonio fu stabilito; e, quando ebbe luogo, fu un vero avvenimento
per quella cittaduzza.
Parve che tutti provassero un gran piacere nel far pubblicamente strazio dell'ammirazione,
del rispetto per tanti anni tributati a quella donna; come se tra l'ammirazione
e il rispetto, di cui non la stimavano più degna, e il dileggio, con
cui ora la accompagnavano a quelle nozze vergognose, non ci potesse esser posto
per un po' di commiserazione.
La commiserazione era tutta per il fratello; il quale, s'intende, non volle
prender parte alla cerimonia. Non vi prese parte neanche il D'Andrea, scusandosi
che doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero Giorgio.
Un vecchio medico della città, ch'era già stato di casa dei genitori
d'Eleonora, e a cui il D'Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i
fumi e le sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte
della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un altro
vecchio, suo amico, per secondo testimonio.
Con essi Eleonora si recò in vettura chiusa al Municipio; poi in una
chiesetta fuorimano, per la cerimonia religiosa.
In un'altra vettura era lo sposo, Gerlando, torbido e ingrugnato, coi genitori.
Questi, parati a festa, stavano su di sé, gonfi e serii, perché,
alla fin fine, il figlio sposava una vera signora, sorella d'un avvocato, e
gli recava in dote una campagna con una magnifica villa, e denari per giunta.
Gerlando, per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii.
Al podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n'intendeva. La sposa era un
po' anzianotta? Tanto meglio! L'erede già c'era per via. Per legge di
natura ella sarebbe morta prima, e Gerlando allora sarebbe rimasto libero e
ricco.
Queste e consimili riflessioni facevano anche, in una terza vettura, i testimonii
dello sposo, contadini amici del padre, in compagnia di due vecchi zii materni.
Gli altri parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa,
tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le mantelline
nuove e i fazzoletti dai colori più sgargianti, le donne; giacché il
mezzadro, d'idee larghe, aveva preparato un trattamento proprio coi fiocchi.
Al Municipio, Eleonora, prima d'entrare nell'aula dello Stato civile, fu assalita
da una convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio
coi parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico lo pregò di
non farsi scorgere, di star lontano, per il momento.
Non ben rimessa ancora da quella crisi violenta, Eleonora entrò nell'aula;
si vide accanto quel ragazzo, che l'impaccio e la vergogna rendevano più ispido
e goffo; ebbe un impeto di ribellione; fu per gridare: «No! No!» e
lo guardò come per spingerlo a gridar così anche lui. Ma poco
dopo dissero sì tutti e due, come condannati a una
pena inevitabile. Sbrigata in gran fretta l'altra funzione nella chiesetta
solitaria, il triste corteo s'avviò alla villa. Eleonora non voleva
staccarsi dai due vecchi amici; ma le fu forza salire in vettura con lo sposo
e coi suoceri.
Strada facendo, non fu scambiata una parola nella vettura.
Il mezzadro e la moglie parevano sbigottiti: alzavano di tanto in tanto gli
occhi per guardar di sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno sguardo e riabbassavano
gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in sé, aggrottato.
In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti e grida festose
e battimani. Ma l'aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati,
per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente, che intendeva
farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi.
Chiese presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito
durante la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s'arrestò di
botto, su la soglia: - Lì? con lui? No! Mai! Mai! - E, presa da ribrezzo,
scappò in un'altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a sedere su
una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt'e due le mani.
Le giungevano, attraverso l'uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano
di là Gerlando, lodandogli, più che la sposa, il buon parentado
che aveva fatto e la bella campagna.
Gerlando se ne stava affacciato al balcone e, per tutta risposta, pieno d'onta,
scrollava di tratto in tratto le poderose spalle.
Onta sì, provava onta d'esser marito a quel modo, di quella signora:
ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione
della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d'un ragazzaccio stupido e inetto
dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che
lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n'era venuto. Il padre non pensava
che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d'ora in poi, con quella
donna che gl'incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna
e il disonore? Come avrebbe ardito d'alzar gli occhi in faccia a lei? E, per
giunta, il padre pretendeva ch'egli seguitasse a frequentar la scuola! Figurarsi
la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni più di lui,
la moglie, e pareva una montagna, pareva...
Mentre Gerlando si travagliava con queste riflessioni, il padre e la madre
attendevano a gli ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l'uno e l'altra
entrarono trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata.
Il servizio da tavola era stato fornito per l'avvenimento da un trattore della
città che aveva anche inviato un cuoco e due camerieri per servire il
pranzo.
Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone e gli disse:
- Va' ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto.
- Non ci vado, gnornò! - grugnì Gerlando, pestando un piede.
- Andateci voi.
- Spetta a te, somarone! - gli gridò il padre. - Tu sei il marito: va'!
- Grazie tante... Gnornò! non ci vado! - ripeté Gerlando, cocciuto,
schermendosi.
Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede
uno spintone.
- Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va'! È tua
moglie!
I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a andare.
- Che male c'è? Le dirai che venga a prendere un boccone...
- Ma se non so neppure come debba chiamarla! - gridò Gerlando, esasperato.
Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il
mezzadro che s'era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli
guastava così la festa preparata con tanta solennità e tanta
spesa.
- La chiamerai col suo nome di battesimo, - gli diceva intanto, piano e persuasiva,
la madre. - Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora.
Non è tua moglie? Va', figlio mio, va'... E, così dicendo, lo
avviò alla camera nuziale.
Gerlando andò a picchiare all'uscio. Picchiò una prima volta,
piano. Attese. Silenzio. Come le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu,
così alla prima? Ah, maledetto impiccio! E perché, intanto, ella
non rispondeva? Forse non aveva inteso. Ripicchiò più forte.
Attese. Silenzio.
Allora, tutto impacciato, si provò a chiamare a bassa voce, come gli
aveva suggerito la madre. Ma gli venne fuori un Eneolora così ridicolo,
che subito, come per cancellarlo, chiamò forte, franco:
- Eleonora!
Intese alla fine la voce di lei che domandava dietro l'uscio di un'altra stanza:
- Chi è?
S'appressò a quell'uscio, col sangue tutto rimescolato.
- Io, - disse - io Ger... Gerlando... È pronto.
- Non posso, - rispose lei. - Fate senza di me.
Gerlando tornò in sala, sollevato da un gran peso.
- Non viene! Dice che non viene! Non può venire!
- Viva il bestione! - esclamò allora il padre, che non lo chiamava altrimenti.
- Le hai detto ch'era in tavola? E perché non l'hai forzata a venire?
La moglie s'interpose: fece intendere al marito che sarebbe stato meglio. forse,
lasciare in pace la sposa, per quel giorno. I convitati approvarono.
- L'emozione... il disagio... si sa!
Ma il mezzadro che s'era inteso di dimostrare alla nuora che, all'occorrenza,
sapeva far l'obbligo suo, rimase imbronciato e ordinò con mala grazia
che il pranzo fosse servito.
C'era il desiderio dei piatti fini, ch'ora sarebbero venuti in tavola, ma c'era
anche in tutti quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo
che vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro bicchieri
di diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e coltellini, e certi
pennini, poi, dentro gl'involtini di cartavelina.
Seduti ben discosti dalla tavola, sudavano anche per i grevi abiti di panno
della festa, e si guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall'insolita
pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori della campagna
per prendere quelle forchette d'argento (la piccola o la grande?) e quei coltelli,
sotto gli occhi dei camerieri che, girando coi serviti, con quei guanti di
filo bianco incutevano loro una terribile soggezione.
Il mezzadro, intanto, mangiando, guardava il figlio e scrollava il capo, col
volto atteggiato di derisoria commiserazione:
- Guardatelo, guardatelo! - borbottava tra sé. - Che figura ci fa, lì solo,
spajato, a capo tavola? Come potrà la sposa aver considerazione per
uno scimmione così fatto? Ha ragione, ha ragione di vergognarsi di lui.
Ah, se fossi stato io al posto suo!
Finito il pranzo fra la musoneria generale, i convitati, con una scusa o con
un'altra, andarono via. Era già quasi sera.
- E ora? - disse il padre a Gerlando, quando i due camerieri finirono di sparecchiar
la tavola, e tutto nella villa ritornò tranquillo. - Che farai, ora?
Te la sbroglierai tu!
E ordinò alla moglie di seguirlo nella casa colonica, ove abitavano,
poco discosto dalla villa.
Rimasto solo, Gerlando si guardò attorno, aggrondato, non sapendo che
fare.
Sentì nel silenzio la presenza di quella che se ne stava chiusa di là.
Forse, or ora, non sentendo più alcun rumore, sarebbe uscita dalla stanza.
Che avrebbe dovuto far lui, allora?
Ah, come volentieri se ne sarebbe scappato a dormire nella casa colonica, presso
la madre, o anche giù all'aperto. Sotto un albero, magari!
E se lei intanto s'aspettava d'esser chiamata? Se, rassegnata alla condanna
che aveva voluto infliggerle il fratello, si riteneva in potere di lui, suo
marito, e aspettava che egli la... sì, la invitasse a...
Tese l'orecchio. Ma no: tutto era silenzio. Forse s'era già addormentata.
Era già bujo. Il lume della luna entrava, per il balcone aperto, nella
sala.
Senza pensar d'accendere il lume, Gerlando prese una seggiola e si recò a
sedere al balcone, che guardava tutt'intorno, dall'alto, l'aperta campagna
declinante al mare laggiù in fondo, lontano.
Nella notte chiara splendevano limpide le stelle maggiori; la luna accendeva
sul mare una fervida fascia d'argento; dai vasti piani gialli di stoppia si
levava tremulo il canto dei grilli, come un fitto, continuo scampanellio. A
un tratto, un assiolo, da presso, emise un chiù languido,
accorante; da lontano un altro gli rispose, come un'eco, e tutti e due seguitarono
per un pezzo a singultar così, nella chiara notte.
Con un braccio appoggiato alla ringhiera del balcone, egli allora, istintivamente,
per sottrarsi all'oppressione di quell'incertezza smaniosa, fermò l'udito
a quei due chiù che si rispondevano nel silenzio
incantato dalla luna; poi, scorgendo laggiù in fondo un tratto del muro
che cingeva tutt'intorno il podere, pensò che ora tutta quella terra
era sua; suoi quegli alberi: olivi, mandorli, carrubi, fichi, gelsi; sua quella
vigna.
Aveva ben ragione d'esserne contento il padre, che d'ora in poi non sarebbe
stato più soggetto a nessuno.
Alla fin fine, non era tanto stramba l'idea di fargli seguitare gli studii.
Meglio lì, meglio a scuola, che qua tutto il giorno, in compagnia della
moglie. A tenere a posto quei compagni che avessero voluto ridere alle sue
spalle, ci avrebbe pensato lui. Era un signore, ormai, e non gl'importava più se
lo cacciavano via dalla scuola. Ma questo non sarebbe accaduto. Anzi egli si
proponeva di studiare d'ora innanzi con impegno, per potere un giorno, tra
breve, figurare tra i «galantuomini» del paese, senza più sentirne
soggezione, e parlare e trattare con loro, da pari a pari. Gli bastavano altri
quattro anni di scuola per aver la licenza dell'Istituto tecnico: e poi, perito
agronomo o ragioniere. Suo cognato allora, il signor avvocato, che pareva avesse
buttato là, ai cani, la sorella, avrebbe dovuto fargli tanto di cappello.
Sissignori. E allora egli avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli: «Che
mi hai dato? A me, quella vecchia? Io ho studiato, ho una professione da signore
e potevo aspirare a una bella giovine, ricca e di buoni natali come lei!».
Così pensando, s'addormentò con la fronte sul braccio appoggiato
alla ringhiera.
I due chiù seguitavano, l'uno qua presso, l'altro
lontano; il loro alterno lamentio voluttuoso; la notte chiara pareva facesse
tremolar su la terra il suo velo di luna sonoro di grilli, e arrivava ora da
lontano, come un'oscura rampogna, il borboglio profondo del mare.
A notte avanzata, Eleonora apparve, come un'ombra, su la soglia del balcone.
Non s'aspettava di trovarvi il giovine addormentato. Ne provò pena e
timore insieme. Rimase un pezzo a pensare se le convenisse svegliarlo per dirgli
quanto aveva tra sé stabilito e toglierlo di lì; ma, sul punto
di scuoterlo, di chiamarlo per nome, sentì mancarsi l'animo e si ritrasse
pian piano, come un'ombra, nella camera dond'era uscita.
IV
L'intesa fu facile.
Eleonora, la mattina dopo, parlò maternamente a Gerlando: lo lasciò padrone
di tutto, libero di fare quel che gli sarebbe piaciuto, come se tra loro non
ci fosse alcun vincolo. Per sé domandò solo d'esser lasciata
lì, da canto, in quella cameretta, insieme con la vecchia serva di casa,
che l'aveva vista nascere.
Gerlando, che a notte inoltrata s'era tratto dal balcone tutto indurito dall'umido
a dormire sul divano della sala da pranzo, ora, così sorpreso nel sonno,
con una gran voglia di stropicciarsi gli occhi coi pugni, aprendo la bocca
per lo sforzo d'aggrottar le ciglia, perché voleva mostrare non tanto
di capire, quanto d'esser convinto, disse a tutto di sì, di sì,
col capo. Ma il padre e la madre, quando seppero di quel patto, montarono su
tutte le furie, e invano Gerlando si provò a far intender loro che gli
conveniva così, che anzi ne era più che contento.
Per quietare in certo qual modo il padre, dovette promettere formalmente che,
ai primi d'ottobre, sarebbe ritornato a scuola. Ma, per ripicco, la madre gl'impose
di scegliersi la camera più bella per dormire, la camera più bella
per studiare, la camera più bella per mangiare... tutte le camere più belle!
- E comanda tu, a bacchetta, sai! Se no, vengo io a farti ubbidire e rispettare.
Giurò infine che non avrebbe mai più rivolto la parola a quella
smorfiosa che le disprezzava così il figlio, un così bel pezzo
di giovanotto, che colei non era neanco degna di guardare.
Da quel giorno stesso, Gerlando si mise a studiare, a riprendere la preparazione
interrotta per gli esami di riparazione. Era già tardi, veramente: aveva
appena ventiquattro giorni innanzi a sé; ma, chi sa! mettendoci un po'
d'impegno, forse sarebbe riuscito a prendere finalmente quella licenza tecnica,
per cui si torturava da tre anni.
Scosso lo sbalordimento angoscioso dei primi giorni, Eleonora, per consiglio
della vecchia serva, si diede a preparare il corredino per il nascituro.
Non ci aveva pensato, e ne pianse.
Gesa, la vecchia serva, la ajutò, la guidò in quel lavoro, per
cui era inesperta: le diede la misura per le prime camicine, per le prime cuffiette...
Ah, la sorte le serbava questa consolazione, e lei non ci aveva ancora pensato;
avrebbe avuto un piccino, una piccina a cui attendere, a cui consacrarsi tutta!
Ma Dio doveva farle la grazia di mandarle un maschietto. Era già vecchia,
sarebbe morta presto, e come avrebbe lasciato a quel padre una femminuccia,
a cui lei avrebbe ispirato i suoi pensieri, i suoi sentimenti? Un maschietto
avrebbe sofferto meno di quella condizione d'esistenza, in cui fra poco la
mala sorte lo avrebbe messo.
Angosciata da questi pensieri, stanca del lavoro, per distrarsi, prendeva in
mano uno di quei libri che l'altra volta s'era fatti spedire dal fratello,
e si metteva a leggere. Ogni tanto, accennando col capo, domandava alla serva:
- Che fa?
Gesa si stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro. poi rispondeva:
- Uhm! Sta con la testa sul libro. Dorme? Pensa? Chi sa!
Pensava, Gerlando: pensava che, tirate le somme, non era molto allegra la sua
vita.
Ecco qua: aveva il podere, ed era come se non lo avesse; la moglie, e come
se non l'avesse; in guerra coi parenti; arrabbiato con se stesso, che non riusciva
a ritener nulla, nulla, nulla di quanto studiava.
E in quell'ozio smanioso, intanto, si sentiva dentro come un fermento d'acri
desiderii; fra gli altri, quello della moglie, perché gli s'era negata.
Non era più desiderabile, è vero, quella donna. Ma... che patto
era quello? Egli era il marito, e doveva dirlo lui, se mai.
Si alzava; usciva dalla stanza; passava innanzi all'uscio della camera di lei;
ma subito, intravedendola, sentiva cadersi ogni proposito di ribellione. Sbuffava
e, tanto per non riconoscere che sul punto gliene mancava l'animo, diceva a
se stesso che non ne valeva la pena.
Uno di quei giorni, finalmente tornò dalla città sconfitto, bocciato,
bocciato ancora una volta agli esami di licenza tecnica. E ora basta! basta
davvero! Non voleva più saperne! Prese libri, quaderni, disegni, squadre,
astucci, matite e li portò giù, innanzi alla villa per farne
un falò. Il padre accorse per impedirglielo; ma Gerlando, imbestialito,
si ribellò:
- Lasciatemi fare! Sono il padrone!
Sopravvenne la madre; accorsero anche alcuni contadini che lavoravano nella
campagna. Una fumicaja prima rada, poi a mano a mano più densa si sprigionò,
tra le grida degli astanti, da quel mucchio di carte; poi un bagliore; poi
crepitò la fiamma e si levò. Alle grida, si fecero al balcone
Eleonora e la serva.
Gerlando, livido e gonfio come un tacchino, scagliava alle fiamme, scamiciato,
furibondo, gli ultimi libri che teneva sotto il braccio, gli strumenti della
sua lunga inutile tortura.
Eleonora si tenne a stento di ridere, a quello spettacolo, e si ritrasse in
fretta dal balcone. Ma la suocera se ne accorse e disse al figlio:
- Ci prova gusto, sai? la signora; la fai ridere.
- Piangerà! - gridò allora Gerlando, minaccioso, levando il capo
verso il balcone.
Eleonora intese la minaccia e impallidì: comprese che la stanca e mesta
quiete, di cui aveva goduto finora, era finita per lei. Nient'altro che un
momento di tregua le aveva concesso la sorte. Ma che poteva voler da lei quel
bruto? Ella era già esausta: un altro colpo, anche lieve, l'avrebbe
atterrata.
Poco dopo, si vide innanzi Gerlando, fosco e ansante.
- Si cangia vita da oggi! - le annunziò. - Mi son seccato. Mi metto
a fare il contadino, come mio padre; e dunque tu smetterai di far la signora
costà. Via, via tutta codesta biancheria! Chi nascerà sarà contadino
anche lui, e dunque senza tanti lisci e tante gale. Licenzia la serva: farai
tu da mangiare e baderai alla casa, come fa mia madre. Inteso?
Eleonora si levò, pallida e vibrante di sdegno:
- Tua madre è tua madre, - gli disse, guardandolo fieramente negli occhi.
- Io sono io, e non posso diventare con te, villano, villana.
- Mia moglie sei! - gridò allora Gerlando, appressandosi violento e
afferrandola per un braccio. - E farai ciò che voglio io; qua comando
io, capisci?
Poi si volse alla vecchia serva e le indicò l'uscio:
- Via! Voi andate subito via! Non voglio serve per la casa!
- Vengo con te, Gesa! - gridò Eleonora cercando di svincolare il braccio
che egli le teneva ancora afferrato.
Ma Gerlando non glielo lasciò; glielo strinse più forte; la costrinse
a sedere.
- No! Qua! Tu rimani qua, alla catena, con me! Io per te mi son prese le beffe:
ora basta! Vieni via, esci da codesto tuo covo. Non voglio star più solo
a piangere la mia pena. Fuori! Fuori!
E la spinse fuori della camera.
- E che hai tu pianto finora? - gli disse lei con le lagrime a gli occhi. -
Che ho preteso, io da te?
- Che hai preteso? Di non aver molestie, di non aver contatto con me, quasi
che io fossi... che non meritassi confidenza da te, matrona! E m'hai fatto
servire a tavola da una salariata, mentre toccava a te a servirmi, di tutto
punto, come fanno le mogli.
- Ma che n'hai da fare tu, di me? - gli domandò, avvilita, Eleonora.
- Ti servirò, se vuoi, con le mie mani, d'ora in poi. Va bene?
Ruppe, così dicendo, in singhiozzi, poi sentì mancarsi le gambe
e s'abbandonò. Gerlando, smarrito, confuso, la sostenne insieme con
Gesa, e tutt'e due la adagiarono su una seggiola.
Verso sera, improvvisamente, fu presa dalle doglie. Gerlando, pentito, spaventato,
corse a chiamar la madre: un garzone fu spedito in città per una levatrice;
mentre il mezzadro, vedendo già in pericolo il podere, se la nuora abortiva,
bistrattava il figlio:
- Bestione, bestione, che hai fatto? E se ti muore adesso? Se non hai più figli?
Sei in mezzo a una strada! Che farai? Hai lasciato la scuola e non sai neppur
tenere la zappa in mano. Sei rovinato!
- Che me ne importa? - gridò Gerlando. - Purché non abbia nulla
lei!
Sopravvenne la madre, con le braccia per aria:
- Un medico! Ci vuole subito un medico! La vedo male!
- Che ha? - domandò Gerlando, allibito.
Ma il padre lo spinse fuori:
- Corri! Corri!
Per via, Gerlando, tutto tremante, s'avvilì, si mise a piangere, sforzandosi
tuttavia di correre. A mezza strada s'imbatté nella levatrice che veniva
in vettura col garzone.
- Caccia! caccia! - gridò. - Vado pel medico, muore!
Inciampò, stramazzò; tutto impolverato, riprese a correre, disperatamente,
addentandosi la mano che s'era scorticata.
Quando tornò col medico alla villa, Eleonora stava per morire, dissanguata.
- Assassino! assassino! - nicchiava Gesa, attendendo alla padrona. - Lui è stato!
Ha osato di metterle le mani addosso.
Eleonora però negava col capo. Si sentiva a mano a mano, col sangue,
mancar la vita, a mano a mano le forze raffievolendo scemare; era già fredda...
Ebbene: non si doleva di morire; era pur dolce così la morte, un gran
sollievo, dopo le atroci sofferenze. E, col volto come di cera, guardando il
soffitto, aspettava che gli occhi le si chiudessero da sé, pian piano,
per sempre. Già non distingueva più nulla. Come in sogno rivide
il vecchio medico che le aveva fatto da testimonio; e gli sorrise.
V
Gerlando non si staccò dalla sponda del letto, né giorno né notte,
per tutto il tempo che Eleonora vi giacque tra la vita e la morte.
Quando finalmente dal letto poté esser messa a sedere sul seggiolone,
parve un'altra donna: diafana, quasi esangue. Si vide innanzi Gerlando, che
sembrava uscito anch'esso da una mortale malattia, e premurosi attorno i parenti
di lui. Li guardava coi begli occhi neri ingranditi e dolenti nella pallida
magrezza, e le pareva che ormai nessuna relazione esistesse più tra
essi e lei, come se ella fosse or ora tornata, nuova e diversa, da un luogo
remoto, dove ogni vincolo fosse stato infranto, non con essi soltanto, ma con
tutta la vita di prima.
Respirava con pena; a ogni menomo rumore il cuore le balzava in petto e le
batteva con tumultuosa repenza; una stanchezza greve la opprimeva.
Allora, col capo abbandonato su la spalliera del seggiolone, gli occhi chiusi,
si rammaricava dentro di sé di non esser morta. Che stava più a
farci, lì? perché ancora quella condanna per gli occhi di veder
quei visi attorno e quelle cose, da cui gli si sentiva tanto, tanto lontana?
Perché quel ravvicinamento con le apparenze opprimenti e nauseanti della
vita passata, ravvicinamento che talvolta le pareva diventasse più brusco,
come se qualcuno la spingesse di dietro, per costringerla a vedere, a sentir
la presenza, la realtà viva e spirante della vita odiosa, che più non
le apparteneva?
Credeva fermamente che non si sarebbe rialzata mai più da quel seggiolone;
credeva che da un momento all'altro sarebbe morta di crepacuore. E no, invece;
dopo alcuni giorni, poté levarsi in piedi, muovere, sorretta, qualche
passo per la camera; poi, col tempo, anche scendere la scala e recarsi all'aperto,
a braccio di Gerlando e della serva. Prese infine l'abitudine di recarsi sul
tramonto fino all'orlo del ciglione che limitava a mezzogiorno il podere.
S'apriva di là la magnifica vista della piaggia sottostante all'altipiano,
fino al mare laggiù. Vi si recò i primi giorni accompagnata,
al solito, da Gerlando e da Gesa; poi, senza Gerlando; infine, sola.
Seduta su un masso, all'ombra d'un olivo centenario, guardava tutta la riviera
lontana che s'incurvava appena, a lievi lunate, a lievi seni, frastagliandosi
sul mare che cangiava secondo lo spirare dei venti; vedeva il sole ora come
un disco di fuoco affogarsi lentamente tra le brume muffose sedenti sul mare
tutto grigio, a ponente, ora calare in trionfo su le onde infiammate, tra una
pompa meravigliosa di nuvole accese; vedeva nell'umido cielo crepuscolare sgorgar
liquida e calma la luce di Giove, avvivarsi appena la luna diafana e lieve;
beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera imminente, e respirava, beata,
sentendosi penetrare fino in fondo all'anima il fresco, la quiete, come un
conforto sovrumano.
Intanto, di là, nella casa colonica, il vecchio mezzadro e la moglie
riprendevano a congiurare a danno di lei, istigando il figliuolo a provvedere
a' suoi casi.
- Perché la lasci sola? - badava a dirgli il padre. - Non t'accorgi
che lei, ora, dopo la malattia, t'è grata dell'affezione che le hai
dimostrata? Non la lasciare un momento, cerca d'entrarle sempre più nel
cuore; e poi... e poi ottieni che la serva non si corichi più nella
stessa camera con lei. Ora lei sta bene e non ne ha più bisogno, la
notte.
Gerlando, irritato, si scrollava tutto, a questi suggerimenti.
- Ma neanche per sogno! Ma se non le passa più neanche per il capo che
io possa... Ma che! Mi tratta come un figliuolo... Bisogna sentire che discorsi
mi fa! Si sente già vecchia, passata e finita per questo mondo. Che!
- Vecchia? - interloquiva la madre. - Certo, non è più una bambina;
ma vecchia neppure; e tu...
- Ti levano la terra! - incalzava il padre. - Te l'ho già detto: sei
rovinato, in mezzo a una strada. Senza figli, morta la moglie, la dote torna
ai parenti di lei. E tu avrai fatto questo bel guadagno; avrai perduto la scuola
e tutto questo tempo, così, senza nessuna soddisfazione... Neanche un
pugno di mosche! Pensaci, pensaci a tempo: già troppo ne hai perduto...
Che speri?
- Con le buone, - riprendeva, manierosa, la madre. - Tu devi andarci con le
buone, e magari dirglielo: «Vedi? che n'ho avuto io, di te? t'ho rispettato,
come tu hai voluto; ma ora pensa un po' a me, tu: come resto io? che farò,
se tu mi lasci così?». Alla fin fine, santo Dio, non deve andare
alla guerra!
- E puoi soggiungere, - tornava a incalzare il padre. - puoi soggiungere: «Vuoi
far contento tuo fratello che t'ha trattata così? farmi cacciar via
di qua come un cane, da lui?». È la santa verità, questa,
bada! Come un cane sarai cacciato, a pedate, e io e tua madre, poveri vecchi,
con te.
Gerlando non rispondeva nulla. Ai consigli della madre provava quasi un sollievo,
ma irritante, come una vellicazione; le previsioni del padre gli movevano la
bile, lo accendevano d'ira. Che fare? Vedeva la difficoltà dell'impresa
e ne vedeva pure la necessità impellente. Bisognava a ogni modo tentare.
Eleonora, adesso, sedeva a tavola con lui. Una sera, a cena, vedendolo con
gli occhi fissi su la tovaglia, pensieroso, gli domandò:
- Non mangi? che hai?
Quantunque da alcuni giorni egli s'aspettasse questa domanda provocata dal
suo stesso contegno, non seppe sul punto rispondere come aveva deliberato,
e fece un gesto vago con la mano.
- Che hai? - insistette Eleonora.
- Nulla, - rispose, impacciato, Gerlando. - Mio padre, al solito...
- Daccapo con la scuola? - domandò lei sorridendo, per spingerlo a parlare.
- No: peggio, - diss'egli. - Mi pone... mi pone davanti tante ombre, m'affligge
col... col pensiero del mio avvenire, poiché lui è vecchio, dice,
e io così, senza né arte né parte: finché ci sei
tu, bene; ma poi... poi, niente, dice...
- Di' a tuo padre, - rispose allora, con gravità, Eleonora, socchiudendo
gli occhi, quasi per non vedere il rossore di lui, - di' a tuo padre che non
se ne dia pensiero. Ho provveduto io a tutto, digli, e che stia dunque tranquillo.
Anzi, giacché siamo a questo discorso, senti: se io venissi a mancare
d'un tratto - siamo della vita e della morte - nel secondo cassetto del canterano,
nella mia camera, troverai in una busta gialla una carta per te.
- Una carta? - ripeté Gerlando, non sapendo che dire, confuso di vergogna.
Eleonora accennò di sì col capo, e soggiunse:
- Non te ne curare.
Sollevato e contento, Gerlando, la mattina dopo, riferì ai genitori
quanto gli aveva detto Eleonora; ma quelli, specialmente il padre, non ne furono
per nulla soddisfatti.
- Carta? Imbrogli!
Che poteva essere quella carta? Il testamento: la donazione cioè del
podere al marito. E se non era fatta in regola e con tutte le forme? Il sospetto
era facile, atteso che si trattava della scrittura privata d'una donna, senza
l'assistenza d'un notajo. E poi, non si doveva aver da fare col cognato, domani,
uomo di legge, imbroglione?
- Processi, figlio mio? Dio te ne scampi e liberi! La giustizia non è per
i poverelli. E quello là, per la rabbia, sarà capace di farti
bianco il nero e nero il bianco.
E inoltre, quella carta, c'era davvero, là, nel cassetto del canterano?
O glie l'aveva detto per non esser molestata?
- Tu l'hai veduta? No. E allora? Ma, ammesso che te la faccia vedere, che ne
capisci tu? che ne capiamo noi? Mentre con un figliuolo... là! Non ti
lasciare infinocchiare: da' ascolto a noi! Carne! carne! che carta!
Così un giorno Eleonora, mentre se ne stava sotto a quell'olivo sul
ciglione, si vide all'improvviso accanto Gerlando, venuto furtivamente.
Era tutta avvolta in un ampio scialle nero. Sentiva freddo, quantunque il febbrajo
fosse così mite, che già pareva primavera. La vasta piaggia,
sotto, era tutta verde di biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva
insieme col cielo una tinta rosea un po' sbiadita, ma soavissima, e le campagne
in ombra parevano smaltate.
Stanca di mirare, nel silenzio, quella meravigliosa armonia di colori, Eleonora
aveva appoggiato il capo al tronco dell'olivo. Dallo scialle nero tirato sul
capo si scopriva soltanto il volto, che pareva anche più pallido.
- Che fai? - le domandò Gerlando. - Mi sembri una Madonna Addolorata.
- Guardavo... - gli rispose lei, con un sospiro, socchiudendo gli occhi.
Ma lui riprese:
- Se vedessi come... come stai bene così, con codesto scialle nero...
- Bene? - disse Eleonora, sorridendo mestamente. - Sento freddo!
- No, dico, bene di... di... di figura, - spiegò egli, balbettando,
e sedette per terra accanto al masso.
Eleonora, col capo appoggiato al tronco, richiuse gli occhi, sorrise per non
piangere, assalita dal rimpianto della sua gioventù perduta così miseramente.
A diciott'anni, sì, era stata pur bella, tanto!
A un tratto, mentre se ne stava così assorta, s'intese scuotere leggermente.
- Dammi una mano, - le chiese egli da terra, guardandola con occhi lustri.
Ella comprese; ma finse di non comprendere.
- La mano? Perché? - gli domandò. - Io non posso tirarti su:
non ho più forza, neanche per me... È già sera, andiamo.
E si alzò.
- Non dicevo per tirarmi su, - spiegò di nuovo Gerlando, da terra. -
Restiamo qua, al bujo; è tanto bello...
Così dicendo, fu lesto ad abbracciarle i ginocchi, sorridendo nervosamente,
con le labbra aride.
- No! - gridò lei. - Sei pazzo? Lasciami!
Per non cadere, s'appoggiò con le braccia a gli omeri di lui e lo respinse
indietro. Ma lo scialle, a quell'atto, si svolse, e, com'ella se ne stava curva
su lui sorto in ginocchio, lo avvolse, lo nascose dentro.
- No: ti voglio! ti voglio! - diss'egli, allora, com'ebbro, stringendola vieppiù con
un braccio, mentre con l'altro le cercava, più su, la vita, avvolto
nell'odore del corpo di lei.
Ma ella, con uno sforzo supremo, riuscì a svincolarsi; corse fino all'orlo
del ciglione; si voltò; gridò:
- Mi butto!
In quella, se lo vide addosso, violento; si piegò indietro, precipitò giù dal
ciglione.
Egli si rattenne a stento, allibito, urlando, con le braccia levate. Udì un
tonfo terribile, giù. Sporse il capo. Un mucchio di vesti nere, tra
il verde della piaggia sottostante. E lo scialle, che s'era aperto al vento,
andava a cadere mollemente, così aperto, più in là.
Con le mani tra i capelli, si voltò a guardare verso la casa campestre;
ma fu colpito negli occhi improvvisamente dall'ampia faccia pallida della Luna
sorta appena dal folto degli olivi lassù; e rimase atterrito a mirarla,
come se quella dal cielo avesse veduto e lo accusasse.
PRIMA NOTTE
quattro camìce,
quattro lenzuola,
quattro sottane,
quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo su, un filo
oggi, un filo domani, con la pazienza d'un ragno, non si stancava di mostrarlo
alle vicine.
- Roba da poverelli, ma pulita.
Con quelle povere mani sbiancate e raspose, che sapevano ogni fatica, levava
dalla vecchia cassapanca d'abete, lunga e stretta che pareva una bara, piano
piano, come toccasse l'ostia consacrata, la bella biancheria, capo per capo,
e le vesti e gli scialli doppii di lana: quello dello sposalizio, con le punte
ricamate e la frangia di seta fino a terra; gli altri tre, pure di lana, ma
più modesti; metteva tutto in vista sul letto, ripetendo, umile e sorridente:
- Roba da poverelli... - e la gioja le tremava nelle mani e nella voce.
- Mi sono trovata sola sola, - diceva. - Tutto con queste mani, che non me
le sento più. Io sotto l'acqua, io sotto il sole; lavare al fiume e
in fontana; smallare mandorle, raccogliere ulive, di qua e di là per
le campagne; far da serva e da acquajola... Non importa. Dio, che ha contato
le mie lagrime e sa la vita mia, m'ha dato forza e salute. Tanto ho fatto,
che l'ho spuntata; e ora posso morire. A quel sant'uomo che m'aspetta di là,
se mi domanda di nostra figlia, potrò dirglielo: «Sta' in pace,
poveretto; non ci pensare: tua figlia l'ho lasciata bene; guaj non ne patirà.
Ne ho patiti tanti io per lei...». Piango di gioja, non ve ne fate...
E s'asciugava le lagrime, Mamm'Anto', con una cocca del fazzoletto nero che
teneva in capo, annodato sotto il mento.
Quasi quasi non pareva più lei, quel giorno, così tutta vestita
di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre.
Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata
da sposa con l'abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta
celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l'avvenimento
della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche
lei.
- Maraste', Maraste', che fai?
Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua:
- Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si piange... Sai come si dice? Cento lire
di malinconia non pagano il debito d'un soldo.
- Penso a mio padre! - disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra
le mani.
Morto di mala morte, sett'anni addietro! Doganiere del porto, andava coi luntri,
di notte, in perlustrazione. Una notte di tempesta, bordeggiando presso le
Due Riviere, il luntro s'era capovolto e poi era sparito,
coi tre uomini che lo governavano.
Era ancora viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio.
E ricordavano che Marastella, accorse con la madre, tutt'e due urlanti, con
le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla
scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti
dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso
il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere,
mormorando, con le mani incrociate sul petto:
- Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ridotto...
Mamm'Anto', i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati,
a quell'inattesa rivelazione. E la madre dell'annegato che si chiamava Tino
Sparti (vero giovane d'oro, poveretto!) sentendola gridar così, le aveva
subito buttato le braccia al collo e se l'era stretta al cuore, forte forte,
in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola
con alte grida:
- Figlia! Figlia!
Per questo ora le vicine, sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre»,
si scambiarono uno sguardo d'intelligenza, commiserandola in silenzio. No,
non piangeva per il padre, povera ragazza. O forse piangeva, sì, pensando
che il padre, vivo, non avrebbe accettato per lei quel partito, che alla madre,
nelle misere condizioni in cui era rimasta, sembrava ora una fortuna.
Quanto aveva dovuto lottare Mammm'Anto' per vincere l'ostinazione della figlia!
- Mi vedi? sono vecchia ormai: più della morte che della vita. Che speri?
che farai sola domani, senz'ajuto, in mezzo a una strada?
Sì. La madre aveva ragione. Ma tant'altre considerazioni faceva lei,
Marastella, dal suo canto. Brav'uomo, sì, quel don Lisi Chìrico
che le volevano dare per marito, - non lo negava - ma quasi vecchio, e vedovo
per giunta. Si riammogliava, poveretto, più per forza che per amore,
dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d'una donna lassù,
che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava.
- E che te n'importa? - le aveva risposto la madre. - Questo anzi deve affidarti:
pensa da uomo sennato. Vecchio? Non ha ancora quarant'anni. Non ti farà mancare
mai nulla: ha uno stipendio fisso, un buon impiego. Cinque lire al giorno:
una fortuna!
- Ah sì, bell'impiego! bell'impiego!
Qui era l'intoppo: Mamm'Anto' lo aveva capito fin da principio: nella qualità dell'impiego
del Chìrico.
E una bella giornata di maggio aveva invitato alcune vicine - lei, poveretta!
- a una scampagnata lassù, sull'altipiano sovrastante il paese.
Don Lisi Chìrico, dal cancello del piccolo, bianco cimitero che sorge
lassù, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro, scorgendo
la comitiva delle donne, le aveva invitate a entrare.
- Vedi? Che cos'è? Pare un giardino, con tanti fiori... - aveva detto
Mamm'Anto' a Marastella, dopo la visita al camposanto. - Fiori che non appassiscono
mai. E qui, tutt'intorno, campagna. Se sporgi un po' il capo dal cancello,
vedi tutto il paese ai tuoi piedi; ne senti il rumore, le voci... E hai visto
che bella cameretta bianca, pulita, piena d'aria? Chiudi porta e finestra,
la sera; accendi il lume; e sei a casa tua: una casa come un'altra. Che vai
pensando?
E le vicine, dal canto loro:
- Ma si sa! E poi, tutto è abitudine; vedrai: dopo un pajo di giorni,
non ti farà più impressione. I morti, del resto, figliuola, non
fanno male; dai vivi devi guardarti. E tu che sei più piccola di noi,
ci avrai tutte qua, a una a una. Questa è la casa grande, e tu sarai
la padrona e la buona guardiana.
Quella visita lassù, nella bella giornata di maggio, era rimasta nell'anima
di Marastella come una visione consolatrice, durante gli undici mesi del fidanzamento:
a essa s'era richiamata col pensiero nelle ore di sconforto, specialmente al
sopravvenire della sera, quando l'anima le si oscurava e le tremava di paura.
S'asciugava ancora le lagrime, quando don Lisi Chìrico si presentò su
la soglia con due grossi cartocci su le braccia quasi irriconoscibile.
- Madonna! - gridò Mamm'Anto'. - E che avete fatto, santo cristiano?
- Io? Ah sì... La barba... - rispose don Lisi con un sorriso squallido
che gli tremava smarrito sulle larghe e livide labbra nude.
Ma non s'era solamente raso, don Lisi: s'era anche tutto incicciato, tanto
ispida e forte aveva radicata la barba in quelle gote cave, che or gli davano
l'aspetto d'un vecchio capro scorticato.
- Io, io, gliel'ho fatta radere io, - s'affrettò a intromettersi, sopravvenendo
tutta scalmanata, donna Nela, la sorella dello sposo, grassa e impetuosa.
Recava sotto lo scialle alcune bottiglie, e parve, entrando, che ingombrasse
tutta quanta la stanzuccia, con quell'abito di seta verde pisello, che frusciava
come una fontana.
La seguiva il marito, magro come don Lisi, taciturno e imbronciato.
- Ho fatto male? - seguitò quella, liberandosi dello scialle. - Deve
dirlo la sposa. Dov'è? Guarda, Lisi: te lo dicevo io? Piange... Hai
ragione, figliuola mia. Abbiamo troppo tardato. Colpa sua, di Lisi. «Me
la rado? Non me la rado?» Due ore per risolversi. Di' un po', non ti
sembra più giovane così? Con quei pelacci bianchi, il giorno
delle nozze...
- Me la farò ricrescere, - disse Chìrico interrompendo la sorella
e guardando triste la giovane sposa. - Sembro vecchio lo stesso e, per giunta,
più brutto.
- L'uomo è uomo, asinaccio, e non è né bello né brutto!
- sentenziò allora la sorella stizzita. - Guarda intanto: l'abito nuovo!
Lo incigni adesso, peccato!
E cominciò a dargli manacciate su le maniche per scuoterne via la sfarinatura
delle paste ch'egli reggeva ancora nei due cartocci.
Era già tardi; si doveva andar prima al Municipio, per non fare aspettar
l'assessore, poi in chiesa; e il festino doveva esser finito prima di sera.
Don Lisi, zelantissimo del suo ufficio, si raccomandava, tenuto su le spine
specialmente dalla sorella intrigante e chiassona, massime dopo il pranzo e
le abbondanti libazioni.
- Ci vogliono i suoni! S'è mai sentito uno sposalizio senza suoni? Dobbiamo
ballare! Mandate per Sidoro l'orbo... Chitarre e mandolini!
Strillava tanto, che il fratello dovette chiamarsela in disparte.
- Smettila, Nela, smettila! Avresti dovuto capirlo che non voglio tanto chiasso.
La sorella gli sgranò in faccia due occhi così.
- Come? Anzi! Perché?
Don Lisi aggrottò le ciglia e sospirò profondamente:
- Pensa che è appena un anno che quella poveretta...
- Ci pensi ancora davvero? - lo interruppe donna Nela con una sghignazzata.
- Se stai riprendendo moglie! Oh povera Nunziata!
- Riprendo moglie, - disse don Lisi socchiudendo gli occhi e impallidendo,
- ma non voglio né suoni né balli. Ho tutt'altro nel cuore.
E quando parve a lui che il giorno inchinasse al tramonto, pregò la
suocera di disporre tutto per la partenza.
- Lo sapete, debbo sonare l'avemaria, lassù.
Prima di lasciar la casa, Marastella, aggrappata al collo della madre, scoppiò di
nuovo a piangere, a piangere, che pareva non la volesse finir più. Non
se la sentiva, non se la sentiva di andar lassù, sola con lui...
- T'accompagneremo tutti noi, non piangere, - la confortava la madre. - Non
piangere. sciocchina!
- Ma piangeva anche lei e piangevano anche tant'altre vicine:
- Partenza amara!
Solo donna Nela, la sorella del Chìrico, più rubiconda che mai,
non era commossa: diceva d'aver assistito a dodici sposalizii e che le lagrime
alla fine, come i confetti, non erano mancati mai.
- Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia.
Si sa! Un altro bicchierotto per sedare la commozione, e andiamo via ché Lisi
ha fretta.
Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel
vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi
per via, sospirava: - Povera sposa!
Lassù, sul breve spiazzo innanzi al cancello, gl'invitati si trattennero
un poco, prima di prender commiato, a esortare Marastella a far buon animo.
Il sole tramontava, e il cielo era tutto rosso, di fiamma, e il mare, sotto,
ne pareva arroventato. Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto,
come d'un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il
muro bianco, grezzo, che cingeva il cimitero perduto lassù nel silenzio.
Lo squillo aereo argentino della campanella sonata da don Lisi per annunziar
l'ave, fu come il segnale della partenza per gli invitati.
A tutti parve più bianco, udendo la campanella, quel muro del camposanto.
Forse perché l'aria s'era fatta più scura. Bisognava andar via
per non far tardi. E tutti presero a licenziarsi, con molti augurii alla sposa.
Restarono con Marastella, stordita e gelata, la madre e due fra le più intime
amiche. Su in alto, le nuvole, prima di fiamma, erano divenute ora fosche,
come di fumo.
- Volete entrare? - disse don Lisi alle donne, dalla soglia del cancello.
Ma subito Mamm'Anto' con una mano gli fece segno di star zitto e d'aspettare.
Marastella piangeva, scongiurandola tra le lagrime di riportarsela giù in
paese con sé.
- Per carità! per carità!
Non gridava; glielo diceva così piano e con tanto tremore nella voce,
che la povera mamma si sentiva strappare il cuore. Il tremore della figlia
- lei lo capiva - era perché dal cancello aveva intraveduto l'interno
del camposanto, tutte quelle croci là, su cui calava l'ombra della sera.
Don Lisi andò ad accendere il lume nella cameretta, a sinistra dell'entrata;
volse intorno uno sguardo per vedere se tutto era in ordine, e rimase un po'
incerto se andare o aspettare che la sposa si lasciasse persuadere dalla madre
a entrare.
Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata,
imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza:
si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime.
Fino alla sera avanti s'era buttato ginocchioni a piangere come un bambino
davanti a una crocetta di quel camposanto, per licenziarsi dalla sua prima
moglie. Non doveva pensarci più. Ora sarebbe stato tutto di quest'altra,
padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto
trascurare quelle che da tant'anni si prendeva amorosamente di tutti coloro,
amici o ignoti, che dormivano lassù sotto la sua custodia.
Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti.
Alla fine Marastella si lasciò persuadere a entrare. La madre chiuse
subito la porta quasi per isolar la figlia nell'intimità della cameretta,
lasciando fuori la paura del luogo. E veramente la vista degli oggetti familiari
parve confortasse alquanto Marastella.
- Su, levati lo scialle, - disse Mamm'Anto'. - Aspetta, te lo levo io. Ora
sei a casa tua...
- La padrona, - aggiunse don Lisi, timidamente, con un sorriso mesto e affettuoso.
- Lo senti? - riprese Mamm'Anto' per incitare il genero a parlare ancora.
- Padrona mia e di tutto, - continuò don Lisi. - Lei deve già saperlo.
Avrà qui uno che la rispetterà e le vorrà bene come la
sua stessa mamma. E non deve aver paura di niente.
- Di niente, di niente, si sa! - incalzò la madre. - Che è forse
una bambina più? Che paura! Le comincerà tanto da fare, adesso... È vero? È vero?
Marastella chinò più volte il capo, affermando; ma appena Mamm'Anto'
e le due vicine si mossero per andar via, ruppe di nuovo in pianto, si buttò di
nuovo al collo della madre, aggrappandosi. Questa, con dolce violenza si sciolse
dalle braccia della figlia, le fece le ultime raccomandazioni d'aver fiducia
nello sposo e in Dio, e andò via con le vicine piangendo anche lei.
Marastella restò presso la porta, che la madre, uscendo, aveva raccostata,
e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando
un alito d'aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta.
Ancora con le mani sul volto, ella non se n'accorse: le parve invece che tutt'a
un tratto - chi sa perché - le si aprisse dentro come un vuoto delizioso,
di sogno; sentì un lontano, tremulo scampanellio di grilli, una fresca
inebriante fragranza di fiori. Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel
cimitero un chiarore, più che d'alba, che pareva incantasse ogni cosa,
là immobile e precisa.
Don Lisi accorse per richiudere la porta. Ma, subito, allora, Marastella, rabbrividendo
e restringendosi nell'angolo tra la porta e il muro, gli gridò:
- Per carità, non mi toccate!
Don Lisi, ferito da quel moto istintivo di ribrezzo, restò.
- Non ti toccavo, - disse. - Volevo richiudere la porta.
- No, no, - riprese subito Marastella, per tenerlo lontano. - Lasciatela pure
aperta. Non ho paura!
- E allora?... - balbettò don Lisi, sentendosi cader le braccia.
Nel silenzio, attraverso la porta semichiusa, giunse il canto lontano d'un
contadino che ritornava spensierato alla campagna, lassù, sotto la luna,
nella frescura tutta impregnata dell'odore del fieno verde, falciato da poco.
- Se vuoi che passi, - riprese don Lisi avvilito, profondamente amareggiato,
vado a richiudere il cancello che è rimasto aperto.
Marastella non si mosse dall'angolo in cui s'era ristretta. Lisi Chìrico
si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando
se la vide venire incontro, come impazzita tutt'a un tratto.
- Dov'è, dov'è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre.
- Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, - le rispose egli
cupamente. - Ogni sera, io faccio il giro prima d'andare a letto. Obbligo mio.
Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c'è bisogno di lanternino.
C'è la lanterna del cielo.
E andarono per i vialetti inghiajati, tra le siepi di spigo fiorite.
Spiccavano bianche tutt'intorno, nel lume della luna, le tombe gentilizie e
nere per terra, con la loro ombra da un lato, come a giacere le croci di ferro
dei poveri.
Più distinto, più chiaro, veniva dalle campagne vicine il tremulo
canto dei grilli e, da lontano, il borboglio continuo del mare.
- Qua, - disse il Chìrico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui
era murata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del dovere.
- C'è anche lo Sparti, - aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio
innanzi alla tomba, singhiozzante. - Tu piangi qua... Io andrò più là;
non è lontano...
La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l'altipiano. Lei sola vide
quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d'un vialetto presso due tombe, in
quella dolce notte d'aprile.
Don Lisi, chino su la fossa della prima moglie, singhiozzava:
- Nunzia', Nunzia', mi senti?
IL «FUMO»
I.
Appena i zolfatari venivan su dal fondo della «buca» col fiato
ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli
occhi era quel verde là della collina lontana, che chiudeva a ponente
l'ampia vallata.
Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avevano più da tempo
un filo d'erba, sforacchiate dalle zolfare come da tanti enormi formicaj e
bruciate tutte dal fumo.
Sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante
ore di tenebra laggiù, si riposavano.
A chi attendeva a riempire di minerale grezzo i forni o i «calcheroni»,
a chi vigilava alla fusione dello zolfo, o s'affaccendava sotto i forni stessi
a ricevere dentro ai giornelli che servivan da forme lo zolfo bruciato che
vi colava lento come una densa morchia nerastra, la vista di tutto quel verde
lontano alleviava anche la pena del respiro, l'agra oppressura del fumo che
s'aggrappava alla gola, fino a promuovere gli spasimi più crudeli e
le rabbie dell'asfissia.
I carusi, buttando giù il carico dalle spalle peste
e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po' all'aria, tutti imbrattati
dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino
rotto della «buca», grattandosi la testa e guardando a quella collina
attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai «calcheroni» accesi
o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi,
senza gravi stenti là all'aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini.
- Beati loro!
Per tutti, infine, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva
l'olio alle loro lucerne che a mala pena rompevano il crudo tenebrore della
zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi
per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l'unico
loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a
quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra,
tanti morti affaccendati.
I contadini della collina, all'incontro, perfino sputavano: - Puh! - guardando
a quelle coste della vallata.
Era là il loro nemico: il fumo devastatore.
E quando il vento spirava di là, recando il lezzo asfissiante dello
zolfo bruciato, guardavano gli alberi come a difenderli e borbottavano imprecazioni
contro quei pazzi che s'ostinavano a scavar la fossa alle loro fortune e che,
non contenti d'aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell'unico occhio
di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni anche le
belle campagne.
Tutti, infatti, dicevano che anche sotto la collina ci doveva esser lo zolfo.
Quelle creste in cima, di calcare siliceo e, più giù, il briscale
degli affioramenti lo davano a vedere; gl'ingegneri minerarii avevano più volte
confermato la voce.
Ma i proprietarii di quelle campagne, quantunque tentati insistentemente con
ricche profferte, non solo non avevan voluto mai cedere in affitto il sottosuolo,
ma neanche alla tentazione di praticar loro stessi per curiosità qualche
assaggio, così sopra sopra.
La campagna era lì, stesa al sole, che tutti potevano vederla: soggetta
sì alle cattive annate, ma compensata poi anche dalle buone; la zolfara,
all'incontro, cieca, e guaj a scivolarci dentro. Lasciare il certo per l'incerto
sarebbe stata impresa da pazzi.
Queste considerazioni, che ciascuno di quei proprietarii della collina ribadiva
di continuo nella mente dell'altro, volevano essere come un impegno per tutti
di resistere uniti alle tentazioni, sapendo bene che se uno di loro avesse
ceduto e una zolfara fosse sorta là in mezzo, tutti ne avrebbero sofferto;
e allora, cominciata la distruzione, altre bocche d'inferno si sarebbero aperte
e, in pochi anni, tutti gli alberi, tutte le piante sarebbero morti, attossicati
dal fumo, e addio campagne!
II.
Tra i più tentati era don Mattia Scala che possedeva un poderetto con
un bel giro di mandorli e d'olivi a mezza costa della collina, ove, per suo
dispetto, affiorava con più ricca promessa il minerale.
Parecchi ingegneri del R. Corpo delle Miniere eran venuti a osservare, a studiare
quegli affioramenti e a far rilievi. Lo Scala li aveva accolti come un marito
geloso può accogliere un medico, che gli venga in casa a visitare qualche
segreto male della moglie.
Chiudere la porta in faccia a quegli ingegneri governativi che venivan per
dovere d'ufficio, non poteva. Si sfogava in compenso a maltrattare quegli altri
che, o per conto di qualche ricco produttore di zolfo o di qualche società mineraria,
venivano a proporgli la cessione o l'affitto del sottosuolo.
- Corna, vi cedo! - gridava. - Neanche se m'offriste i tesori di Creso; neanche
se mi diceste: Mattia, raspa qua con un piede, come fanno le galline; ci trovi
tanto zolfo, che diventi d'un colpo più ricco di... che dico? di re
Fàllari! Non rasperei, parola d'onore.
E se, poco poco, quelli insistevano:
- Insomma, ve n'andate, o chiamo i cani?
Gli avveniva spesso di ripetere questa minaccia dei cani, perché il
suo poderetto aveva il cancello su la trazzera, cioè su
la via mulattiera che traversava la collina, accavalcandola, e che serviva
da scorciatoja agli operai delle zolfare, ai capimastri, a gl'ingegneri direttori,
che dalla prossima città si recavano alla vallata o ne tornavano. Ora,
quest'ultimi segnatamente pareva avessero preso gusto a farlo stizzire; e,
almeno una volta la settimana, si fermavano innanzi al cancello, vedendo don
Mattia lì presso, per domandargli:
- Niente, ancora?
- Tè, Scampirro! Tè, Regina!
Don Mattia, per chiasso, chiamava davvero i cani. Aveva avuto anche lui un
tempo la mania delle zolfare, per cui s'era ridotto - eccolo là - scannato
miserabile! Ora non poteva veder neanche da lontano un pezzo di zolfo che subito,
con rispetto parlando, non si sentisse rompere lo stomaco.
- E che è, il diavolo? - gli domandavano.
E lui:
- Peggio! Perché vi danna l'anima, il diavolo, ma vi fa ricchi, se vuole!
Mentre lo zolfo vi fa più poveri di Santo Giobbe; e l'anima ve la danna
lo stesso!
Parlando, pareva il telegrafo. (Il telegrafo s'intende come usava prima, ad
asta.) Lungo lungo, allampanato, sempre col cappellaccio bianco in capo, buttato
indietro, a spera; e portava a gli orecchi un pajo di catenaccetti d'oro, che
davano a vedere quello che, del resto, egli non si curava di nascondere, come
fosse cioè venuto su da una famiglia mezzo popolana e mezzo borghese.
Nel volto raso, pallido, di quel pallore proprio dei biliosi, gli spiccavano
stranamente le sopracciglia enormi, spioventi, come un gran pajo di baffi che
si fosse sfogato a crescer lì, visto che giù, sul labbro, non
gli era nemmen permesso di spuntare. E sotto, all'ombra di quelle sopracciglia,
gli lampeggiavano gli occhi chiari, taglienti, vivi vivi, mentre le narici
del gran naso aquilino, energico, gli si dilatavano di continuo e fremevano.
Tutti i possidenti della collina gli volevano bene.
Ricordavano com'egli, molto ricco un giorno, fosse venuto lì a pigliar
possesso di quei pochi ettari di terra comperati dopo la rovina, col denaro
ricavato dalla vendita della casa in città e di tutte le masserizie
di essa e delle gioje della moglie morta di crepacuore; ricordavano come si
fosse prima rintanato nelle quattro stanze della casa rustica annessa al podere,
senza voler vedere nessuno, insieme con una ragazza di circa sedici anni, Jana,
che tutti in principio avevano creduto sua figlia e che poi s'era saputo esser
la sorella minore d'un tal Dima Chiarenza, cioè proprio di quell'infame
che lo aveva tradito e rovinato.
C'era tutta una storia sotto.
Lo Scala aveva conosciuto questo Chiarenza ragazzo, e lo aveva sempre ajutato,
sapendolo orfano di padre e di madre, con quella sorellina molto più piccola
di lui; se l'era anzi preso con sé per farlo lavorare; poi, avendolo
sperimentato veramente esperto e amante del lavoro, aveva voluto averlo anche
socio nell'affitto d'una zolfara. Tutte le spese per la lavorazione se l'era
accollate lui; Dima Chiarenza doveva soltanto star lì, sul posto, vigilare
all'amministrazione e ai lavori.
Intanto Jana (Januzza, come la chiamavano) gli cresceva
in casa. Ma don Matria aveva anche un figlio (unico!) quasi della stessa età,
che si chiamava Neli. Si sa, presto padre e madre s'erano accorti che i due
ragazzi avevano preso a volersi bene, non come fratello e sorella; e per non
tener la paglia accanto al fuoco e dare tempo al tempo, avevano pensato giudiziosamente
d'allontanare dalla casa Neli, che non aveva ancora diciotto anni, e lo avevano
mandato alla zolfara, a tener compagnia e a prestare ajuto al Chiarenza. Fra
due, tre anni, li avrebbero sposati, se tutto, come pareva, fosse andato bene.
Poteva mai sospettare don Mattia Scala che Dima Chiarenza, di cui si fidava
come di se stesso, Dima Chiarenza, ch'egli aveva raccolto dalla strada, trattato
come un figliuolo e messo a parte degli affari, Dima Chiarenza lo dovesse tradire,
come Giuda tradì Cristo?
Proprio così! S'era messo d'accordo, l'infame, con l'ingegnere direttore
della zolfara, d'accordo coi capimastri, coi pesatori, coi carrettieri, per
rubarlo a man salva su le spese d'amministrazione, su lo zolfo estratto, finanche
sul carbone che doveva servire ad alimentar le macchine per l'eduzione delle
acque sotterranee. E la zolfara, una notte, gli s'era allagata, irreparabilmente,
distruggendo l'impianto del piano inclinato, che allo Scala costava più di
trecento mila lire.
Neli, che in quella notte d'inferno s'era trovato sul luogo e aveva partecipato
a gl'inutili sforzi disperati per impedire il disastro, presentendo l'odio
che il padre da quell'ora avrebbe portato al Chiarenza, e in cui forse avrebbe
coinvolto Jana, la sorella innocente, la sua Jana; temendo che avrebbe chiamato
anche lui, forse, responsabile della rovina per non essersi accorto o per non
aver denunziato a tempo il tradimento di quel Giuda che doveva esser tra poco
suo cognato; nella stessa notte, era fuggito come un pazzo, in mezzo alla tempesta;
e scomparso, senza lasciar nessuna traccia di sé.
Pochi giorni dopo la madre era morta, assistita amorosamente da Jana, e lo
Scala s'era trovato solo, in casa, rovinato, senza più la moglie, senza
più il figlio, solo con quella ragazza, la quale, come impazzita dall'onta
e dal cordoglio, s'era stretta a lui, non aveva voluto lasciarlo, aveva minacciato
di buttarsi da una finestra s'egli la avesse respinta in casa del fratello.
Vinto da quella fermezza e reprimendo la repulsione che la sua vista ora gli
destava, lo Scala aveva condisceso a condurla con sé, vestita di nero,
come una figliuola due volte orfana, là, nel poderetto acquistato allora.
Uscendo a poco a poco, con l'andar del tempo, dal suo lutto, s'era messo a
scambiare qualche parola coi vicini e a dar notizie di sé e della ragazza.
- Ah, non è figlia vostra?
- No. Ma come se fosse.
Si vergognava dapprima a dir chi era veramente. Del figlio, non diceva nulla.
Era una spina troppo grande. E del resto, che notizie poteva darne? Non ne
aveva. Se n'era tanto occupata la questura, ma senza venire a capo di nulla.
Dopo alcuni anni, però, Jana, stanca d'aspettar così senza speranza
il ritorno del fidanzato, aveva voluto tornarsene in città, in casa
del fratello, il quale, sposata una vecchia di molti denari, famigerata usuraja,
s'era messo a far l'usurajo anche lui, ed era adesso tra i più ricchi
del paese.
Così lo Scala era restato solo, lì, nel poderetto. Otto anni
erano già trascorsi e, almeno apparentemente, aveva ripreso l'umore
di prima; era divenuto amico di tutti i proprietarii della collina che, spesso,
sul tramonto venivano a trovarlo dai poderi vicini.
Pareva che la campagna avesse voluto compensarlo dei danni della zolfara.
Era pure stata una fortuna l'aver potuto acquistare quei pochi ettari di terra,
perché uno dei proprietarii dei sei poderi in cui era frazionata la
collina, il Butera, riccone, s'era fitto in capo di diventar col tempo padrone
di tutte quelle terre. Prestava denaro e andava a mano a mano allargando i
confini del suo fondo. Già s'era annesso quasi metà del podere
di un certo Nino Mo; e aveva ridotto un altro proprietario, il Làbiso,
a vivere in un pezzettino di terra largo quanto un fazzoletto da naso, anticipandogli
la dote per cinque figliuole; teneva da un pezzo gli occhi anche su le terre
del Lopes; ma questi, per bizza, dovendo disfarsi dopo una serie di male annate
d'una parte della sua tenuta, s'era contentato di venderla, anche a minor prezzo,
a un estraneo: allo Scala.
In pochi anni, buttatosi tutto al lavoro, per distrarsi dalle sue sciagure,
don Mattia aveva talmente beneficato quei pochi ettari di terra, che ora gli
amici, il Lopes stesso, quasi stentavano a riconoscerli; e ne facevano le meraviglie.
Il Lopes, veramente, si rodeva dentro dalla gelosia. Rosso di pelo, dal viso
lentigginoso, e tutto sciamannato, teneva di solito il cappello buttato sul
naso, come per non veder più niente, né nessuno; ma sotto la
falda di quel cappello qualche occhiata obliqua gli sguisciava di tanto in
tanto, come nessuno s'aspettava da quei grossi occhi verdastri che pareva covassero
il sonno.
Girato il podere, gli amici si riducevano su lo spiazzetto innanzi alla cascina,
Là, lo Scala li invitava a sedere sul murello che limitava giro giro,
sul davanti, la scarpata su cui la cascina era edificata. Ai piedi di quella
scarpata, dalla parte di dietro, sorgevano, come a proteggere la cascina, certe
pioppe nere, alte alte, di cui don Mattia non si sapeva dar pace, perché il
Lopes ce l'avesse piantate.
- Che stanno a farci? Me lo dite? Non danno frutto e ingombrano.
- E voi buttatele a terra e fatene carbone, - gli rispondeva, indolente, il
Lopes.
Ma il Butera consigliava:
- Vedete un po', prima di buttarle giù, se qualcuno ve le prende.
- E chi volete che le prenda?
- Mah! Quelli che fanno i Santi di legno.
- Ah! I Santi! Guarda, guarda! Ora capisco, - concludeva don Mattia - se li
fanno di questo legno, perché non fanno più miracoli i Santi!
Su quelle pioppe, ai vespro, si davano convegno tutti i passeri della collina,
e col loro fitto, assordante cinguettio disturbavano gli amici che si trattenevano
lì a parlare, al solito, delle zolfare e dei danni delle imprese minerarie.
Moveva quasi sempre il discorso Nocio Butera, il quale, com'era il possidente
più ricco, così era anche la più grossa pancia di tutte
quelle contrade. Era avvocato, ma una volta sola in vita sua, poco dopo ottenuta
la laurea, s'era provato a esercitar la professione: s'era impappinato nel
bel meglio della sua prima arringa; smarrito; con le lagrime in pelle, come
un bambino, lì, davanti ai giurati e alla Corte aveva levato le braccia,
a pugni chiusi, contro la Giustizia raffigurata nella volta con tanto di bilancia
in mano, gemendo, esasperato: - Eh che! Santo Dio! - perché, povero
giovine, aveva sudato una camicia a cacciarsi l'arringa a memoria e credeva
di poterla recitare proprio bene, tutta filata, senza impuntature.
Ogni tanto, ancora, qualcuno gli ricordava quel fiasco famoso:
- Eh che, don No', santo Dio!
E Nocio Butera figurava di sorriderne anche lui, ora, masticando: - Già...
già... - mentre si grattava con le mani paffute le fedine nere su le
guance rubiconde o s'aggiustava sul naso a gnocco o su gli orecchi il sellino
o le staffe degli occhiali d'oro. Veramente avrebbe potuto riderne di cuore,
perché, se come avvocato aveva fatto quella pessima prova, come coltivatore
di campi e amministratore di beni, via, portava bandiera. Ma l'uomo, si sa,
l'uomo non si vuol mai contentare, e Nocio Butera pareva godesse soltanto nel
sapere che altri, come lui, aveva fatto cilecca in qualche impresa. Veniva
nel fondo dello Scala unicamente per annunziar la rovina prossima o già accaduta
di questo o di quello, e per spiegarne le ragioni e dimostrare così,
che a lui non sarebbe certo accaduta.
Tino Làbiso, lungo lungo, rinfichito, tirava dalla tasca dei calzoni
un pezzolone a dadi rossi e neri, vi strombettava dentro col naso che pareva
una buccina marina; poi ripiegava diligentemente il pezzolone, se lo ripassava,
così ripiegato, parecchie volte sotto il naso, e se lo rimetteva in
tasca; infine, da uomo prudente, che non si lascia mai scappar giudizii avventati,
diceva:
- Può essere.
- Può essere? È è è! - scattava Nino Mo, che non
poteva soffrire quell'aria flemmatica del Làbiso.
Il Lopes accennava di scuotersi dalla cupa noja e, sotto al cappellaccio buttato
sul naso, consigliava con voce sonnolenta:
- Lasciate parlare don Mattia che se n'intende più di voi.
Ma don Mattia, ogni volta, prima di mettersi a parlare, si recava in cantina
per offrire a gli amici un buon boccale di vino.
- Aceto, avvelenatevi!
Beveva anche lui, sedeva, s'attortigliava le gambe e domandava:
- Di che si tratta?
- Si tratta, - prorompeva al solito Nino Mo, - che sono tante bestie, tutti,
a uno a uno!
- Chi?
- Ma quei figli di cane! I zolfatari. Scavano, scavano, e il prezzo dello zolfo
giù, giù, giù! Senza capire che fanno la loro e la nostra
rovina; perché tutti i danari vanno a finir là, in quelle buche,
in quelle bocche d'inferno sempre affamate, bocche che ci mangiano vivi!
- E il rimedio, scusate? - tornava a domandare lo Scala.
- Limitare, - rispondeva allora placidamente Nocio Butera - limitare la produzione
dello zolfo. L'unica, per me, sarebbe questa.
- Madonna, che locco! - esclamava subito don Mattia Scala sorgendo in piedi
per gestire più liberamente: - Scusate, don Nocio mio, locco, sì,
locco e ve lo provo! Dite un po': quante, tra mille zolfare, credete che siano
coltivate direttamente, in economia, dai proprietarii? Duecento appena! Tutte
le altre sono date in affitto. Tu, Tino Làbiso, ne convieni?
- Può essere, - ripeteva Tino Làbiso, intento e grave.
E Nino Mo;
- Può essere? È è è!
Don Mattia protendeva le mani per farlo tacere. - Ora, don Nocio mio, quanto
vi pare che duri, per l'ingordigia e la prepotenza dei proprietarii panciuti
come voi, l'affitto d'una zolfara? Dite su! dite su!
- Dieci anni? - arrischiava, incerto, il Butera, sorridendo con aria di condiscendente
superiorità.
- Dodici, - concedeva lo Scala - venti, anzi, qualche volta. Bene, e che ve
ne fate? che frutto potete cavarne in così poco tempo? Per quanto lesti
e fortunati si sia, in venti anni non c'è modo neanche di rifarsi delle
spese che ci vogliono per coltivare come Dio comanda una zolfara. Questo, per
dirvi che, data in commercio una minore domanda, se è possibile che
il proprietario coltivatore rallenti la produzione per non rinvilire la merce,
non sarà mai possibile per l'affittuario a breve scadenza, il quale,
facendolo, sacrificherebbe i proprii interessi a beneficio del successore.
Dunque l'impegno, l'accanimento dell'affittuario nel produrre quanto più gli
sia possibile, mi spiego? Poi, sprovvisto com'è quasi sempre di mezzi,
deve per forza smerciar subito il suo prodotto, a qualunque prezzo, per seguitare
il lavoro; perché, se non lavora - voi lo sapete - il proprietario gli
toglie la zolfara. E, per conseguenza, come dice Nino Mo: lo zolfo giù,
giù, giù, come se fosse pietraccia vile. Ma, del resto, voi don
Nocio che avete studiato, e tu Tino Làbiso: sapreste dirmi che diavolo
sia lo zolfo e a che cosa serva?
Finanche il Lopes, a questa domanda speciosa, si voltava a guardare con gli
occhi sbarrati. Nino Mo si cacciava in tasca le mani irrequiete, come se volesse
cercarvi rabbiosamente la risposta; mentre Tino Làbiso tirava al solito
daccapo il pezzolone per soffiarsi il naso e prender tempo, da uomo prudente.
- Oh bella! - esclamava intanto Nocio Butera, imbarazzato anche lui. - Serve...
serve per... per inzolfare le viti, serve.
- E... e anche per... già, per i fiammiferi di legno, mi pare, - aggiungeva
Tino Làbiso ripiegando con somma diligenza il fazzoletto.
- Mi pare... mi pare... - si metteva a sghignazzare don Mattia Scala. - Che
vi pare? È proprio così! Questi due soli usi ne conosciamo noi.
Domandatene a chi volete: nessuno vi saprà dire per che altro serva
lo zolfo. E intanto lavoriamo, ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo
giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi,
perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingojarselo;
ci tirano una bella fischiata, e addio! Che ne faranno, di là, nei loro
paesi? Nessuno lo sa; nessuno si cura di saperlo! E la ricchezza nostra, intanto,
quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle
vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi,
come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico
guadagno: le nostre campagne bruciate dal fumo.
I quattro amici, a questa vivace, lampantissima dimostrazione della cecità con
cui si esercitava l'industria e il commercio di quel tesoro concesso dalla
natura alle loro contrade e intorno a cui pur ferveva tanta briga, tanta guerra
di lucro, insidiosa e spietata, restavano muti, come oppressi da una condanna
di perpetua miseria.
Allora lo Scala, riprendendo il primo discorso, si metteva a rappresentar loro
tutti gli altri pesi, a cui doveva sottostare un povero affittuario di zolfare.
Li sapeva tutti, lui, per averli purtroppo sperimentati. Ed ecco, oltre l'affitto
breve, l'estaglio, cioè la quota d'affitto che doveva
esser pagata in natura, sul prodotto lordo, al proprietario del suolo, il quale
non voleva affatto sapere se il giacimento fosse ricco o povero, se le zone
sterili fossero rare o frequenti, se il sotterraneo fosse asciutto o invaso
dalle acque, se il prezzo fosse alto o basso, se insomma l'industria fosse
o no remunerativa. E, oltre l'estaglio, le tasse governative d'ogni sorta;
e poi l'obbligo di costruire, non solo le gallerie inclinate per l'accesso
alla zolfara e quella per la ventilazione e i pozzi per l'estrazione e l'eduzione
delle acque; ma anche i calcheroni, i forni, le strade, i caseggiati e quanto
mai potesse occorrere alla superficie per l'esercizio della zolfara. E tutte
queste costruzioni, alla fine del contratto, dovevano rimanere al proprietario
del suolo, il quale, per giunta, esigeva che tutto gli fosse consegnato in
buon ordine e in buono stato. Come se le spese fossero state a suo carico.
Né bastava! Neppur dentro le gallerie sotterranee l'affittuario era
padrone di lavorare a suo modo, ma ad archi, o a colonne, o a pasture, come
il proprietario imponeva, talvolta anche contro le esigenze stesse del terreno.
Si doveva esser pazzi o disperati, no? per accettar siffatte condizioni, per
farsi mettere così i piedi sul collo. Chi erano, infatti, per la maggior
parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un quattrino,
costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affitto,
dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure, ad
altre soperchierie.
Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto
dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiù,
esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti;
per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati
da un carico superiore alle loro forze, su e giù per le gallerie e le
scale della buca.
Quando lo Scala terminava di parlare e i vicini si alzavano per tornarsene
alle loro abitazioni rurali, la luna, alta e come smarrita nel cielo, quasi
non fosse di quella notte, ma la luna d'un tempo lontano lontano, dopo il racconto
di tante miserie, illuminando le due coste della vallata ne faceva apparir
più squallida e più lugubre la desolazione.
E ciascuno, avviandosi, pensava che là, sotto quelle coste così squallidamente
rischiarate, cento, duecento metri sottoterra, c'era gente che s'affannava
ancora a scavare, a scavare, poveri picconieri sepolti laggiù, a cui
non importava se su fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per
loro.
III.
Tutti, a sentirlo parlare, credevano che lo Scala avesse già dimenticato
i dolori passati e non si curasse più di nulla ormai, tranne di quel
suo pezzetto di terra, da cui non si staccava più da anni, nemmeno per
un giorno.
Del figliuolo scomparso, sperduto per il mondo, - se qualche volta ne parlava,
perché qualcuno gliene moveva il discorso - si sfogava a dir male, per
l'ingratitudine che gli aveva dimostrata, per il cuor duro di cui aveva dato
prova.
- Se è vivo, - concludeva - è vivo per sé; per me, è morto,
e non ci penso più.
Diceva così, ma, intanto, non partiva per l'America da tutti quei dintorni
un contadino, dal quale non si recasse di nascosto, alla vigilia della partenza,
per consegnargli segretamente una lettera indirizzata a quel suo figliuolo.
- Non per qualche cosa, oh! Se niente niente t'avvenisse di vederlo o d'averne
notizia, laggiù.
Molte di quelle lettere gli eran tornate indietro, con gli emigranti rimpatriati
dopo quattro o cinque anni, gualcite, ingiallite, quasi illeggibili ormai.
Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all'Argentina,
né al Brasile, né a gli Stati Uniti.
Egli ascoltava, poi scrollava le spalle:
- E che me n'importa? Da' qua, da' qua. Non mi ricordavo più neanche
d'averti dato questa lettera per lui.
Non voleva mostrare a gli estranei la miseria del suo cuore, l'inganno in cui
sentiva il bisogno di persistere ancora: che il figlio, cioè, fosse
là, in America, in qualche luogo remoto, e che dovesse un giorno o l'altro
ritornare, venendo a sapere ch'egli s'era adattato alla nuova condizione e
possedeva una campagna, dove viveva tranquillo, aspettandolo.
Era poca, veramente, quella terra; ma da parecchi anni don Mattia covava, di
nascosto al Butera, il disegno d'ingrandirla, acquistando la terra d'un suo
vicino, col quale già s'era messo a prezzo e accordato. Quante privazioni,
quanti sacrifizii non s'era imposti, per metter da parte quanto gli bisognava
per attuare quel suo disegno! Era poca, sì, la sua terra; ma da un pezzo
egli, affacciandosi al balcone della cascina, s'era abituato a saltar con gli
occhi il muro di cinta tra il suo podere e quello del vicino e a considerar
come sua tutta quanta quella terra. Raccolta la somma convenuta, aspettava
solamente che il vicino si risolvesse a firmare il contratto e a sloggiare
di là.
Gli sapeva mill'anni, allo Scala; ma, per disgrazia, gli era toccato ad aver
da fare con un benedett'uomo! Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don
Filippino Lo Cìcero, ma senza dubbio un po' svanito di cervello. Leggeva
dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con
una scimmia che gli avevano regalata.
La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino
la curava come una figliuola, la carezzava, s'assoggettava senza mai ribellarsi
a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d'esser
compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata su
la trabacca del letto, ch'era il suo posto preferito, egli, seduto su la poltrona,
si metteva a leggerle qualche squarcio delle Georgiche o
delle Bucoliche:
- Tityre, tu patulae...
Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d'ammirazione
curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una
semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o
gustava la dolcezza, posava il libro su le ginocchia, socchiudeva gli occhi
e si metteva a dire celerissimamente: - Bello! bello! bello! bello!
bello! - abbandonandosi man mano su la spalliera, come se svenisse
dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata,
costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioja:
- Senti, Tita, senti... Bello! bello! bello! bello! bello...
Ora don Mattia Scala voleva la campagna: aveva fretta, cominciava a essere
stufo, e aveva ragione: la somma convenuta era pronta - e notare che quel denaro
a don Filippino avrebbe fatto tanto comodo; ma, Dio benedetto, come avrebbe
poi potuto in città gustar la poesia pastorale e campestre del suo divino
Virgilio?
- Abbi pazienza, caro Mattia!
La prima volta che lo Scala s'era sentito rispondere così, aveva sbarrato
tanto d'occhi:
- Mi burlate, o dite sul serio?
Burlare? Ma neanche per sogno! Diceva proprio sul serio, don Filippino.
Certe cose lo Scala, ecco, non le poteva capire. E poi c'era Tita, Tita ch'era
abituata a vivere in campagna, e che forse non avrebbe più saputo farne
a meno, poverina.
Nei giorni belli don Filippino la conduceva a passeggio, un po' facendola camminare
pian pianino coi suoi piedi, un po' reggendola in braccio, come fosse una bambina;
poi sedeva su qualche masso a piè d'un albero; Tita allora s'arrampicava
sui rami e, spenzolandosi, afferrata per la coda, tentava di ghermirgli la
papalina per il fiocco o di acciuffargli la parrucca o di strappargli il Virgilio
dalle mani.
- Bonina, Tita, bonina! Fammi questo piacere, povera Tita!
Povera, povera, sì, perché era condannata, quella cara bestiola.
E Mattia Scala, dunque, doveva avere ancora un po' di pazienza.
- Aspetta almeno, - gli diceva don Filippino - che questa povera bestiola se
ne vada. Poi la campagna sarà tua. Va bene?
Ma era già passato più d'un anno di comporto, e quella brutta
bestiaccia non si risolveva a crepare.
- Vogliamo farla invece guarire? - gli disse un giorno lo Scala. - Ho una ricetta
coi fiocchi!
Don Filippino lo guardò sorridente, ma pure con una cert'ansia, e domandò:
- Mi burli?
- No. Sul serio. Me l'ha data un veterinario che ha studiato a Napoli: bravissimo.
- Magari, caro Mattia!
- Dunque fate così. Prendete quanto un litro d'olio fino. Ne avete,
olio fino? ma fino, proprio fino?
- Lo compro, anche se dovessi pagarlo sangue di papa.
- Bene. Quanto un litro. Mettetelo a bollire, con tre spicchi d'aglio, dentro.
- Aglio?
- Tre spicchi. Date ascolto a me. Quando l'olio comincerà a muoversi,
prima che alzi il bollo, toglietelo dal fuoco. Prendete allora una buona manata
di farina di Majorca e buttatecela dentro.
- Farina di Majorca?
- Di Majorca, gnorsì. Mestate; poi, quando si sarà ridotta come
una pasta molle, oleosa, applicatela, ancora calda, sul petto e su le spalle
di quella brutta bestia; ricopritela ben bene di bambagia, di molta bambagia,
capite?
- Benissimo: di bambagia; e poi?
- Poi aprite una finestra e buttatela giù.
- Ohooo! - miaolò don Filippino. - Povera Tita!
- Povera campagna, dico io! Voi non ci badate; io debbo guardarla da lontano,
e intanto, pensate: non c'è più vigna; gli alberi aspettano da
una diecina d'anni almeno, la rimonda; i frutici crescono senza innesti, coi
polloni sparpagliati, che si succhian la vita l'un l'altro e par che chiedano
ajuto da tutte le parti; di molti olivi non resta che da far legna. Che debbo
comperarmi, alla fine? Possibile seguitare così?
Don Filippino, a queste rimostranze, faceva una faccia talmente afflitta, che
don Mattia non si sentiva più l'animo d'aggiunger altro.
Con chi parlava, del resto? Quel pover uomo non era di questo mondo. Il sole,
il sole vero, il sole della giornata non era forse mai sorto per lui: per lui
sorgevano ancora i soli del tempo di Virgilio.
Aveva vissuto sempre là, in quella campagna, prima insieme con lo zio
prete, che, morendo, gliel'aveva lasciata in eredità, poi sempre solo.
Orfano a tre anni, era stato accolto e cresciuto da quello zio, appassionato
latinista e cacciatore per la vita. Ma di caccia don Filippino non s'era mai
dilettato, forse per l'esperienza fatta su lo zio, il quale - quantunque prete
- era terribilmente focoso: l'esperienza cioè, di due dita saltate a
quella buon'anima, dalla mano sinistra, nel caricare il fucile. Si era dato
tutto al latino, lui, invece, con passione quieta, contentandosi di svenire
dal piacere, parecchie volte, durante la lettura; mentre l'altro, lo zio prete,
si levava in piedi, nei suoi soprassalti d'ammirazione, infocato in volto,
con le vene della fronte così gonfie che pareva gli volessero scoppiare,
e leggeva ad altissima voce e in fine prorompeva, scaraventando il libro per
terra o su la faccia rimminchionita di don Filippino:
- Sublime, santo diavolo!
Morto di colpo questo zio, don Filippino era rimasto padrone della campagna;
ma padrone per modo di dire.
In vita, lo zio prete aveva anche posseduto una casa nella vicina città,
e questa casa aveva lasciato nel testamento al figliuolo di un'altra sua sorella,
il quale si chiamava Saro Trigona. Ora forse, costui, considerando la propria
condizione di sfortunato sensale di zolfo, di sfortunatissimo padre di famiglia
con una caterva di figliuoli, s'aspettava che lo zio prete lasciasse tutto
a lui, la casa e la campagna, con l'obbligo, si capisce, di prendere con sé e
di mantenere, vita natural durante, il cugino Lo Cìcero, il quale, cresciuto
sempre come un figlio di famiglia, sarebbe stato inetto, per altro, ad amministrar
da sé quella campagna. Ma, poiché lo zio non aveva avuto per
lui questa considerazione, Saro Trigona, non potendo per diritto, cercava di
trar profitto in tutte le maniere anche dell'eredità del cugino, e mungeva
spietatamente il povero don Filippino. Quasi tutti i prodotti della campagna
andavano a lui: frumento, fave, frutta, vino, ortaggi; e, se don Filippino
ne vendeva qualche parte di nascosto, come se non fosse roba sua, il cugino
Saro, scoprendo la vendita, gli piombava in campagna su le furie, quasi avesse
scoperto una frode a suo danno, e invano don Filippino gli dimostrava umilmente
che quel denaro gli serviva per i molti lavori di cui la campagna aveva bisogno.
Voleva il denaro:
- O mi uccido! - gli diceva, accennando di cavar la rivoltella dal fodero sotto
la giacca. - Mi uccido qua, davanti a te Filippino, ora stesso! Perché non
ne posso più, credimi! Nove figliuoli, Cristo sacrato, nove figliuoli
che mi piangono per il pane!
E meno male quando veniva solo, in campagna, a far quelle scenate! Certe volte
conduceva con sé la moglie e la caterva dei figliuoli. A don Filippino,
abituato a vivere sempre solo, gli pareva d'andar via col cervello. Quei nove
nipoti, tutti maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora quattordici anni,
quantunque «piangenti per il pane» prendevano d'assalto, come nove
demonii scatenati, la tranquilla casa campestre dello zio; gli mettevano tutto
sossopra: ballavano, ballavano proprio quelle stanze, dagli urli, dalle risa,
dai pianti, dalle corse sfrenate; poi s'udiva, immancabilmente, il fracasso,
il rovinio di qualche grossa rottura, almeno almeno di qualche specchio d'armadio
andato in briciole; allora Saro Trigona balzava in piedi, gridando:
- Faccio l'organo! faccio l'organo!
Rincorreva, acciuffava quelle birbe; distribuiva calci, schiaffi, pugni, sculacciate;
poi, com'essi si mettevano a strillare in tutti i toni, li disponeva in fila,
per ordine d'altezza, e così facevano l'organo.
- Fermi là! Belli... belli davvero, guarda, Filippino! Non sono da dipingere?
Che sinfonia!
Don Filippino si turava gli orecchi, chiudeva gli occhi e si metteva a pestare
i piedi dalla disperazione.
- Mandali via! Rompano ogni cosa; si portino via casa, alberi, tutto; ma lasciatemi
in pace per carità!
Aveva torto, però, don Filippino. Perché la cugina, per esempio,
non veniva mai con le mani vuote a trovarlo in campagna: gli portava qualche
papalina ricamata, con un bel fiocco di seta: come no? quella che teneva in
capo; o un pajo di pantofole gli portava, pur ricamate da lei: quelle che teneva
ai piedi. E la parrucca? Dono e attenzione del cugino, per guardarlo dai raffreddori
frequenti, a cui andava soggetto, per la calvizie precoce. Parrucca di Francia!
Gli era costata un occhio, a Saro Trigona. E la scimmia, Tita? Anch'essa, regalo
della cugina: regalo di sorpresa, per rallegrare gli ozii e la solitudine del
buon cugino esiliato in campagna. Come no?
- Somarone, scusate, somarone! - gli gridava don Mattia Scala. - O perché mi
fate ancora aspettare a pigliar possesso? Firmate il contratto, levatevi da
questa schiavitù! Col denaro che vi do io, voi senza vizii, voi con
così pochi bisogni, potreste viver tranquillo, in città, gli
anni che vi restano. Siete pazzo? Se perdete ancora altro tempo per amore di
Tita e di Virgilio, vi ridurrete all'elemosina, vi ridurrete!
Perché don Mattia Scala, non volendo che andasse in malora il podere
ch'egli considerava già come suo, s'era messo ad anticipare al Lo Cìcero
parte della somma convenuta.
- Tanto, per la potatura; tanto per gl'innesti; tanto per la concimazione...
Don Filippino, diffalchiamo!
- Diffalchiamo! - sospirava don Filippino. - Ma lasciami stare qui. In città,
vicino a quei demonii, morirei dopo due giorni. Tanto a te non do ombra. Non
sei tu qua il padrone, caro Mattia? Puoi far quello che ti pare e piace. Io
non ti dico niente. Basta che tu mi lasci star tranquillo...
- Sì. Ma intanto, - gli rispondeva lo Scala - i beneficii se li gode
vostro cugino!
- Che te ne importa? - gli faceva osservare il Lo Cìcero. - Questo denaro
tu dovresti darmelo tutto in una volta, è vero? Me lo dai invece così,
a spizzico; e ci perdo io, in fondo, perché, diffalcando oggi, diffalcando
domani, mi verrà un giorno a mancare, mentre tu lo avrai speso qua,
a beneficar la terra che allora sarà tua.
IV.
Il ragionamento di don Filippino era senza dubbio convincente; ma che sicuro
aveva intanto lo Scala di quei denari spesi nel fondo di lui? E se don Filippino
fosse venuto a mancare d'un colpo, Dio liberi! senza aver tempo e modo di firmar
l'atto di vendita, per quel tanto che oramai gli toccava, Saro Trigona, suo
unico erede, avrebbe poi riconosciuto quelle spese e il precedente accordo
col cugino?
Questo dubbio sorgeva di tanto in tanto nell'animo di don Mattia; ma poi pensava
che, a voler forzare don Filippino a cedergli il possesso del fondo, a volerlo
mettere alle strette per quei denari anticipati, poteva correre il rischio
di sentirsi rispondere: «O infine, chi t'ha costretto ad anticiparmeli?
Per me, il fondo poteva restar bene com'era e andar anche in malora: non me
ne sono mai curato. Non puoi mica, ora, cacciarmi di casa mia, se io non voglio».
Pensava inoltre lo Scala che aveva da fare con un vero galantuomo, incapace
di far male, neanche a una mosca. Quanto al pericolo che morisse d'un colpo,
questo pericolo non c'era: senza vizii, e viveva così morigeratamente,
sempre sano e vegeto, che prometteva anzi di campar cent'anni. Del resto, il
termine del comporto era già fissato: alla morte della scimmia, che
poco più ormai si sarebbe fatta aspettare.
Era tal fortuna, infine, per lui, il potere acquistar quella terra a così modico
prezzo, che gli conveniva star zitto e fidare; gli conveniva tenervi così,
anzi, la mano sopra, con quei denari che ci veniva spendendo a mano a mano,
quietamente, e come gli pareva e piaceva. Il vero padrone, lì, era lui;
stava più lì, si può dire, che nel suo podere.
- Fate questo; fate quest'altro.
Comandava; s'abbelliva la campagna, e non pagava tasse. Che voleva di più?
Tutto poteva aspettarsi il povero don Mattia, tranne che quella scimmia maledetta,
che tanto lo aveva fatto penare, gli dovesse far l'ultima!
Era solito lo Scala di levarsi prima dell'alba, per vigilare ai preparativi
del lavoro prestabilito la sera avanti col garzone; non voleva che questi,
dovendo, per esempio, attendere alla rimonda, tornasse due o tre volte dalla
costa alla cascina o per la scala, o per la pietra d'affilare la ronca o l'accetta,
o per l'acqua o per la colazione: doveva andarsene munito e provvisto di tutto
punto, per non perder tempo inutilmente.
- Lo ziro, ce l'hai? Il companatico? Tieni, ti do una cipolla. E svelto, mi
raccomando.
Passava quindi, prima che il sole spuntasse, nel podere del Lo Cìcero.
Quel giorno, a causa d'una carbonaja a cui si doveva dar fuoco, lo Scala fece
tardi. Erano già passate le dieci. Intanto, la porta della cascina di
don Filippino era ancora chiusa, insolitamente. Don Mattia picchiò:
nessuno gli rispose: picchiò di nuovo, invano; guardò su ai balconi
e alle finestre: chiusi per notte, ancora.
«
Che novità?» pensò, avviandosi alla casa colonica lì vicino,
per aver notizie dalla moglie del garzone.
Ma anche lì trovò chiuso. Il podere pareva abbandonato.
Lo Scala allora si portò le mani alla bocca per farsene portavoce e,
rivolto verso la campagna, chiamò forte il garzone. Come questi, poco
dopo, dal fondo della piaggia, gli diede la voce, don Mattia gli domandò se
don Filippino fosse là con lui. Il garzone gli rispose che non s'era
visto. Allora, già con un po' d'apprensione, lo Scala tornò a
picchiare alla cascina; chiamò più volte: - Don Filippino! Don
Filippino! - e, non avendo risposta, né sapendo che pensarne, si mise
a stirarsi con una mano quel suo nasone palpitante.
La sera avanti egli aveva lasciato l'amico in buona salute. Malato, dunque,
non poteva essere, almeno fino al punto di non poter lasciare il letto per
un minuto. Ma forse, ecco, s'era dimenticato di aprir le finestre delle camere
poste sul davanti, ed era uscito per la campagna con la scimmia: il portone
forse lo aveva chiuso, vedendo che nella casa colonica non c'era alcuno di
guardia.
Tranquillatosi con questa riflessione, si mise a cercarlo per la campagna,
ma fermandosi di tratto in tratto qua e là, dove con l'occhio esperto
e previdente dell'agricoltore scorgeva a volo il bisogno di qualche riparo;
di tratto in tratto chiamando:
- Don Filippino, oh don Filippììì...
Si ridusse così in fondo alla piaggia, dove il garzone attendeva con
tre giornanti a zappare la vigna.
- E don Filippino? Che se n'è fatto? Io non lo trovo.
Ripreso dalla costernazione, di fronte all'incertezza di quegli uomini, a cui
pareva strano ch'egli avesse trovata chiusa la villa com'essi la avevano lasciata
nell'avviarsi al lavoro, lo Scala propose di ritornar su tutti insieme a vedere
che fosse accaduto.
- Ho bell'e capito! Questa mattina è infilata male!
- Quando mai, lui! - badava a dire il garzone. - Di solito così mattiniero...
- Ma gli starà male la scimmia, vedrete! - disse uno dei giornanti.
- La terrà in braccio, e non vorrà muoversi per non disturbarla.
- Neanche a sentirsi chiamato, come l'ho chiamato io, non so più quante
volte? - osservò don Mattia. - Va' là! Qualcosa dev'essergli
accaduto!
Pervenuti su lo spiazzo innanzi alla cascina, tutti e cinque, ora l'uno ora
l'altro, si provarono a chiamarlo, inutilmente; fecero il giro della cascina;
dal lato di tramontana, trovarono una finestra con gli scuri aperti; si rincorarono:
- Ah! esclamò il garzone. - Ha aperto, finalmente! È la finestra
della cucina.
- Don Filippino! - gridò lo Scala. - Mannaggia a voi! Non ci fate disperare!
Attesero un pezzo coi nasi per aria; tornarono a chiamarlo in tutti i modi;
alla fine, don Mattia, ormai costernatissimo e infuriato, prese una risoluzione.
- Una scala!
Il garzone corse alla casa colonica e ritornò poco dopo con la scala.
- Monto io! - disse don Mattia, pallido e fremente al solito, scostando tutti.
Pervenuto all'altezza della finestra, si tolse il cappellaccio bianco, vi cacciò il
pugno e infranse il vetro, poi aprì la finestra e saltò dentro.
Il focolare, lì, in cucina, era spento. Non s'udiva nella casa alcun
rumore. Tutto, là dentro, era ancora come se fosse notte: soltanto dalle
fessure delle imposte traspariva il giorno.
- Don Filippino! - chiamò ancora una volta lo Scala: ma il suono della
sua stessa voce, in quel silenzio strano, gli suscitò un brivido, dai
capelli alla schiena.
Attraversò, a tentoni, alcune stanze; giunse alla camera da letto, anch'essa
al bujo. Appena entrato, s'arrestò di botto. Al tenue barlume che filtrava
dalle imposte, gli parve di scernere qualcosa, come un'ombra, che si moveva
sul letto, strisciando, e dileguava. I capelli gli si drizzarono su la fronte;
gli mancò la voce per gridare. Con un salto fu al balcone, lo aprì,
si voltò e spalancò gli occhi e la bocca, dal raccapriccio, scotendo
le mani per aria. Senza fiato, senza voce, tutto tremante e ristretto in sé dal
terrore, corse alla finestra della cucina.
- Su... su, salite! Ammazzato! Assassinato!
- Assassinato? Come! Che dice? - esclamarono quelli che attendevano ansiosamente,
slanciandosi tutti e quattro insieme per montare. Il garzone volle andare innanzi
agli altri, gridando:
- Piano per la scala! A uno a uno!
Sbalordito, allibito, don Mattia si teneva con tutt'e due le mani la testa,
ancora con la bocca aperta e gli occhi pieni di quell'orrenda vista.
Don Filippino giaceva sul letto col capo rovesciato indietro, affondato nel
guanciale, come per uno stiramento spasmodico, e mostrava la gola squarciata
e sanguinante: teneva ancora alzate le mani, quelle manine che non gli parevano
nemmeno, orrende ora a vederle, così scompostamente irrigidite e livide.
Don Mattia e i quattro contadini lo mirarono un pezzo, atterriti; a un tratto,
trabalzarono tutt'e cinque, a un rumore che venne di sotto al letto: si guardarono
negli occhi; poi, uno di loro si chinò a guardare.
- La scimmia! - disse con un sospiro di sollievo, e quasi gli venne di ridere.
Gli altri quattro, allora, si chinarono anch'essi a guardare.
Tita, accoccolata sotto il letto, con la testa bassa e le braccia incrociate
sul petto, vedendo quei cinque che la esaminavano, giro giro, così chinati
e stravolti, tese le mani alle tavole del letto e saltò più volte
a balziculi, poi accomodò la bocca ad o, ed emise un suono minaccioso:
- Chhhh...
- Guardate! - gridò allora lo Scala. - Sangue... Ha le mani... il petto
insanguinati... essa lo ha ucciso!
Si ricordò di ciò che gli era parso di scernere, entrando, e
raffermò, convinto:
- Essa, sì! l'ho veduta io, con gli occhi miei! Stava sul letto...
E mostrò ai quattro contadini inorriditi le scigrigne su le gote e sul
mento del povero morto:
- Guardate!
Ma come mai? La scimmia? Possibile? Quella bestia ch'egli teneva da tanti anni
con sé, notte e giorno?
- Fosse arrabbiata? - osservò uno dei giornanti, spaventato.
Tutt'e cinque, a un tempo, con lo stesso pensiero si scostarono dal letto.
- Aspettate! Un bastone... - disse don Mattia.
E cercò con gli occhi nella camera, se ce ne fosse qualcuno, o se ci
fosse almeno qualche oggetto che potesse farne le veci.
Il garzone prese per la spalliera una seggiola e si chinò; ma gli altri,
così inermi, senza riparo, ebbero paura e gli gridarono:
- Aspetta! Aspetta!
Si munirono di seggiole anche loro. Il garzone allora spinse la sua più volte
sotto il letto: Tita balzò fuori dall'altra parte, s'arrampicò con
meravigliosa agilità su per la trabacca del letto, andò ad accoccolarsi
in cima al padiglione, e lassù, pacificamente, come se nulla fosse,
si mise a grattarsi il ventre, poi a scherzar con le cocche d'un fazzoletto
che il povero don Filippino le aveva legato alla gola.
I cinque uomini stettero a mirare quell'indifferenza bestiale, rimbecilliti.
- Che fare, intanto? - domandò lo Scala, abbassando gli occhi sul cadavere;
ma subito alla vista di quella gola squarciata, voltò la faccia. - Se
lo coprissimo con lo stesso lenzuolo?
- Nossignore! - disse subito il garzone. - Vossignoria dia ascolto a me. Bisogna
lasciarlo così come si trova. Io sono qua, di casa, e non voglio impicci
con la giustizia, io. Anzi mi siete tutti testimoni.
- Che c'entra adesso! - esclamò don Mattia, dando una spallata.
Ma il garzone riprese ponendo avanti le mani:
- Non si sa mai, con la giustizia, padrone mio! Siamo poveretti, nojaltri,
e con noi... so io quel che mi dico...
- Io penso, invece, - gridò don Mattia, esasperato, - penso che lui,
là, povero pazzo, è morto come un minchione, per la sua stolidaggine,
e che io, intanto, più pazzo e più stolido di lui, son bell'e
rovinato! Oh, ma - tutti testimoni davvero, voi qua - che in questa campagna
io ho speso i miei denari, il sangue mio: lo direte... Ora andate ad avvertire
quel bel galantuomo di Saro Trigona e il pretore e il delegato, che vengano
a vedere le prodezze di questa... Maledetta! - urlò, con uno scatto
improvviso, strappandosi dal capo il cappellaccio e lanciandolo contro la scimmia.
Tita lo colse al volo, lo esaminò attentamente, vi stropicciò la
faccia, come per soffiarsi il naso, poi se lo cacciò sotto e vi si pose
a sedere. I quattro contadini scoppiarono a ridere, senza volerlo.
V.
Niente: né un rigo di testamento, né un appunto pur che fosse
in qualche registro o in qualche pezzetto di carta volante.
E non bastava il danno: toccavano per giunta a don Mattia Scala le beffe degli
amici. Eh già, perché infatti, Nocio Butera, per esempio, avrebbe
facilmente immaginato, che don Filippino Lo Cìcero sarebbe morto a quel
modo, ucciso dalla scimmia.
- Tu, Tino Làbiso, che ne dici, eh? Può essere, è vero?
Che bestia! che bestia! che bestia!
E don Mattia si calcava fin sopra gli occhi con le mani afferrate alla tesa
il cappellaccio bianco, e pestava i piedi dalla rabbia.
Saro Trigona, finché il cugino non fu sotterrato, dopo gli accertamenti
del medico e del pretore, non gli volle dare ascolto, protestando che la disgrazia
non gli consentiva di parlar d'affari.
- Sì! Come se la scimmia non gliel'avesse regalata lui, apposta! - si
sfogava a dire lo Scala, di nascosto.
Avrebbe dovuto farle coniare una medaglia d'oro, a quella scimmia, e invece
- ingrato, - l'aveva fatta fucilare: proprio così, fu-ci-la-re, il giorno
dopo, non ostante che il giovane medico, venuto in campagna insieme col pretore,
avesse trovato una graziosa spiegazione del delitto incosciente della bestia.
Tita, malata di tisi, si sentiva forse mancare il respiro, anche a causa, probabilmente,
di quel fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato al collo, forse
un po' troppo stretto, o perché se lo fosse stretto lei stessa tentando
di slegarselo. Ebbene: forse era saltata sul letto per indicare al padrone
dove si sentiva mancare il respiro, lì, al collo, e gliel'aveva preso
con le mani; poi, nell'oppressura, non riuscendo a tirare il fiato, esasperata,
forse s'era messa a scavare con le unghie, lì, nella gola del padrone.
Ecco fatto! Bestia era, infine. Che capiva?
E il pretore, serio serio, accigliato, col testone calvo, rosso, sudato, aveva
fatto ripetuti segni d'approvazione alla rara perspicacia del giovine medico
- tanto carino!
Basta. Sotterrato il cugino, fucilata la scimmia, Saro Trigona si mise a disposizione
di don Mattia Scala.
- Caro don Mattia, discorriamo.
C'era poco da discorrere. Lo Scala, con quel suo fare a scatti, gli espose
brevemente il suo accordo col Lo Cìcero, e come, aspettando di giorno
in giorno che quella maledetta bestiaccia morisse per pigliar possesso, avesse
speso nel podere, in più stagioni, col consenso del Lo Cìcero
stesso, beninteso, parecchie migliaja di lire, che dovevano per conseguenza
detrarsi dalla somma convenuta. Chiaro, eh?
- Chiarissimo! - rispose il Trigona, che aveva ascoltato con molta attenzione
il racconto dello Scala, approvando col capo, serio serio, come il pretore.
- Chiarissimo! E io, dal canto mio, caro don Mattia, sono disposto a rispettare
l'accordo. Fo il sensale; e, voi lo sapete: tempacci! Per collocare una partita
di zolfo ci vuol la mano di Dio: la senseria se ne va in francobolli e in telegrammi.
Questo, per dirvi che io, con la mia professione, non potrei attendere alla
campagna, di cui non so proprio che farmi. Ho poi, come sapete, caro don Mattia,
nove figliuoli maschi, che debbono andare a scuola: bestie, uno più dell'altro:
ma vanno a scuola. Debbo, dunque, per forza stare in città. Veniamo
a noi. C'è un guajo, c'è. Eh, caro don Mattia, pur troppo! Guajo
grosso. Nove figliuoli, dicevamo, e voi non sapete, non potete farvi un'idea
di quanto mi costino: di scarpe soltanto... ma già, è inutile
che stia a farvi il conto! Impazzireste. Per dirvi, caro don Mattia...
- Non me lo dite più, per carità, caro don Mattia,
- proruppe lo scala, irritato di quell'interminabile discorso che non veniva
a capo di nulla. - Caro don Mattia... caro don Mattia... basta!
concludiamo! Ho già perso troppo tempo con la scimmia e con don Filippino!
- Ecco, - riprese il Trigona, senza scomporsi. - Volevo dirvi che ho avuto
sempre bisogno di ricorrere a certi messeri, che Dio ne scampi e liberi, per...
mi spiego? e, si capisce, mi hanno messo i piedi sul collo. Voi sapete chi
porta la bandiera, nel nostro paese, in questa specie d'operazioni...
- Dima Chiarenza? - esclamò subito lo Scala scattando in piedi, pallidissimo.
Scaraventò il cappello per terra, si passò furiosamente una mano
sui capelli; poi, rimanendo con la mano dietro la nuca, sbarrando gli occhi
e appuntando l'indice dell'altra mano, come un'arma, verso il Trigona:
- Voi? - aggiunse. - Voi, da quel boja? da quell'assassino, che mi ha mangiato
vivo? Quanto avete preso?
- Aspettate, vi dirò, - rispose il Trigona, con calma dolente, ponendo
innanzi una mano. - Non io! perché quel boja, come voi dite benissimo,
della mia firma non ha mai voluto saperne...
- E allora... don Filippino? - domandò lo Scala coprendosi il volto
con le mani, come per non veder le parole che gli uscivano di bocca.
- L'avallo... - sospirò il Trigona, tentennando il capo amaramente.
Don Mattia si mise a girar per la stanza, esclamando, con le mani per aria:
- Rovinato! Rovinato! Rovinato!
- Aspettate, - ripeté il Trigona. - Non vi disperate. Vediamo di rimediarla.
Quanto intendevate di dare voi, a Filippino, per la terra?
- Io? - gridò lo Scala, fermandosi di botto, con le mani sul petto.
- Diciotto mila lire, io: contanti! Son circa sei ettari di terra: tre salme
giuste, con la nostra misura: sei mila lire a salma, contanti! Dio sa quel
che ho penato per metterle insieme: e ora, ora mi vedo sfuggir l'affare, la
terra sotto i piedi, la terra che già consideravo mia!
Mentre don Mattia si sfogava così, Saro Trigona si toccava le dita,
accigliato, per farsi i conti:
- Diciotto mila... oh, dunque, si dice...
- Piano, - lo interruppe lo Scala. - Diciotto mila, se la buon'anima m'avesse
lasciato subito il possesso del fondo. Ma più di sei mila già ce
l'ho spese. E questo è conto che si può far subito, sul luogo.
Ho i testimoni: quest'anno stesso, ho piantato due migliaja di vitigni americani,
spaventosi! e poi...
Saro Trigona si levò in piedi per troncare quella discussione, dichiarando:
- Ma dodici mila non bastano, caro don Mattia. Gliene debbo più di venti
mila a quel boja, figuratevi!
- Venti mila lire? - esclamò lo Scala, trasecolando. - E che avete mangiato,
denari, voi e i vostri figliuoli?
Il Trigona trasse un lunghissimo sospiro e, battendo una mano sul braccio dello
Scala, disse:
- E le mie disgrazie, don Mattia? Non è ancora un mese, che mi è toccato
a pagar nove mila lire a un negoziante di Licata, per differenza di prezzo
su una partita di zolfo. Lasciatemi stare! Furono le ultime cambiali che mi
avallò il povero Filippino, Dio l'abbia in gloria!
Dopo altre inutili rimostranze, convennero di recarsi quel giorno stesso, con
le dodici mila lire in mano, dal Chiarenza, per tentare un accordo.
VI.
La casa di Dima Chiarenza sorgeva su la piazza principale del paese.
Era una casa antica, a due piani, annerita dal tempo, innanzi alla quale solevano
fermarsi con le loro macchinette fotografiche i forestieri, inglesi e tedeschi
che si recavano a veder le zolfare, destando una certa meraviglia mista di
dileggio o di commiserazione negli abitanti del paese, per i quali quella
casa non era altro che una cupa decrepita stamberga, che guastava l'armonia
della piazza, col palazzo comunale di fronte, stuccato e lucido, che pareva
di marmo, e maestoso anche, con quel loggiato a otto colonne; la Matrice
di qua, il Palazzo della Banca Commerciale di là, che aveva a pianterreno
uno splendido Caffè da una parte, dall'altra il Circolo di Compagnia.
Il Municipio, secondo i soci di questo Circolo, avrebbe dovuto provvedere a
quello sconcio, obbligando il Chiarenza a dare almeno un intonaco decente alla
sua casa. Avrebbe fatto bene anche a lui, dicevano: gli si sarebbe forse schiarita
un po' la faccia che, da quando era entrato in quella casa, gli era diventata
dello stesso colore. - Però - soggiungevano - volendo esser giusti,
gliel'aveva recata in dote la moglie, quella casa, ed egli, proferendo il sì sacramentale,
s'era forse obbligato a rispettare la doppia antichità.
Don Mattia Scala e Saro Trigona trovarono nella vasta anticamera quasi buja
una ventina di contadini, vestiti tutti, su per giù, allo stesso modo,
con un greve abito di panno turchino scuro; scarponi di cuojo grezzo imbullettati,
ai piedi; in capo, una berretta nera a calza con la nappina in punta: alcuni
portavano gli orecchini; tutti, essendo domenica, rasi di fresco.
- Annunziami, - disse il Trigona al servo che se ne stava seduto presso la
porta, innanzi a un tavolinetto, il cui piano era tutto segnato di cifre e
di nomi.
- Abbiano pazienza un momento, - rispose il servo, che guardava stupito lo
Scala, conoscendo l'antica inimicizia di lui per il suo padrone. - C'è dentro
don Tino Làbiso.
- Anche lui? Disgraziato! - borbottò don Mattia, guardando i contadini
in attesa, stupiti come il servo della presenza di lui in quella casa.
Poco dopo, dall'espressione dei loro volti lo Scala poté facilmente
argomentare chi fra essi veniva a saldare il suo debito, chi recava soltanto
una parte della somma tolta in prestito e aveva già negli occhi la preghiera
che avrebbe rivolta all'usurajo perché avesse pazienza per il resto
fino al mese venturo; chi non portava nulla e pareva schiacciato sotto la minaccia
della fame, perché il Chiarenza lo avrebbe senza misericordia spogliato
di tutto e buttato in mezzo a una strada.
A un tratto, l'uscio del banco s'aprì, e Tino Làbiso, col volto
infocato, quasi paonazzo, con gli occhi lustri, come se avesse pianto, scappò via
senza veder nessuno, tenendo in mano il suo pezzolone a dadi rossi e neri:
l'emblema della sua sfortunata prudenza.
Lo Scala e il Trigona entrarono nella sala del banco.
Era anch'essa quasi buja, con una sola finestra ferrata, che dava su un angusto
vicoletto. Di pieno giorno, il Chiarenza doveva tenere su la scrivania il lume
acceso, riparato da un mantino verde.
Seduto su un vecchio seggiolone di cuojo innanzi alla scrivania, il cui palchetto
a casellario era pieno zeppo di carte, il Chiarenza teneva su le spalle uno
scialletto, in capo una papalina, e un pajo di mezzi guanti di lana alle mani
orribilmente deformate dall'artritide. Quantunque non avesse ancora quarant'anni,
ne mostrava più di cinquanta, la faccia gialla, itterica, i capelli
grigi, fitti, aridi che gli si allungavano come a un malato su le tempie. Aveva,
in quel momento, gli occhiali a staffa rialzati su la fronte stretta, rugosa,
e guardava innanzi a sé con gli occhi torbidi, quasi spenti sotto le
grosse palpebre gravi. Evidentemente, si sforzava di dominare l'interna agitazione
e di apparir calmo di fronte allo Scala.
La coscienza della propria infamità, non gl'ispirava ora che odio, odio
cupo e duro, contro tutti e segnatamente contro il suo antico benefattore,
sua prima vittima. Non sapeva ancora che cosa lo Scala volesse da lui; ma era
risoluto a non concedergli nulla, per non apparire pentito d'una colpa ch'egli
aveva sempre sdegnosamente negata, rappresentando lo Scala come un pazzo.
Questi, che da anni e anni non lo aveva più riveduto, neanche da lontano,
rimase dapprima stupito, a mirarlo. Non lo avrebbe riconosciuto, ridotto in
quello stato, se lo avesse incontrato per via.
«
Il castigo di Dio» pensò; e aggrottò le ciglia, comprendendo
subito che, così ridotto, quell'uomo doveva credere d'aver già scontato
il delitto e di non dovergli più, perciò, nessuna riparazione.
Dima Chiarenza, con gli occhi bassi, si pose una mano dietro le reni per tirarsi
su, pian piano, dal seggiolone di cuojo, col volto atteggiato di spasimo; ma
Saro Trigona lo costrinse a rimaner seduto e, subito, col suo solito opprimente
garbuglio di frasi, cominciò a esporre lo scopo della visita: egli,
vendendo la campagna ereditata dal cugino al caro don Mattia lì presente,
avrebbe pagato, subito, dodici mila lire, a scomputo del suo debito, al carissimo
don Dima, il quale, dal canto suo, doveva obbligarsi di non muovere nessuna
azione giudiziaria contro l'eredità Lo Cìcero, aspettando...
- Piano, piano, figliuolo, - lo interruppe a questo punto il Chiarenza, riponendosi
gli occhiali sul naso. - Già l'ho mossa oggi stesso, protestando le
cambiali a firma di vostro cugino, scadute da un pezzo. Le mani avanti!
- E il mio denaro? - scattò allora lo Scala. - Il fondo del Lo Cìcero
non valeva più di diciotto mila lire; ma ora io ce ne ho spese più di
sei mila; dunque, facendolo stimare onestamente, tu non potresti averlo per
meno di ventiquattro mila.
- Bene - rispose, calmissimo, il Chiarenza. - Siccome il Trigona me ne deve
venticinque mila, vuol dire che io, prendendomi il podere, vengo a perdercene
mille, oltre gl'interessi.
- Dunque... venticinque? - esclamò allora don Mattia, rivolto al Trigona,
con gli occhi sbarrati.
Questi si agitò su la seggiola, come su un arnese di tortura, balbettando:
- Ma... co... come?
- Ecco, figlio mio: ve lo faccio vedere, - rispose senza scomporsi il Chiarenza,
ponendosi di nuovo la mano dietro le reni e tirandosi su con pena. - Ci sono
i registri. Parlano chiaro.
- Lascia stare i registri! - gridò lo Scala, facendosi avanti. - Qua
ora si tratta de' miei denari: quelli spesi da me nel podere...
- E che ne so io? - fece il Chiarenza, stringendosi nelle spalle e chiudendo
gli occhi. - Chi ve li ha fatti spendere?
Don Mattia Scala ripeté, su le furie, al Chiarenza il suo accordo col
Lo Cìcero.
- Male, - soggiunse, richiudendo gli occhi, il Chiarenza, per la pena che gli
costava la calma che voleva dimostrare; ma quasi non tirava più fiato.
- Male. Vedo che voi, al solito, non sapete trattare gli affari.
- E me lo rinfacci tu? - gridò lo Scala, - tu!
- Non rinfaccio nulla; ma, santo Dio, avreste dovuto almeno sapere, prima di
spendere codesti denari che voi dite, che il Lo Cìcero non poteva più vendere
a nessuno il podere, perché aveva firmato a me tante cambiali per un
valore che sorpassava quello del podere stesso.
- E così, - riprese lo Scala - tu ti approfitterai anche del mio denaro?
- Non mi approfitto di nulla, io, - rispose, pronto, il Chiarenza. - Mi pare
di avervi dimostrato che, anche secondo la stima che voi fate della terra,
io vengo a perderci più di mille lire.
Saro Trigona cercò d'interporsi, facendo balenare al Chiarenza le dodici
mila lire contanti che don Mattia aveva nel portafogli.
- Il denaro è denaro!
- E vola! - aggiunse subito il Chiarenza. - Il meglio impiego del denaro oggi è su
terre, sappiatelo, caro mio. Le cambiali, armi da guerra, a doppio taglio:
la rendita sale e scende; la terra, invece, è là, che non si
muove.
Don Mattia ne convenne e, cangiando tono e maniera, parlò al Chiarenza
del suo lungo amore per quella campagna contigua, soggiungendo che non avrebbe
saputo acconciarsi mai a vedersela tolta, dopo tanti stenti durati per essa.
Si contentasse, dunque, il Chiarenza, per il momento, del denaro ch'egli aveva
con sé; avrebbe avuto il resto, fino all'ultimo centesimo, da lui, non
più dal Trigona, tenendo anche ferma la stima di ventiquattro mila lire,
come se quelle sei mila lui non ce le avesse spese, e anche fino al saldo delle
venticinque mila, se voleva, cioè dell'intero debito del Trigona.
- Che posso dirti di più?
Dima Chiarenza ascoltò, con gli occhi chiusi, impassibile, il discorso
appassionato dello Scala. Poi gli disse, assumendo anche lui un altro tono,
più funebre e più grave:
- Sentite, don Mattia. Vedo che vi sta molto a cuore quella terra, e volentieri
ve la lascerei, per farvi piacere, se non mi trovassi in queste condizioni
di salute. Vedete come sto? I medici mi hanno consigliato riposo e aria di
campagna...
- Ah! - esclamò lo Scala fremente. - Te ne verresti là, dunque,
accanto a me?
- Per altro, - riprese il Chiarenza - voi ora non mi dareste neanche la metà di
quanto io debbo avere. Chi sa dunque fino a quando dovrei aspettare per esser
pagato; mentre ora, con un lieve sacrificio, prendendomi quella terra, posso
riavere subito il mio e provvedere alla mia salute. Voglio lasciar tutto in
regola, io, ai miei eredi.
- Non dir così! - proruppe lo Scala, indignato e furente. - Tu pensi
agli eredi? Non hai figli, tu! Pensi ai nipoti? Giusto ora? Non ci hai mai
pensato. Di' franco: Voglio nuocerti, come t'ho sempre nociuto! Ah non t'è bastato
d'avermi distrutta la casa, d'avermi quasi uccisa la moglie e messo in fuga
per disperazione l'unico figlio, non t'è bastato d'avermi ridotto là,
misero, in ricompensa del bene ricevuto; anche la terra ora vuoi levarmi, la
terra dove io ho buttato il sangue mio? Ma perché, perché così feroce
contro di me? Che t'ho fatto io? Non ho nemmeno fiatato dopo il tuo tradimento
da Giuda: avevo da pensare alla moglie che mi moriva per causa tua, al figlio
scomparso per causa tua: prove, prove materiali del furto non ne avevo, per
mandarti in galera; e dunque, zitto; me ne sono andato là, in quei tre
palmi di terra; mentre qua tutto il paese, a una voce, t'accusava, ti gridava:
Ladro! Giuda! Non io, non io! Ma Dio c'è, sai? e t'ha punito: guarda
le tue mani ladre come sono ridotte... Te le nascondi? Sei morto! sei morto!
e ti ostini ancora a farmi del male? Oh ma, sai? questa volta, no: tu non ci
arrivi! Io t'ho detto i sacrificii che sarei disposto a fare per quella terra.
Alle corte, dunque, rispondi: - Vuoi lasciarmela?
- No! - gridò, pronto, rabbiosamente, il Chiarenza, torvo, stravolto.
- E allora, né io né tu!
E lo Scala s'avviò per uscire.
- Che farete? - domandò il Chiarenza, rimanendo seduto e aprendo le
labbra a un ghigno squallido.
Lo Scala si voltò, alzò la mano a un violento gesto di minaccia
e rispose, guardandolo fieramente negli occhi:
- Ti brucio!
VII.
Uscito dalla casa del Chiarenza e sbarazzatosi con una furiosa scrollata di
spalle del Trigona che voleva dimostrargli, tutto dolente, la sua buona intenzione,
don Mattia Scala si recò prima in casa d'un suo amico avvocato per esporgli
il caso di cui era vittima e domandargli se, potendo agire giudiziariamente
per il riconoscimento del suo credito, sarebbe riuscito a impedire al Chiarenza
di pigliar possesso del podere.
L'avvocato non comprese nulla in principio, sopraffatto dalla concitazione
con cui lo Scala aveva parlato. Si provò a calmarlo, ma invano.
- Insomma, prove, documenti, ne avete?
- Non ho un corno!
- E allora andate a farvi benedire! Che volete da me?
- Aspettate, - gli disse don Mattia, prima d'andarsene. - Sapreste, per caso,
indicarmi dove sta di casa l'ingegnere Scelzi, della Società delle Zolfare
di Comitini?
L'avvocato gl'indicò la via e il numero della casa, e don Mattia Scala,
ormai deciso, vi andò difilato.
Lo Scelzi era uno di quegli ingegneri che, passando ogni mattina per la via
mulattiera innanzi al cancello della villa per recarsi alle zolfare della vallata,
lo avevano con maggior insistenza sollecitato per la cessione del sottosuolo.
Quante volte lo Scala, per chiasso, non lo aveva minacciato di chiamare i cani
per farlo scappare!
Quantunque di domenica lo Scelzi non ricevesse per affari, si affrettò a
lasciar passare nello studio l'insolito visitatore.
- Voi, don Mattia? Qual buon vento?
Lo Scala con le enormi sopracciglia aggrottate si piantò di fronte al
giovine ingegnere sorridente, lo guardò negli occhi, e rispose:
- Sono pronto.
- Ah! benissimo! Cedete?
- Non cedo. Voglio contrattare. Sentiamo i patti.
- E non li sapete? - esclamò lo Scelzi. - Ve li ho ripetuti tante volte...
- Avete bisogno di far altri rilievi lassù? - domandò don Mattia,
cupo, impetuoso.
- Eh no! Guardate... - rispose l'ingegnere indicando la grande carta geologica
appesa alla parete, ov'era tracciato per cura del R. Corpo delle Miniere tutto
il campo minerale della regione. Fissò col dito un punto nella carta
e aggiunse: - È qui: non c'è bisogno d'altro...
- E allora possiamo contrattare subito?
- Subito?... Domani. Domattina stesso io ne parlerò al Consiglio d'Amministrazione.
Intanto, se volete, qua, ora, possiamo stendere insieme la proposta, che sarà senza
dubbio accettata, se voi non ponete avanti altri patti.
- Ho bisogno di legarmi subito! - scattò lo Scala. - Tutto, tutto distrutto, è vero?...
sarà tutto distrutto lassù?
Lo Scelzi lo guardò meravigliato: conosceva da un pezzo l'indole strana,
impulsiva, dello Scala; ma non ricordava d'averlo mai veduto così.
- Ma i danni del fumo, - disse saranno previsti nel contratto e compensati...
- Lo so! Non me n'importa! - soggiunse lo Scala. - Le campagne, dico, le campagne,
tutte distrutte... è vero?
- Eh... - fece lo Scelzi, stringendosi nelle spalle.
- Questo, questo cerco! questo voglio! - esclamò allora don Mattia,
battendo un pugno sulla scrivania. - Qua, ingegnere: scrivete, scrivete! Né io
né lui! Lo brucio... Scrivete. Non vi curate di quello che dico.
Lo Scelzi sedette innanzi alla scrivania e si mise a scrivere la proposta,
esponendo prima, man mano, i patti vantaggiosi, tante volte già respinti
sdegnosamente dallo Scala, che ora, invece, cupo, accigliato, annuiva col capo,
a ognuno.
Stesa finalmente la proposta, l'ingegnere Scelzi non seppe resistere al desiderio
di conoscere il perché di quella risoluzione improvvisa, inattesa.
- Mal'annata?
- Ma che mal'annata! Quella che verrà, - gli rispose lo Scala - quando
avrete aperto la zolfara!
Sospettò allora lo Scelzi che don Mattia Scala avesse ricevuto tristi
notizie del figliuolo scomparso: sapeva che, alcuni mesi addietro, egli aveva
rivolto una supplica a Roma perché, per mezzo degli agenti consolari,
fossero fatte ricerche dovunque. Ma non volle toccar quel tasto doloroso.
Lo Scala, prima d'andarsene, raccomandò di nuovo allo Scelzi di sbrigar
la faccenda con la massima sollecitudine.
- A tamburo battente, e legatemi bene!
Ma dovettero passar due giorni per la deliberazione del Consiglio della Società delle
zolfare, per la scrittura dell'atto presso il notajo, per la registrazione
dell'atto stesso: due giorni tremendi per don Mattia Scala. Non mangiò,
non dormì, fu come in un continuo delirio, andando di qua e di là dietro
allo Scelzi, a cui ripeteva di continuo:
- Legatemi bene! Legatemi bene!
- Non dubiti, - gli rispondeva sorridendo l'ingegnere. - Adesso non ci scappa
più!
Firmato alla fine e registrato il contratto di cessione, don Mattia Scala uscì come
un pazzo dallo studio notarile; corse al fondaco, all'uscita del paese, dove,
nel venire, tre giorni addietro, aveva lasciato la giumenta; cavalcò e
via.
Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s'imbatté in
una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della
vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano,
lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese.
Dall'alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d'odio a tutto
quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente a gli urti, ai sobbalzi
dei carri senza molle.
Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichidindia, le
cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di
zolfo.
Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo,
da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell'aria che si respirava,
e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi.
Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il
sole la investiva con gli ultimi raggi.
Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi
male. Gli parve che il sole salutasse per l'ultima volta il verde della collina.
Forse egli, dall'alto di quello stradone, non avrebbe mai più riveduto
la collina, come ora la vedeva. Fra vent'anni, quelli che sarebbero venuti
dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle
calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare.
«
E dove sarò io, allora?» pensò, provando un senso di vuoto,
che subito lo richiamò al pensiero del figlio lontano, sperduto, randagio
per il mondo, se pure era ancor vivo. Un impeto di commozione lo vinse, e gli
occhi gli s'empirono di lagrime. Per lui, per lui egli aveva trovato la forza
di rialzarsi dalla miseria in cui lo aveva gettato il Chiarenza, quel ladro
infame che ora gli toglieva la campagna.
- No, no! - ruggì, tra i denti, al pensiero del Chiarenza. - Né io
né lui!
E spronò la giumenta, come per volare là a distruggere d'un colpo
la campagna che non poteva più esser sua.
Era già sera, quando pervenne ai piedi della collina. Dové girarla
per un tratto, prima d'imboccar la via mulattiera. Ma era sorta la luna, e
pareva che a mano a mano raggiornasse. I grilli, tutt'intorno, salutavano freneticamente
quell'alba lunare.
Attraversando le campagne, lo Scala si sentì pungere da un acuto rimorso,
pensando ai proprietarii di quelle terre, tutti suoi amici, i quali in quel
momento non sospettavano certo il tradimento ch'egli aveva fatto loro.
Ah, tutte quelle campagne sarebbero scomparse tra breve: neppure un filo d'erba
sarebbe più cresciuto lassù; e lui, lui sarebbe stato il devastatore
della verde collina! Si riportò col pensiero al balcone della sua prossima
cascina, rivide il limite della sua angusta terra, pensò che gli occhi
suoi ora avrebbero dovuto arrestarsi là, senza più scavalcare
quel muro di cinta e spaziar lo sguardo nella terra accanto: e si sentì come
in prigione, quasi più senz'aria, senza più libertà in
quel campicello suo, col suo nemico che sarebbe venuto ad abitare là.
No! No!
- Distruzione! distruzione! Né io né lui! Brucino!
E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d'angoscia: quegli
olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti
in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle
foglie, ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara,
aperta lì come una bocca d'inferno; poi sarebbero cadute; poi gli alberi
nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni.
L'accetta, lì, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi...
Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti
quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero
quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala,
curvo su la giumenta bianca.
IL TABERNACOLO
I.
Coricatosi accanto alla moglie, che già dormiva, voltata verso il lettuccio,
su cui giacevano insieme i due figliuoli, Spatolino disse prima le consuete
orazioni, s'intrecciò poi le mani dietro la nuca; strizzò gli
occhi, e - senza badare a quello che faceva - si mise a fischiettare, com'era
solito ogni qual volta un dubbio o un pensiero lo rodevano dentro.
- Fififì... fififì... fififì...
Non era propriamente un fischio, ma uno zufolio sordo, piuttosto; a fior di
labbra, sempre con la medesima cadenza.
A un certo punto, la moglie si destò:
- Ah! ci siamo? Che t'è accaduto?
- Niente. Dormi. Buona notte.
Si tirò giù, voltò le spalle alla moglie e si raggricchiò anche
lui da fianco, per dormire. Ma che dormire!
- Fififì... fififì... fififì...
La moglie allora gli allungò un braccio sulla schiena, a pugno chiuso.
- Ohé, la smetti? Bada che mi svegli i piccini!
- Hai ragione. Sta' zitta! M'addormento.
Si sforzò davvero di scacciare dalla mente quel pensiero tormentoso
che diventava così, dentro di lui, come sempre, un grillo canterino.
Ma, quando già credeva d'averlo scacciato:
- Fififì... fififì... fififì...
Questa volta non aspettò neppure che la moglie gli allungasse un altro
pugno più forte del primo; saltò dal letto, esasperato.
- Che fai? dove vai? - gli domandò quella.
E lui:
- Mi rivesto, mannaggia! Non posso dormire. Mi metterò a sedere qua
davanti la porta, su la strada. Aria! Aria!
- Insomma, - riprese la moglie - si può sapere che diavolo t'è accaduto?
- Che? Quella canaglia, - proruppe allora Spatolino, sforzandosi di parlar
basso, - quel farabutto, quel nemico di Dio...
- Chi? chi?
- Ciancarella.
- Il notajo?
- Lui. M'ha fatto dire che mi vuole domani alla villa.
- Ebbene?
- Ma che può volere da me un uomo come quello, me lo dici? Porco, salvo
il santo battesimo! porco, e dico poco! Aria! aria!
Afferrò, così dicendo, una seggiola, riaprì la porta,
la riaccostò dietro di sé e si pose a sedere sul vicoletto addormentato,
con le spalle appoggiate al muro del suo casalino.
Un lampione a petrolio, lì presso, sonnecchiava languido, verberando
del suo lume giallastro l'acqua putrida d'una pozza, seppure era acqua, giù tra
l'acciottolato, qua gobbo là avvallato, tutto sconnesso e logoro.
Dall'interno delle casupole in ombra veniva un tanfo grasso di stalla e, a
quando a quando, nel silenzio, lo scalpitare di qualche bestia tormentata dalle
mosche.
Un gatto, che strisciava lungo il muro, s'arrestò, obliquo, guardingo.
Spatolino si mise a guardare in alto, nella striscia di cielo, le stelle che
vi fervevano; e, guardando, si recava alla bocca i peli dell'arida barbetta
rossiccia.
Piccolo di statura, quantunque fin da ragazzo avesse impastato terra e calcina,
aveva un che di signorile nell'aspetto.
A un tratto, gli occhi chiari rivolti al cielo gli si riempirono di lagrime.
Si scosse su la seggiola e, asciugandosi il pianto col dorso della mano, mormorò nel
silenzio della notte:
- Ajutatemi voi, Cristo mio!
II.
Dacché nel paese la consorteria clericale era stata battuta e il partito
nuovo, degli scomunicati, aveva invaso i seggi del Comune, Spatolino si sentiva
come in mezzo a un campo nemico.
Tutti i suoi compagni di lavoro, come tante pecore, s'erano messi dietro ai
nuovi caporioni; e stretti ora in corporazione, spadroneggiavano.
Con pochi altri operai rimasti fedeli alla santa Chiesa, Spatolino aveva fondato
una Società Cattolica di Mutuo Soccorso tra gl'Indegni Figli
della Madonna Addolorata.
Ma la lotta era impari; e le beffe dei nemici (e anche degli amici) e la rabbia
dell'impotenza avevano fatto perdere a Spatolino il lume degli occhi.
S'era intestato, come presidente di quella Società Cattolica, a promuovere
processioni e luminarie e girandole, nella ricorrenza delle feste religiose,
osservate prima e favorite dall'antico Consiglio Comunale, e tra i fischi,
gli urli e le risate del partito avversario ci aveva rimesso le spese, per
S. Michele Arcangelo, per S. Francesco di Paola, per il Venerdì Santo,
per il Corpus Domini e insomma per tutte le feste principali del calendario
ecclesiastico.
Così il capitaluccio, che gli aveva finora permesso d'assumer qualche
lavoro in appalto, s'era talmente assottigliato, ch'egli prevedeva non lontano
il giorno che da capomastro muratore si sarebbe ridotto a misero giornante.
La moglie, già da un pezzo, non aveva più per lui né rispetto
né considerazione: s'era messa a provvedere da sé ai suoi bisogni
e a quelli dei figliuoli, lavando, cucendo per conto d'altri, facendo ogni
sorta di servizii.
Come se lui stesse in ozio per piacere! Ma se la corporazione di quei figli
di cane assumeva tutti i lavori! Che pretendeva la moglie? ch'egli rinunziasse
alla fede, rinnegasse Dio, e andasse a iscriversi al partito di quelli? Ma
si sarebbe fatto tagliar le mani piuttosto!
L'ozio intanto lo divorava, gli faceva di giorno in giorno crescere l'orgasmo
e il puntiglio, e lo inveleniva contro tutti.
Ciancarella, il notajo, non aveva mai parteggiato per nessuno; ma era pur notoriamente
nemico di Dio; ne faceva professione, dacché non esercitava più quell'altra
del notajo. Una volta, aveva osato finanche d'aizzare i cani contro un santo
sacerdote, don Lagàipa, che s'era recato da lui per intercedere in favore
d'alcuni parenti poveri, che morivano addirittura di fame, mentr'egli, nella
splendida villa che s'era fatta costruire all'uscita del paese, viveva da principe,
con la ricchezza accumulata chi sa come e accresciuta da tant'anni d'usura.
Tutta la notte Spatolino (per fortuna era d'estate), un po' seduto, un po'
passeggiando per il vicoletto deserto, meditò (fififì...
fififì... fififì...) su quell'invito misterioso del
Ciancarella.
Poi, sapendo che questi era solito lasciare il letto per tempo, e sentendo
che la moglie già s'eralevata, con l'alba, e sfaccendava per casa, pensò d'avviarsi,
lasciando lì fuori la seggiola ch'era vecchia, e nessuno se la sarebbe
presa.
III.
La villa del Ciancarella era tutta murata come una fortezza, e aveva il cancello
su lo stradone provinciale.
Il vecchio, che pareva un rospaccio calzato e vestito, oppresso da una cisti
enorme su la nuca, che lo obbligava a tener sempre giù e piegato da
un lato il testone raso, vi abitava solo, con un servitore; ma aveva molta
gente di campagna ai suoi ordini, armata, e due mastini che incutevano paura,
solo a vederli.
Spatolino sonò la campana. Subito quelle due bestiacce s'avventarono
furibonde alle sbarre del cancello, e non si quietarono neppure quando il servitore
accorse a rincorare Spatolino che non voleva entrare. Bisognò che il
padrone, il quale prendeva il caffè nel chioschetto d'edera, a un lato
della villa, in mezzo al giardino, li chiamasse col fischio.
- Ah, Spatolino! Bravo, - disse il Ciancarella. - Siedi lì.
E gl'indicò uno degli sgabelli di ferro disposti, giro giro, nel chioschetto.
Ma Spatolino rimase in piedi, col cappelluccio roccioso e ingessato tra le
mani.
- Tu sei un indegno figlio, è vero?
- Sissignore, e me ne vanto: della Madonna Addolorata. Che comandi ha da darmi?
- Ecco, - disse Ciancarella; ma, invece di seguitare, si recò la tazza
alle labbra e trasse tre sorsi di caffè. - Un tabernacolo - (e un altro
sorso).
- Come dice?
- Vorrei costruito da te un tabernacolo - (ancora un sorso).
- Un tabernacolo, Vossignoria?
- Sì, su lo stradone, di fronte al cancello - (altro sorso, l'ultimo;
posò la tazza, e - senza , asciugarsi le labbra - si levò in
piedi. Una goccia di caffè gli scese da un angolo della bocca di tra
gl'irti peli della barba non rifatta da parecchi giorni). - Un tabernacolo,
dunque, non tanto piccolo, perché ci ha da entrare una statua, grande
al vero, di Cristo alla colonna. Alle pareti laterali ci voglio allogare due
bei quadri, grandi: di qua, un Calvario; di là, una Deposizione.
Insomma, come un camerotto agiato, su uno zoccolo alto un metro, col cancelletto
di ferro davanti, e la croce su, s'intende. Hai capito?
Spatolino chinò più volte il capo, con gli occhi chiusi; poi,
riaprendo gli occhi e traendo un sospiro, disse:
- Ma Vossignoria scherza, è vero?
- Scherzo? Perché?
- Io credo che Vossignoria voglia scherzare. Mi perdoni. Un tabernacolo, Vossignoria,
all'Ecce Homo?
Ciancarella si provò ad alzare un po' il testone raso, se lo tenne con
una mano e rise in un suo modo speciale, curiosissimo, come se frignasse, per
via di quei malanno che gli opprimeva la nuca.
- Eh che! - disse. - Non ne son forse degno, secondo te?
- Ma nossignore, scusi! - s'affrettò a negare Spatolino, stizzito, infiammandosi.
- Perché dovrebbe Vossignoria commettere così, senza ragione,
un sacrilegio? Si lasci pregare, e mi perdoni se parlo franco. Chi vuol gabbare,
Vossignoria? Dio, no; Dio non lo gabba; Dio vede tutto, e non si lascia gabbare
da Vossignoria. Gli uomini? Ma vedono anche loro e sanno che Vossignoria...
- Che sanno, imbecille? - gli gridò il vecchio, interrompendolo. - E
che sai tu di Dio, verme di terra? Quello che te n'hanno detto i preti! Ma
Dio... Vah, vah, vah, io mi metto a ragionare con te, adesso... Hai fatto colazione?
- Nossignore.
- Brutto vizio, caro mio! dovrei dartela io, ora, eh?
- Nossignore. Non prendo nulla.
- Ah, - esclamò Ciancarella con uno sbadiglio. - Ah! I preti, figliuolo,
i preti ti hanno sconcertato il cervello. Vanno predicando, è vero?
che io non credo in Dio. Ma sai perché? perché non do loro da
mangiare. Ebbene, sta' zitto: ne avranno, quando verranno a consacrare il nostro
tabernacolo. Voglio che sia una bella festa, Spatolino. Perché mi guardi
così? Non credi? O vuoi sapere come mi sia venuto in mente? In sogno,
figliuolo! Ho avuto un sogno, l'altra notte. Ora certo i preti diranno che
Dio m'ha toccato il cuore. Dicano pure; non me n'importa nulla! Dunque, siamo
intesi, eh? Parla... smuoviti... Sei allocchito?
- Sissignore, - confessò Spatolino, aprendo le braccia.
Ciancarella, questa volta, si prese la testa con tutt'e due le mani, per ridere
a lungo.
- Bene, - poi disse. - Tu sai com'io tratto. Non voglio impicci di nessun genere.
So che sei un bravo operajo e che fai le cose ammodo e onestamente. Fa' da
te, spese e tutto, senza seccarmi. Quando avrai finito, faremo i conti. Il
tabernacolo... hai capito come lo voglio?
- Sissignore.
- Quando ti metterai all'opera?
- Per me, anche domani.
- E quando potrà esser finito?
Spatolino stette un po' a pensare.
- Eh, - poi disse, - se dev'essere così grande, ci vorrà almeno...,
che so, un mese.
- Sta bene. Andiamo ora a vedere insieme il posto.
La terra, dall'altra parte dello stradone, apparteneva pure al Ciancarella,
che la lasciava incolta, in abbandono: l'aveva acquistata per non aver soggezioni
lì davanti alla villa; e permetteva che i pecoraj vi conducessero le
loro greggiole a pascolare, come se fosse terra senza padrone. Per costruirvi
il tabernacolo non si doveva dunque chieder licenza a nessuno. Stabilito il
posto, lì, proprio dirimpetto al cancello, il vecchio rientrò nella
villa, e Spatolino, rimasto solo, - fififì... fififì...
fififì... - non la finì più. Poi s'avviò.
Cammina e cammina, si ritrovò, quasi senza saperlo, dinanzi la porta
di don Lagàipa, ch'era il suo confessore. Si ricordò, dopo aver
bussato, che il prete era da parecchi giorni a letto, infermo: non avrebbe
dovuto disturbarlo con quella visita mattutina; ma il caso era grave; entrò.
IV.
Don Lagàipa era in piedi e, tra la confusione delle sue donne, la serva
e la nipote, che non sapevano come obbedire agli ordini ch'egli impartiva,
stava, in calzoni e maniche di camicia, in mezzo alla camera a pulire le canne
d'un fucile.
Il naso vasto e carnoso, tutto bucherato dal vajuolo come una spugna, pareva
gli fosse divenuto, dopo la malattia, più abbondante. Di qua e di là,
divergenti quasi per lo spavento di quel naso, gli occhi lucidi, neri, pareva
volessero scappargli dalla faccia gialla, disfatta.
- Mi rovinano, Spatolino, mi rovinano! È venuto poco fa il garzone,
baccalà, a dirmi che la mia campagna è diventata proprietà comune,
già! roba di tutti. I socialisti, capisci? mi rubano l'uva ancora acerba;
i fichidindia, tutto! Il tuo è mio, capisci? Il tuo è mio! Gli
mando questo fucile. Alle gambe! gli ho detto; tira loro alle gambe: cura di
piombo, ci vuole! (Rosina, papera, papera, papera, un altro po' d'aceto t'ho
detto, e una pezzuola pulita.) Che volevi dirmi, figliuolo mio?
Spatolino non sapeva più da che parte cominciare. Appena gli uscì di
bocca il nome di Ciancarella, una furia di male parole; all'accenno della costruzione
del tabernacolo, vide don Lagàipa trasecolare.
- Un tabernacolo?
- Sissignore: all'Ecce Homo. Vorrei sapere da Vostra Reverenza
se debbo farglielo.
- Lo domandi a me? Pezzo d'asino, che gli hai risposto?
Spatolino ripeté quanto aveva detto al Ciancarella e altro aggiunse
che non aveva detto, infervorandosi alle lodi del prete battagliero.
- Benissimo! E lui? Muso di cane!
- Ha avuto un sogno, dice.
- Imbroglione! Non starci a credere! Imbroglione! Se Dio veramente gli avesse
parlato in sogno, gli avrebbe suggerito piuttosto di ajutare un po' quei poveretti
dei Lattuga, che non vuol riconoscere per parenti solo perché son divoti
e fedeli a noi, mentre protegge i Montoro, capisci? quegli atei socialisti,
a cui lascerà tutte le sue ricchezze. Basta. Che vuoi da me? Fagli il
tabernacolo. Se non glielo fai tu, glielo farà un altro. Tanto, per
noi, sarà sempre bene, che un tal peccatore dia segno di volere in qualche
modo riconciliarsi con Dio. Imbroglione! Muso di cane!
Tornato a casa, Spatolino, per tutto quel giorno, disegnò tabernacoli.
Verso sera si recò a provvedere i materiali, due manovali, un ragazzo
calcinajo. E il giorno appresso, all'alba, si mise all'opera.
V.
La gente che passava a piedi o a cavallo o coi carri per lo stradone polveroso,
si fermava a domandare a Spatolino che cosa facesse.
- Un tabernacolo.
- Chi ve l'ha ordinato?
E lui, cupo, alzando un dito al cielo:
- L'Ecce Homo.
Non rispose altrimenti, per tutto il tempo che durò la fabbrica. La
gente rideva o scrollava le spalle.
- Giusto qua? - gli domandava però qualcuno, guardando verso il cancello
della villa.
A nessuno veniva in mente che il notajo potesse avere ordinato quel tabernacolo:
tutti, invece, ignorando che quel pezzo di terra appartenesse pure al Ciancarella,
e conoscendo il fanatismo religioso di Spatolino, pensavano che questi, o per
incarico del vescovo o per voto della Società Cattolica, costruisse
lì quel tabernacolo, per far dispetto al vecchio usurajo. E ne ridevano.
Intanto, come se Dio veramente fosse sdegnato di quella fabbrica, capitarono
a Spatolino, lavorando, tutte le disgrazie. Già, quattro giorni a sterrare,
prima di trovare il pancone per le fondamenta; poi liti lassù alla cava,
per la pietra; liti per la calce, liti col fornaciajo; e infine, nell'assettar
la centina per costruir l'arco, cade la centina e per miracolo non accoppa
il ragazzo calcinajo.
All'ultimo, la bomba. Il Ciancarella, proprio nel giorno che Spatolino doveva
mostrargli il tabernacolo bell'e finito, un colpo apoplettico, di quelli genuini,
e in capo a tre ore, morto.
Nessuno allora poté più levar dal capo a Spatolino che quella
morte improvvisa del notajo fosse la punizione di Dio sdegnato. Ma non credette,
dapprima, che lo sdegno divino dovesse rovesciarsi anche su lui, che - pur
di contraggenio - s'era prestato a innalzare quella fabbrica maledetta.
Lo credette quando, recatosi dai Montoro, eredi del notajo, per aver pagata
l'opera sua, s'udì rispondere che nulla essi ne sapevano e che non volevano
perciò riconoscere quel debito non comprovato da nessun documento.
- Come! - esclamò Spatolino. - E il tabernacolo dunque per chi l'ho
fatto io?
- Per l'Ecce Homo.
- Di testa mia?
- Oh insomma, - gli dissero quelli, per cavarselo di torno. - Noi crederemmo
di mancare di rispetto alla memoria di nostro zio supponendo anche per un momento
ch'egli abbia potuto davvero darti un incarico così contrario al suo
modo di pensare e di sentire. Non risulta da nulla. Che vuoi dunque da noi?
Tienti il tabernacolo; e, se non t'accomoda, ricorri al tribunale.
Ma subito, come no? ricorse al tribunale, Spatolino. Poteva forse perdere?
Potevano forse credere sul serio i giudici che egli avesse costruito di testa
sua un tabernacolo? E poi c'era il servo, per testimonio, il servo del Ciancarella
appunto, ch'era venuto a chiamarlo per incarico del padrone; e don Lagàipa
c'era, con cui era andato a consigliarsi quel giorno stesso; c'era la moglie
poi, a cui egli l'aveva detto, e i manovali che avevano lavorato con lui, tutto
quel tempo. Come poteva perdere?
Perdette, perdette, sissignori. Perdette, perché il servo del Ciancarella,
passato ora al servizio dei Montoro, andò a deporre che aveva chiamato
sì Spatolino per incarico del padrone, sant'anima; ma non certo perché il
padrone, sant'anima, avesse in mente di dargli l'incarico di costruire quel
tabernacolo lì, bensì perché dal giardiniere, ora morto,
(guarda combinazione!) aveva sentito dire che Spatolino aveva lui l'intenzione
di costruire un tabernacolo proprio lì, dirimpetto al cancello, e aveva
voluto avvertirlo che il pezzo di terra dall'altra parte dello stradone gli
apparteneva, e che dunque si fosse guardato bene dal costruirvi una minchioneria di quel genere. Soggiunse che anzi, avendo egli un giorno detto al padrone,
sant'anima,
che Spatolino, non ostante il divieto, scavava di là con tre manovali,
il padrone, sant'anima, gli aveva risposto: - E lascialo scavare, non lo sai
ch'è matto? Cerca forse il tesoro per terminare la chiesa di Santa Caterina!
- A nulla giovò la testimonianza di don Lagàipa, notoriamente
ispiratore a Spatolino di tante altre follie. Che più? Gli stessi manovali
deposero che non avevano veduto mai il Ciancarella e che la mercede giornaliera
l'avevano ricevuta sempre dal capomastro.
Spatolino scappò via dalla sala del tribunale come levato di cervello;
non tanto per la perdita del suo capitaluccio, buttato lì, nella costruzione
di quel tabernacolo; non tanto per le spese del processo a cui, per giunta,
era stato condannato; quanto per il crollo della sua fede nella giustizia divina.
- Ma dunque, - andava dicendo, - dunque non c'è più Dio?
Istigato da don Lagàipa, s'appellò. Fu il tracollo. Il giorno
che gli arrivò la notizia che anche in Corte d'appello aveva perduto,
Spatolino non fiatò: con gli ultimi soldi che gli erano rimasti in tasca,
comprò un metro e mezzo di tela bambagina rossa, tre sacchi vecchi e
ritornò a casa.
- Fammi una tonaca! - disse alla moglie, buttandole i tre sacchi in grembo.
La moglie lo guardò, come se non avesse inteso.
- Che vuoi fare?
- T'ho detto: fammi una tonaca... No? Me la faccio da me.
In men che non si dica, sfondò due sacchi e li cucì insieme,
per lungo; fece, a quello di su, uno spacco davanti; col terzo sacco fece le
maniche e le cucì intorno a due buchi praticati nel primo sacco, a cui
chiuse la bocca per un tratto di qua e di là, per modo che vi restasse
il largo per il collo. Ne fece un fagottino, prese la tela bambagina rossa
e, senza salutar nessuno, se n'andò.
Circa un'ora dopo, si sparse per tutto il paese la notizia che Spatolino, impazzito,
s'era impostato da statua di Cristo alla colonna, là, nel tabernacolo
nuovo, su lo stradone, dirimpetto alla villa del Ciancarella.
- Come impostato? che vuol dire?
- Ma sì, lui, da Cristo, là dentro il tabernacolo!
- Dite davvero?
- Davvero!
E tutto un popolo accorse a vederlo, dentro il tabernacolo, dietro il cancello,
insaccato in quella tonaca con le marche del droghiere ancora lì stampate,
la tela bambagia rossa su le spalle a mo' di mantello, una corona di spine
in capo, una canna in mano.
Teneva la testa bassa, inclinata da un lato, e gli occhi a terra. Non si scompose
minimamente né alle risa, né ai fischi, né a gli urli
indiavolati della folla che cresceva a mano a mano. Più d'un monello
gli tirò qualche buccia; parecchi, lì, sotto il naso, gli lanciarono
crudelissime ingiurie: lui, sordo, immobile, come una vera statua; solo che
sbatteva di tanto in tanto le palpebre.
Né valsero a smuoverlo le preghiere, prima, le imprecazioni, poi, della
moglie accorsa con le altre donne del vicinato, né il pianto dei figliuoli.
Ci volle l'intervento di due guardie che, per porre fine a quella gazzarra,
forzarono il cancelletto del tabernacolo e trassero Spatolino in arresto.
- Lasciatemi stare! Chi più Cristo di me? - si mise allora a strillare
Spatolino, divincolandosi. - Non vedete come mi beffano e come m'ingiuriano?
Chi più Cristo di me? Lasciatemi! Questa è casa mia! Me la son
fatta io, col mio danaro e con le mie mani! Ci ho buttato il sangue mio! Lasciatemi,
giudei!
Ma que' giudei non vollero lasciarlo prima di sera.
- A casa! - gli ordinò il delegato. - A casa, e giudizio, bada!
- Sì, signor Pilato, - gli rispose Spatolino, inchinandosi.
E, quatto quatto, se ne ritornò al tabernacolo. Di nuovo, lì,
si parò da Cristo; vi passò tutta la notte, e più non
se ne mosse.
Lo tentarono con la fame; lo tentarono con la paura, con lo scherno; invano.
Finalmente lo lasciarono tranquillo, come un povero matto che non faceva male
a nessuno.
VI.
Ora c'è chi gli porta l'olio per la lampada; c'è chi gli porta
da mangiare e da bere; qualche donnicciola, pian piano, comincia a dirlo santo
e va a raccomandarglisi perché preghi per lei e pe' suoi; qualche altra
gli ha recato una tonaca nuova, men rozza, e gli ha chiesto in compenso tre
numeri da giocare al lotto.
I carrettieri, che passano di notte per lo stradone, si sono abituati a quel
lampadino ch'arde nel tabernacolo, e lo vedono da lontano con piacere; si fermano
un pezzo lì davanti, a conversare col povero Cristo, che sorride benevolmente
a qualche loro lazzo; poi se ne vanno; il rumor dei carri si spegne a poco
a poco nel silenzio; e il povero Cristo si riaddormenta, o scende a fare i
suoi bisogni dietro al muro, senza più pensare in quel momento che è parato
da Cristo, con la tonaca di sacco e il mantello di bambagina rossa.
Spesso però qualche grillo, attirato dal lume, gli schizza addosso e
lo sveglia di soprassalto. Allora egli si rimette a pregare; ma non è raro
il caso che, durante la preghiera, un altro grillo, l'antico grillo canterino
si ridesti ancora in lui. Spatolino si scosta dalla fronte la corona di spine,
a cui già s'è abituato, e - grattandosi lì, dove le spine
gli han lasciato il segno - con gli occhi invagati, si rimette a fischiettare:
- Fififì... fififì... fififì...
DIFESA DEL MÈOLA (Tonache di Montelusa)
Ho tanto raccomandato ai miei concittadini di Montelusa di non condannare
così a occhi chiusi il Mèola, se non vogliono macchiarsi della
più nera ingratitudine.
Il Mèola ha rubato.
Il Mèola s'è arricchito.
Il Mèola probabilmente domani si metterà a far l'usurajo.
Sì. Ma pensiamo, signori miei, a chi e perché ha rubato il Mèola.
Pensiamo che è niente il bene che il Mèola ha fatto a se stesso
rubando, se lo confrontiamo col bene che da quel suo furto è derivato
alla nostra amatissima Montelusa.
Io per me non so tollerare in pace che i miei concittadini, riconoscendo da
un canto questo bene, seguitino dall'altro a condannare il Mèola e a
rendergli se non proprio impossibile, difficilissima la vita nel nostro paese.
Ragion per cui m'appello al giudizio di quanti sono in Italia liberali equanimi
e ben pensanti.
Un incubo orrendo gravava su tutti noi Montelusani, da undici anni: dal giorno
nefasto che Monsignor Vitangelo Partanna, per istanze e mali uffizii di potenti
prelati a Roma, ottenne il nostro vescovado.
Avvezzi com'eravamo da tempo al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla
copiosa munificenza dell'Eccell.mo nostro Monsignor Vivaldi (Dio l'abbia in
gloria!), tutti noi Montelusani ci sentimmo stringere il cuore, allorché vedemmo
per la prima volta scendere dall'alto e vetusto Palazzo Vescovile, a piedi
tra i due segretarii, incontro al sorriso della nostra perenne primavera, lo
scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo: alto, curvo su la sua trista
magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo
di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri su l'adunco
naso.
I due segretarii, il vecchio don Antonio Sclepis, zio del Mèola, e il
giovane don Arturo Filomarino (che durò poco in carica), si tenevano
un passo indietro e andavano interiti e come sospesi, consci dell'orribile
impressione che Sua Eccellenza destava in tutta la cittadinanza.
E infatti parve a tutti che il cielo, il gajo aspetto della nostra bianca cittadina
s'oscurassero a quell'apparizione ispida, lugubre. Un brulichio sommesso, quasi
di raccapriccio, si propagò al passaggio di lui per tutti gli alberi
del lungo e ridente viale del Paradiso, vanto della nostra Montelusa, terminato
laggiù da due azzurri: quello aspro e denso del mare, quello tenue e
vano del cielo.
Difetto precipuo di noi Montelusani è senza dubbio l'impressionabilità.
Le impressioni, a cui andiamo così facilmente soggetti, possono a lungo
su le nostre opinioni, su i nostri sentimenti, e c'inducono nell'animo mutamenti
sensibilissimi e durevoli.
Un vescovo a piedi? Da che il Vescovado sedeva lassù come una fortezza
in cima al paese, tutti i Montelusani avevan sempre veduto scendere in carrozza
i loro vescovi al viale del Paradiso. Ma vescovado, disse Monsignor Partanna
fin dal primo giorno, insediandosi, è nome d'opera e non d'onore. E
smise la vettura, licenziò cocchieri e lacchè, vendette cavalli
e paramenti, inaugurando la più gretta tirchieria.
Pensammo dapprima:
«
Vorrà fare economia. Ha molti parenti poveri nella sua nativa Pisanello».
Se non che, venne un giorno da Pisanello a Montelusa uno di questi parenti
poveri, un suo fratello appunto, padre di nove figliuoli, a pregarlo in ginocchio
a mani giunte, come si pregano i santi, perché gli desse ajuto, tanto
almeno da pagare i medici che dovevano operar la moglie moribonda. Non volle
dargli nemmeno da pagarsi il ritorno a Pisanello. E lo vedemmo tutti, sentimmo
tutti quel che disse il pover uomo con gli occhi gonfi di lagrime e la voce
rotta dai singhiozzi nel Caffè di Pedoca, appena sceso dal Vescovado.
Ora, la Diocesi di Montelusa - è bene saperlo - è tra le più ricche
d'Italia.
Che voleva fare Monsignor Partanna con le rendite di essa, se negava con tanta
durezza un così urgente soccorso a' suoi di Pisanello?
Marco Mèola ci svelò il segreto.
L'ho presente (potrei dipingerlo), quella mattina che ci chiamò tutti,
noi liberali di Montelusa, nella piazza innanzi al Caffè Pedoca. Gli
tremavano le mani; le ciocche ricciute della testa leonina, rizzandosi, lo
costringevano più del solito a rincalcarsi con manate furiose il cappelluccio
floscio, che non gli vuol mai sedere in capo. Era pallido e fiero. Un fremito
di sdegno gli arricciava il naso di tratto in tratto.
Vive orrenda tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione
seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione,
dei Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli
anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s'eran fatti strumento.
Ebbene, i Liguorini, i Liguorini voleva far tornare a Montelusa Monsignor Partanna,
i Liguorini cacciati a furia di popolo quando scoppiò la rivoluzione.
Per questo egli accumulava le rendite della Diocesi.
Ed era una sfida a noi Montelusani, che il fervido amore della libertà non
avevamo potuto dimostrare altrimenti, che con quella cacciata di frati, giacché,
al primo annunzio dell'entrata di Garibaldi a Palermo, s'era squagliata la
sbirraglia, e con essa la scarsa soldatesca borbonica di presidio a Montelusa.
Quell'unico nostro vanto voleva dunque fiaccare Monsignor Partanna.
Ci guardammo tutti negli occhi, frementi d'ira e di sdegno. Bisognava a ogni
costo impedire che un tal proposito si riducesse a effetto. Ma Come impedirlo?
Parve che da quel giorno il cielo s'incavernasse su Montelusa. La città prese
il lutto. Il Vescovado lassù, ove colui covava il reo disegno e di giorno
in giorno ne avvicinava l'attuazione, ce lo sentimmo tutti come un macigno
sul petto.
Nessuno, allora, pur sapendo che Marco Mèola era nipote dello Sclepis,
segretario del vescovo, dubitava della sua fede liberale. Tutti anzi ammiravano
la sua forza d'animo quasi eroica, comprendendo di quanta amarezza dovesse
in fondo esser cagione quella fede per lui, allevato e cresciuto come un figliuolo
da quello zio prete.
I miei concittadini di Montelusa mi domandano adesso con aria di scherno: -
Ma se veramente gli sapeva di sale il pane dello zio prete, perché non
si allibertava lavorando?
E dimenticano che, per esser scappato, giovinetto, dal seminario, lo Sclepis,
che lo voleva a ogni costo prete come lui, lo aveva tolto dagli studii; dimenticano
che tutti allora compiangevamo amaramente che per la bizza d'una chierica stizzita
si dovesse perdere un ingegno di quella sorte.
Io ricordo bene che cori d'approvazione e che applausi e quanta ammirazione,
allorché, sfidando i fulmini del Vescovado e l'indignazione e la vendetta
dello zio, Marco Mèola, facendosi cattedra d'un tavolino del Caffè Pedoca,
si mise per un'ora al giorno a commentare ai Montelusani le opere latine e
volgari di Alfonso Maria de' Liguori, segnatamente i Discorsi
sacri e morali per tutte le domeniche dell'anno e Il
libro delle Glorie di Maria.
Ma noi vogliamo far scontare al Mèola le frodi della nostra illusione,
le aberrazioni della nostra deplorabilissima impressionabilità.
Quando il Mèola, un giorno, con aria truce, levando una mano e ponendosela
poi sul petto, ci disse: - «Signori, io prometto e giuro che i liguorini
non torneranno a Montelusa!» - voi, Montelusani, voleste per forza immaginare
non so che diavolerie: mine, bombe, agguati, assalti notturni al Vescovado
e Marco Mèola come Pietro Micca con la miccia in mano pronto a far saltare
in aria vescovo e Liguorini.
Ora questo, con buona pace e sopportazione vostra, vuol dire avere una concezione
dell'eroe alquanto grottesca. Con tali mezzi avrebbe potuto mai il Mèola
liberar Montelusa dalla calata dei Liguorini? Il vero eroismo consiste nel
sapere attemprare i mezzi all'impresa.
E Marco Mèola seppe.
Sonavano nell'aria che inebriava, satura di tutte le fragranze della nuova
primavera, le campane delle chiese, tra i gridi festivi delle rondini guizzanti
a frotte nel luminoso ardore di quel vespero indimenticabile.
Io e il Mèola passeggiavamo per il nostro viale del Paradiso, muti e
assorti nei nostri pensieri.
Il Mèola a un tratto si fermò e sorrise.
- Senti, - mi disse. - queste campane più prossime? Sono della badia
di Sant'Anna. Se tu sapessi chi le suona!
- Chi le suona?
- Tre campane, tre colombelle!
Mi voltai a guardarlo, stupito del tono e dell'aria con cui aveva proferito
quelle parole.
- Tre monache?
Negò col capo, e mi fe' cenno d'attendere.
- Ascolta, - soggiunse piano. - Ora, appena tutt'e tre finiranno di sonare,
l'ultima, la campanella più piccola e più argentina, batterà tre
tocchi, timidi. Ecco... ascolta bene!
Difatti, lontano, nel silenzio del cielo, rintoccò tre volte - din
din din - quella timida campanella argentina, e parve che il suono
di quei tre tintinni si fondesse beato nell'aurea luminosità del crepuscolo.
- Hai inteso? - mi domandò il Mèola. - Questi tre rintocchi dicono
a un felice mortale: «Io penso a te!».
Tornai a guardarlo. Aveva socchiuso gli occhi, per sospirare, e alzato il mento.
Sotto la folta barba crespa gli s'intravedeva il collo taurino, bianco come
l'avorio.
- Marco! - gli gridai, scotendolo per un braccio.
Egli allora scoppiò a ridere; poi, aggrottando le ciglia, mormorò:
- Mi sacrifico, amico mio, mi sacrifico! Ma sta' pur sicuro che i Liguorini
non torneranno a Montelusa.
Non potei strappargli altro di bocca per molto tempo.
Che relazione poteva esserci tra quei tre rintocchi di campana, che dicevano Io
penso a te, e i Liguorini che non dovevano tornare a Montelusa? E
a qual sacrifizio s'era votato il Mèola per non farli tornare?
Sapevo che nella badia di Sant'Anna egli aveva una zia, sorella dello Sclepis
e della madre; sapevo che tutte le monache delle cinque badie di Montelusa
odiavano anch'esse cordialmente Monsignor Partanna, perché appena insediatosi
vescovo, aveva dato per esse tre disposizioni, una più dell'altra crudele:
1a che non dovessero più né preparare né vendere
dolci o rosolii (quei buoni dolci di miele e di pasta reale, infiocchettati
e avvolti in fili d'argento! quei buoni rosolii, che sapevano d'anice e di
cannella!);
2a che non dovessero più ricamare (neanche arredi
e paramenti sacri), ma far soltanto la calzetta;
3a che non dovessero più avere, in fine, un
confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della
comunità.
Che pianti, che angoscia disperata in tutte e cinque le badie di Montelusa,
specialmente per quest'ultima disposizione! che maneggi per farla revocare!
Ma Monsignor Partanna era stato irremovibile. Forse aveva giurato a se stesso
di far tutto il contrario di quel che aveva fatto il suo Eccell.mo Predecessore.
Largo e cordiale con le monache, Monsignor Vivaldi (Dio l'abbia in gloria!),
si recava a visitarle almeno una volta la settimana, e accettava di gran cuore
i loro trattamenti, lodandone la squisitezza, e si intratteneva a lungo con
esse in lieti e onesti conversari.
Monsignor Partanna, invece, non si era mai recato più d'una volta al
mese in questa o in quella badia, sempre accompagnato dai due segretarii, arcigno
e duro, e non aveva mai voluto accettare, non che una tazza di caffè,
neppure un bicchier d'acqua. Quante riprensioni avevano dovuto fare alle monache
e alle educande le madri badesse e le vicarie per ridurle all'obbedienza e
farle scendere giù nel parlatorio, quando la portinaja per annunziar
la visita di Monsignore strappava a lungo la catena del campanello che strillava
come un cagnolino a cui qualcuno avesse pestato una piota! Ma se le spaventava
tutte con quei segnacci di croce! con quella vociaccia borbottante: - Santa,
figlia, - in risposta al saluto che ciascuna gli porgeva, facendosi
innanzi alla doppia grata, col viso vermiglio e gli occhi bassi:
- Vostra Eccellenza benedica!
Nessun discorso, che non fosse di chiesa. Il giovine segretario don Arturo
Filomarino aveva perduto il posto per aver promesso un giorno nel parlatorio
di Sant'Anna alle educande e alle monacelle più giovani, che se lo mangiavano
con gli occhi dalle grate, una pianticina di fragole da piantare nel giardino
della badia.
Odiava ferocemente le donne, Monsignor Partanna. E la donna, la donna più pericolosa,
la donna umile, tenera e fedele, egli scopriva sotto il manto e le bende della
monaca. Perciò ogni risposta che dava loro era come un colpo di ferula
su le dita. Marco Mèola sapeva, per via dello zio segretario, di quest'odio
di Monsignor Partanna per le donne. E quest'odio gli parve troppo e che, come
tale, dovesse avere una ragione recondita e particolare nell'animo e nel passato
di Monsignore. Si mise a cercare; ma presto troncò le ricerche, all'arrivo
misterioso di una nuova educanda alla badia di Sant'Anna, d'una povera gobbetta
che non poteva neanche reggere sul collo la grossa testa dai grandi occhi ovati
nella macilenza squallida del viso. Questa gobbetta era nipote di Monsignor
Partanna; ma una nipote di cui non sapevano nulla i parenti di Pisanello. E
difatti non era arrivata da Pisanello, ma da un altro paese dell'interno, ove
alcuni anni addietro il Partanna era stato parroco.
Lo stesso giorno dell'arrivo di questa nuova educanda alla badia di Sant'Anna,
Marco Mèola gridò solennemente in piazza a tutti noi compagni
della sua fede liberale:
- Signori, io prometto e giuro che i Liguorini non torneranno a Montelusa.
E vedemmo, stupiti, subito dopo quel giuramento solenne, cambiar vita a Marco
Mèola; lo vedemmo ogni domenica e in tutte le feste del calendario ecclesiastico
entrare in chiesa e sentirsi la messa; lo vedemmo a passeggio in compagnia
di preti e di vecchi bigotti; lo vedemmo in gran faccende ogni qual volta si
preparavano le visite pastorali nella Diocesi, che Monsignor Partanna faceva
con la massima vigilanza a' tempi voluti dai Canoni, non ostante la gran difficoltà delle
vie e la mancanza di comunicazioni e di veicoli; e lo vedemmo con lo zio far
parte del seguito in quelle visite.
Tuttavia, io non volli - io solo - credere a un tradimento da parte del Mèola.
Come rispose egli ai primi nostri rimproveri, alle prime nostre rimostranze?
Rispose energicamente:
- Signori, lasciatemi fare!
Voi scrollaste le spalle, indignati; diffidaste di lui; credeste e gridaste
al voltafaccia. Io seguitai a essergli amico e mi ebbi da lui in quel vespro
indimenticabile, quando la timida campanella argentina sonò i tre rintocchi
nel cielo luminoso, quella mezza confessione misteriosa.
Marco Mèola, che non era mai andato più di una volta l'anno a
visitare quella sua zia monaca a Sant'Anna, cominciò a visitarla ogni
settimana in compagnia della madre. La zia monaca, nella badia di Sant'Anna,
era preposta alla sorveglianza delle tre educande. Le tre educande, le tre
colombelle, volevano molto bene alla loro maestra; la seguivano per tutto come
i pulcini la chioccia; la seguivano anche quand'essa era chiamata in parlatorio
per la visita della sorella e del nipote.
E un giorno si vide il miracolo, Monsignor Partanna, che aveva negato alle
monache di quella badia la licenza, che esse avevano sempre avuta, di entrare
due volte l'anno in chiesa, la mattina, a porte chiuse, per pararla con le
loro mani nelle ricorrenze del Corpus Domini e della Madonna
del Lume, tolse il veto, riconcesse la licenza, per le preghiere insistenti
delle tre educande e segnatamente della sua nipote, quella povera gobbetta
nuova arrivata.
Veramente, il miracolo si vide dopo: quando venne la festa della Madonna del
Lume.
La sera della vigilia, Marco Mèola si nascose nella chiesa, a tradimento,
e dormì nel confessionale del Padre della comunità. All'alba,
una vettura era pronta nella piazzetta innanzi alla badia; e quando le tre
educande, due belle e vivaci come rondinine in amore, l'altra gobba e asmatica,
scesero con la loro maestra a parar l'altare della Madonna del Lume...
Ecco, voi dite: il Mèola ha rubato; il Mèola s'è arricchito;
il Mèola probabilmente domani si metterà a far l'usurajo. Sì.
Ma pensate, signori miei, pensate che di quelle tre educande non una delle
due belle, ma la terza, la terza, quella misera sbiobbina asmatica e cisposa
toccò a Marco Mèola di rapirsi, quand'era invece amato fervidamente
anche dalle altre due! quella, proprio quella gobbetta, per impedire che i
padri Liguorini tornassero a Montelusa.
Monsignor Partanna infatti - per costringere il Mèola alle nozze con
la nipote rapita - dovette convertire in dote a questa nipote il fondo raccolto
per il ritorno dei padri Liguorini. Monsignor Partanna è vecchio e non
avrà più tempo di rifare quel fondo.
Che aveva promesso Marco Mèola a noi liberali di Montelusa? Che i Liguorini
non sarebbero tornati.
Ebbene, o signori, e non è certo ormai che i Liguorini non torneranno
a Montelusa?
I FORTUNATI (Tonache di Montelusa)
Una commovente processione in casa del giovine sacerdote don Arturo Filomarino.
Visite di condoglianza.
Tutto il vicinato stava a spiare dalle finestre e dagli usci di strada il portoncino
stinto imporrito fasciato di lutto, che così, mezzo chiuso e mezzo aperto,
pareva la faccia rugosa di un vecchio che strizzasse un occhio per accennar
furbescamente a tutti quelli che entravano, dopo l'ultima uscita - piedi avanti
e testa dietro - del padrone di casa.
La curiosità, con cui il vicinato stava a spiare, faceva nascere veramente
il sospetto che quelle visite avessero un significato o, piuttosto, un intento
ben diverso da quello che volevano mostrare.
A ogni visitatore che entrava nel portoncino, scattavano qua e là esclamazioni
di meraviglia:
- Uh, anche questo?
- Chi, chi?
- L'ingegner Franci!
- Anche lui?
Eccolo là, entrava. Ma come? un massone? un trentatré? Sissignori,
anche lui. E prima e dopo di lui, quel gobbo del dottor Niscemi, l'ateo, signori
miei, l'ateo; e il repubblicano e libero pensatore avvocato Rocco Turrisi,
e il notajo Scimè e il cavalier Preato e il commendator Tino Laspada,
consigliere di prefettura, e anche i fratelli Morlesi che, appena seduti, poverini,
come se avessero le anime avvelenate di sonno, si mettevano tutt'e quattro
a dormire, e il barone Cerrella, anche il barone Cerrella: i meglio, insomma,
i pezzi più grossi di Montelusa: professionisti, impiegati, negozianti...
Don Arturo Filomarino era arrivato la sera avanti da Roma, dove, appena caduto
in disgrazia di Monsignor Partanna, per la pianticina di fragole promessa alle
monacelle di Sant'Anna, s'era recato a studiare per addottorarsi in lettere
e filosofia. Un telegramma d'urgenza lo aveva richiamato a Montelusa per il
padre colto da improvviso malore. Era arrivato troppo tardi. Neanche l'amara
consolazione di rivederlo per l'ultima volta!
Le quattro sorelle maritate e i cognati, dopo averlo in fretta in furia ragguagliato
della sciagura fulminea e avergli rinfacciato con certi versacci di sdegno,
anzi di schifo, di abominazione, che i preti suoi colleghi di Montelusa avevano
preteso dal moribondo ventimila lire, venti, ventimila lire per amministrargli
i santi sacramenti, come se la buon'anima non avesse già donato abbastanza
a opere pie, a congregazioni di carità, e lastricato di marmo due chiese,
edificato altari, regalato statue e quadri di santi, profuso a piene mani denari
per tutte le feste religiose; se n'erano andati via, sbuffanti, indignati,
dichiarandosi stanchi morti di tutto quello che avevano fatto in quei due giorni
tremendi; e lo avevano lasciato solo, là, solo, santo Dio, con la governante,
piuttosto... sì, piuttosto giovine, che il padre, buon'anima, aveva
avuto la debolezza di farsi venire ultimamente da Napoli, e che già con
collosa amorevolezza lo chiamava don Arturì.
Per ogni cosa che gli andasse attraverso, don Arturo aveva preso il vezzo d'appuntir
le labbra e soffiare a due, a tre riprese, pian piano, passandosi le punte
delle dita su le sopracciglia. Ora, poverino, a ogni don Arturì...
Ah, quelle quattro sorelle! quelle quattro sorelle! Lo avevano sempre malvisto,
fin da piccino, anzi propriamente non lo avevano mai potuto soffrire, forse
perché unico maschio e ultimo nato, forse perché esse, poverette,
erano tutt'e quattro brutte, una più brutta dell'altra, mentre lui bello,
fino fino, biondo e riccioluto. La sua bellezza doveva parer loro doppiamente
superflua, sì perché uomo e sì perché destinato
fin dall'infanzia, col piacer suo, al sacerdozio. Prevedeva che sarebbero avvenute
scene disgustose, scandali e liti al momento della divisione ereditaria. Già i
cognati avevano fatto apporre i suggelli alla cassaforte e alla scrivania nel
banco del suocero, morto intestato.
Che c'entrava intanto rinfacciare a lui ciò che i ministri di Dio avevano
stimato giusto e opportuno pretendere dal padre perché morisse da buon
cristiano? Ahi, per quanto crudele potesse riuscire al suo cuore di figlio,
doveva pur riconoscere che la buon'anima aveva per tanti anni esercitato l'usura
e senza in parte neppur quella discrezione che può almeno attenuare
il peccato. Vero è che con la stessa mano, con cui aveva tolto, aveva
poi anche dato, e non poco. Non erano però, a dir proprio, denari suoi.
E per questo appunto, forse, i sacerdoti di Montelusa avevano stimato necessario
un altro sacrifizio, all'ultimo. Egli, da parte sua, s'era votato a Dio per
espiare con la rinunzia ai beni della terra il gran peccato in cui il padre
era vissuto e morto. E ora, per quel che gli sarebbe toccato dell'eredità paterna,
era pieno di scrupoli e si proponeva di chieder lume e consiglio a qualche
suo superiore, a Monsignor Landolina per esempio, direttore del Collegio degli
Oblati, sant'uomo, già suo confessore, di cui conosceva bene l'esemplare,
fervidissimo zelo di carità.
Tutte quelle visite, intanto, lo imbarazzavano.
Per quel che volevano parere, data la qualità dei personaggi, rappresentavano
per lui un onore immeritato; per il fine recondito che le guidava, un avvilimento
crudele.
Temeva quasi d'offendere a ringraziare per quell'apparenza d'onore che gli
si faceva; a non ringraziare affatto, temeva di scoprir troppo il proprio avvilimento
e d'apparir doppiamente sgarbato.
D'altra parte, non sapeva bene che cosa gli volessero dire tutti quei signori,
né che cosa doveva rispondere, né come regolarsi. Se sbagliava?
se commetteva, senza volerlo, senza saperlo, qualche mancanza?
Egli voleva ubbidire ai suoi superiori, sempre e in tutto. Così, ancor
senza consiglio, si sentiva proprio sperduto in mezzo a quella folla.
Prese dunque il partito di sprofondarsi su un divanuccio sgangherato in fondo
allo stanzone polveroso e sguarnito, quasi bujo, e di fingersi almeno in principio
così disfatto dal cordoglio e dallo strapazzo del viaggio, da non potere
accogliere se non in silenzio tutte quelle visite.
Dal canto loro i visitatori, dopo avergli stretto la mano, sospirando e con
gli occhi chiusi, si mettevano a sedere giro giro lungo le pareti e nessuno
fiatava e tutti parevano immersi in quel gran cordoglio del figlio. Schivavano
intanto di guardarsi l'un l'altro, come se a ciascuno facesse stizza che gli
altri fossero venuti là a dimostrare la sua stessa condoglianza.
Non pareva l'ora, a tutti, di andarsene, ma ognuno aspettava che prima se n'andassero
via gli altri, per dir sottovoce, a quattr'occhi, una parolina a don Arturo.
E in tal modo nessuno se ne andava.
Lo stanzone era già pieno e i nuovi arrivati non trovavan più posto
da sedere e tutti gonfiavano in silenzio e invidiavano i fratelli Morlesi che
almeno non s'avvedevano del tempo che passava, perché, al solito, appena
seduti, s'erano addormentati tutt'e quattro profondamente.
Alla fine, sbuffando, s'alzò per primo, o piuttosto scese dalla seggiola
il barone Cerrella, piccolo e tondo come una balla, e dri dri
dri,
con un irritatissimo sgrigliolio delle scarpe di coppale, andò fino
al divanuccio, si chinò verso don Arturo, e gli disse piano:
- Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.
Quantunque abbattuto, don Arturo balzò in piedi:
- Eccomi, signor barone!
E lo accompagnò, attraversando tutto lo stanzone, fino alla saletta
d'ingresso. Ritornò poco dopo, soffiando, a sprofondarsi nel divanuccio;
ma non passarono due minuti, che un altro si alzò e venne a ripetergli:
- Con permesso, padre Filomarino, una preghiera.
Dato l'esempio, cominciò la sfilata. A uno a uno, di due minuti in due
minuti, s'alzavano, e... ma dopo cinque o sei, don Arturo non aspettò più che
venissero a pregarlo fino al divanuccio in fondo allo stanzone; appena vedeva
uno alzarsi, accorreva pronto e servizievole e lo accompagnava fino alla saletta.
Per uno che se n'andava però, ne sopravvenivano altri due o tre alla
volta, e quel supplizio minacciava di non aver più fine per tutta la
giornata.
Fortunatamente, quando furono le tre del pomeriggio, non venne più nessuno.
Restavano nello stanzone soltanto i fratelli Morlesi, seduti uno accanto all'altro,
tutt'e quattro nella stessa positura, col capo ciondoloni sul petto.
Dormivano lì da circa cinque ore.
Don Arturo non si reggeva più su le gambe. Indicò con un gesto
disperato alla giovine governante napoletana quei quattro dormienti là.
- Voi andate a mangiare, don Arturì, - disse quella. - Mo' ci pens'io.
Svegliati, però, dopo aver volto un bel po' in giro gli occhi sbarrati
e rossi di sonno per raccapezzarsi, i fratelli Morlesi vollero dire anch'essi
la parolina in confidenza a don Arturo, e invano questi si provò a far
loro intendere che non ce n'era bisogno; che già aveva capito e che
avrebbe fatto di tutto per contentarli, come gli altri, fin dove gli sarebbe
stato possibile. I fratelli Morlesi non volevano soltanto pregarlo come tutti
gli altri di fare in modo che venisse a lui la loro cambiale nella divisione
dei crediti per non cadere sotto le grinfie degli altri eredi; avevano anche
da fargli notare che la loro cambiale non era già, come figurava, di
mille lire, ma di sole cinquecento.
- E come? perché? - domandò, ingenuamente, don Arturo.
Si misero a rispondergli tutt'e quattro insieme, correggendosi a vicenda e
ajutandosi l'un l'altro a condurre a fine il discorso:
- Perché suo papà, buon'anima, purtroppo...
- No, purtroppo... per... per eccesso di...
- Di prudenza, ecco!
- Già, ecco... ci disse, firmate per mille...
- E tant'è vero che gli interessi...
- Come risulterà dal registro...
- Interessi del ventiquattro, don Arturì! del ventiquattro! del ventiquattro!
- Glieli abbiamo pagati soltanto per cinquecento lire, puntualmente, fino al
quindici del mese scorso.
- Risulterà dal registro...
Don Arturo, come se da quelle parole sentisse ventar le fiamme dell'inferno,
appuntiva le labbra e soffiava, passandosi la punta delle mani immacolate su
le sopracciglia.
Si dimostrò grato della fiducia che essi, come tutti gli altri, riponevano
in lui, e lasciò intravedere anche a loro quasi la speranza che egli,
da buon sacerdote, non avrebbe preteso la restituzione di quei denari.
Contentarli tutti, purtroppo, non poteva: gli eredi erano cinque, e dunque
a piacer suo egli non avrebbe potuto disporre che di un quinto dell'eredità.
Quando in paese si venne a sapere che don Arturo Filomarino, in casa dell'avvocato
scelto per la divisione ereditaria, discutendo con gli altri eredi circa gli
innumerevoli crediti cambiarii, non si era voluto contentare della proposta
dei cognati, che fosse cioè nominato per essi un liquidatore di comune
fiducia, il quale a mano a mano, concedendo umanamente comporti e rinnovazioni,
li liquidasse agli interessi più che onesti del cinque per cento, mentre
il meno che il suocero soleva pretendere era del ventiquattro; più che
più si raffermò in tutti i debitori la speranza che egli generosamente,
con atto da vero cristiano e degno ministro di Dio, avrebbe non solo abbonato
del tutto gl'interessi a quelli che avrebbero avuto la fortuna di cadere in
sua mano, ma fors'anche rimessi e condonati i debiti.
E fu una nuova processione alla casa di lui. Tutti pregavano, tutti scongiuravano
per esser compresi tra i fortunati, e non rifinivano di porgli sotto gli occhi
e di fargli toccar con mano le miserande piaghe della loro esistenza.
Don Arturo non sapeva più come schermirsi; aveva le labbra indolenzite
dal tanto soffiare; non trovava un minuto di tempo, assediato com'era, per
correre da Monsignor Landolina a consigliarsi; e gli pareva mill'anni di ritornarsene
a Roma a studiare. Aveva vissuto sempre per lo studio, lui, ignaro affatto
di tutte le cose del mondo.
Quando alla fine fu fatta la difficilissima ripartizione di tutti i crediti
cambiarii, ed egli ebbe in mano il pacco delle cambiali che gli erano toccate,
senza neppur vedere di chi fossero per non rimpiangere gli esclusi, senza neppur
contare a quanto ammontassero, si recò al Collegio degli Oblati per
rimettersi in tutto e per tutto al giudizio di Monsignor Landolina.
Il consiglio di questo sarebbe stato legge per lui.
Il Collegio degli Oblati sorgeva nel punto più alto del paese ed era
un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal
tempo e dalle intemperie; tutto bianco, all'incontro, arioso e luminoso, dentro.
Vi erano accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai
sei ai diciannove anni, i quali vi imparavano le varie arti e i varii mestieri.
La disciplina era dura, segnatamente sotto Monsignor Landolina, e quando quei
poveri Oblati alla mattina e al vespro cantavano al suono dell'organo nella
chiesina del Collegio, le loro preghiere sapevan di pianto e, a udirle da giù,
provenienti da quella fabbrica fosca nell'altura, accoravano come un lamento
di carcerati.
Monsignor Landolina non pareva affatto che dovesse avere in sé tanta
forza di dominio e così dura energia.
Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se la gran luce di quella bianca
ariosa cameretta in cui viveva, lo avesse non solo scolorito ma anche rarefatto,
e gli avesse reso le mani d'una gracilità tremula quasi trasparenti
e su gli occhi chiari ovati le palpebre più esili d'un velo di cipolla.
Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra
bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.
- Oh Arturo! - disse, vedendo entrare il giovine: e, come questi gli si buttò sul
petto piangendo:
- Ah, già! un gran dolore... Bene bene, figliuolo mio! Un gran dolore,
mi piace. Ringraziane Dio! Tu sai com'io sono per tutti gli sciocchi che non
vogliono soffrire. Il dolore ti salva, figliuolo! E tu, per tua ventura, hai
molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh... fece tanto,
tanto male! Sia il tuo cilizio, figliuolo, il pensiero di tuo padre. E di',
quella donna? quella donna? Tu l'hai ancora in casa?
- Andrà via domani, Monsignore, - s'affrettò a rispondergli don
Arturo, finendo d'asciugarsi le lagrime. Ha dovuto preparar le sue robe...
- Bene bene, subito via, subito via. Che hai da dirmi, figliuolo mio?
Don Arturo trasse fuori il pacco delle cambiali, e subito cominciò a
esporre il piato per esse coi parenti, e le visite e le lamentazioni delle
vittime.
Ma Monsignor Landolina, come se quelle cambiali fossero armi diaboliche o imagini
oscene, appena gli occhi si posavano su esse, tirava indietro il capo e muoveva
convulsamente tutte le dita delle gracili mani diafane, quasi per paura di
scottarsele, non già a toccarle, ma a vederle soltanto, e diceva ai
Filomarino che le teneva su le ginocchia:
- Non lì sull'abito, caro, non lì sull'abito...
Don Arturo fece per posarle su la seggiola accanto.
- Ma no, ma no... per carità, dove le posi? Non tenerle in mano, caro,
non tenerle in mano...
- E allora? - domandò sospeso, perplesso, avvilito, don Arturo, anche
lui con un viso disgustato e tenendole con due dita e scostando le altre, come
se veramente avesse in mano un oggetto schifoso.
- Per terra, per terra, - gli suggerì Monsignor Landolina. - Caro mio,
un sacerdote, tu intendi...
Don Arturo, tutto invermigliato in volto, le posò per terra e disse:
- Avevo pensato, Monsignore, di restituirle a quei poveri disgraziati...
- Disgraziati? No, perché? - lo interruppe subito Monsignor Landolina.
- Chi ti dice che sono disgraziati?
- Mah... - fece don Arturo. - Il solo fatto, Monsignore, che han dovuto ricorrere
a un prestito...
- I vizii, caro, i vizii! - esclamò Monsignor Landolina. - Le donne,
la gola, le triste ambizioni, l'incontinenza... Che disgraziati! Gente viziosa,
caro, gente viziosa. Vuoi darla a conoscere a me? Tu sei ragazzo inesperto.
Non ti fidare. Piangono, si sa! È così facile piangere... Difficile è non
peccare! Peccano allegramente; e, dopo aver peccato, piangono. Va' va'! Te
li insegno io quali sono i veri disgraziati, caro, poiché Dio t'ha ispirato
a venir da me. Sono tutti questi ragazzi sotto la mia custodia qua, frutto
delle colpe e dell'infamia di codesti tuoi signori disgraziati. Da' qua, da'
qua!
E, chinandosi, con le mani fe' cenno al Filomarino di raccattar da terra il
fascio delle cambiali.
Don Arturo lo guardò, titubante. Come, ora sì? Doveva prenderle
con le mani?
- Vuoi disfartene? Prendile! Prendile! - s'affrettò a rassicurarlo Monsignor
Landolina. - Prendile pure con le mani, sì! Leveremo subito da esse
il sigillo del demonio, e le faremo strumento di carità. Puoi ben toccarle
ora, se debbono servire per i miei poverini! Tu le dai a me, eh? Le dai a me;
e li faremo pagare, li faremo pagare, caro mio; vedrai se li faremo pagare,
codesti tuoi signori disgraziati!
Rise, così dicendo, d'un riso senza suono, con le bianche labbra appuntite
e con uno scotimento fitto fitto del capo.
Don Arturo avvertì, a quel riso, come un friggio per tutto il corpo,
e soffiò. Ma di fronte alla sicurezza sbrigativa con cui il superiore
si prendeva quei crediti a titolo di carità, non ardì replicare.
Pensò a tutti quegli infelici, che si stimavano fortunati d'esser caduti
in sua mano e tanto lo avevano pregato e tanto commosso col racconto delle
loro miserie. Cercò di salvarli almeno dal pagamento degli interessi.
- E no! E perché? - gli diede subito su la voce Monsignor Landolina.
- Dio si serve di tutto, caro mio, per le sue opere di misericordia! Di' un
po', di' un po', che interessi faceva tuo padre? Eh, forti, lo so! Almeno del
ventiquattro, mi par d'aver inteso. Bene; li tratteremo tutti con la stessa
misura. Pagheranno tutti il ventiquattro per cento.
- Ma... sa, Monsignore... veramente, ecco... - balbettò don Arturo su
le spine, - i miei coeredi, Monsignore, hanno stabilito di liquidare i loro
crediti con gl'interessi del cinque, e...
- Fanno bene! ah! fanno bene! - esclamò pronto e persuaso Monsignor
Landolina. - Loro sì, benissimo, perché questo è denaro
che va a loro! Il nostro no, invece. Il nostro andrà ai poveri, figliuolo
mio! Il caso è ben diverso, come vedi! È denaro che va ai poveri,
il nostro; non a te, non a me! Ti pare che faremmo bene noi, se defraudassimo
i poveri di quanto possono pretendere secondo il minimo dei patti stabiliti
da tuo padre? Sian pur patti d'usura, li santifica adesso la carità!
No no! Pagheranno, pagheranno gli interessi, altro che! gl'interessi del ventiquattro.
Non vengono a te; non vengono a me! Denaro dei poveri, sacrosanto! Va' pur
via senza scrupoli, figliuolo mio; ritorna subito a Roma ai tuoi diletti studii,
e lascia fare a me, qua. Tratterò io con codesti signori. Denaro dei
poveri, denaro dei poveri... Dio ti benedica, figliuolo mio! Dio ti benedica!
E Monsignor Landolina, animato da quell'esemplare, fervidissimo zelo di carità,
di cui meritamente godeva fama, arrivò fino al punto di non voler neppure
riconoscere che la cambiale dei quattro poveri fratelli Morlesi che dormivano
sempre, firmata per mille, fosse in realtà di cinquecento lire; e pretese
da loro, come da tutti gli altri, gl'interessi del ventiquattro per cento anche
su le cinquecento lire che non avevano mai avute.
E li voleva per giunta convincere, filando tra le labbra bianche que' suoi
grumetti di biascia, che fortunati erano davvero, fortunati, fortunati di fare,
anche nolenti, un'opera di carità, di cui certamente il Signore avrebbe
loro tenuto conto un giorno, nel mondo di là...
Piangevano?
- Eh! Il dolore vi salva, figliuoli!
VISTO CHE NON PIOVE... (Tonache di Montelusa)
Era ogni anno una sopraffazione indegna, una sconcia prepotenza di tutto il
contadiname di Montelusa contro i poveri canonici della nostra gloriosa Cattedrale.
La statua della SS. Immacolata, custodita tutto l'anno dentro un armadio a
muro nella sagrestia della chiesa di S. Francesco d'Assisi, il giorno otto
dicembre, tutta parata d'ori e di gemme, col manto azzurro di seta stellato
d'argento, dopo le solenni funzioni in chiesa, era condotta sul fercolo in
processione per le erte vie di Montelusa, tra le vecchie casupole screpolate,
pigiate, quasi l'una sull'altra; su, su, fino alla Cattedrale in cima al colle;
e lì lasciata, la sera, ospite del patrono S. Gerlando.
Nella Cattedrale, la SS. Immacolata avrebbe dovuto rimanere dalla sera del
giovedì alla mattina della domenica: due giorni e mezzo. Ma ormai, per
consuetudine, parendo troppo breve questo tempo, si lasciava stare per quella
prima domenica dopo la festa, e si aspettava la domenica seguente per ricondurla
con una nuova e più pomposa processione alla chiesa di S. Francesco.
Se non che, quasi ogni anno avveniva che il trasporto, quella seconda domenica,
non si potesse fare per il cattivo tempo e si dovesse rimandare a un'altra
domenica; e, di domenica in domenica, talvolta per più mesi di seguito.
Ora, questo prolungamento d'ospitalità, per se stesso, non sarebbe stato
niente, se la SS. Immacolata non avesse goduto per antichissimo privilegio
d'una prebenda durante tutto il tempo della sua permanenza alla Cattedrale.
Per tutti i giorni che la SS. Immacolata vi stava, era come se nel Capitolo
ci fosse un canonico in più: tirava, su le esequie e su tutto, proprio
quando un canonico; e i deputati della Congregazione sorvegliavano con tanto
d'occhi perché nulla Le fosse detratto di quanto Le spettava, affinché più splendida,
anche coi frutti di quella prebenda, potesse ogni anno riuscire la festa in
Suo onore. Questo, oltre a tutte le altre spese che gravavano sul Capitolo
per quella permanenza; spese e fatiche: cioè, funzioni ogni giorno,
ogni giorno predica, e spari di mortaretti e di razzi e, anche per il povero
sagrestano, lunghe scampanate tutte le mattine e tutte le sere.
Forse, per amore della SS. Vergine, i canonici della Cattedrale avrebbero sopportato
in pace e sottrazione e spese e fatiche, se nel contadiname di Montelusa non
si fosse radicata la credenza che la SS. Immacolata volesse rimanere nella
Cattedrale uno e due mesi a loro marcio dispetto; e che essi ogni anno pregassero
a mani giunte il cielo che non piovesse almeno la domenica che si doveva fare
il trasporto.
Giusto in quel tempo accadeva che i contadini per i loro seminati non fossero
mai paghi dell'acqua che il cielo mandava; e se davvero qualche anno non pioveva,
ecco che la colpa era dei canonici della Cattedrale, a cui non pareva l'ora
di levarsi d'addosso la SS. Immacolata.
Ebbene, a lungo andare e a furia di sentirselo ripetere, i canonici della Cattedrale
in verità s'erano presi a dispetto, non propriamente la Vergine, ma
quegli zotici villanacci, e più quei mezzi signori della Congregazione
che, non contenti di tener desta nell'animo dei contadini quella sconcia credenza
del loro dispetto per la Vergine, spingevano la tracotanza fino a spedirne
tre o quattro ogni sabato, sul far della sera, tra i più sfrontati,
su alla piazza innanzi alla Cattedrale, con l'incarico di mettersi a passeggiare
con le mani dietro la schiena e il naso all'aria, in attesa che uno del Capitolo
uscisse dalla chiesa, per domandargli con un riso scemo su le labbra:
- Scusi, signor Canonico, che prevede? pioverà o non pioverà domani?
Era, come si vede, anche un'intollerabile irriverenza.
Monsignor Partanna avrebbe dovuto farla cessare a ogni costo. Tanto più ch'era
notorio a tutti che quei fratelloni della Congregazione, nella frenesia di
far denari comunque, arrivavano fino a speculare indegnamente su la Madonna,
mettendo anche in pegno alla banca cattolica di San Gaetano gli ori, le gemme
e finanche il manto stellato, che la Madonna aveva ricevuto in dono dai fedeli
divoti.
Monsignor Vescovo avrebbe dovuto ordinare che il ritorno della SS. Immacolata
alla chiesa di San Francesco non andasse mai oltre la seconda domenica dopo
la festa, comunque fosse il tempo, piovesse o non piovesse. Tanto, non c'era
pericolo che si bagnasse sotto il magnifico baldacchino sorretto a turno dai
seminaristi di più robusta complessione.
Erano invece le donne dei contadini, le femmine dei popolo - o come ripetevano
i reverendi canonici del Capitolo - le sgualdrinelle, le sgualdrinelle, che
avevano paura di bagnarsi; e dicevano la Vergine! Non volevano sciuparsi gli
abiti di seta, con cui si paravano per quella processione dando uno spettacolo
di sacrilega vanità atteggiate tutte come la SS. Immacolata, con le
mani un po' levate e aperte innanzi al seno, piene d'anelli in tutte le dita,
con lo scialle di seta appuntato con gli spilli alle spalle, gli occhi volti
al cielo, e tutti i pendagli e tutti i lagrimoni degli orecchini e delle spille
e dei braccialetti, ciondolanti a ogni passo.
Ma Monsignor Vescovo non se ne voleva dar per inteso.
Forse, ora ch'era vecchio e cadente, aveva paura di bagnarsi anche lui e di
prendere un malanno, seguendo a capo scoperto il fercolo, sotto la pioggia;
e poco gl'importava che il povero vicario capitolare, Monsignor Lentini, fosse
ridotto, quell'anno, per le tante prediche, una al giorno, sempre su lo stesso
argomento, in uno stato da far compassione finanche alle panche della chiesa.
Erano già undici domeniche, undici, dall'otto dicembre, che il pover
uomo, levando il capo dal guanciale, chiedeva con voce lamentosa alla Piconella,
sua vecchia casiera, la quale ogni mattina veniva a recargli a letto il caffè:
- Piove?
E la Piconella non sapeva più come rispondergli. Perché pareva
veramente che il tempo si fosse divertito a straziare quel brav'uomo con una
incredibile raffinatezza di crudeltà. Qualche domenica era aggiornato
sereno, e allora la Piconella era corsa tutta esultante a darne l'annunzio
al suo Monsignor Vicario:
- Il sole, il sole! Monsignor Vicario, il sole!
E il sagrestano della Cattedrale dàgli a sonare a festa le campane, din
don dan, din don dan, ché certo la SS. Immacolata quella mattina,
prima di mezzogiorno, se ne sarebbe andata via.
Se non che, quando già alla piazza della Cattedrale era cominciata ad
affluir la gente per la processione e s'era finanche aperta la porta di ferro
su la scalinata presso il seminario, donde la SS. Vergine soleva uscire ogni
anno, e dal seminario erano arrivati a due a due in lungo ordine i seminaristi
parati coi camici trapunti, e tutt'in giro alla piazza erano stati disposti
i mortaretti, ecco sopravvenire in gran furia dal mare fra lampi e tuoni una
nuova burrasca.
Il sagrestano, dàgli di nuovo a sonar tutte le campane per scongiurarla,
sul fermento della folla che s'era messa intanto a protestare, indignata perché sotto
quella incombente minaccia del tempo i canonici volessero mandar via a precipizio
la Madonna.
E fischi e urli e invettive sotto il palazzo vescovile, finché Monsignor
Vescovo, per rimettere la calma, non aveva fatto annunziare da uno de' suoi
segretarii che la processione era rimandata alla domenica seguente, tempo permettendo.
Per ben cinque domeniche su undici s'era ripetuta questa scena.
Quell'undicesima domenica, appena la piazza fu sgombra, tutti i canonici del
Capitolo irruppero furenti nella casa del vicario capitolare, Monsignor Lentini.
A ogni costo, a ogni costo bisognava trovare un rimedio contro quella soperchieria
brutale!
Il povero vicario capitolare si reggeva la testa con le mani e guardava tutti
in giro come se fosse intronato.
S'erano avventati contro lui, più che contro gli altri, i fischi, gli
urli, le minacce della folla. Ma non era intronato per questo il povero vicario
capitolare. Dopo undici settimane, un'altra settimana di prediche su la SS.
Immacolata! In quel momento il pover uomo non poteva pensare ad altro, e a
questo pensiero, si sentiva proprio levar di cervello.
Il rimedio lo trovò Monsignor Landolina, il rettore terribile del Collegio
degli Oblati. Bastò che egli proferisse un nome, perché d'improvviso
si sedasse l'agitazione di tutti quegli animi.
- Il Mèola! Qua ci vuole il Mèola! Amici miei, bisogna ricorrere
al Mèola!
Marco Mèola, il feroce tribuno anticlericale, che quattr'anni addietro
aveva giurato di salvar Montelusa da una temuta invasione di padri Liguorini,
aveva ormai perduto ogni popolarità. Perché, pur essendo vero
da una parte che il giuramento era stato mantenuto, non era men vero dall'altra
che i mezzi adoperati e le arti che aveva dovuto usare per mantenerlo, e poi
quel ratto, e poi la ricchezza che glien'era derivata, non erano valsi a dar
credito alla dimostrazione ch'egli voleva fare, che il suo, cioè, era
stato un sacrifizio eroico. Se la nipote di Monsignor Partanna, infatti, la
educanda rapita, era brutta e gobba, belli e ballanti e sonanti erano i denari
della dote che il Vescovo era stato costretto a dargli; e, in fondo, i pezzi
grossi del clero montelusano, ai quali non era mai andata a sangue quella promessa
del loro Vescovo di far tornare i padri Liguorini, se non amici apertamente,
avevano di nascosto, anche dopo quella scappata, anzi appunto per quella scappata,
seguitato a veder di buon occhio Marco Mèola.
Tuttavia, ora, a costui doveva senza dubbio piacere che, senza rischio di guastarsi
coi segreti amici, gli si offrisse un'occasione per riconquistar la stima degli
antichi compagni, il prestigio perduto di tribuno anticlericale.
Orbene, bisognava mandar furtivamente al Mèola due fidati amici a proporgli
a nome dell'intero Capitolo di tenere per la ventura domenica una conferenza
contro le feste religiose in genere, contro le processioni sacre in ispecie,
togliendo a pretesto i deplorati disordini delle scorse domeniche, quegli urli,
quei fischi, quelle minacce del popolo per impedire il trasporto della SS.
Immacolata dalla Cattedrale alla chiesa di S. Francesco.
Sparso per tutto il paese con molto rumore l'annunzio di quella conferenza,
si sarebbe facilmente indotto il Vescovo a pubblicare un'indignata protesta
contro la patente violazione che della libertà del culto avevano in
animo di tentare i liberali di Montelusa, nemici della fede, e un invito sacro
a tutti i fedeli della diocesi perché la ventura domenica, con
qualunque tempo, piovesse o non piovesse, si raccogliessero nella
piazza della Cattedrale a difendere da ogni possibile ingiuria la venerata
immagine della SS. Immacolata.
Questa proposta di Monsignor Landolina fu accolta e approvata unanimemente
dai canonici del Capitolo.
Solo quel sant'uomo del vicario, Monsignor Lentini, osò invitare i colleghi
a considerare se non fosse imprudente sollevar disordini anche dall'altra parte,
andare a stuzzicar quel vespajo. Ma, suggeritagli l'idea che da quella conferenza
del Mèola avrebbe tratto argomento di predica per la settimana ventura
contro l'intolleranza che voleva impedire ai fedeli di manifestare la propria
divozione alla Vergine, con parecchi: - «Capisco, ma... capisco, ma...» -
alla fine si arrese.
La trovata di Monsignor Landolina ebbe un effetto di gran lunga superiore
a quello che gli stessi canonici del Capitolo se ne ripromettessero.
Dopo quattr'anni di silenzio, Marco Mèola si scagliò in piazza
con le furie d'un leone affamato. Dopo due giorni di vociferazioni nel circolo
degli impiegati civili, nel caffè di Pedoca, riuscì a promuovere
una tale agitazione, che Monsignor Vescovo fu costretto veramente a rispondere
con una fierissima pastorale e, nell'invito sacro, chiamò a raccolta
per la ventura domenica non solo tutti i fedeli di Montelusa ma anche quelli
dei paesi vicini.
«Piova pure a diluvio,» concludeva l'invito, «noi
siamo sicuri che la più fiera tempesta non smorzerà d'un punto
il vostro sacro e fervidissimo ardore. Piova pure a diluvio, domenica ventura
la SS. Immacolata uscirà dalla nostra gloriosa Cattedrale, e scortata
e difesa da tutti i fedeli della Diocesi, la SS. Ospite rientrerà nella
sua sede.»
Ma, neanche a farlo apposta, quella dodicesima domenica recò, dopo tanta
e così lunga intemperie, il riso della primavera, il primo riso, e con
tale dolcezza, che ogni turbolenza cadde d'un tratto, come per incanto, dagli
animi.
Al suono festivo delle campane, nell'aria chiara, tutti i Montelusani uscirono
a inebriarsi del voluttuoso tepore del primo sole della nuova stagione; ed
era su tutte le labbra un liquido sorriso di beatitudine e in tutte le membra
un delizioso languore, un'accorata voglia d'abbandonarsi in cordiali abbracci
fraterni.
Allora il vicario capitolare Monsignor Lentini, che dal lunedì al sabato
di quella dodicesima settimana aveva dovuto fare altre sei prediche su la SS.
Immacolata, con un filo di voce chiamò attorno a sé i canonici
del Capitolo e domandò loro, se non si potesse in qualche modo impedire
lo scandalo ormai inutile di quella conferenza anticlericale del Mèola,
per cui si sentiva come una spina nel cuore.
Si poteva esser certi che né per quel giorno sarebbe piovuto, né più per
mesi. Non poteva il Mèola darsi per ammalato e rimandar la conferenza
ad altro tempo, all'anno venturo magari, per la seconda domenica di pioggia
dopo l'otto dicembre?
- Eh già! Sicuro! - riconobbero subito i canonici. - Così il
rimedio non andrebbe sciupato!
I due fidati amici dell'altra volta furono rimandati in gran fretta dal Mèola.
Un raffreddore, una costipazione, un attacco di gotta, un improvviso abbassamento
di voce:
- Visto che non piove...
Il Mèola recalcitrò, inferocito. Rinunziare? rimandare? Ah no,
perdio, si pretendeva troppo da lui, ora ch'era riuscito a riacciuffare il
favore dei liberali di Montelusa!
- Va bene, - gli dissero quei due amici. - Se pioveva... Ma visto che non piove...
- Visto che non piove, - tuonò il Mèola - il signor Prefetto
della provincia che fa? Potrebbe lui solo, lui solo per ragioni d'ordine pubblico,
proibire ormai la conferenza! Andate subito dal Prefetto, visto che non piove,
e io potrò anche ricevere a letto, fra un'ora, con un febbrone da cavallo,
l'annunzio della proibizione!
Così la SS. Immacolata ritornò, senz'alcun disordine, alla chiesa
di S. Francesco d'Assisi dopo dodici domeniche di permanenza alla Cattedrale,
il giorno 25 di febbrajo. E il giubilo del popolo fu quell'anno veramente straordinario
per la sconfitta data dal bel tempo ai liberali di Montelusa.
FORMALITÀ
I.
Nell'ampio scrittojo del Banco Orsani, il vecchio commesso Carlo Bertone con
la papalina in capo, le lenti su la punta del naso come per spremere dalle
narici quei due ciuffetti di peli grigi, stava a fare un conto assai difficile
in piedi innanzi a un'alta scrivania, su cui era aperto un grosso libro mastro.
Dietro a lui, Gabriele Orsani, molto pallido e con gli occhi infossati, seguiva
l'operazione, spronando di tratto in tratto con la voce il vecchio commesso,
a cui, a mano a mano che la somma ingrossava, pareva mancasse l'animo d'arrivare
in fondo.
- Queste lenti... maledette! - esclamò a un certo punto, con uno scatto
d'impazienza, facendo saltare con una ditata le lenti dalla punta del naso
sul registro.
Gabriele Orsani scoppiò a ridere:
- Che ti fanno vedere codeste lenti? Povero vecchio mio, vah! Zero via zero,
zero...
Allora il Bertone, stizzìto, prese dalla scrivania il grosso libro:
- Vuol lasciarmi andare di là? Qua, con lei che fa così, creda,
non è possibile... Calma ci vuole!
- Bravo Carlo, sì, - approvò l'Orsani ironicamente. - Calma,
calma... E intanto - aggiunse, indicando il registro, - ti porti appresso codesto
mare in tempesta.
Andò a buttarsi su una sedia a sdrajo presso la finestra e accese una
sigaretta.
La tenda turchina, che teneva la stanza in una grata penombra, si gonfiava
a quando a quando a un buffo d'aria che veniva dal mare. Entrava allora con
la subita luce più forte il fragore del mare che si rompeva alla spiaggia.
Prima d'uscire, il Bertone propose al principale di dare ascolto a un signore «curioso» che
aspettava di là: nel frattempo lui avrebbe atteso in pace a quel conto
molto complicato.
- Curioso? - domandò Gabriele. - E chi è?
- Non so: aspetta da mezz'ora. Lo manda il dottor Sarti.
- E allora fallo passare.
Entrò, poco dopo, un ometto su i cinquant'anni, dai capelli grigi, pettinati
a farfalla, svolazzanti. Sembrava un fantoccio automatico, a cui qualcuno di
là avesse dato corda per fargli porgere quegli inchini e trinciar quei
gesti comicissimi.
Mani, ne aveva ancora due; occhi, uno solo; ma egli forse credeva sul serio
di dare a intendere d'averne ancora due, riparando l'occhio di vetro con una
caramella, la quale pareva stentasse terribilmente a correggergli quel piccolo
difetto di vista.
Presentò all'Orsani il suo biglietto da visita così concepito:
LAPO VANNETTI
Ispettore della
London Life Assurance Society Limited
(Capit. sociale L. 4.500.000 - Capit. versato L. 2.559.400)
- Prezatissimo signore! - cominciò, e non la finì più.
Oltre al difetto di vista, ne aveva un altro di pronunzia; e come cercava di
riparar quello dietro la caramella, cercava di nasconder questo appoggiando
una risatina sopra ogni zeta ch'egli pronunziava in luogo della c e
della g.
Invano l'Orsani si provò più volte a interromperlo.
- Son di passazzo per questa rispettabilissima provinzia, - badava a dir l'ometto
imperterrito, con vertiginosa loquela, - dove che per merito della nostra Sozietà,
la più antica, la più autorevole di quante ne esistano su lo
stesso zenere, ho concluso ottimi, ottimi contratti, sissignore, in tutte le
spezialissime combinazioni che essa offre ai suoi assoziati, senza dire dei
vantazzi ezzezionali, che brevemente le esporrò per ogni combinazione,
a sua scelta.
Gabriele Orsani si avvilì; ma il signor Vannetti vi pose subito riparo:
cominciò a far tutto da sé: domande e risposte, a proporsi dubbii
e a darsi schiarimenti:
- Qui Lei, zentilissimo signore, eh, lo so! potrebbe dirmi, obbiettarmi: Ecco,
sì, caro Vannetti, d'accordo: piena fiduzia nella vostra Compagnia;
ma, come si fa? per me è un po' troppo forte, poniamo, codesta tariffa;
non ho tanto marzine nel mio bilanzio, e allora... (ognuno sa gli affari di
casa sua, e qui Lei dize benissimo: Su questo punto, caro Vannetti, non ammetto
discussioni). Ecco, io però, zentilissimo signore, mi permetto di farle
osservare: E gli spezialissimi vantazzi che offre la nostra Compagnia? Eh,
lo so, dize Lei: tutte le Compagnie, qual più qual meno, ne offrono.
No, no, mi perdoni, signore, se oso mettere in dubbio codesta sua asserzione.
I vantazzi...
A questo punto, l'Orsani, vedendogli trarre da una cartella di cuojo un fascio
di prospettini a stampa, protese le mani, come in difesa:
- Scusi, - gridò. - Ho letto in un giornale che una Compagnia ha assicurato
non so per quanto la mano d'un celebre violinista: è vero?
Il signor Lapo Vannetti rimase per un istante sconcertato: poi sorrise e disse:
- Americanate! Sissignore. Ma noi...
- Glielo domando, - riprese, senza perder tempo, Gabriele, - perché anch'io,
una volta, sa?...
E fece segno di sonare il violino.
Il Vannetti, ancora non ben rimesso, credette opportuno congratularsene:
- Ah, benissimo! benissimo! Ma noi, scusi, veramente, non fazziamo di queste
operazioni.
- Sarebbe molto utile, però! - sospirò l'Orsani levandosi in
piedi. - Potersi assicurare tutto ciò che si lascia o si perde lungo
il cammino della vita: i capelli! i denti, per esempio! E la testa? La testa
che si perde così facilmente... Ecco: il violinista, la mano; uno zerbinotto,
i capelli; un crapulone, i denti; un uomo d'affari, la testa... Ci pensi! È una
trovata.
Si recò a premere un campanello elettrico alla parete, presso la scrivania,
soggiungendo:
- Permetta un momento, caro signore.
Il Vannetti, mortificato, s'inchinò. Gli parve che l'Orsani, per cavarselo
dai piedi, avesse voluto fare un'allusione, veramente poco gentile, al suo
occhio di vetro.
Rientrò nello scrittojo il Bertone, con un'aria vie più smarrita.
- Nel casellario del palchetto della tua scrivania, - gli disse Gabriele, -
alla lettera Z...
- I conti della zolfara? - domandò il Bertone.
- Gli ultimi, dopo la costruzione del piano inclinato...
Carlo Bertone chinò più volte il capo:
- Ne ho tenuto conto.
L'Orsani scrutò negli occhi del vecchio commesso; rimase accigliato,
assorto; poi gli domandò:
- Ebbene?
Il Bertone, impacciato, guardò il Vannetti.
Questi allora comprese ch'era di troppo, in quel momento; e, riprendendo il
suo fare cerimonioso, tolse commiato.
- Non z'è bisogno d'altro, con me. Capisco a volo. Mi ritiro. Vuol dire
che, se non Le dispiaze, io vado a prendere un bocconzino qui presso, e ritorno.
Non se ne curi. Stia comodo, per carità! So la via. A rivederla.
Ancora un inchino, e via.
II.
- Ebbene? - domandò di nuovo Gabriele Orsani al vecchio commesso, appena
uscito il Vannetti.
- Quella... quella costruzione... giusto adesso, - rispose, quasi balbettando,
il Bertone.
Gabriele s'adirò.
- Quante volte me l'hai detto? Che volevi che facessi, d'altra parte? Rescindere
il contratto, è vero? Ma se per tutti i creditori quella zolfara rappresenta
ancora la speranza della mia solvibilità... Lo so! lo so! Sono state
più di centotrenta mila lire buttate lì, in questo momento, senza
frutto... Lo so meglio di te!... Non mi far gridare.
Il Bertone si passò più volte le mani su gli occhi stanchi; poi,
dandosi buffetti su la manica, dove non c'era neppur l'ombra della polvere,
disse piano, come a se stesso:
- Ci fosse modo, almeno, d'aver danaro per muovere ora tutto quel macchinario,
che... che non è neanche interamente pagato. Ma abbiamo anche le scadenze
delle cambiali alla Banca...
Gabriele Orsani, che s'era messo a passeggiare per lo scrittojo, con le mani
in tasca, accigliato, s'arrestò:
- Quanto?
- Eh... - sospirò il Bertone,
- Eh... - rifece Gabriele; poi, scattando: - Oh, insomma! Dimmi tutto. Parla
franco: è finita? capitombolo? Sia lodata e ringraziata la buona e santa
memoria di mio padre! Volle mettermi qua, per forza: io ho fatto quello che
dovevo fare: tabula rasa: non se ne parli più!
- Ma no, non si disperi, ora... - disse il Bertone, commosso. - Certo lo stato
delle cose... Mi lasci dire!
Gabriele Orsani posò le mani su le spalle del vecchio commesso:
- Ma che vuoi dire, vecchio mio, che vuoi dire? Tremi tutto. Non così,
ora; prima, prima, con l'autorità che ti veniva da codesti capelli bianchi,
dovevi opporti a me, ai miei disegni, consigliarmi allora, tu che mi sapevi
inetto agli affari. Vorresti illudermi, ora, così? Mi fai pietà!
- Che potevo io?... - fece il Bertone, con le lagrime agli occhi.
- Nulla! - esclamò l'Orsani. - E neanche io. Ho bisogno di pigliarmela
con qualcuno, non te ne curare. Ma, possibile? io, io, qua,
messo a gli affari? Se non so vedere ancora quali siano stati, in fondo, i
miei sbagli... Lascia quest'ultimo della costruzione del piano inclinato, a
cui mi son veduto costretto con l'acqua alla gola... Quali sono stati i miei
sbagli?
Il Bertone si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi e aprì le mani,
come per dire: Che giova adesso?
- Piuttosto, i rimedii... - suggerì con voce opaca, di pianto.
Gabriele Orsani scoppiò di nuovo a ridere.
- Il rimedio lo so! Riprendere il mio vecchio violino, quello che mio padre
mi tolse dalle mani per dannarmi qua, a questo bel divertimento, e andarmene
come un cieco, di porta in porta, a far le sonatine per dare un tozzo di pane
ai miei figliuoli. Che te ne pare?
- Mi lasci dire, - ripeté il Bertone, socchiudendo gli occhi. - Tutto
sommato, se possiamo superare queste prossime scadenze, restringendo, naturalmente,
tutte, tutte le spese (anche quelle... mi scusi!... su, di casa), credo che...
almeno per quattro o cinque mesi potremo far fronte agli impegni. Nel frattempo...
Gabriele Orsani scrollò il capo, sorrise; poi, traendo un lungo sospiro,
disse:
- Fra Tempo è un monaco, vecchio mio, che vuol crearmi illusioni!
Ma il Bertone insistette nelle sue previsioni e uscì dallo scrittojo
per finir di stendere l'intero quadro dei conti.
- Glielo farò vedere. Mi permetta un momento.
Gabriele andò a buttarsi di nuovo su la sedia a sdrajo presso la finestra
e, con le mani intrecciate dietro la nuca, si mise a pensare.
Nessuno ancora sospettava di nulla; ma per lui, ormai, nessun dubbio: qualche
mese ancora di disperati espedienti, e poi il crollo, la rovina.
Da circa venti giorni, non si staccava più dallo scrittojo. Come se
lì, dal palchetto della scrivania, dai grossi libri di cassa, aspettasse
al varco qualche suggerimento. La violenta, inutile tensione del cervello a
mano a mano però, contro ogni sforzo, gli s'allentava, la volontà gli
s'istupidiva; ed egli se ne accorgeva sol quando, alla fine, si ritrovava attonito
o assorto in pensieri alieni, lontani dall'assiduo tormento.
Tornava allora a rimpiangere, con crescente esasperazione, la sua cieca, supina
obbedienza alla volontà del padre, che lo aveva tolto allo studio prediletto
delle scienze matematiche, alla passione per la musica, e gettato lì in
quel torbido mare insidioso dei negozii commerciali. Dopo tanti anni, risentiva
ancor vivo lo strazio che aveva provato nel lasciar Roma. Se n'era venuto in
Sicilia con la laurea di dottore in scienze fisiche e matematiche, con un violino
e un usignuolo. Beata incoscienza! Aveva sperato di potere attendere ancora
alla scienza prediletta, al prediletto strumento, nei ritagli di tempo che
i complicati negozii del padre gli avrebbero lasciato liberi. Beata incoscienza!
Una volta sola, circa tre mesi dopo il suo arrivo, aveva cavato dalla custodia
il violino, ma per chiudervi dentro, come in una degna tomba, l'usignoletto
morto e imbalsamato.
E ancora domandava a se stesso come mai il padre, tanto esperto nelle sue faccende,
non si fosse accorto dell'assoluta inettitudine del figliuolo. Gli aveva forse
fatto velo la passione ch'egli aveva del commercio, il desiderio che l'antica
ditta Orsani non venisse a cessare, e s'era forse lusingato che, con la pratica
degli affari, con l'allettamento dei grossi guadagni, a poco a poco il figlio
sarebbe riuscito ad adattarsi e a prender gusto a quel genere di vita.
Ma perché lagnarsi del padre, se egli si era piegato ai voleri di lui
senza opporre la minima resistenza, senza arrischiar neppure la più timida
osservazione, come a un patto fin dalla nascita stabilito e concluso e ormai
non più discutibile? se egli stesso, proprio per sottrarsi alle tentazioni
che potevano venirgli dall'ideale di vita ben diverso, fin allora vagheggiato,
s'era indotto a prender moglie, a sposar colei che gli era stata destinata
da gran tempo: la cugina orfana, Flavia?
Come tutte le donne di quell'odiato, in cui gli uomini, nella briga, nella
costernazione assidua degli affari rischiosi, non trovavan mai tempo da dedicare
all'amore, Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l'unica rosa lì tra
le spine, s'era invece acconciata subito, senza rammarico, come d'intesa, alla
parte modesta di badare alla casa, perché nulla mancasse al marito dei
comodi materiali, quando stanco, spossato, ritornava dalle zolfare o dal banco
o dai depositi di zolfo lungo la spiaggia, dove, sotto il sole cocente, egli
aveva atteso tutto il giorno all'esportazione del minerale.
Morto il padre quasi repentinamente, era rimasto a capo dell'azienda, nella
quale ancora non sapeva veder chiaro. Solo, senza guida, aveva sperato per
un momento di poter liquidare tutto e ritirarsi dal commercio. Ma sì!
Quasi tutto il capitale era impegnato nella lavorazione delle zolfare. E s'era
allora rassegnato ad andare innanzi per quella via, togliendo a guida quel
buon uomo del Bertone, vecchio scritturale del banco, a cui il padre aveva
sempre accordato la massima fiducia.
Che smarrimento sotto il peso della responsabilità piombatagli addosso
d'improvviso, resa anche più grave dal rimorso d'aver messo al mondo
tre figliuoli, minacciati ora dalla sua inettitudine nel benessere, nella vita!
Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d'una
macina. Era stato sempre doglioso il suo amore per la moglie, pe' figliuoli,
testimonii viventi della sua rinunzia a un'altra vita; ma ora gli attossicava
il cuore d'amara compassione. Non poteva più sentir piangere i bambini
o che si lamentassero minimamente; diceva subito a se stesso: - «Ecco,
per causa mia!» - e tanta amarezza gli restava chiusa in petto, senza
sfogo. Flavia non s'era mai curata nemmeno di cercar la via per entrargli nel
cuore; ma forse, nel vederlo mesto, assorto e taciturno, non aveva mai neppur
supposto ch'egli chiudesse in sé qualche pensiero estraneo a gli affari.
Anch'ella forse si rammaricava in cuor suo dell'abbandono in cui egli la lasciava;
ma non sapeva muovergliene rimprovero, supponendo che vi fosse costretto dalle
intricate faccende, dalle cure tormentose della sua azienda.
E certe sere vedeva la moglie appoggiata alla ringhiera dell'ampio terrazzo
della casa, alle cui mura veniva quasi a battere il mare.
Da quel terrazzo che pareva il cassero d'una nave, ella guardava assorta nella
notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell'infinita
distesa d'acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito
le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d'altre lontane
genti. Veniva di tanto in tanto dal porto il fischio roco, profondo, malinconico
di qualche vapore che s'apparecchiava a salpare. Che pensava in quell'atteggiamento?
Forse anche a lei il mare, col lamento delle acque irrequiete, confidava oscuri
presagi.
Egli non la richiamava: sapeva, sapeva bene che ella non poteva entrare nel
mondo di lui, giacché entrambi a forza erano stati spinti a lasciar
la propria via. E lì, nel terrazzo, sentiva riempirsi gli occhi di lagrime
silenziose. Così, sempre, fino alla morte, senza nessun mutamento? Nell'intensa
commozione di quelle tetre sere, l'immobilità della condizione della
propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti,
strani, quasi lampi di follia. Come mai un uomo, sapendo bene che si vive una
volta sola, poteva acconciarsi a seguire per tutta la vita una via odiosa?
E pensava a tanti altri infelici, costretti dalla sorte a mestieri più aspri
e più ingrati. Talvolta, un noto pianto, il pianto di qualcuno dei figliuoli
lo richiamava d'improvviso a sé. Anche Flavia si scoteva dal suo fantasticare;
ma egli si affrettava a dire: - Vado io! - Toglieva dal lettuccio il bambino
e si metteva a passeggiare per la camera, cullandolo tra le braccia, per riaddormentarlo
e quasi per addormentare insieme la sua pena. A poco a poco, col sonno della
creaturina, la notte diveniva più tranquilla anche per lui; e, rimesso
sul lettuccio il bambino, si fermava un tratto a guardare attraverso i vetri
della finestra, nel cielo, la stella che brillava di più...
Erano passati così nove anni. Sul principio di quest'anno, proprio quando
la posizione finanziaria cominciava a infoscarsi, Flavia s'era messa a eccedere
un po' troppo in certe spese di lusso; aveva voluto anche per sé una
carrozza; ed egli non aveva saputo opporsi.
Ora il Bertone gli consigliava di limitar tutte le spese e anche, anzi specialmente,
quelle di casa.
Certo il dottor Sarti, suo intimo amico fin dall'infanzia, aveva consigliato
a Flavia di cangiar vita, di darsi un po' di svago, per vincere la depressione
nervosa che tanti anni di chiusa, monotona esistenza le avevano cagionato.
A questa riflessione, Gabriele si scosse, si levò dalla sedia a sdrajo
e si mise a passeggiare per lo scrittojo, pensando ora all'amico Lucio Sarti,
con un sentimento d'invidia e con dispetto.
Erano stati insieme a Roma, studenti.
Tanto l'uno che l'altro, allora, non potevano stare un sol giorno senza vedersi;
e, fino a poco tempo addietro, quel legame antico di fraterna amicizia non
si era affatto rallentato. Egli si vietava assolutamente di fondar la ragione
di tal cambiamento su una impressione avuta durante l'ultima malattia d'uno
dei suoi bambini: che il Sarti cioè avesse mostrato esagerate premure
per sua moglie: impressione e null'altro, conoscendo a prova la rigidissima
onestà dell'amico e della moglie.
Era vero e innegabile tuttavia che Flavia s'accordava in tutto e per tutto
col modo di pensare del dottore: nelle discussioni, da qualche tempo molto
frequenti, ella assentiva sempre col capo alle parole di lui, ella che, di
solito, in casa, non parlava mai. Se n'era stizzito. O se ella approvava quelle
idee, perché non gliele aveva manifestate prima? perché non s'era
messa a discutere con lui intorno all'educazione dei figliuoli, per esempio,
se approvava i rigidi criterii del dottore, anziché i suoi? Ed era arrivato
finanche ad accusar la moglie di poco affetto pe' figli. Ma doveva pur dire
così, se ella, stimando in coscienza che egli educasse male i figliuoli,
aveva sempre taciuto, aspettando che un altro ne movesse il discorso.
Il Sarti, del resto, non avrebbe dovuto immischiarsene. Da un pezzo in qua,
pareva a Gabriele che l'amico dimenticasse troppe cose: dimenticasse per esempio
di dover tutto, o quasi tutto, a lui.
Chi, se non lui, infatti, lo aveva sollevato dalla miseria in cui le colpe
dei genitori lo avevano gettato? Il padre gli era morto in galera, per furti;
dalla madre, che lo aveva condotto con sé nella prossima città,
era fuggito, non appena con l'uso della ragione aveva potuto intravedere a
quali tristi espedienti era ricorsa per vivere. Ebbene, egli lo aveva tolto
da un misero caffeuccio in cui s'era ridotto a prestar servizio e gli aveva
trovato un posticino nel banco del padre; gli aveva prestato i suoi libri,
i suoi appunti di scuola, per farlo studiare; gli aveva insomma aperto la via,
schiuso l'avvenire.
E ora, ecco: il Sarti s'era fatto uno stato tranquillo e sicuro col suo lavoro,
con le sue doti naturali, senza dover rinunziare a nulla: era un uomo; mentre
lui... lui, all'orlo di un abisso!
Due colpi all'uscio a vetri, che dava nelle stanze riserbate all'abitazione,
riscossero Gabriele da queste amare riflessioni.
- Avanti, - disse.
E Flavia entrò.
III.
Indossava un vestito azzurro cupo, che pareva dipinto su la flessibile e formosa
persona, alla cui bellezza bionda dava un meraviglioso risalto. Portava in
capo un ricco e pur semplice cappello scuro; si abbottonava ancora i guanti.
- Volevo domandarti, - disse, - se non ti occorreva la carrozza, perchè il
bajo oggi non si può attaccare alla mia.
Gabriele la guardò, come se ella venisse, così elegante e leggera,
da un mondo fittizio, vaporoso, di sogno, dove si parlasse un linguaggio ormai
per lui del tutto incomprensibile.
- Come? - disse. - Perché?
- Mah, pare che l'abbiano inchiodato, poverino. Zoppica da un piede.
- Chi?
- Il bajo, non senti?
- Ah, - fece Gabriele, riscotendosi. - Che disgrazia, perbacco!
- Non pretendo che te ne affligga, - disse Flavia, risentita. - Ti ho domandato
la carrozza. Andrò a piedi.
E s'avviò per uscire.
- Puoi prenderla; non mi serve, - s'affrettò allora a soggiungere Gabriele.
- Esci sola?
- Con Carluccio, Aldo e la Titti sono in castigo.
- Poveri piccini! - sospirò Gabriele, quasi senza volerlo.
Parve a Flavia che questa commiserazione fosse un rimprovero per lei, e pregò il
marito di lasciarla fare.
- Ma sì, sì, se hanno fatto male, - diss'egli allora. - Pensavo
che, senza aver fatto nulla, si sentiranno forse, tra qualche mese, cader sul
capo un ben più grosso castigo.
Flavia si voltò a guardarlo.
- Sarebbe?
- Nulla, cara. Una cosa lievissima, come il velo o una piuma di codesto cappello.
La rovina, per esempio, della nostra casa. Ti basta?
- La rovina?
- La miseria, sì. E peggio forse, per me.
- Che dici?
- Ma sì, fors'anche... Ti fo stupire?
Flavia s'appressò, turbata, con gli occhi fissi sul marito, come in
dubbio ch'egli non dicesse sul serio.
Gabriele, con un sorriso nervoso su le labbra, rispose piano, con calma, alle
trepide domande di lei, come se non si trattasse della propria rovina; poi
nel veder la moglie sconvolta:
- Eh, mia cara! - esclamò. - Se ti fossi curata un tantino di me, se
avessi, in tanti anni, cercato d'intendere che piacere mi procurava questo
mio grazioso lavoro, non proveresti ora tanto stupore. Non tutti i sacrifizi
sono possibili. E quando un pover uomo è costretto a farne uno superiore
alle proprie forze...
- Costretto? Chi t'ha costretto? - disse Flavia, interrompendolo, poiché egli
con la voce aveva pigiato su quella parola.
Gabriele guardò la moglie, come frastornato dall'interruzione e dall'atteggiamento
di sfida, ch'ella, dominando ora l'interna agitazione, assumeva di fronte a
lui. Sentì come un rigurgito di bile salirgli alla gola e inaridirgli
la bocca. Riaprendo tuttavia le labbra al sorriso nervoso di prima, ora più squallido,
domandò:
- Spontaneamente, allora?
- Io, no! - soggiunse con forza Flavia, guardandolo negli occhi. - Se per me,
avresti potuto risparmiartelo, codesto sacrifizio. La miseria più squallida
io l'avrei mille volte preferita...
- Sta' zitta! - gridò egli infastidito. - Non lo dire, finché non
sai che cosa sia!
- La miseria? Ma che n'ho avuto io, della vita?
- Ah, tu? E io?
Rimasero un pezzo accesi e vibranti, l'uno di fronte all'altra, quasi sgomenti
del loro odio intimo reciproco, covato per tanti anni nascostamente e scoppiati
ora, all'improvviso, senza la loro volontà.
- Perché dunque ti lagni di me? - riprese Flavia con impeto. - Se io
di te non mi sono mai curata, e tu quando di me? Mi rinfacci ora il tuo sacrificio,
come se non fossi stata sacrificata anch'io, e condannata qua a rappresentare
per te la rinunzia alla vita che tu sognavi! E per me doveva esser questa,
la vita? Non dovevo sognar altro, io? Tu, nessun dovere d'amarmi. La catena
che t'imprigionava qua, a un lavoro forzato. Si può amar la catena?
E io dovevo esser contenta, è vero? che tu lavorassi, e non pretendere
altro da te. Non ho mai parlato. Ma tu mi provochi, ora.
Gabriele s'era nascosto il volto con le mani, mormorando di tratto in tratto:
- Anche questo!... anche questo!... - Alla fine proruppe:
- E anche i miei figli, è vero? verranno qua, adesso, a buttarmi in
faccia, come uno straccio inutile, il mio sacrifizio?
- Tu falsi le mie parole, - rispose ella, scrollando una spalla.
- Ma no! - seguitò Gabriele con foga mordace. - Non merito altro ringraziamento.
Chiamali! Chiamali! Io li ho rovinati; e me lo rinfacceranno con ragione!
- No! - s'affrettò a dir Flavia, intenerendosi per i figliuoli. - Poveri
piccini, non ti rinfacceranno la miseria... no!
Strizzò gli occhi, s'afferrò le mani e le scosse in aria.
- Come faranno? - esclamò. - Cresciuti così...
- Come? - scattò egli. - Senza guida, è vero? Anche questo mi
butteranno in faccia? Va', va' ad imbeccarli! Anche i rimproveri di Lucio Sarti,
per giunta?
- Che c'entra Lucio Sarti? - fece Flavia, stordita da quell'improvvisa domanda.
- Ripeti le sue parole, - incalzò Gabriele, pallidissimo, sconvolto.
- Non ti resta che da metterti sul naso le sue lenti da miope.
Flavia trasse un lungo sospiro e, socchiudendo gli occhi con calmo disprezzo,
disse:
- Chiunque sia per poco entrato nell'intimità della nostra casa, ha
potuto accorgersi...
- No, lui! - la interruppe Gabriele, con maggior violenza. - Lui soltanto!
lui che è cresciuto come un aguzzino di se stesso, perché suo
padre...
S'arrestò, pentito di ciò che stava per dire, e riprese:
- Non gliene fo carico; ma dico che lui aveva ragione di vivere com'ha vissuto,
vigilando, pauroso, rigido, ogni suo minimo atto: doveva sollevarsi, sotto
gli occhi della gente, dalla miseria, dall'ignominia, in cui lo avevano gettato
i suoi genitori. Ma i miei figliuoli, perché? Perché avrei dovuto
essere un tiranno, io, per i miei figliuoli?
- Chi dice tiranno? - si provò a osservare Flavia.
- Ma liberi, liberi! - proruppe egli. - Io volevo che crescessero liberi i
miei figliuoli, poiché io ero stato dannato qua da mio padre, a questo
supplizio! E come un premio mi ripromettevo, unico premio! di godere della
loro libertà, almeno, procacciata a costo del mio sacrifizio, della
mia esistenza spezzata... inutilmente, ora, inutilmente spezzata...
A questo punto, come se l'orgasmo a mano a mano cresciuto gli si fosse a un
tratto spezzato dentro, egli scoppiò in irrefrenabili singhiozzi; poi,
in mezzo a quel pianto strano, convulso, quasi rabbioso, alzò le braccia
tremanti, soffocato, e s'abbandonò, privo di sensi.
Flavia, smarrita, atterrita, chiamò ajuto. Accorsero dalle stanze del
banco il Bertone e un altro scritturale. Gabriele fu sollevato e adagiato sul
canapè, mentre Flavia, vedendogli il volto soffuso d'un pallore cadaverico
e bagnato del sudore della morte, smaniava, disperata:
- Che ha? che ha? Dio, ma guardi... Ajuto!... Ah, per causa mia!...
Lo scritturale corse a chiamare il dottor Sarti, che abitava lì vicino.
- Per causa mia!... per causa mia!... - ripeteva Flavia.
- No, signora, - le disse il Bertone, tenendo amorosamente un braccio sotto
il capo di Gabriele. - Da stamattina... Ma già, da un pezzo, qua...
Povero figliuolo... Se lei sapesse!
- So! So!
- E che vuole, dunque? Per forza!
Intanto urgeva, urgeva un rimedio. Che fare? Bagnargli le tempie? Sì...
ma meglio forse un po' d'etere. Flavia sonò il campanello; accorse un
cameriere:
- L'etere! la boccetta dell'etere: su, presto!
- Che colpo... che colpo, povero figliuolo! - si rammaricava piano il Bertone,
contemplando tra le lagrime il volto del padrone.
- La rovina... proprio? - gli domandò Flavia, con un brivido.
- Se m'avesse dato ascolto!... - sospirò il vecchio commesso. Ma egli,
poverino, non era nato per stare qui...
Ritornò di corsa il cameriere, con la boccetta dell'etere.
- Nel fazzoletto?
- No: meglio nella stessa boccetta! Qua... qua... - suggerì il Bertone.
- Vi metta il dito su... così, che possa aspirare pian piano...
Sopravvenne poco dopo, ansante, Lucio Sarti, seguito dallo scritturale.
Alto, dall'aspetto rigido, che toglieva ogni grazia alla fine bellezza dei
lineamenti quasi femminili, il Sarti portava, molto aderenti a gli occhi acuti,
un pajo di piccole lenti. Quasi senza notare la presenza di Flavia, egli scostò tutti,
e si chinò a osservare Gabriele; poi, rivolto a Flavia che affollava
di domande e d'esclamazioni la sua ansia angosciosa, disse con durezza:
- Non fate così, vi prego. Lasciatemi ascoltare.
Scoprì il petto del giacente, e vi poggiò l'orecchio, dalla parte
del cuore. Ascoltò un pezzo; poi si sollevò, turbato, e si tastò in
petto, come per cercare nelle tasche interne qualcosa.
- Ebbene? - chiese ancora Flavia.
Egli trasse lo stetoscopio, e domandò:
- C'è caffeina, in casa?
- No... io non so, - s'affrettò a rispondere Flavia. - Ho mandato a
prender l'etere...
- Non giova.
S'appressò alla scrivania, scrisse una ricetta, la porse allo scritturale.
- Ecco. Presto.
Subito dopo, anche il Bertone fu spedito di corsa alla farmacia per una siringhetta
da iniezioni, che il Sarti non aveva con sé.
- Dottore... - supplicò Flavia.
Ma il Sarti, senza darle retta, s'appressò di nuovo al canapè.
Prima di chinarsi a riascoltare il giacente, disse, senza voltarsi:
- Fate disporre per portarlo su.
- Va', va'! - ordinò Flavia al cameriere: poi, appena uscito questi,
afferrò per un braccio il Sarti e gli domandò, guardandolo negli
occhi: - Che ha? È grave? Voglio saperlo!
- Non lo so bene ancora neanche io, - rispose il Sarti con calma forzata.
Poggiò lo stetoscopio sul petto del giacente e vi piegò l'orecchio
per ascoltare. Ve lo tenne a lungo, a lungo, serrando di tratto in tratto gli
occhi, contraendo il volto, come per impedirsi di precisare i pensieri, i sentimenti
che lo agitavano, durante quell'esame. La sua coscienza turbata, sconvolta
da ciò che percepiva nel cuore dell'amico, era in quel punto incapace
di riflettere in sé quei pensieri e quei sentimenti, né egli
voleva che vi si riflettessero, come se ne avesse paura.
Quale un febbricitante che, abbandonato al bujo, in una camera, senta d'improvviso
il vento sforzar le imposte della finestra, rompendone con fracasso orribile
i vetri, e si trovi d'un tratto smarrito, vaneggiante, fuor del letto, contro
i lampi e la furia tempestosa della notte, e pur tenti con le deboli braccia
di richiudere le imposte; egli cercava d'opporsi affinché il pensiero
veemente dell'avvenire, la luce sinistra d'una tremenda speranza non irrompessero
in lui, in quel momento: quella stessa speranza, di cui tanti e tanti anni
addietro, liberatosi dall'incubo orrendo della madre, lusingato dall'incoscienza
giovanile, s'era fatta come una meta luminosa, alla quale gli era parso d'aver
qualche diritto d'aspirare per tutto quello che gli era toccato soffrire senza
sua colpa. Allora, ignorava che Flavia Orsani, la cugina del suo amico e benefattore,
fosse ricca, e che il padre di lei, morendo, avesse affidato al fratello le
sostanze della figliuola: la credeva un'orfana accolta per carità in
casa dello zio. E dunque, forte della testimonianza di ogni atto della sua
vita, intesa tutta a cancellare il marchio d'infamia che il padre e la madre
gli avevano inciso su la fronte; quando sarebbe ritornato in paese, con la
laurea di medico, e si sarebbe formata un'onesta posizione, non avrebbe potuto
chiedere agli Orsani, in prova dell'affetto che gli avevano sempre dimostrato,
la mano di quell'orfana, di cui già si lusingava di goder la simpatia?
Ma Flavia, poco dopo il ritorno di lui dagli studii, era diventata moglie di
Gabriele, a cui egli, è vero, non aveva mai dato alcun motivo di sospettare
il suo amore per la cugina. Sì; ma gliel'aveva pur tolta; e senza fare
la propria felicità, né quella di lei. Ah, non per lui soltanto
quelle nozze, ma per se stesse erano state un delitto; datava da allora la
sciagura di tutti e tre. Per tanti anni, come se nulla fosse stato, egli aveva
assistito in qualità di medico, in ogni occasione, la nuova famigliuola
dell'amico, celando sotto una rigida maschera impassibile lo strazio che la
triste intimità di quella casa senza amore gli cagionava, la vista di
quella donna abbandonata a se stessa, che pur dagli occhi lasciava intendere
quale tesoro d'affetti serbasse in cuore, non richiesti e neppur forse sospettati
dal marito; la vista di quei bambini che crescevano senza guida paterna. E
si era negato perfino di scrutar negli occhi di Flavia o d'avere da qualche
parola di lei un cenno fuggevole, una prova anche lieve che ella, da fanciulla,
si fosse accorta dell'affetto che gli aveva ispirato. Ma questa prova, non
cercata, non voluta, gli s'era offerta da sé in una di quelle occasioni,
in cui la natura umana spezza e scuote ogni imposizione, infrange ogni freno
sociale e si scopre qual è, come un vulcano che per tanti inverni si
sia lasciato cader neve e neve e neve addosso, a un tratto rigetta quel gelido
mantello e scopre al sole le fiere viscere infocate. E l'occasione era stata
appunto la malattia del bambino. Tutto immerso negli affari, Gabriele non aveva
neppur sospettato la gravità del male e aveva lasciato sola la moglie
a trepidare per la vita dei figliuolo; e Flavia in un momento di suprema angoscia,
quasi delirante, aveva parlato, s'era sfogata con lui, gli aveva lasciato intravedere
che ella aveva tutto compreso, sempre, sempre, fin dal primo momento.
E ora?
- Ditemi, per carità, dottore! - insistette Flavia, esasperata, nel
vederlo così sconvolto e taciturno. È grave assai?
- Sì, - rispose egli, cupo, bruscamente.
- Il cuore? Che male? Così all'improvviso? Ditemelo!
- Vi giova saperlo? Termini di scienza: che c'intendereste?
Ma ella volle sapere.
- Irreparabile? - chiese poi.
Egli si tolse le lenti, strizzò gli occhi, poi esclamò:
- Ah, non così, non così, credetemi! Vorrei potergli dare la
mia vita.
Flavia diventò pallidissima; guardò il marito, e disse più col
cenno che con la voce:
- Tacete.
- Voglio che lo sappiate, - aggiunse egli. - Ma già m'intendete, non è vero?
Tutto, tutto quello che mi sarà possibile... Senza pensare a me, a voi...
- Tacete, - ripeté ella, come inorridita.
Ma egli seguitò:
- Abbiate fiducia in me. Non abbiamo nulla da rimproverarci. Del male ch'egli
mi fece, non ha sospetto, e non ne avrà. Avrà tutte le cure che
potrà prestargli l'amico più devoto.
Flavia, ansante, vibrante, non staccava gli occhi dal marito.
- Si riscuote! - esclamò a un tratto.
Il Sarti si volse a guardare.
- No...
- Sì, s'è mosso, - aggiunse ella piano.
Rimasero un pezzo sospesi, a spiare. Poi egli si accostò al canapè,
si chinò sul giacente, gli prese il polso e chiamò:
- Gabriele... Gabriele...
IV.
Pallido, ancora un po' affannato per tutti i respiri che s'era affrettato
a trarre appena rinvenuto, Gabriele pregò la moglie di andarsene.
- Non mi sento più nulla. Prendi, prendi la carrozza e vai pure a passeggio,
- disse, per rassicurarla. - Voglio parlare con Lucio. Va'.
Flavia, per non dargli sospetto della gravità del male, finse d'accettar
l'invito; gli raccomandò tuttavia di non agitarsi troppo, salutò il
dottore e rientrò in casa.
Gabriele rimase un pezzo assorto, guardando la bussola per cui ella era uscita;
poi si recò una mano al petto, sul cuore, e seguitando a tener fissi
gli occhi, mormorò:
- Qua, è vero? Tu mi hai ascoltato... Io... Che cosa buffa! Mi pareva
che quel signor... come si chiama?... Lapo, sì: quell'ometto dall'occhio
di vetro, mi tenesse legato, qua; e non potevo svincolarmi; tu ridevi e dicevi: Insufficienza... è vero?... insufficienza
delle valvole aortiche...
Lucio Sarti, nel sentir proferire quelle parole da lui dette a Flavia, allibì.
Gabriele si scosse, si voltò a guardarlo e sorrise:
- T'ho sentito, sai?
- Che... che hai sentito? - balbettò il Sarti, con un sorriso squallido
su le labbra, dominandosi a stento.
- Quello che hai detto a mia moglie, - rispose, calmo, Gabriele, fissando di
nuovo gli occhi, senza sguardo. - Vedevo... mi pareva di vedere, come se avessi
gli occhi aperti... sì! Dimmi, ti prego, - aggiunse, riscotendosi, -
senza ambagi, senza pietose bugie: quanto posso vivere ancora? Quanto meno,
tanto meglio.
Il Sarti lo spiava, oppresso di stupore e di sgomento, turbato specialmente
da quella calma. Ribellandosi con uno sforzo supremo all'angoscia che lo istupidiva,
scattò.
- Ma che ti salta in mente?
- Un'ispirazione! - esclamò Gabriele, con un lampo negli occhi. - Ah,
perdio!
E sorse in piedi. Si recò ad aprir l'uscio che dava nella stanza del
banco e chiamò il Bertone.
- Senti, Carlo: se tornasse quell'ometto che è venuto stamattina, fallo
aspettare. Anzi manda subito a chiamarlo, o meglio: va' tu stesso! Subito,
eh?
Richiuse l'uscio e si voltò a guardare il Sarti, stropicciandosi le
mani, allegramente:
- Me l'hai mandato tu. Ah, l'acciuffo per quei capelli svolazzanti e lo pianto
qua, tra me e te. Dimmi, spiegami subito come si fa. Voglio assicurarmi. Tu
sei il medico della Compagnia, è vero?
Lucio Sarti, angosciato dal dubbio tremendo che l'Orsani avesse inteso tutto
quello ch'egli aveva detto a Flavia, rimase stordito a quella subitanea risoluzione;
gli parve senza nesso, ed esclamò, sollevato per il momento da un gran
peso:
- Ma è una pazzia!
- No, perché? - rispose, pronto, Gabriele. - Posso pagare, per quattro
o cinque mesi. Non vivrò più a lungo, lo so!
- Lo sai? - fece il Sarti, forzandosi a ridere. - E chi ti ha prescritto i
termini così infallibilmente? Va' là! va' là!
Rinfrancato, pensò che fosse una gherminella per fargli dire quel che
pensasse della sua salute. Ma Gabriele, assumendo un'aria grave, si mise a
parlargli del suo prossimo crollo inevitabile. Il Sarti sentì gelarsi.
Ora vedeva il nesso e la ragione di quella risoluzione improvvisa, e si sentì preso
al laccio, a una terribile insidia, ch'egli stesso, senza saperlo, si era tesa
quella mattina, inviando all'Orsani quell'ispettore della Compagnia d'Assicurazione,
di cui era il medico. Come dirgli, adesso, che non poteva in coscienza prestarsi
ad ajutarlo, senza fargli intendere nello stesso tempo la disperata gravità del
male, che gli s'era così d'un colpo rivelato?
- Ma tu, col tuo male, - disse, - puoi vivere ancora a lungo, a lungo, mio
caro, purché t'abbi un po' di riguardo...
- Riguardo? Come? - gridò Gabriele. - Son rovinato, ti dico! Ma tu ritieni
che io possa vivere ancora a lungo? Bene. E allora, se è vero questo,
non avrai difficoltà...
- E i tuoi calcoli allora? - osservò il Sarti con un sorriso di soddisfazione,
e aggiunse, quasi per il piacere di chiarire a se stesso quella felice scappatoja,
che gli era balenata all'improvviso: - Se dici che per tre o quattro mesi soltanto
potresti far fronte...
Gabriele rimase un po' sopra pensiero.
- Bada, Lucio! Non ingannarmi, non mettermi davanti questa difficoltà per
avvilirmi, per non farmi commettere un'azione che tu disapprovi, è vero?
e a cui non vorresti partecipare, sia pure con poca o nessuna tua responsabilità...
- T'inganni! - scappò detto al Sarti.
Gabriele sorrise allora amaramente.
- Dunque è vero, - disse, - dunque tu sai che io sono condannato, tra
poco, forse prima ancora del tempo calcolato da me. Ma già, ti ho sentito.
Basta, dunque! Si tratta ora di salvare i miei figliuoli. E li salverò!
Se m'ingannassi, non dubitare, saprei procurarmi a tempo la morte, di nascosto.
Lucio Sarti si alzò, scrollando le spalle, e cercò con gli occhi
il cappello.
- Vedo che tu non ragioni, mio caro. Lascia che me ne vada.
- Non ragiono? - disse Gabriele, trattenendolo per un braccio. - Vieni qua!
Ti dico che si tratta di salvare i miei figliuoli! Hai capito?
- Ma come vuoi salvarli? Vuoi salvarli sul serio, così?
- Con la mia morte.
- Pazzie! Ma scusa, vuoi ch'io stia qua a sentir codesti discorsi?
- Sì - disse con violenza Gabriele, senza lasciargli il braccio. - Perché tu
devi ajutarmi.
- A ucciderti? - domandò il Sarti, con tono derisorio.
- No: a questo, se mai, ci penserò io...
- E allora... a ingannare? a... a rubare, scusa?
- Rubare? A chi rubo? Rubo per me? Si tratta d'una Società esposta per
se stessa al rischio di siffatte perdite... Lasciami dire! Quel che perde con
me, lo guadagnerà con cento altri. Ma chiamalo pur furto... Lascia fare!
Ne renderò conto a Dio. Tu non c'entri.
- T'inganni! - ripeté con più forza il Sarti.
- Viene forse a te quel danaro? - gli domandò allora Gabriele, figgendogli
gli occhi negli occhi. - L'avrà mia moglie e quei tre poveri innocenti.
Quale sarebbe la tua responsabilità?
D'un tratto, sotto lo sguardo acuto dell'Orsani, Lucio Sarti comprese tutto:
comprese che Gabriele aveva bene udito e che si frenava ancora perché voleva
prima raggiungere il suo scopo: porre cioè un ostacolo insormontabile
fra lui e la moglie, facendolo suo complice in quella frode. Egli, infatti,
medico della Compagnia, dichiarando ora sano Gabriele, non avrebbe poi potuto
far più sua Flavia, vedova, a cui sarebbe venuto il premio dell'assicurazione,
frutto del suo inganno. La Società avrebbe agito, senza dubbio, contro
di lui. Ma perché tanto e così feroce odio fin oltre la morte?
Se egli aveva udito, doveva pur sapere che nulla, nulla aveva da rimproverare
né a lui, né alla moglie. Perché, dunque?
Sostenendo lo sguardo dell'Orsani, risoluto a difendersi fino all'ultimo, gli
domandò con voce mal ferma:
- La mia responsabilità, tu dici, di fronte alla Compagnia?
- Aspetta! - riprese Gabriele, come abbagliato dall'efficacia stringente del
suo ragionamento. - Devi pensare che io sono tuo amico da prima assai che tu
diventassi il medico di codesta Compagnia. È vero?
- È vero... ma... - balbettò Lucio.
- Non turbarti! Non voglio rinfacciarti nulla; ma solo farti osservare che
tu, in questo momento, in queste condizioni, pensi, non a me, come dovresti,
ma alla Compagnia...
- Al mio inganno! - replicò il Sarti, fosco.
- Tanti medici s'ingannano! - ribatté subito Gabriele. - Chi te ne può accusare?
Chi può dire che in questo momento io non sia sano? Vendo salute! Morrò di
qui a cinque o sei mesi. Il medico non può prevederlo. Tu non lo prevedi.
D'altra parte, il tuo inganno, per te, per la tua coscienza, è carità d'amico.
Annichilito, col capo chino, il Sarti si tolse le lenti, si stropicciò gli
occhi; poi, losco, con le palpebre semichiuse, tentò con voce tremante
l'estrema difesa:
- Preferirei - disse, - dimostrartela altrimenti, questa che tu chiami carità d'amico.
- E come?
- Ricordi dove morì mio padre e perché?
Gabriele lo guatò, stordito; bisbigliò tra sé:
- Che c'entra?
- Tu non sei al mio posto, - rispose il Sarti, risoluto, aspro, rimettendosi
le lenti. - Non puoi giudicarne. Ricordati come sono cresciuto. Ti prego, lasciami
agire correttamente, senza rimorsi.
- Non capisco, - rispose Gabriele con freddezza, - che rimorso potrebbe essere
per te l'aver beneficato i miei figliuoli...
- Col danno altrui?
- Io non l'ho cercato.
- Sai di farlo!
- So qualche altra cosa che mi sta più a cuore e che dovrebbe stare
a cuore anche a te. Non c'è altro rimedio! Per un tuo scrupolo, che
non può essere anche mio ormai, vuoi che rigetti questo mezzo che mi
si offre spontaneo, quest'ancora che tu, tu stesso m'hai gettata?
S'appressò all'uscio, ad origliare, facendo cenno al Sarti di non rispondere.
- Ecco, è venuto!
- No, no, è inutile, Gabriele! - gridò allora il Sarti, risolutamente.
- Non costringermi!
L'Orsani lo afferrò per un braccio:
- Bada, Lucio! È l'ultima mia salvezza.
- Non questa, non questa! - protestò il Sarti. - Senti, Gabriele: Quest'ora
sia sacra per noi. Io ti prometto che i tuoi figliuoli...
Ma Gabriele non lo lasciò finire:
- L'elemosina? - disse, con un ghigno.
- No! - rispose Lucio, pronto. - Renderei a loro quel che m'ebbi da te!
- A qual titolo? Come vorresti provvedere ai miei figliuoli? Tu? Hanno una
madre! A qual titolo? Non di semplice gratitudine, è vero? Tu menti!
Per altro fine ti ricusi, che non puoi confessare.
Così dicendo, lo afferrò per le spalle e lo scosse, intimandogli
di parlar piano e domandandogli fino a che punto avesse osato ingannarlo. Il
Sarti tentò di svincolarsi, difendendo dall'atroce accusa sé e
Flavia e rifiutandosi ancora di cedere a quella violenza.
- Voglio vederti! - ruggì a un tratto fra i denti l'Orsani.
D'un balzo aprì l'uscio e chiamò il Vannetti, mascherando subito
l'estrema concitazione con una tumultuosa allegria:
- Un premio, un premio, - gridò, investendo l'ometto cerimonioso, -
un grosso premio, signor ispettore, all'amico nostro, al nostro dottore, che
non è soltanto il medico della Compagnia, ma il suo più eloquente
avvocato. M'ero quasi pentito; non volevo saperne... Ebbene, lui, lui mi ha
persuaso, mi ha vinto... Gli dia, gli dia subito da firmare la dichiarazione
medica: ha premura, deve andar via. Poi noi stabiliremo il quanto e il come...
Il Vannetti, felicissimo, tra uno scoppiettio di esclamazioni ammirative e
di congratulazioni, trasse dalla cartella un modulo a stampa, e ripetendo:
- Formalità... formalità... - lo porse a Gabriele.
- Ecco, scrivi, - disse questi, rimettendo il modulo al Sarti, che assisteva
come trasognato a quella scena e vedeva ora in quell'omiciattolo sbricio, quasi
artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino.
IL VENTAGLINO
Il giardinetto pubblico, meschino e polveroso, in quel torrido pomeriggio
d'agosto era quasi deserto, in mezzo alla vasta piazza cinta tutt'intorno da
alte case giallicce, assopite nell'afa.
Tuta vi entrò, col bambino in braccio.
Su un sedile in ombra, un vecchietto magro, perduto in un abito grigio d'alpagà,
teneva in capo un fazzoletto. Sul fazzoletto, il cappelluccio di paglia ingiallito.
Aveva rimboccato diligentemente le maniche sui polsi e leggeva un giornale.
Accanto, sullo stesso sedile, un operajo disoccupato dormiva con la testa tra
le braccia, appoggiato di traverso.
Di tanto in tanto, il vecchietto interrompeva la lettura e si voltava a osservare
con una certa ambascia il suo vicino, a cui stava per cader dal capo il cappellaccio
unto, ingessato. Evidentemente quel cappellaccio, chi sa da quanto tempo così in
bilico, cado e non cado, cominciava a esasperarlo: avrebbe voluto rassettarglielo
sul capo o buttarglielo giù con una ditata. Sbuffava; poi volgeva un'occhiata
ai sedili intorno, chi sa gli avvenisse di scoprirne qualche altro in ombra.
Ce n'era uno solo poco discosto; ma vi stava seduta una vecchia grassa, cenciosa,
la quale, ogni volta che lui si voltava a guardare, spalancava la bocca sdentata
a un formidabile sbadiglio.
Tuta s'appressò sorridente, pian pianino, in punta di piedi. Si pose
un dito su le labbra, per segno di far silenzio; poi, adagio adagio, prese
con due dita il cappellaccio al dormente e glielo rimise a posto sul capo.
Il vecchio stette a seguir con gli occhi tutti quei movimenti, prima sorpreso,
poi aggrondato.
- Co' la bona grazia, signo', - gli disse Tuta, ancora sorridente e inchinandosi,
come se il servizio lo avesse reso a lui e non all'operajo che dormiva. - Da'
'n sordo a sta pôra creatura.
- No! - rimbeccò subito il vecchietto con stizza (chi sa perché),
e abbassò gli occhi sul giornale.
- Tiramo a campà! - sospirò Tuta. - Dio pruvede.
E andò a sedere di là, su l'altro sedile, accanto alla vecchia
cenciosa, con la quale attaccò subito discorso.
Aveva appena vent'anni; bassotta, formosa, bianchissima di carnagione, coi
capelli lucidi, neri, spartiti sul capo, stirati sulla fronte e annodati in
fitte treccioline dietro la nuca. Gli occhi furbi le brillavano, quasi aggressivi.
Si mordeva di tanto in tanto le labbra. E il nasino all'insù, un po'
storto, le fremeva.
Raccontava alla vecchia la sua sventura. Il marito...
Fin da principio la vecchia le rivolse un'occhiata, che poneva i patti della
conversazione, cioè: uno sfogo, sì, era disposta a offrirglielo;
ma ingannata, no, non voleva essere, ecco.
- Marito vero?
- Semo sposati co' la chiesa.
- Ah, be', co' la chiesa.
- E ched'è? nun è marito?
- No, fija: nun serve.
- Come nun serve?
- Lo sai, nun serve.
Eh sì, difatti, la vecchia aveva ragione. Non serviva. Da un pezzo,
difatti, quell'uomo voleva liberarsi di lei, e per forza l'aveva mandata a
Roma, perché cercasse di allogarsi per balia. Ella non voleva venire;
capiva ch'era troppo tardi, poiché il bambino aveva già circa
sette mesi. Era stata quindici giorni in casa d'un sensale, la cui moglie,
per rifarsi delle spese e per aver pagato l'alloggio, aveva osato alla fine
di proporle...
- Capischi? A me!
Dalla «collera» le era andato addietro il latte. E ora non ne aveva
più, neanche per la sua creatura. La moglie del sensale le aveva preso
gli orecchini e s'era tenuto anche il fagottello con cui era venuta dal paese.
Da quella mattina era in mezzo alla strada.
- Pe' davero, sa'!
Tornare al paese non poteva e non voleva: il marito non se la sarebbe ripresa.
Che fare, intanto, con quel bambino che le legava le braccia? Certo, non avrebbe
trovato neppure da mettersi per serva.
La vecchia l'ascoltava con diffidenza, perché ella diceva quelle cose,
come se non ne fosse affatto disperata; anzi, ripetendo spesso quel suo: - Pe'
davero, sa'! - sorrideva.
- Di dove sei? - le domandò la vecchia.
- De Core.
E restò un pezzo come se rivedesse col pensiero il paesello lontano.
Poi si scosse; guardò il piccino e disse:
- Addo' lo lascio? Qua pe' tera? Pôro cocco mio saporito!
Lo sollevò su le braccia e lo baciò forte forte, più volte.
La vecchia disse:
- L'hai fatto? Te lo piagni.
- Io l'ho fatto? - si rivoltò la giovane. - Be', l'ho fatto e Dio m'ha
castigato. Ma patisce pure lui, pôro innocente! E c'ha fatto, lui? Va',
Dio nun fa le cose giuste. E si nun le fa lui, figùrete noi. Tiramo
a campà!
- Mondo, mondo! - sospirò la vecchia, levandosi in piedi a stento.
- È 'n gran penà! - aggiunse, scrollando il capo, un'altra vecchia
asmatica, corpulenta, che passava di lì, appoggiandosi a un bastoncino.
L'altra cavò fuori di tra i cenci un sacchetto sudicio che le pendeva
dalla cintola, nascosto sotto la veste, e ne trasse un tozzo di pane.
- Tiè, lo vuoi?
- Sì. Dio te lo paghi, - s'affrettò a risponderle Tuta. - Me
lo magno. Ce credi che so' digiuna da stamattina?
Ne fece due pezzi: uno, più grosso, per sé; cacciò l'altro
fra gli esili ditini rosei del bimbo, che non si volevano aprire.
- Pappa, Nino. Bono, sa'! 'Na sciccheria! Pappa, pappa.
La vecchia se n'andò, strascicando i piedi, insieme con l'altra dal
bastoncino.
Il giardinetto s'era già un po' animato. Il custode annaffiava le piante.
Ma neppure alle trombate d'acqua si volevano destare dal sogno in cui parevano
assorti - sogno d'una tristezza infinita - quei poveri alberi sorgenti dalle
ajuole rade, fiorite di bucce, di gusci d'uovo, di pezzetti di carta, e riparate
da stecchi e spuntoni qua e là sconnessi o da un giro di roccia artificiale,
in cui s'incavavano i sedili.
Tuta si mise a guardar la vasca bassa, rotonda, che sorgeva in mezzo, la cui
acqua verdastra stagnava sotto un velo di polvere, che si rompeva a quando
a quando al tonfo di qualche buccia lanciata dalla gente che sedeva attorno.
Già il sole stava per tramontare, e quasi tutti i sedili erano ormai
in ombra.
In uno lì accanto venne a sedere una signora su i trent'anni, vestita
di bianco. Aveva i capelli rossi, come di rame, arruffati, e il viso lentigginoso.
Come se non ne potesse più dal caldo, cercava di scostarsi dalle gambe
un ragazzo scontroso, giallo come la cera, vestito alla marinara; e intanto
guardava di qua e di là, impaziente, strizzando gli occhi miopi, come
se aspettasse qualcuno; e tornava di tratto in tratto a spingere il ragazzo,
perché si trovasse più là qualche compagno di giuoco.
Ma il ragazzo non si moveva; teneva gli occhi fissi su Tuta che mangiava il
pane. Anche Tuta guardava e osservava intenta la signora e quel ragazzo; a
un tratto disse:
- Lei, signo', co' la bona grazia, si tante vorte je servisse 'na donna pe'
fa' er bucato o a mezzo servizio... No? Embè!
Poi, vedendo che il ragazzo malaticcio non staccava gli occhi da lei e non
voleva cedere ai ripetuti inviti della madre, lo chiamò a sé:
- Vôi vede er pupetto? Viello a vede, carino, vie'.
Il ragazzo, spinto violentemente dalla madre, s'accostò; guardò un
pezzo il bambino con gli occhi invetrati come quelli d'un gatto fustigato;
poi gli strappò dalla manina il tozzo di pane. Il bambino si mise a
strillare.
- No! pôro pupo! - esclamò Tuta. - J'hai levato er pane? Piagne
mo', vedi? Ha fame... Dàjene armeno un pezzetto.
Alzò gli occhi per chiamare la madre del ragazzo, ma non la vide più sul
sedile: parlava là in fondo, concitatamente, con un omaccione barbuto
che l'ascoltava disattento, con un curioso sorriso sulle labbra, le mani dietro
la schiena e il cappellaccio bianco buttato su la nuca. Il bambino intanto
seguitava a strillare.
- Be', - fece Tuta, - te lo levo io un pezzetto...
Allora anche il ragazzo si mise a strillare. Accorse la madre, a cui Tuta, co'
la bona grazia, spiegò ciò che era accaduto. Il ragazzo
stringeva con le due mani al petto il tozzo di pane, senza volerlo cedere,
neppure alle esortazioni della madre.
- Lo vuoi davvero? E te lo mangi, Ninnì? - disse la signora rossa. -
Non mangia niente, sapete, niente: sono disperata! Magari lo volesse davvero...
Sarà un capriccio... Lasciateglielo, per piacere.
- Be', sì, volentieri, - fece Tuta. - Tiello, cocco, magnalo tu...
Ma il ragazzo corse alla vasca e vi buttò il tozzo di pane.
- Ai pescetti, eh Ninnì? - esclamò allora Tuta, ridendo. - E
sta pôra creatura mia ch'è digiuna... Nun ciò latte, nun
ciò casa, nun ciò gnente... Pe' davero, sape', signo'... Gnente!
La signora aveva fretta di ritornare a quell'uomo che l'aspettava di là:
trasse dalla borsetta due soldi e li diede a Tuta.
- Dio te lo paghi, - le disse dietro, questa. - Su, su, sta' bono, cocco mio:
te ce crompo la bobona, sa'! Ci avemo fatto du' bajocchi cor pane de la vecchia.
Zitto, Nino mio! Mo' semo ricchi...
Il bimbo si quietò. Ella rimase, coi due soldi stretti in una mano,
a guardar la gente che già popolava il giardinetto: ragazzi, balie,
bambinaje, soldati...
Era un gridio continuo.
Tra le ragazze che saltavano la corda, e i ragazzi che si rincorrevano, e i
bambini strillanti in braccio alle balie che chiacchieravano placidamente tra
loro, e le bambinaie che facevano all'amore coi soldati, si aggiravano i venditori
di lupini, di ciambelle o d'altre golerie.
Gli occhi di Tuta s'accendevano, talvolta, e le labbra le s'aprivano a uno
strano sorriso.
Proprio nessuno voleva credere che ella non sapeva più come fare, dove
andare? Stentava a crederlo lei stessa. Ma era proprio così. Era entrata
là, in quel giardinetto, per cercarvi un po' d'ombra; vi si tratteneva
da circa un'ora; poteva rimanervi fino a sera; e poi? dove passar la notte,
con quella creatura in braccio? e il giorno dopo? e l'altro appresso? Non aveva
nessuno, nemmeno là al paese, tranne quell'uomo che non voleva più saperne
di lei; e, del resto, come tornarci? - Ma allora? Nessuna via di scampo? Pensò a
quella vecchia strega che le aveva tolto gli orecchini e il fagotto. Tornare
da lei? Il sangue le montò alla testa. Guardò il suo piccino,
che s'era addormentato.
- Eh, Nino, ar fiume tutt'e dua? Così...
Sollevò le braccia, come per buttarlo. E lei, appresso. - Ma che, no!
- Rialzò il capo e sorrise, guardando la gente che le passava davanti.
Il sole era tramontato, ma il caldo persisteva, soffocante. Tuta si sbottonò il
busto alla gola, rimboccò in dentro le due punte, scoprendo un po' del
petto bianchissimo.
- Caldo?
- Se more!
Le stava davanti un vecchietto con due ventagli di carta infissi nel cappello,
altri due in mano, aperti, sgargianti, e una cesta al braccio, piena di tant'altri
ventaglini alla rinfusa, rossi, celesti, gialli.
- Du' bajocchi!
- Vattene! - disse Tuta, dando una spallata. - De che so? de carta?
- E di che lo vuoi? de seta?
- Mbè, perché no? - fece Tuta, guardandolo con un sorriso di
sfida; poi schiuse la mano in cui teneva i due soldi, e aggiunse: - Ciò questi
du' bajocchi soli. Pe' 'n sordo me lo dai?
Il vecchio scosse il capo, dignitosamente.
- Du' bajocchi? Manco pe' fallo!
- Be', mannaggia a tene! Dammelo. Moro de callo. Er pupo dorme... Tiramo a
campà. Dio pruvede.
Gli diede i due soldi, prese il ventaglino e, tirandosi più giù la
rimboccatura sul petto, cominciò a farsi vento vento vento lì sul
seno quasi scoperto, e a ridere e a guardare, spavalda, con gli occhi lucenti,
invitanti, aizzosi, i soldati che passavano.
E DUE!
Dopo aver vagato a lungo per il quartiere addormentato dei Prati di Castello,
rasentando i muri delle caserme, sfuggendo istintivamente il lume dei lampioni
sotto gli alberi dei lunghissimi viali, pervenuto alla fine sul Lungotevere
dei Mellini, Diego Bronner montò, stanco, sul parapetto dell'argine
deserto e vi si pose a sedere, volto verso il fiume, con le gambe penzoloni
nel vuoto.
Non un lume acceso nelle case di fronte, della Passeggiata di Ripetta, avvolte
nell'ombra e stagliate nere nel chiaror lieve e ampio che, di là da
esse, la città diffondeva nella notte. Immobili, le foglie degli alberi
del viale, lungo l'argine. Solo, nel gran silenzio, s'udiva un lontanissimo
zirlio di grilli e - sotto - il cupo borbogliare delle acque nere del fiume,
in cui, con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell'argine
opposto.
Correva per il cielo una trama fitta d'infinite nuvolette lievi, basse, cineree,
come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante,
a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall'alto, le passasse in rassegna.
Il Bronner stette un pezzo col volto in su a contemplar quella fuga, che animava
con così misteriosa vivacità il silenzio luminoso di quella notte
di luna. A un tratto udì un rumor di passi sul vicino ponte Margherita
e si volse a guardare.
Il rumore dei passi cessò.
Forse qualcuno, come lui, s'era messo a contemplare quelle nuvolette e la luna
che le passava in rassegna, o il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell'acqua
nera fluente.
Trasse un lungo sospiro e tornò a guardare in cielo, un po' infastidito
della presenza di quell'ignoto, che gli turbava il triste piacere di sentirsi
solo. Ma egli, qua, era nell'ombra degli alberi: pensò che colui, dunque,
non avrebbe potuto scorgerlo; e quasi per accertarsene, si voltò di
nuovo a guardare.
Presso un fanale imbasato sul parapetto del ponte scorse un uomo in ombra.
Non comprese dapprima che cosa colui stesse a far lì, silenziosamente.
Gli vide posare come un involto su la cimasa, a piè del fanale. - Involto?
No: era il cappello. E ora? che! Possibile? Ora scavalcava il parapetto. Possibile?
Istintivamente il Bronner si trasse indietro col busto, protendendo le mani
e strizzando gli occhi; si restrinse tutto in sé; udì il tonfo
terribile nel fiume.
Un suicidio? Così?
Riaprì gli occhi, riaffondò lo sguardo nel bujo. Nulla. L'acqua
nera. Non un grido. Nessuno. Si guardò attorno. Silenzio, quiete. Nessuno
aveva veduto? nessuno udito? E quell'uomo intanto affogava... E lui non si
moveva, annichilito. Gridare? Troppo tardi, ormai. Raggomitolato nell'ombra,
tutto tremante, lasciò che la sorte atroce di quell'uomo si compisse,
pur sentendosi schiacciare dalla complicità del suo silenzio con la
notte, e domandandosi di tratto in tratto: «Sarà finito? sarà finito?» come
se con gli occhi chiusi vedesse quell'infelice dibattersi nella lotta disperata
col fiume.
Riaprendo gli occhi, risollevandosi, dopo quel momento d'orribile angoscia,
la quiete profonda della città dormente, vegliata dai fanali, gli parve
un sogno. Ma come guizzavano ora quei riflessi dei lumi nell'acqua nera! Rivolse
paurosamente lo sguardo al parapetto del ponte: vide il cappello lasciato lì da
quell'ignoto. Il fanale lo illuminava sinistramente. Fu scosso da un lungo
brivido alle reni, e col sangue che gli frizzava ancora per le vene, in preda
a un tremito convulso di tutti i muscoli, come se quel cappello là potesse
accusarlo, scese e, cercando l'ombra, s'avviò rapidamente verso casa.
- Diego, che hai?
- Nulla, mamma. Che ho?
- No, mi pareva... È già tardi...
- Non voglio che tu m'aspetti, lo sai; te l'ho detto tante volte. Lasciami
rincasare quando mi fa comodo.
- Sì, sì. Ma vedi, stavo a cucire... Vuoi che t'accenda il lumino
da notte?
- Dio, me lo domandi ogni sera!
La vecchia madre, come sferzata da questa risposta alla domanda superflua,
corse, curva, trascinando un po' una gamba, ad accendergli in camera il lumino
da notte e a preparargli il letto.
Egli la seguì con gli occhi, quasi con rancore; ma, com'ella scomparve
dietro l'uscio, trasse un sospiro di pietà per lei. Subito però il
fastidio lo riprese.
E rimase lì ad aspettare, senza saper perché, né che cosa,
in quella tetra saletta d'ingresso che aveva il soffitto basso basso, di tela
fuligginosa, qua e là strappata e con lo strambello pendente, in cui
le mosche s'eran raccolte e dormivano a grappoli.
Vecchi arredi decaduti, mescolati con rozzi mobili e oggetti nuovi di sartoria,
stipavano quella saletta: una macchina da cucire, due impettiti manichini di
vimini, una tavola liscia massiccia per tagliarvi le stoffe, con un grosso
pajo di forbici, il gesso, il metro e alcuni smorfiosi giornali di moda.
Ma, ora, il Bronner, percepiva appena tutto questo.
S'era portato con sé, come uno scenario, lo spettacolo di quel cielo
corso da quelle nuvolette basse e lievi; e del fiume con quei riflessi dei
fanali; lo spettacolo di quelle alte case nell'ombra, là dirimpetto
stagliate nel chiarore della città, e di quel ponte con quel cappello...
E l'impressione spaventosa, come di sogno, dell'impassibilità di tutte
quelle cose ch'erano con lui là, presenti, più presenti di lui,
perché lui, anzi, nascosto nell'ombra degli alberi, era veramente come
se non ci fosse. Ma il suo orrore, lo sconvolgimento, adesso, erano appunto
per questo, per esser egli rimasto lì in quell'attimo come quelle cose,
presente e assente, notte, silenzio, argine, alberi, lumi, senza gridare ajuto, come
se non ci fosse; e il sentirsi ora qua stordito, stralunato, come
se quello che aveva veduto e sentito, lo avesse sognato.
A un tratto vide venire a posarsi con un balzo agile e netto, là su
la tavola massiccia, il grosso gatto bigio di casa. Due occhi verdi, immobili
e vani.
Ebbe un momentaneo terrore di quegli occhi, e aggrottò le ciglia, urtato.
Pochi giorni addietro, quel gatto era riuscito a far cadere dal muro di quella
saletta una gabbia col cardellino, di cui sua madre aveva cura amorosa. Con
industriosa e paziente ferocia, cacciando le granfie di tra le gretole, l'aveva
tratto fuori e se l'era mangiato. La madre non se ne sapeva ancora dar pace;
anche lui pensava tuttora allo scempio di quel cardellino; ma il gatto, eccolo
là: del tutto ignaro del male che aveva fatto. Se egli lo avesse cacciato
via da quella tavola sgarbatamente, non ne avrebbe mica capito il perché.
Ed ecco già due prove contro di lui, quella sera. Due altre prove. E
questa seconda gli balzava innanzi all'improvviso, con quel gatto; come all'improvviso
gli era venuta l'altra, con quel suicidio dal ponte. Una prova; che egli non
poteva essere come quel gatto là che, compiuto uno scempio, un momento
dopo non ci pensava più; l'altra prova: che gli uomini, alla presenza
d'un fatto, non potevano restare impassibili come le cose, per quanto come
lui si forzassero, non solo a non parteciparvi, ma anche a tenersene quasi
assenti.
La dannazione del ricordo in sé, e il non poter sperare che gli altri
dimenticassero. Ecco. Queste due prove. Una dannazione e una disperazione.
Che modo nuovo di guardare avevano acquistato da un pezzo in qua i suoi occhi?
Guardava sua madre, ritornata or ora dall'avergli apparecchiato il letto di
là e acceso il lumino da notte, e la vedeva non più come sua
madre, ma come una povera vecchia qualunque, quale essa era per sé,
con quel grosso porro accanto alla pinna destra del naso un po' schiacciato,
le guance esangui e flaccide, striate da venicciuole violette, e quegli occhi
stanchi che subito, sotto lo sguardo di lui così stranamente spietato,
le s'abbassavano, ecco, dietro gli occhiali, quasi per vergogna, di che? Ah,
egli lo sapeva bene, di che. Rise d'un brutto riso; disse:
- Buona notte, mamma.
E andò a chiudersi in camera.
La vecchia madre, piano piano per non farsi sentire, si rimise a sedere nella
saletta e a cucire: a pensare.
Dio, perché così pallido e stravolto, quella notte? Bere, non
beveva, o almeno dal fiato non si sentiva. Ma se fosse ricaduto in mano dei
cattivi compagni che lo avevano rovinato, o fors'anche di peggiori?
Questa era la paura sua più grave.
Tendeva di tanto in tanto l'orecchio per sentire che cosa egli facesse di là,
se si fosse coricato, se già dormisse; e intanto ripuliva gli occhiali,
che a ogni sospiro le s'appannavano. Lei, prima d'andare a letto, voleva finire
quel lavoro. La pensioncina che il marito le aveva lasciato, non bastava più,
ora che Diego aveva perduto l'impiego. E poi accarezzava un sogno, che pur
sarebbe stato la sua morte: metter tanto da parte, lavorando e risparmiando,
da mandare il figlio lontano, in America. Perché qua, lo capiva, il
suo Diego, ora, non avrebbe trovato più da collocarsi, e nel triste
ozio, che da sette mesi lo divorava, si sarebbe perduto per sempre.
In America... là - oh, il suo figliuolo era tanto bravo! sapeva tante
cose! scriveva, prima, anche nei giornali... - in America, là, - lei
magari ne sarebbe morta - ma il suo figliuolo avrebbe ripreso la vita, avrebbe
dimenticato, cancellato il suo fallo di gioventù, di cui erano stati
cagione i cattivi compagni: quel Russo, o Polacco che fosse, pazzo, crapulone,
capitato a Roma per la sciagura di tante oneste famiglie. Giovinastri, si sa!
Invitati a casa da questo forestiere, riccone e scostumato, avevano fatto pazzie:
vino, donnacce... s'ubriacavano... Ubriaco, quello voleva giocare a carte,
e perdeva... Se l'era procacciata da sé, con le sue mani, la rovina:
che c'entrava poi l'accusa a tradimento dei suoi compagni di crapula, quel
processo scandaloso, che aveva sollevato tanto rumore e infamato tanti giovanotti,
scapati, sì, ma di famiglie onorate e per bene?
Le parve di sentire un singhiozzo di là e chiamò:
- Diego!
Silenzio. Rimase un pezzo con l'orecchio teso e gli occhi intenti.
Sì: era sveglio ancora. Che faceva?
Si alzò, e, in punta di piedi, s'accostò all'uscio, a origliare;
poi si chinò per guardare attraverso il buco della serratura: - Leggeva...
Ah, ecco! quei maledetti giornali ancora! il resoconto del processo... - Come
mai, come mai s'era dimenticata di distruggerli, quei giornali, comperati nei
tremendi giorni del processo? - E perché, quella notte, a quell'ora,
appena rincasato, li aveva ripresi e tornava a leggerli?
- Diego! - chiamò di nuovo, piano; e schiuse timidamente l'uscio.
Egli si voltò di scatto, come per paura.
- Che vuoi? Ancora in piedi?
- E tu?... - fece la madre. - Vedi, mi fai rimpiangere ancora la mia stolidaggine...
- No. Mi diverto, - rispose egli, stirando le braccia.
Si alzò; si mise a passeggiare per la stanza.
- Stracciali, buttali via, te ne prego! - supplicò la madre a mani giunte.
- Perché vuoi straziarti ancora? Non ci pensare più!
Egli si fermò in mezzo alla stanza; sorrise e disse:
- Brava. Come se, non pensandoci più io, per questo poi non dovessero
più pensarci gli altri. Dovremmo metterci a fare i distratti, tutti
quanti... per lasciarmi vivere. Distratto io, distratti gli altri... - Che è stato?
Niente. Sono stato tre anni «in villeggiatura». Parliamo d'altro...
- Ma non vedi, non vedi come mi guardi anche tu?
- Io? - esclamò la madre. - come ti guardo?
- Come mi guardano tutti gli altri!
- No, Diego! ti giuro! Guardavo... ti guardavo, perché... dovresti passare
dal sarto, ecco...
Diego Bronner si guardò addosso il vestito, e tornò a sorridere.
- Già, è vecchio. Per questo tutti mi guardano... Eppure, me
lo spazzolo bene, prima d'uscire; mi aggiusto... Non so, mi sembra che potrei
passare per un signore qualunque, per uno che possa ancora indifferentemente
partecipare alla vita... Il guajo è là, è là...
- aggiunse, accennando i giornali su la scrivania. - Abbiamo offerto un tale
spettacolo, che, via, sarebbe troppa modestia presumere che la gente se ne
sia potuta dimenticare... Spettacolo d'anime ignude, gracili e sudicette, vergognose
di mostrarsi in pubblico, come i tisici alla leva. E cercavamo tutti di coprirci
le vergogne con un lembo della toga dell'avvocato difensore. E che risate il
pubblico! Vuoi che la gente, per esempio, si dimentichi che il Russo, noi,
quel cagliostro, lo chiamavamo Luculloff e che lo paravamo
da antico romano, con gli occhiali d'oro a stanghetta sul naso rincagnato?
Quando lo han veduto là con quel faccione rosso brozzoloso, e han saputo
come noi lo trattavamo, che gli strappavamo i coturni dai piedi e lo picchiavamo
sodo sul cranio pelato, e che lui, sotto a quei picchi sodi, rideva, sghignava,
beato...
- Diego! Diego, per carità! - scongiurò la madre.
- ...Ubriaco. Lo ubriacavamo noi...
- Tu no!
- Anch'io, va' là, con gli altri. Era uno spasso! E allora venivano
le carte da giuoco. Giocando con un ubriaco, capirai, facilissimo barare...
- Per carità, Diego!
- Così... scherzando... Oh, questo, te lo posso giurare. Là risero
tutti, giudici, presidente; finanche i carabinieri; ma è la verità.
Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scherzare. Non
ci pareva una truffa. Erano i denari d'un pazzo schifoso, che ne faceva getto
così... E del resto, neppure un centesimo ne rimaneva poi nelle nostre
tasche: ne facevamo getto anche noi, come lui, con lui, pazzescamente...
S'interruppe; s'accostò allo scaffale dei libri; ne trasse uno.
- Guarda. Questo solo rimorso. Con quei denari comprai una mattina, da un rivendugliolo,
questo libro qua.
E lo buttò su la scrivania. Era La corona d'olivo selvaggio del
Ruskin, nella traduzione francese.
- Non l'ho aperto nemmeno.
Vi fissò lo sguardo, aggrottando le ciglia. Come mai, in quei giorni,
gli era potuto venire in mente di comprare quel libro? S'era proposto di non
leggere più, di non più scrivere un rigo; e andava lì,
in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé,
per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poiché le
tristi necessità della vita gl'impedivano d'abbandonarsi a esso, come
avrebbe voluto.
La madre stette un pezzo a guardare anche lei quel libro misterioso; poi gli
chiese dolcemente:
- Perché non lavori? perché non scrivi più, come facevi
prima?
Egli le lanciò uno sguardo odioso, contraendo tutto il volto, quasi
per ribrezzo.
La madre insistette, umile:
- Se ti chiudessi un po' in te... Perché disperi? Credi tutto finito?
Hai ventisei anni... Chi sa quante occasioni ti offrirà la vita, per
riscattarti...
- Ah sì, una, proprio questa sera! - sghignò egli. - Ma sono
rimasto lì, come di sacco. Ho visto un uomo buttarsi nel fiume...
- Tu?
- Io. Gli ho veduto posare il cappello sul parapetto del ponte; poi l'ho visto
scavalcare, quietamente, poi ho udito il tonfo nel fiume. E non ho gridato,
non mi son mosso. Ero nell'ombra degli alberi, e ci sono rimasto, spiando se
nessuno avesse veduto. E l'ho lasciato affogare. Sì. Ma poi ho scorto
lì, sul parapetto del ponte, sotto il fanale, il cappello, e sono scappato
via, impaurito...
- Per questo... - mormorò la madre.
- Che cosa? Io non so nuotare. Buttarmi? tentare? La scaletta d'accesso al
fiume era lì, a due passi. L'ho guardata, sai? e ho finto di non vederla.
Avrei potuto... ma già era inutile... troppo tardi... Sparito!...
- Non c'era nessuno?
- Nessuno. Io solo.
- E che potevi fare tu solo, figlio mio? È bastato lo spavento che ti
sei preso, e quest'agitazione... Vedi? tremi ancora... Va', va' a letto, va'
a letto... È molto tardi... Non ci pensare!...
La vecchia madre gli prese una mano e gliela carezzò. Egli le fe' cenno
di sì col capo e le sorrise.
- Buona notte, mamma.
- Dormi tranquillo, eh? - gli raccomandò la madre, commossa dalla carezza
a quella mano, che egli s'era lasciata fare e, asciugandosi gli occhi, per
non guastarsi questa tenerezza angosciosa, se n'uscì.
Dopo circa un'ora, Diego Bronner era di nuovo seduto sull'argine del fiume,
al posto di prima, con le gambe penzoloni.
Continuava per il cielo la fuga delle nuvolette lievi, basse, cineree. Il cappello
di quell'ignoto sul parapetto del ponte non c'era più. Forse eran passate
di là le guardie notturne e se l'erano preso.
All'improvviso, si girò verso il viale, ritraendo le gambe; scese dalla
spalletta dell'argine e si recò là, sui ponte. Si tolse il cappello
e lo posò allo stesso posto di quell'altro.
- E due! - disse.
Ma come se facesse per giuoco; per un dispetto alle guardie notturne che avevano
tolto di là il primo.
Andò dall'altra parte del fanale, per vedere l'effetto del suo cappello,
solo là, su la cimasa, illuminato come quell'altro. E rimase un pezzo,
chinato sul parapetto, col collo proteso, a contemplarlo, come se lui non
ci fosse più. A un tratto rise orribilmente: si vide là appostato
come un gatto dietro il fanale: e il topo era il suo cappello... Via, via,
pagliacciate!
Scavalcò il parapetto: si sentì drizzare i capelli sul capo:
sentì il tremito delle mani che si tenevano rigidamente aggrappate:
le schiuse; si protese nel vuoto.
AMICISSIMI
Gigi Mear, in pipistrello quella mattina (eh, con la tramontana, dopo i quaranta
non ci si scherza più!), il fazzoletto da collo tirato su e rinvoltato
con cura fin sotto il naso, un pajo di grossi guanti inglesi alle mani; ben
pasciuto, liscio e rubicondo, aspettava sul Lungo Tevere de' Mellini il tram
per Porta Pia, che doveva lasciarlo, come tutti i giorni, in Via Pastrengo,
innanzi alla Corte dei Conti, ove era impiegato.
Conte di nascita, ma purtroppo senza più né contea né contanti,
Gigi Mear aveva nella beata incoscienza dell'infanzia manifestato al padre
il nobile proposito d'entrare in quell'ufficio dello Stato credendo allora
ingenuamente che fosse una Corte, in cui ogni conte avesse il diritto d'entrare.
È
noto a tutti ormai che i tram non passano mai, quando sono aspettati. Piuttosto
si fermano a mezza via per interruzione di corrente, o preferiscono d'investire
un carro o di schiacciare magari un pover uomo. Bella comodità, non
pertanto, tutto sommato.
Quella mattina intanto tirava la tramontana, gelida, tagliente, e Gigi Mear
pestava i piedi guardando l'acqua aggricciata del fiume, che pareva sentisse
un gran freddo anch'esso, poverino, lì, come in camicia, tra quelle
dighe rigide, scialbe, della nuova arginatura.
Come Dio volle, dindìn, dindìn: ecco il tram.
E Gigi Mear si disponeva a montarvi senza farlo fermare, quando, dal nuovo
Ponte Cavour, si sentì chiamare a gran voce:
- Gigin! Gigin!
E vide un signore che gli correva incontro gestendo come un telegrafo ad asta.
Il tram se la filò. In compenso, Gigi Mear ebbe la consolazione di trovarsi
tra le braccia d'uno sconosciuto, suo intimo amico, a giudicarne dalla violenza
con cui si sentiva baciato, là, là, sul fazzoletto di seta che
gli copriva la bocca.
- T'ho riconosciuto subito, sai, Gigin! Subito! Ma che vedo? Già venerando?
Ih, ih, tutto bianco! E non ti vergogni? un altro bacio, permetti, Gigione
mio? per la tua santa canizie! Stavi qua fermo - mi pareva che stessi ad aspettarmi.
Quando t'ho visto alzar le braccia per montare su quel demonio, m'è parso
un tradimento, m'è parso!
- Già! - fece il Mear, forzandosi a sorridere. - Andavo all'ufficio.
- Mi farai il piacere di non parlare di porcherie in questo momento!
- Come?
- Così! Te lo comando io.
- Pregare sempre, che c'entra! Sai che sei un bel tipo?
- Sì, lo so. Ma tu non m'aspettavi, è vero? Eh, ti vedo all'aria;
non m'aspettavi.
- No... per dire la verità...
- Sono arrivato jersera. E ti porto i saluti di tuo fratello, il quale... ti
faccio ridere! voleva darmi un biglietto di presentazione per te. - Come! dico.
Per Gigione? Ma sa che io l'ho conosciuto prima di lei, per modo di dire: amici
d'infanzia, perdio, ci siamo rotti tante volte reciprocamente la testa... Compagni
poi d'Università... La gran Padova, Gigione, ti ricordi? il campanone,
che tu non sentivi mai, mai, dormendo come un... diciamo ghiro, eh? ti toccherebbe
porco, però. Basta. Una volta sola lo sentisti, e ti parve che chiamassero
al fuoco! Bei tempi! Tuo fratello sta benone, sai, grazie a Dio. Abbiamo combinato
insieme un certo affaruccio, e sono qua per questo. Oh, ma tu che hai? Sei
funebre. Hai preso moglie?
- No, caro! - esclamò Gigi Mear, riscotendosi.
- Stai per prenderla?
- Sei matto? Dopo i quaranta? Neanche per sogno!
- Quaranta? E se fossero cinquanta, Gigione, e sonati? Ma già, tu hai
la specialità di non sentir sonare mai niente: né le campane
né gli anni, me ne scordavo. Cinquanta, cinquanta, caro, te l'assicuro
io, sonati. Sospiriamo! la faccenda comincia a farsi un po' seria. Sei nato...
aspetta: nell'aprile del 1851, è vero o non è vero? 12 aprile.
- Maggio, se permetti, e mille ottocento cinquantadue, se permetti, - corresse
il Mear, sillabando, indispettito. - O vuoi saperlo meglio di me, adesso? Dodici
maggio 1852. Dunque, finora, quarantanove anni e qualche mese.
- E niente moglie! Benissimo. Io sì, sai? Ah, una tragedia: ti farò schiattare
dalle risa. Restiamo intesi, intanto, oh! che tu mi hai invitato a pranzo.
Dove divori di questi tempi? Sempre dal vecchio Barba?
- Ah, - esclamò con crescente stupore Gigi Mear, - sai anche del vecchio Barba?
C'eri forse anche tu?
- Io? Da Barba? Come vuoi ci fossi, se sto a Padova? Me
l'hanno detto e mi hanno raccontato le belle prodezze che vi fai, con gli altri
commensali, in quella vecchia... debbo dire bettola, macelleria, trattoria?
- Bettola, bettolaccia, - rispose il Mear, - ma adesso... eh, se devi desinare
con me, bisogna che avverta a casa mia, la serva...
- Giovane?
- Eh no, vecchia, caro, vecchia! E da Barba, sai? non ci
vado più, e prodezze, basta, da tre anni ormai. A una certa età...
- Dopo i quaranta!
- Dopo i quaranta, bisogna avere il coraggio di voltar le spalle a un cammino
che, seguitando, ti porterebbe al precipizio. Scendere, va bene, ma pian pianino,
pian pianino, senza ruzzolare. Ecco, vieni su. Sto qua. Ti fo vedere come mi
son messa per benino la casetta.
- Pian pianino... per benino... la casetta... - cominciò a dire l'amico,
salendo la scala, dietro Gigi Mear. - Ma tu mi parli anche in diminutivi, adesso,
e sei così grosso, così superlativo, povero Gigione mio! Che
t'hanno fatto? T'hanno bruciato la coda? Vuoi farmi piangere?
- Mah! - fece il Mear, aspettando sul pianerottolo che la serva venisse ad
aprire la porta. - Bisogna prenderla ormai con le buone questa vitaccia, carezzarla,
carezzarla coi diminutivi, o te la fa. Non voglio mica ridurmi alla fossa a
quattro piedi, io.
- Ah tu credi l'uomo bipede? - scattò l'altro, a questo punto. - Non
lo dire, Gigione! So io che sforzi faccio certi momenti a tenermi ritto su
due zampe soltanto. Credi, amico mio: a lasciar fare alla natura, noi saremmo,
per inclinazione, tutti quadrupedi. La meglio cosa! Più comodi, ben
posati, sempre in equilibrio... Quante volte mi butterei a camminare a terra,
così con le mani puntute, gattone! Questa maledetta civiltà ci
rovina! Quadrupede, io sarei una bella bestia selvaggia; quadrupede, ti sparerei
un pajo di calci nel ventre per le bestialità che hai detto; quadrupede,
non avrei moglie, né debiti, né pensieri... Vuoi farmi piangere?
Me ne vado!
Gigi Mear, intontito dalla buffonesca loquela di quel suo amico piovuto dal
cielo, lo osservava mettendo a tortura la memoria per sapere come diamine si
chiamasse, come e quando lo avesse conosciuto, a Padova, da ragazzo o da studente
d'Università; e passava e ripassava in rassegna tutti i suoi intimi
amici d'allora, invano: nessuno rispondeva alla fisonomia di questo. Non ardiva
intanto di domandargli uno schiarimento. L'intimità che esso gli dimostrava
era tanta e tale, che temeva d'offenderlo. Si propose di riuscirvi con l'astuzia.
La serva tardava ad aprire: non s'aspettava il padrone così presto di
ritorno. Gigi Mear sonò di nuovo, e quella venne alla fine, ciabattando.
- Vecchia mia, - le disse il Mear. - Eccomi di ritorno, e in compagnia. Apparecchierai
per due, oggi, e disimpégnati! Con questo mio amico, che ha un nome
curiosissimo, non si scherza, bada!
- Antropofago Capribarbicornìpede! - esclamò l'altro con un versaccio,
che lasciò la vecchietta perplessa, se sorriderne o farsi la croce.
- E nessuno vuol più saperne, di questo mio bel nome, vecchia! I direttori
delle banche arricciano il naso, gli strozzini strabiliano. Soltanto mia moglie è stata
felicissima di prenderselo; ma il nome soltanto, veh! le ho lasciato prendere.
Me, no! me, no! Son troppo bel giovine, per l'anima di tutti i diavoli! Su,
Gigione, poiché hai codesta debolezza, mostrami adesso le tue miserie.
Tu vecchia, subito: - Biada alla bestia!
Il Mear, sconfitto, se lo portò in giro per le cinque stanzette del
quartierino arredate con cura amorosa, con la cura di chi non voglia trovar
più nulla da desiderare fuori della propria casa, fatto il proponimento
di diventar chiocciola. Salottino, camera da letto, stanzino da bagno, sala
da pranzo, studiolo.
Nel salottino, il suo stupore e la sua tortura s'accrebbero nel sentir parlare
l'amico delle cose più intime e particolari della sua famiglia, guardando
le fotografie disposte su la mensola.
- Gigione! Vorrei un cognato come questo tuo. Sapessi quant'è birbone
il mio!
- Tratta forse male tua sorella?
- Tratta male me! E gli sarebbe così facile ajutarmi, in questi frangenti...
Ma!
- Scusa, - disse il Mear, - non ricordo più come si chiami tuo cognato...
- Lascia fare! non te lo puoi ricordare: non lo conosci. Sta a Padova da due
anni appena. Sai che m'ha fatto? Tuo fratello, tanto buono con me, m'aveva
promesso ajuto, se quella canaglia m'avesse avallato le cambiali... Lo crederesti?
M'ha negato la firma! E allora tuo fratello, che alla fin fine, benché amicissimo, è un
estraneo, ne ha fatto a meno, tanto se n'è indignato... È vero
che il nostro negozio è sicuro... Ma se ti dicessi la ragione del rifiuto
di mio cognato! Sono ancora un bel giovine: non puoi negarlo: simpaticone,
non fo per dire. Bene: la sorella di mio cognato ha avuto la cattiva ispirazione
d'innamorarsi di me, poverina. Ottimo gusto, ma poco discernimento. Figurati
se io... Basta. S'è avvelenata.
- Morta? - domandò il Mear, restando.
- No. Ha vomitato un pochino ed è guarita. Ma io, capirai, non ho potuto
metter più piede in casa di mio cognato, dopo questa tragedia. Mangiamo,
santo Dio, sì o no? io non ci vedo più dalla fame. Allupo!
Poco dopo, a tavola, Gigi Mear, oppresso dalle espansioni d'affetto dell'amico,
che lo caricava di male parole e per miracolo non lo picchiava, cominciò a
domandargli notizie di Padova e di questo e di quello, sperando di fargli uscir
di bocca il proprio nome, così per caso, o sperando almeno, nell'esasperazione
crescente di punto in punto, che gli avvenisse di distrarsi dalla fissazione
di venirne a capo, parlando d'altro.
- E di' un po', e quel Valverde, direttore della Banca d'Italia, con quella
moglie bellissima e quel magnifico mostro di sorella, guercia, per giunta,
se non m'inganno? Ancora a Padova?
L'amico, a questa interrogazione, scoppiò a ridere a crepapelle.
- Che cos'è? - riprese il Mear, incuriosito. - Non è forse guercia?
- Sta' zitto! sta' zitto! - pregò l'altro che non riusciva a frenar
le risa, come in una convulsione. - Guercissima. E con un naso, Dio liberi,
che le lascia vedere il cervello. È quella!
- Quella, chi?
- Mia moglie!
Gigi Mear restò intronato e poté a mala pena balbettare qualche
sciocca scusa. Ma quegli riprese a ridere più forte e più a lungo
di prima. Alla fine si quietò, aggrottò le ciglia, trasse un
profondo sospiro.
- Caro mio, - disse, - ci sono eroismi ignorati nella vita, che la più sbrigliata
fantasia di poeta non potrà mai arrivare a concepire!
- Eh sì! - sospirò il Mear. - Hai ragione... comprendo...
- Non comprendi un corno! - negò subito l'altro. - Credi che io voglia
alludere a me? Io, l'eroe? Tutt'al più, la vittima potrei essere. Ma
neppure. L'eroismo è stato quello di mia cognata: la moglie di Lucio
Valverde. Senti un po': cieco, stupido, imbecille...
- Io?
- No, io, io: potei lusingarmi che la moglie di Lucio Valverde si fosse innamorata
di me, fino al punto di fare un torto al marito che, in coscienza, puoi crederlo,
Gingin, se lo sarebbe meritato. Ma che! Ma che! Sai che era invece? Disinteressato
spirito di sacrificio. Sta' a sentire. Valverde parte, o meglio, finge di partire
come si fa di solito (d'intesa, certo, con lei). E lei allora mi riceve in
casa. Venuto il momento tragico della sorpresa, mi caccia in camera della cognata
guercia, la quale, accogliendomi tutta tremante e pudibonda, aveva l'aria di
sacrificarsi anche lei per la pace e per l'onore del fratello. Io ebbi appena
il tempo di gridare: «Ma abbia pazienza, signora mia, com'è possibile
che Lucio creda sul serio...». Non potei finire; Lucio irruppe, furibondo,
nella camera, e il resto te lo puoi immaginare.
- E come? - esclamò Gigi Mear, - tu, col tuo spirito...
- E le mie cambiali? - gridò l'altro. - Le mie cambiali in sofferenza,
di cui Valverde m'accordava la rinnovazione per le finte buone grazie della
moglie? Ora me le avrebbe protestate ipso facto, capisci?
E mi avrebbe rovinato. Vilissimo ricatto! Non ne parliamo più, ti prego.
In fin de' conti, visto e considerato che non ho neppure un soldo di mio e
che non ne avrò mai, visto e considerato che non ho intenzione di prender
moglie...
- Come! - lo interruppe, a questo punto, Gigi Mear. - Se hai sposato!
- Io? Ah, io no, davvero! Lei mi ha sposato, lei sola. Io, per conto mio, gliel'ho
detto avanti. Patti chiari, amici cari: «Lei, signorina, vuole il mio
nome? E se lo pigli pure: non so proprio che farmene! Ma basta, eh?».
- Cosicché, - arrischiò Gigi Mear, gongolante, - non c'è altro;
prima si chiamava Valverde e ora si chiama...
- Purtroppo! - sbuffò l'altro, alzandosi di tavola.
- Ah no, senti! - esclamò Gigi Mear, non potendone più e prendendo
il coraggio a due mani. - Tu m'hai fatto passare una mattinata deliziosa: io
ti ho accolto come un fratello: ora mi devi fare un favore...
- Vorresti, per caso, in prestito, mia moglie?
- No, grazie! Voglio che tu mi dica come ti chiami.
- Io? come mi chiamo io? - domandò l'amico, sentendosi cascar dalle
nuvole e appuntandosi l'indice d'una mano sul petto, quasi non credesse a se
stesso. - E che vuol dire? non lo sai? Non ti ricordi più?
- No - confessò, avvilito, il Mear. - Scusami, chiamami l'uomo più smemorato
della terra; ma io proprio potrei giurare di non averti mai conosciuto.
- Ah sì? Ah, benissimo! benissimo! - riprese quegli. - Caro Gigione
mio, qua la mano. Ti ringrazio con tutto il cuore del pranzo e della compagnia,
e me ne vado senza dirtelo. Figurati!
- Tu me lo dirai, perdio! - scattò Gigi Mear, balzando in piedi. - Mi
sono torturato il cervello un'intera mattinata! Non ti faccio uscire di qua,
se non me lo dici.
- Ammazzami, - rispose l'amico impassibile, - tagliami a pezzi; non te lo dirò.
- Via, sii buono! - riprese, cangiando tono, il Mear. - Non avevo mai sperimentato
prima d'ora... guarda, questa mia mancanza di memoria, e ti giuro che mi fa
una penosissima impressione: tu, in questo momento, rappresenti un incubo per
me. Dimmi come ti chiami, per carità!
- Vattelapesca.
- Te ne scongiuro! Vedi: la dimenticanza non m'ha impedito di farti sedere
alla mia tavola; e, del resto, quand'anche non t'avessi mai conosciuto, quand'anche
tu non fossi mai stato amico mio, lo sei diventato adesso e carissimo, credi!
sento per te una simpatia fraterna, ti ammiro, ti vorrei sempre con me: dunque,
dimmi come ti chiami!
- E inutile, sai, - concluse l'altro, - non mi seduci. Sii ragionevole: vuoi
che mi privi adesso di questo inatteso godimento, di farti restare cioè con
un palmo di naso, senza sapere a chi tu abbia dato da mangiare? No, via: pretendi
troppo, e si vede proprio che non mi conosci più. Se vuoi che non ti
serbi rancore dell'indegna dimenticanza, lasciami andar via così.
- Vattene via subito, allora, te ne scongiuro! - esclamò Gigi Mear,
esasperato. - Non ti posso più vedere innanzi a me!
- Me ne vado, sì. Ma prima un bacetto, Gigione: me ne riparto domani...
- Non te lo do! - gridò il Mear, - se non mi dici...
- Basta, no, no, basta. E allora, addio, eh? - troncò l'altro.
E se n'andò ridendo e voltandosi per la scala a salutarlo con la mano,
ancora una volta.
SE...
Parte o arriva? - domandò a se stesso il Valdoggi, udendo il fischio
d'un treno e guardando da un tavolino innanzi allo châlet in
Piazza delle Terme l'edificio della stazione ferroviaria.
S'era appigliato al fischio del treno, come si sarebbe appigliato al ronzio
sordo continuo che fanno i globi della luce elettrica, pur di riuscire a distrarre
gli occhi da un avventore, il quale, dal tavolino accanto, stava a fissarlo
con irritante immobilità.
Per qualche minuto vi riuscì. Si rappresentò col pensiero l'interno
della stazione, ove il fulgore opalino della luce elettrica contrasta con la
vacuità fosca e cupamente sonora sotto l'immenso lucernario fuligginoso;
e si diede a immaginare tutte le seccature d'un viaggiatore, sia che parta,
sia che arrivi.
Inavvertitamente però gli cadde di nuovo lo sguardo su quell'avventore
del tavolino accanto.
Era un uomo sui quarant'anni, vestito di nero, coi capelli e i baffetti rossicci,
radi, spioventi, la faccia pallida e gli occhi tra il verde e il grigio, torbidi
e ammaccati.
Gli stava a fianco una vecchierella mezzo appisolata, alla cui placidità dava
un'aria molto strana la veste color cannella diligentemente guarnita di cordellina
nera a zig-zag, e il cappellino logoro e stinto su i capelli lanosi, i cui
grossi nastri neri terminati in punta da una frangia a grillotti d'argento,
che li faceva sembrar due nastri tolti a una corona mortuaria, erano annodati
voluminosamente sotto il mento.
Il Valdoggi distrasse subito, di nuovo, lo sguardo da quell'uomo, ma questa
volta in preda a una vera esasperazione, che lo fece rigirar su la seggiola
sgarbatamente e soffiar forte per le nari.
Che voleva insomma quello sconosciuto? Perché lo guardava a quel modo?
Si rivoltò: volle guardarlo anche lui, con l'intenzione di fargli abbassare
gli occhi.
- Valdoggi - bisbigliò quegli allora, quasi tra sé, tentennando
leggermente il capo, senza muover gli occhi.
Il Valdoggi aggrottò le ciglia e si sporse un po' avanti per discerner
meglio la faccia di colui che aveva mormorato il suo nome. O s'era ingannato?
Eppure, quella voce...
Lo sconosciuto sorrise mestamente e ripeté:
- Valdoggi: è vero?
- Sì... - disse il Valdoggi smarrito, provandosi a sorridergli, indeciso.
E balbettò: - Ma io... scusi... lei...
- Lei? Io son Griffi!
- Griffi? Ah... - fece il Valdoggi, confuso, vieppiù smarrito, cercando
nella memoria un'immagine che gli si ravvivasse a quel nome.
- Lao Griffi... tredicesimo reggimento fanteria... Potenza...
- Griffi!... tu? - esclamò il Valdoggi a un tratto, sbalordito. - Tu?...
così...
Il Griffi accompagnò con un desolato tentennar del capo le esclamazioni
di stupore del ritrovato amico; e ogni tentennamento era forse insieme un cenno
e un saluto lagrimevole ai ricordi del buon tempo andato.
- Proprio io... così! Irriconoscibile, è vero?
- No... non dico... ma t'immaginavo...
- Di', di', come m'immaginavi? - lo interruppe subito il Griffi; e, quasi spinto
da un'ansia strana, con moto repentino gli s'accostò, battendo più e
più volte di seguito le palpebre e tenendosi le mani, come per reprimer
la smania. - M'immaginavi? Eh, certo... di', di'... come?
- Che so! - fece il Valdoggi. - A Roma? Ti sei dimesso?
- No, dimmi come m'immaginavi, te ne prego! - insisté il Griffi vivamente.
- Te ne prego...
- Mah... ancora ufficiale, che so! - riprese il Valdoggi alzando le spalle.
- Capitano, per lo meno... Ti ricordi? Oh, e Artaserse?...
ti ricordi d'Artaserse, il tenentino?
- Sì... sì... - rispose Lao Griffi, quasi piangendo. - Artaserse...
Eh, altro!
- Chi sa che ne è!
- Chi sa! - ripeté l'altro con solenne e cupa gravità, sgranando
gli occhi.
- Io ti credevo a Udine... - riprese il Valdoggi, per cambiar discorso.
Ma il Griffi sospirò, astratto e assorto:
- Artaserse...
Poi si scosse di scatto e domandò:
- E tu? Anche tu dimesso, è vero? Che t' è accaduto?
- Nulla a me, - rispose il Valdoggi. - Terminai a Roma il servizio,..
- Ah, già! Tu, allievo ufficiale... Ricordo benissimo: non ci badare...
Ricordo, ricordo...
La conversazione languì. Il Griffi guardò la vecchierella che
gli stava a fianco appisolata.
- Mia madre! - disse, accennandola con espressione di profonda tristezza nella
voce e nel gesto.
Il Valdoggi, senza saper perché, sospirò.
- Dorme, poverina...
Il Griffi contemplò un pezzo sua madre in silenzio. Le prime sviolinate
d'un concerto di ciechi nel Caffè lo scossero, e si rivolse al Valdoggi.
- A Udine, dunque. Ti ricordi? io avevo domandato che mi s'ascrivesse o al
reggimento di Udine, perché contavo, in qualche licenza d'un mese, di
passare i confini (senza disertare), per visitare un po' l'Austria... Vienna:
dicono ch'è tanto bella!... e un po' la Germania; oppure al reggimento
di Bologna per visitar l'Italia di mezzo: Firenze, Roma... Nel peggior dei
casi, rimanere a Potenza nel peggiore dei casi, bada! Orbene, il Governo mi
lasciò a Potenza, capisci? A Potenza, a Potenza! Economie... economie...
E si rovina, si assassina così un pover uomo!
Pronunziò quest'ultime parole con voce così cangiata e vibrante,
con gesti così insoliti, che molti avventori si voltarono a guardarlo
dai tavolini intorno, e qualcuno zittì.
La madre si destò di soprassalto e, accomodandosi in fretta il gran
nodo sotto il mento, gli disse:
- Lao, Lao... ti prego, sii buono...
Il Valdoggi lo squadrò, tra stordito e stupito, non sapendo come regolarsi.
- Vieni, vieni Valdoggi, - riprese il Griffi, lanciando occhiatacce alla gente
che si voltava. - Vieni... Alzati, mamma. Ti voglio raccontare... O paghi tu,
o pago io... Pago io, lascia fare...
Il Valdoggi cercò d'opporsi, ma il Griffi volle pagar lui: si alzarono
e si diressero tutti e tre verso Piazza dell'Indipendenza.
- A Vienna, - riprese il Griffi, appena si furono allontanati dal Caffè,
- è come se io ci fossi stato veramente. Sì... Ho letto guide,
descrizioni... ho domandato notizie, schiarimenti a viaggiatori che ci sono
stati... ho veduto fotografie, panorami, tutto... posso insomma parlarne benissimo,
quasi con cognizione di causa, come si dice. E così di tutti quei paesi
della Germania che avrei potuto visitare, passando i confini, nel mio giretto
d'un mese. Sì... Di Udine, poi, non ti parlo: ci sono stato addirittura;
ci son voluto andare per tre giorni, e ho veduto tutto, tutto esaminato: ho
cercato di viverci tre giorni la vita che avrei potuto viverci, se il Governo
assassino non m'avesse lasciato a Potenza. Lo stesso ho fatto a Bologna. E
tu non sai ciò che voglia dire vivere la vita che avresti potuto vivere,
se un caso indipendente dalla tua volontà, una contingenza imprevedibile,
non t'avesse distratto, deviato, spezzato talvolta l'esistenza, com'è avvenuto
a me, capisci? a me...
- Destino! - sospirò a questo punto con gli occhi bassi la vecchia madre.
- Destino!... - si rivolse a lei il figlio, con ira. - Tu ripeti sempre codesta
parola che mi dà ai nervi maledettamente, lo sai! Dicessi almeno imprevidenza,
predisposizione... Quantunque, sì - la previdenza! a che ti giova? Si è sempre
esposti, sempre, alla discrezione della sorte. Ma guarda, Valdoggi, da che
dipende la vita d'un uomo... Forse non potrai intendermi bene neanche tu; ma
immagina un uomo, per esempio, che sia costretto a vivere, incatenato, con
un'altra creatura, contro la quale covi un intenso odio, soffocato ora per
ora dalle più amare riflessioni: immagina! Oh, un bel giorno, mentre
sei a colazione - tu qui, lei lì - conversando, ella ti narra che, quand'era
bambina, suo padre fu sul punto di partire, poniamo, per l'America, con tutta
la famiglia, per sempre; oppure, che mancò poco ella non restasse cieca
per aver voluto un giorno ficcare il naso in certi congegni chimici del padre.
Orbene: tu che soffri l'inferno a cagione di questa creatura, puoi sottrarti
alla riflessione che, se un caso o l'altro (probabilissimi entrambi) fosse
avvenuto, la tua vita non sarebbe quella che è: «Oh fosse avvenuto!
Tu saresti cieca, mia cara; io non sarei certamente tuo marito!». E immagineresti,
magari commiserandola, la sua vita da cieca e la tua da scapolo, o in compagnia
di un'altra donna qualsiasi...
- Ma perciò ti dico che tutto è destino - disse ancora una volta,
convintissima, senza scomporsi, la vecchierella, a occhi bassi, andando con
passo pesante.
- Mi dai ai nervi! - urlò questa volta, nella piazza deserta, Lao Griffi.
- Tutto ciò che avviene doveva dunque fatalmente avvenire? Falso! Poteva
non avvenire, se... E qui mi perdo io: in questo se! Una
mosca ostinata che ti molesti, un movimento che tu fai per scacciarla, possono
di qui a sei, a dieci, a quindici anni, divenir causa per te di chi sa quale
sciagura. Non esagero, non esagero! È certo che noi, vivendo, guarda,
esplichiamo - così - lateralmente, forze imponderate, inconsiderate
- oh, premetti questo. Da per sé, poi, queste forze si esplicano, si
svolgono latenti, e ti tendono una rete, un'insidia che tu non puoi scorgere,
ma che alla fine t'avviluppa, ti stringe, e tu allora ti trovi preso, senza
saperti spiegar come e perché. E così! I piaceri d'un momento,
i desiderii immediati ti s'impongono, è inutile! La natura stessa dell'uomo,
tutti i tuoi sensi te li reclamano così spontaneamente e imperiosamente,
che tu non puoi loro resistere; i danni, le sofferenze che possono derivarne
non ti s'affacciano al pensiero con tal precisione, né la tua immaginativa
può presentir questi danni, queste sofferenze, con tanta forza e tale
chiarezza, che la tua inclinazione irresistibile a soddisfar quei desiderii,
a prenderti quei piaceri ne è frenata. Se talvolta, buon Dio, neppure
la coscienza dei mali immediati è ritegno che basti contro ai desiderii!
Noi siamo deboli creature... Gli ammaestramenti, tu dici, dell'esperienza altrui?
Non servono a nulla. Ciascuno può pensare che l'esperienza è frutto
che nasce secondo la pianta che lo produce e il terreno in cui la pianta è germogliata;
e se io mi credo, per esempio, rosajo nato a produr rose, perché debbo
avvelenarmi col frutto attossicato colto all'albero triste della vita altrui?
No, no. - Noi siamo deboli creature... - Non destino, dunque, né fatalità.
Tu puoi sempre risalire alla causa de' tuoi danni o delle tue fortune; spesso,
magari, non la scorgi; ma non di meno la causa c'è: o tu o altri, o
questa cosa o quella. È proprio così, Valdoggi; e senti: mia
madre sostiene ch'io sono aberrato, ch'io non ragiono...
- Ragioni troppo, mi pare... - affermò il Valdoggi, già mezzo
intontito.
- Sì! E questo è il mio male! - esclamò con viva spontanea
sincerità Lao Griffi, sbarrando gli occhi chiari. - Ma io vorrei dire
a mia madre: senti, io sono stato imprevidente, oh! - quanto vuoi... - ero
anche predisposto, predispostissimo al matrimonio - concedo! Ma è forse
detto che a Udine o a Bologna avrei trovato un'altra Margherita? (Margherita
era il nome di mia moglie).
- Ah, - fece il Valdoggi. - T'è morta?
Lao Griffi si cangiò subito in volto e si cacciò le mani in tasca,
stringendosi nelle spalle.
La vecchierella chinò il capo e tossì leggermente.
- L'ho uccisa! - rispose Lao Griffi seccamente. Poi domandò: - Non hai
letto nei giornali? Credevo che sapessi...
- Non... non so nulla... - disse il Valdoggi sorpreso, impacciato, afflitto
d'aver toccato un tasto che non doveva, ma pur curioso di sapere.
- Te lo racconterò, - riprese il Griffi. - Esco adesso dal carcere.
Cinque mesi di carcere... Ma, preventivo, bada! Mi hanno assolto. Eh sfido!
Ma se mi lasciavano dentro, non credere che me ne sarebbe importato! Dentro
o fuori, ormai, carcere lo stesso! Così ho detto ai giurati: «Fate
di me ciò che volete: condannatemi, assolvetemi; per me è lo
stesso. Mi dolgo di quel che ho fatto, ma in quell'istante terribile non seppi,
né potei fare altrimenti. Chi non ha colpa, chi non ha da pentirsi, è uomo
libero sempre; anche se voi mi date la catena, sarò libero sempre, internamente:
del di fuori ormai non m'importa più nulla». E non volli dir altro,
né volli discolpe d'avvocato. Tutto il paese però sapeva bene
che io, la temperanza, la morigeratezza in persona, avevo fatto per lei un
monte di debiti... ch'ero stato costretto a dimettermi... E poi... ah poi...
Me lo sai dire come una donna, dopo esser costata tanto a un uomo, possa far
quello che mi fece colei? Infame! Ma sai? con queste mani... Ti giuro che non
volevo ucciderla; volevo sapere come avesse fatto, e glielo domandavo, scotendola,
afferrata, così, per la gola... Strinsi troppo. Lui s'era buttato giù dalla
finestra, nel giardino... Il suo ex-fidanzato... Sì, lo aveva prima piantato,
come si dice, per me: per il simpatico ufficialetto... E guarda, Valdoggi!
Se quello sciocco non si fosse allontanato per un anno da Potenza, dando così agio
a me d'innamorarmi per mia sciagura di Margherita, a quest'ora quei due sarebbero
senza dubbio marito e moglie, e probabilmente felici... Sì. Li conoscevo
bene tutti e due: erano fatti per intendersi a meraviglia. Posso benissimo,
guarda, immaginarmi la vita che avrebbero vissuto insieme. Me l'immagino, anzi.
Posso crederli vivi entrambi, quando voglio, laggiù a Potenza, nella
loro casa... So finanche la casa dove sarebbero andati ad abitare, appena sposi.
Non ho che da metterci Margherita, viva, come tante volte, figurati, nelle
varie occorrenze della vita l'ho veduta... Chiudo gli occhi e la vedo per quelle
stanze, con le finestre aperte al sole: vi canta con la sua vocina tutta trilli
e scivoli. Come cantava! Teneva, così, le manine intrecciate sul capo
biondo. «Buon dì, sposa felice!» - Figli, non ne avrebbero,
sai? Margherita non poteva farne... Vedi? Se follia c'è, è questa
la mia follia... Posso veder tutto ciò che sarebbe stato, se quel che è avvenuto
non fosse avvenuto. Lo vedo, ci vivo; anzi vivo lì soltanto... Il se,
insomma, il se, capisci?
Tacque un buon tratto, poi esclamò con tanta esasperazione, che il Valdoggi
si voltò a guardarlo, credendo che piangesse:
- E se mi avessero mandato a Udine?
La vecchierella non ripeté questa volta: Destino!
Ma se lo disse certo in cuore. Tanto vero, che scosse amaramente il capo e
sospirò piano, con gli occhi sempre a terra, movendo sotto il mento
tutti i grillotti d'argento di quei due nastri da corona mortuaria.
RIMEDIO: LA GEOGRAFIA
La bussola, il timone... Eh, sì! Volendo navigare... Dovreste dimostrarmi
però che anche sia necessario, voglio dire che conduca a una qualsiasi
conclusione, prendere una rotta anziché un'altra, o anziché a
questo porto approdare a quello.
- Come! - dite, - e gli affari? senza una regola, senza un criterio direttivo?
E la famiglia? l'educazione dei figliuoli? la buona reputazione in società:
l'obbedienza che si deve alle leggi dello Stato? l'osservanza dei proprii doveri?
Con quest'azzurro che si beve liquido, oggi... Per carità! E che non
bado forse regolarmente ai miei affari? La mia famiglia... Ma sì, vi
prego di credere, mia moglie mi odia. Regolarmente e né più né meno
di quanto vostra moglie odii voi. E anche i miei piccini, ma volete che non
li educhi regolarmente, come voi i vostri? Con un profitto, credete, non molto
diverso di quello che la vostra saggezza riesce a ottenere. Obbedisco a tutte
le leggi dello Stato e scrupolosamente osservo i miei doveri.
Soltanto, ecco, io porto - come dire? - una certa elasticità spirituale
in tutti questi esercizii; profitto di tutte quelle nozioni scientifiche, positive,
apprese nell'infanzia e nell'adolescenza, delle quali voi, che pur le avete
apprese come me, dimostrate di non sapere o di non volere profittare.
Con molto danno, v'assicuro, della vostra salute.
Certo non è facile valersi opportunamente di quelle nozioni che contrastino,
ad esempio, con le illusioni dei sensi. Che la terra si muove, ecco, se ne
potrebbe valere opportunamente, come di elegante scusa, un ubriaco. Noi, in
realtà, non la sentiamo muovere, se non di tanto in tanto, per qualche
modesto terremoto. E le montagne, data la nostra statura, così alte
le vediamo che - capisco - pensarle piccole grinze della crosta terrestre non è facile.
Ma santo Dio, domando e dico perché abbiamo allora studiato tanto da
piccoli? Se costantemente ci ricordassimo di ciò che la scienza astronomica
ci ha insegnato, l'infimo, quasi incalcolabile posto che il nostro pianeta
occupa nell'universo...
Lo so; c'è anche la malinconia dei filosofi che ammettono, sì,
piccola la terra, ma non piccola intanto l'anima nostra se può concepire
l'infinita grandezza dell'universo.
Già. Chi l'ha detto? Biagio Pascal.
Bisognerebbe pur tuttavia pensare che questa grandezza dell'uomo, allora, se
mai, è solo a patto d'intendere, di fronte a quell'infinita grandezza
dell'universo, la sua infinita piccolezza, e che perciò grande è solo
quando si sente piccolissimo, l'uomo, e non mai così piccolo come quando
si sente grande.
E allora, di nuovo, domando e dico che conforto e che consolazione ci può venire
da questa speciosa grandezza, se non debba aver altra conseguenza che quella
di saperci qua condannati alla disperazione di veder grandi le cose piccole
(tutte le cose nostre, qua, della terra) e piccole le grandi, come sarebbero
le stelle del cielo. E non varrà meglio allora per ogni sciagura che
ci occorra, per ogni pubblica o privata calamità, guardare in su e pensare
che dalle stelle la terra, signori miei, ma neanche si suppone che ci sia,
e che alla fin fine tutto è dunque come niente?
Voi dite:
- Benissimo. Ma se intanto, qua sulla terra, mi fosse morto, per esempio, un
figliuolo?
Eh, lo so. Il caso è grave. E più grave diventerà, ve
lo dico io, quando comincerete a uscire dal vostro dolore e sotto gli occhi
che non vorrebbero più vedere v'accadrà di scorgere, che so?
la grazia timida di questi fiorellini bianchi e celesti che spuntano ora nei
prati ai primi soli di marzo; e appena la dolcezza di vivere che, pur non volendo,
sentirete ai nuovi tepori inebrianti della stagione, vi si tramuterà in
una più fitta ambascia pensando a lui che, intanto, non la può più sentire.
Ebbene?... Ma che consolazione, in nome di Dio, vorreste voi avere della morte
del vostro figliuolo? Non è meglio niente? Ma sì, niente, credete
a me. Questo niente della terra, non solo per le sciagure, ma anche per questa
dolcezza di vivere che pur ci dà: il niente assoluto, insomma, di tutte
le cose umane che possiamo pensare guardando in cielo Sirio o l'Alpha del Centauro.
Non è facile. Grazie. E che forse vi sto dicendo che è facile?
La scienza astronomica, vi prego di credere, è difficilissima non solo
a studiare, ma anche ad applicare ai casi della vita.
Del resto, vi dico che siete incoerenti. Volete avere, di questo nostro pianeta,
l'opinione ch'esso meriti un certo rispetto, e che non sia poi tanto piccolo
in rapporto alle passioni che ci agitano, e che offra molte belle vedute e
varietà di vita e di climi e di costumi; e poi vi chiudete in un guscio
e non pensate neppure a tanta vita che vi sfugge, mentre ve ne state tutti
sprofondati in un pensiero che v'affligge o in una miseria che v'opprime.
Lo so; voi adesso mi rispondete che non è possibile, quando una cura
prema veramente, quando una passione accechi, sfuggire col pensiero e frastornarsene
immaginando una vita diversa, altrove. Ma io non dico di porre voi stessi con
l'immaginazione altrove, né di fingervi una vita diversa da quella che
vi fa soffrire. Questo lo fate comunemente, sospirando: Ah, se non fossi così!
Ah, se avessi questo o quest'altro! Ah, se potessi esser là! E son vani
sospiri. Perché la vostra vita, se potesse veramente esser diversa,
chi sa che sentimenti, che speranze, che desiderii vi susciterebbe altri da
questi che ora vi suscita per il solo fatto che essa è così!
Tanto è vero, che quelli che sono come voi vorreste essere, o che hanno
quello che voi vorreste avere, o che sono là dove voi vi desiderereste,
vi fanno stizza, perché vi sembra che in quelle condizioni da voi invidiate
non sappiano esser lieti come voi sareste. Ed è una stizza - scusatemi
- da sciocchi. Perché quelle condizioni voi le invidiate perché non
sono le vostre, e se fossero, non sareste più voi, voglio dire con codesto
desiderio di esser diversi da quelli che siete.
No, no, cari miei. Il mio rimedio è un altro. Non facile certo neanche
questo, ma possibilissimo. Tanto, che ho potuto io stesso farne esperienza.
Lo intravidi quella notte - una delle tante tristissime - che mi toccò vegliare
una lunga, eterna agonia: quella in cui la mia povera madre per mesi e mesi
s'era quasi incadaverita viva.
Per mia moglie, era la suocera; per i miei figliuoli moriva una, di cui il
figlio ero io. Dico così, perché quando morrò io, mi veglierà qualcuno
di loro, si spera. Avete capito? Quella volta moriva mia madre; e dunque non
toccava a loro, ma a me.
- Ma come! - dite. - La nonna!
Già. La nonnina. La cara nonnina... E poi anche per me, che - v'assicuro
- potevo meritarmela un po' di considerazione, di non farmi stare in piedi
anche la notte, con tutto quel freddo, che cascavo a pezzi dalla stanchezza,
dopo una giornata di faticosissimo lavoro.
Ma sapete com'è? Il tempo della nonnina, della cara nonnina era finito
da un pezzo. S'era guastato per i nipotini il giocattolo della cara nonnina,
da che l'avevano veduta, dopo l'operazione della cateratta, con un occhio grosso
grosso e vano nella concavità del vetro degli occhiali; e l'altro piccolo.
A presentare una nonnina così non c'era più niente di bello.
E a poco a poco era divenuta anche sorda come una pietra, la povera nonnina;
aveva ottantacinque anni e non capiva più niente: una balla di carne,
che ansimava e si reggeva appena, pesante e traballante; e obbligava a cure,
per cui ci voleva un'adorazione come la mia, a vincer la pena e il ribrezzo
che costavano.
Si pensava, vedendola, a uno spaventoso castigo, di cui nessuno meglio di me
sapeva che la mia povera madre era immeritevole; lasciata lì, senza
più nulla di ciò che un tempo era stata, neppur la memoria; sola
carne, vecchia carne disfatta che pativa, che seguitava a patire, chi sa perché...
Ma il sonno, signori miei... Non c'è più nessun affetto che tenga,
quando una necessità crudele costringa a trascurar certi bisogni, che
si debbono per forza soddisfare. Provatevi a non dormire per parecchie e parecchie
notti di fila, dopo aver faticato tutto il giorno. Il pensiero dei miei figliuoli,
che durante l'intera giornata non avevano fatto nulla e ora dormivano saporitamente,
al caldo, mentr'io tremavo e spasimavo di freddo, in quella camera ammorbata
dal lezzo dei medicinali, mi faceva saltar dalla rabbia come un orso, e venir
la tentazione di correre a strappar le coperte dai loro lettucci e dal letto
di mia moglie per vederli balzar dal sonno in camicia a quel freddo. Ma poi,
sentendo in me come avrebbero tremato, e pensando che avrei voluto esser io
al loro posto, perché tremassero loro in vece mia, non più contro
essi, ma mi rivoltavo contro la crudeltà di quella sorte, che teneva
ancora là, rantolante e insensibile a tutto, il corpo, il solo corpo
ormai, e anch'esso quasi irriconoscibile, di mia madre; e pensavo, sì,
sì, pensavo che, Dio, poteva finalmente finir di rantolare.
Finché una volta, nel terribile silenzio sopravvenuto nella camera a
una momentanea sospensione di quel rantolo, non mi sorpresi nello specchio
dell'armadio, voltando non so perché il capo, curvo sul letto di mia
madre e intento a spiare davvicino, se non fosse morta.
Vidi con orrore in quello specchio la mia faccia. Proprio come per farsi vedere
da me, essa conservava, mentr'io me la guardavo, la stessa espressione con
cui stava sospesa a spiare in un quasi allegro spavento la liberazione.
La ripresa del rantolo mi incusse in quel punto un tale raccapriccio di me,
che mi nascosi quella faccia, come se avessi commesso un delitto. Ma cominciai
a piangere come un bambino: come il bambino che ero stato per quella mia mamma
santa, di cui sì, sì, volevo ancora la pietà per il freddo
e la stanchezza che sentivo, pur avendo or ora finito di desiderar la sua morte,
povera mamma santa, che n'aveva perdute di notti per me, quand'ero piccino
e malato... Ah! Strozzato dall'angoscia, mi diedi a passeggiare per la camera.
Ma non potevo guardar più nulla, perché mi parevano vivi, nella
loro immobilità sospesa, gli oggetti della camera: là lo spigolo
illuminato dell'armadio, qua il pomo d'ottone della lettiera su cui avevo poc'anzi
posato la mano. Disperato, cascai a sedere davanti alla scrivanietta della
più piccola delle mie figliuole, la nipotina che si faceva ancora i
compiti di scuola nella camera della nonna. Non so quanto tempo rimasi lì.
So che a giorno chiaro, dopo un tempo incommensurabile, durante il quale non
avevo più avvertito minimamente né la stanchezza, né il
freddo, né la disperazione, mi ritrovai col trattatello di geografia
della mia figliuola sotto gli occhi, aperto a pagina 75, sgorbiato nei margini
e con una bella macchia d'inchiostro cilestrino su l'emme di Giamaica.
Ero stato tutto quel tempo nell'isola di Giamaica, dove sono le Montagne Azzurre,
dove dal lato di tramontana le spiagge s'innalzano grado grado fino a congiungersi
col dolce pendio di amene colline, la maggior parte separate le une dalle altre
da vallate spaziose piene di sole, e ogni vallata ha il suo ruscello e ogni
collina la sua cascata. Avevo veduto sotto le acque chiare le mura delle case
della città di Porto Reale sprofondate nel mare da un terribile terremoto;
le piantagioni dello zucchero e del caffè, del grano d'India e della
Guinea; le foreste delle montagne; avevo sentito e respirato con indicibile
conforto il tanfo caldo e grasso del letame nelle grandi stalle degli allevamenti;
ma proprio sentito e respirato, ma proprio veduto tutto, col sole che è là su
quelle praterie, con gli uomini e con le donne e coi ragazzi come sono là,
che portano con le ceste e rovesciano a mucchi sugli spiazzi assolati il raccolto
del caffè ad asciugarsi; con la certezza precisa e tangibile che tutto
questo era vero, in quella parte del mondo così lontana; così vero
da sentirlo e opporlo come una realtà altrettanto viva a quella che
mi circondava là nella camera di mia madre moribonda.
Ecco, nient'altro che questa certezza d'una realtà di vita altrove,
lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente
che v'opprime; ma così, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senz'alcuna
intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non
potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi consiglio, amici miei.
Il rimedio che io mi trovai inopinatamente quella notte.
E per non divagar troppo, e sistemarvi in qualche modo l'immaginazione, che
non abbia a stancarvisi soverchiamente, fate come ho fatto io, che a ciascuno
dei miei quattro figliuoli e a mia moglie ho assegnato una parte di mondo,
a cui mi metto subito a pensare, appena essi mi diano un fastidio o una afflizione.
Mia moglie, per esempio, è la Lapponia. Vuole da me una cosa ch'io non
le posso dare? Appena comincia a domandarmela, io sono già nel golfo
di Botnia, amici miei, e le dico seriamente come se nulla fosse:
- Umèa, Lulèa, Pitèa, Skelleftèa...
- Ma che dici?
- Niente, cara. I fiumi della Lapponia.
- E che c'entrano i fiumi della Lapponia?
- Niente, cara. Non c'entrano per niente affatto. Ma ci sono, e né tu
né io possiamo negare che in questo preciso momento sboccano là nel
golfo di Botnia. E vedessi, cara, vedessi come vedo io la tristezza di certi
salici e di certe betulle, là... D'accordo, sì, non centrano
neanche i salici e le betulle; ma ci sono anch'essi, cara, e tanto tanto tristi
attorno ai laghi gelati tra le steppe. Lap o Lop,
sai? è un'ingiuria. I Lapponi da sé si chiamano Sami. Sudici
nani, cara mia! Ti basti sapere... - sì, lo so, tutto questo veramente
non c'entra - ma ti basti sapere che, mentr'io ti tengo così cara, essi
tengono così poco alla fedeltà coniugale, che offrono la moglie
e le figliuole al primo forestiere che capita. Per conto mio, puoi star sicura:
non son tentato per nulla, cara, a profittarne.
- Ma che diavolo dici? Sei pazzo? Io ti sto domandando...
- Sì, cara. Tu mi stai domandando, non dico di no. Ma che triste paese,
la Lapponia!...
RISPOSTA
Ti sei sfogato bene, amico mio!
Veramente è da rimpiangere che tu, facendo violenza alla tua nativa
disposizione, non abbia potuto dedicarti alle Muse. Quanto calore nelle tue
espressioni, e con quale trasparente evidenza, in pochi tocchi, fai balzar
vivi innanzi agli occhi luoghi, fatti e persone!
Sei addolorato, sei indignato, povero Marino mio; e non vorrei che questa mia
risposta ti accrescesse il dolore e l'indignazione. Ma tu vuoi che io ti esponga
francamente quel che penso del tuo caso. Lo farò per contentarti, pur
essendo sicuro che non ti contenterò.
Seguo il mio metodo, se permetti. Prima, riassumo in breve i fatti, poi ti
espongo, con la franchezza che desideri, il mio parere.
Dunque, con ordine.
I. Persone, connotati e condizioni.
a) La signorina Anita. - Ventisei anni (ne dimostra appena venti; va bene; ma sono intanto ventisei e sonati). Bruna; occhi notturni:
Negli occhi suoi la notte si raccoglie.
profonda...
Labbra di corallo; e va bene.
Ma il naso, amico mio? Tu non mi parli del naso. Alle brune, innanzi tutto,
guardare il naso; e segnatamente le pinne del naso.
Io sono sicuro che la signorina Anita l'ha un po' in su. Non dico brutto; diciamo
anzi nasino; ma in su. E con due pinne piuttosto carnosette, che le si dilatano
molto, quando serra i denti, quando fissa gli occhi nel vuoto e trae per le
nari un lungo lungo sospiro silenzioso.
Hai notato come gli occhi le si velano e le cangiano di colore, quando trae
qualcuno di questi sospiri silenziosi?
Ha molto sofferto la signorina Anita, perché molto intelligente. Era
agiata, quando il padre era vivo; ora, morto il padre, è povera. E ventisei
anni. Nasino ritto e occhi notturni.
Andiamo avanti.
b) Il mio amico Marino. - Ventiquattro anni, due di meno
della signorina Anita, che forse perciò ne dimostra appena venti.
Povero anche lui; orfano di padre anche lui. Cose tristi, ma care quando si
hanno in comune con una persona cara. Identità, che pajono predestinazioni!
Ma l'amico Marino, orfano e povero com'è, ha la mamma e una sorella
da mantenere. Orfana e povera, la signorina Anita ha anche lei la mamma, ma
non la mantiene.
Pensa al mantenimento il commendator Ballesi.
Il mio amico Marino odia, naturalmente, questo commendatore Ballesi.
Testa accesa, cuore ardente. Facilissima loquela, colorita, affascinante, come
lo sguardo dei begli occhi cerulei. Diciamo che il mio amico Marino è il
giorno e che la signorina Anita è la notte. Quello ha il biondo del
sole nei capelli e il cielo azzurro negli occhi; questa, negli occhi, due stelle,
e nei capelli la notte. Mi pare che, parlando con un poeta, non potrei esprimermi
meglio di così.
Proseguiamo.
Costretto dalla necessità a esser saggio, l'amico Marino non può commettere
la follia, finché durano le presenti condizioni (e dureranno per un
pezzo!), di assumersi il fardello di un'altra donna; e deve lasciar quella
che meno gli peserebbe.
Forse questo terzo peso gli farebbe sentir più lievi quegli altri due,
ch'egli non può, né oserebbe mai togliersi d'addosso.
Ma c'è chi pensa che in tre sulle spalle di uno non si può star
comodamente e di buon accordo. E anch'egli, saggio per forza, deve riconoscerlo.
c) Il commentator Ballesi. - Vecchio amico della buon'anima.
S'intende, del babbo d'Anita. Sessantasei anni. Piccoletto, fino fino; gambette
come due dita, ma armate da tacchettini imperiosi. Testa grossa, grossi baffi
spioventi, sotto i quali sparisce non solo la bocca, ma anche il mento, dato
che si possa dire che il commendator Ballesi abbia davvero un mento. Folte
ciglia sempre aggrottate, e un dito spesso nel naso. Quel dito pensa. Pensano
anche i peli delle sue sopracciglia. E come un cannoncino carico di pensieri,
il commendator Ballesi. Le sorti finanziarie della nuova Italia sono ne' suoi
piccoli pugni ferrigni.
Ora, non si sa come né perché, tutt'a un tratto il commendator
Ballesi ha creduto di dover cangiare l'amor paterno per la signorina Anita
in un amore d'altro genere. E l'ha chiesta in isposa.
La signorina Anita ha strappato parecchi fazzoletti, con le mani e coi denti.
Più che sdegno, ha provato onta, ribrezzo, orrore. La mamma ha pianto.
Perché ha pianto la mamma? Per la gioja, ha detto. Ma di gioja, ammesso
che si pianga, si piange poco, e poi si ride. La mamma della signorina Anita
ha pianto molto e non ride più. Honni soit qui mal y pense.
E veniamo all'ultimo personaggio.
d) Nicolino Respi. - Trent'anni, solido, atletico, nuotatore
e cavalcatore famoso, canottiere, spadaccino; e poi impudente, ignorante come
un pollo d'India, biscazziere, donnajolo... Di' su, di' su, amico mio: te le
passo tutte. Conosco Nicolino Respi e condivido i tuoi apprezzamenti e la tua
indignazione. Ma non credere, con questo, che gli dia torto.
Do dunque torto a te? No. Alla signorina Anita? Neppure. Oh Dio, lasciami dire,
lasciami seguire il mio metodo. Credi, amico mio, che il tuo caso è vecchissimo.
Di nuovo, di originale, qui, non c'è altro che il mio metodo, e la spiegazione
che ti darò.
Proseguiamo per ordine.
II. Il luogo e il fatto.
La spiaggia d'Anzio, d'estate, in una notte di luna.
Me n'hai fatto una tale descrizione, che non m'arrischio a descriverla anch'io.
Soltanto, troppe stelle, caro. Con la luna quasi in quintadecima, se ne vedono
poche. Ma un poeta può anche non badare a queste cose, che son di
fatto. Un poeta può veder le stelle anche quando non si vedono, e
viceversa poi non vedere tant'altre cose, che tutti gli altri vedono.
Il commendator Ballesi ha preso in affitto un villino su la spiaggia, e la
signorina Anita è con la mamma ai bagni.
Occupato a Roma, il Commendatore va e viene. Nicolino Respi è fisso
ad Anzio, per i bagni e per la bisca; e dà ogni mattina, in acqua, e
ogni sera al tappeto verde, spettacolo delle sue bravure.
La signorina Anita ha bisogno di smorzare la fiamma dello sdegno, e s'indugia
perciò molto nel bagno. Non può competere certamente con Nicolino
Respi, ma tuttavia, da brava nuotatrice, una mattina s'allontana, in gara con
lui, dalla spiaggia. Vanno e vanno. Tutti i bagnanti seguono ansiosi dalla
spiaggia quella gara, prima a occhio nudo, poi coi binocoli.
La mamma, a un certo punto, non vuole più guardare; comincia a smaniare,
a trepidare. Oh Dio, come farà adesso la figliuola a ritornare a nuoto
da così lontano? Certo la lena non le basterà... Oh Dio, oh Dio!
Dov'è? Dio, com'è lontana... non si vede più... Bisogna
mandare subito un ajuto, per carità! una lancia, una lancia! qualcuno
subito in ajuto!
E tanto fa e tanto dice, che alla fine due bravi giovanotti balzano eroicamente
su una lancia, e via a quattro remi.
Santa ispirazione! Perché la signorina Anita, poco dopo che i giovani
sono partiti, è colta da un crampo a una gamba, e dà un grido;
Nicolino Respi accorre con due bracciate e la sorregge; ma la signorina Anita è per
svenire e gli s'aggrappa al collo disperatamente; Nicolino si vede perduto;
sta per affogare con lei; nella rabbia, per farsi lasciare, le dà un
morso feroce al collo. Allora la signorina Anita s'abbandona inerte; egli può sostenerla;
le forze stanno per mancargli quando la lancia sopravviene. Il salvataggio è compiuto.
Ma la signorina Anita deve curarsi per più d'una settimana del morso
al collo di Nicolino Respi.
Sono impressioni che rimangono. Marino mio!
Per parecchi giorni la signorina Anita, appena muove il collo, non può negare
che Nicolino Respi morde bene. E quel morso non può dispiacerle, perché deve
a esso la sua salvezza.
Tutto questo è, veramente, antefatto.
Eppure no, forse. È e non è. Perché tutto sta dove e come
si tagliano i fatti.
Quando tu, Marino mio, nella magnifica sera di luna arrivasti ad Anzio con
la morte nel cuore, per avere un ultimo abboccamento con la signorina Anita
già ufficialmente fidanzata al commendator Ballesi, ella aveva ancora
nel collo l'impressione dei denti di Nicolino Respi.
Per tua stessa confessione, ella ti seguì docile lungo la spiaggia,
si perdette con te nella lontananza delle sabbie deserte, fino al grande scoglio
inarenato, laggiù laggiù. Tutti e due, sotto la luna, a braccetto,
inebriati dalla brezza marina, storditi dal sommesso perpetuo fragorio delle
spume d'argento.
Che le dicesti? Lo so, tutto il tuo amore e tutto il tuo tormento; e le proponesti
di ribellarsi all'infame imposizione di quel vecchio odioso e di accettare
la tua povertà.
Ma ella, amico mio, infiammata, sconvolta, straziata dalle tue parole, non
poteva accettare la tua povertà; voleva sì, invece, accettare
il tuo amore e vendicarsi con esso anticipatamente, quella sera stessa, dell'infame
imposizione del vecchio, che sopra di lei, così, da usurajo, voleva
pagarsi dei lunghi benefizi.
Tu, onestamente, nobilmente, le hai impedito questa vendetta.
Amico mio, ti credo: sarai scappato via come un pazzo. Ma alla signorina Anita,
rimasta sola lì, su la sabbia, all'ombra dello scoglio, non sembrasti
un pazzo, te l'assicuro io, in quella fuga scomposta lungo la spiaggia, sotto
la luna. Sembrasti uno sciocco e un villano.
E purtroppo, povero Marino, su quello scoglio, quella sera, a godersi zitto
zitto, in grazia delle tasche vuote, il bel chiaro di luna, e poi anche lo
spettacolo della tua fuga, c'era Nicolino Respi, quello del morso e del salvataggio.
Gli bastarono tre parole e una risata, di lassù:
- Che sciocco, è vero, signorina?
E saltò giù.
Tu avesti, poco dopo, la soddisfazione di sorprendere, insieme col commendator
Ballesi, arrivato tardi da Roma in automobile, Nicolino Respi, sotto la luna,
a braccetto con la signorina Anita.
Tu, nell'andata, e lui nel ritorno. Più dolce l'andata o il ritorno?
Ed ecco, amico mio, che viene adesso il punto originale.
III. Spiegazione.
Tu credi, caro Marino, d'aver sofferto un'atroce disillusione, perché hai
veduto all'improvviso la signorina Anita orribilmente diversa da quella che
conoscevi tu, da quella ch'era per te. Sei ben certo, adesso, che la signorina
Anita era un'altra.
Benissimo. Un'altra, la signorina Anita è di certo. Non solo; ma anche
tante e tante altre, amico mio, quanti e quanti altri son quelli che la conoscono
e che lei conosce. Il tuo errore fondamentale, sai dove consiste? Nel credere
che, pur essendo un'altra per come tu credi, e tante altre per come credo io,
la signorina Anita non sia anche, tuttora, quella che conoscevi tu.
La signorina Anita è quella, e un'altra, e anche tante altre, perché vorrai
ammettere che quella che è per me non sia quella che è per te,
quella che è per sua madre, quella che è per il commendator Ballesi,
e per tutti gli altri che la conoscono, ciascuno a suo modo.
Ora, guarda. Ciascuno, per come la conosce, le dà - è vero? -
una realtà. Tante realtà, dunque, amico mio, che fanno «realmente»,
e non per modo di dire, la signorina Anita una per te, una per me, una per
la madre, una per il commendator Ballesi, e via dicendo; pur avendo l'illusione
ciascuno di noi che la vera signorina Anita sia quella sola che conosciamo
noi; e anche lei, anzi lei soprattutto, l'illusione d'esser una, sempre la
stessa, per tutti.
Sai da che nasce questa illusione, amico mio? Dal fatto che crediamo in buona
fede d'esser tutti, ogni volta, in ogni nostro atto; mentre purtroppo non è così.
Ce ne accorgiamo quando, per un caso disgraziatissimo, all'improvviso restiamo
agganciati e sospesi a un atto solo tra i tanti che commettiamo; ci accorgiamo
bene, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che un'atroce ingiustizia
sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla
gogna, per l'intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell'atto
solo.
Ora questa ingiustizia appunto stai commettendo tu, amico mio, contro la signorina
Anita,
L'hai sorpresa in una realtà diversa da quella che le davi tu, e vuoi
credere adesso, che la sua vera realtà non sia quella bella che tu le
davi prima, ma questa brutta in cui l'hai sorpresa insieme col commendator
Ballesi di ritorno dallo scoglio con Nicolino Respi.
Non per nulla, amico mio, guarda, tu non mi hai parlato del nasino all'insù della
signorina Anita!
Quel nasino non ti apparteneva. Quel nasino non era della tua Anita. Erano
tuoi gli occhi notturni, il cuore appassionato, la raffinata intelligenza di
lei. Non quel nasino ardito dalle pinne piuttosto carnosette.
Quel nasino fremeva ancora al ricordo del morso di Nicolino Respi. Quel nasino
voleva vendicarsi dell'odiosa imposizione del vecchio commendator Ballesi.
Tu non gli hai permesso di fare con te la sua vendetta, e allora essa l'ha
fatta con Nicolino.
Chi sa come piangono adesso quegli occhi notturni, e come sanguina quel cuore
appassionato, e come si rivolta quella raffinata intelligenza: voglio dire
tutto quello che di lei appartiene a te.
Ah, credi, Marino, fu assai più dolce per lei l'andata con te allo scoglio,
che il ritorno da esso con Nicolino Respi.
Bisogna che tu te ne persuada e ti disponga a imitare il Commendatore, il quale
- vedrai - perdonerà e sposerà la signorina Anita.
Ma non pretendere che ella sia una e tutta per te. Sarà una e tutta
per te sincerissimamente; e un'altra per il commendator Ballesi, non meno sinceramente.
Perché non c'è una sola signorina o signora Anita, amico mio.
Non sarà bello, ma è così.
E procura che Nicolino Respi, mostrando i denti, non vada a far visita a quel
nasino all'insù.
IL PIPISTRELLO
Tutto bene. La commedia, niente di nuovo, che potesse irritare o frastornare
gli spettatori. E congegnata con bell'industria d'effetti. Un gran prelato
tra i personaggi, una rossa Eminenza che ospita in casa una cognata vedova
e povera, di cui in gioventù, prima d'avviarsi per la carriera ecclesiastica,
era stato innamorato. Una figliuola della vedova, già in età da
marito, che Sua Eminenza vorrebbe sposare a un giovine suo protetto, cresciutogli
in casa fin da bambino, apparentemente figlio di un suo vecchio segretario,
ma in realtà... - insomma, via, un certo antico trascorso di gioventù,
che non si potrebbe ora rimproverare a un gran prelato con quella crudezza
che necessariamente deriverebbe dalla brevità d'un riassunto, quando
poi è per così dire il fulcro di tutto il second'atto, in una
scena di grandissimo effetto con la cognata, al bujo, o meglio, al chiaro di
luna che inonda la veranda, poiché Sua Eminenza, prima di cominciar
la confessione, ordina al suo fidato servitore Giuseppe: «Giuseppe,
smorzate i lumi». Tutto bene, tutto bene, insomma. Gli attori,
tutti a posto; e innamorati a uno a uno della loro parte. Anche la piccola
Gàstina, sì. Contentissima, contentissima della parte della nipote
orfana e povera, che naturalmente non vuol saperne di sposare quel protetto
di Sua Eminenza, e fa certe scene di fiera ribellione, che alla piccola Gàstina
piacevano tanto, perché se ne riprometteva un subisso d'applausi.
Per farla breve, più contento di così nell'aspettazione ansiosa
d'un ottimo successo per la sua nuova commedia l'amico Faustino Perres non
poteva essere alla vigilia della rappresentazione.
Ma c'era un pipistrello.
Un maledetto pipistrello, che ogni sera, in quella stagione di prosa alla nostra
Arena Nazionale, o entrava dalle aperture del tetto a padiglione, o si destava
a una cert'ora dal nido che doveva aver fatto lassù, tra le imbracature
di ferro, le cavicchie e le chiavarde, e si metteva a svolazzar come impazzito
non già per l'enorme vaso dell'Arena sulla testa degli spettatori, poiché durante
la rappresentazione i lumi nella sala erano spenti, ma là, dove la luce
della ribalta, delle bilance e delle quinte, le luci della scena, lo attiravano:
sul palcoscenico, proprio in faccia agli attori.
La piccola Gàstina ne aveva un pazzo terrore. Era stata tre volte per
svenire, le sere precedenti, nel vederselo ogni volta passar rasente al volto,
sui capelli, davanti agli occhi, e l'ultima volta - Dio che ribrezzo! - fin
quasi a sfiorarle la bocca con quel volo di membrana vischiosa che stride.
Non s'era messa a gridare per miracolo. La tensione dei nervi per costringersi
a star lì ferma a rappresentare la sua parte mentre irresistibilmente
le veniva di seguir con gli occhi, spaventata, lo svolazzio di quella bestia
schifosa, per guardarsene, o, non potendone più, di scappar via dal
palcoscenico per andare a chiudersi nel suo camerino, la esasperava fino a
farle dichiarare ch'ella ormai, con quel pipistrello lì, se non si trovava
il rimedio d'impedirgli che venisse a svolazzar sul palcoscenico durante la
rappresentazione, non era più sicura di sé, di quel che avrebbe
fatto una di quelle sere.
Si ebbe la prova che il pipistrello non entrava da fuori, ma aveva proprio
eletto domicilio nelle travature del tetto dell'Arena, dal fatto che, la sera
precedente la prima rappresentazione della commedia nuova di Faustino Perres,
tutte le aperture del tetto furono tenute chiuse, e all'ora solita si vide
il pipistrello lanciarsi come tutte le altre sere sul palcoscenico col suo
disperato svolazzio. Allora Faustino Perres, atterrito per le sorti della sua
nuova commedia, pregò, scongiurò l'impresario e il capocomico
di far salire sul tetto due, tre, quattro operai, magari a sue spese, per scovare
il nido e dar la caccia a quella insolentissima bestia; ma si sentì dare
del matto. Segnatamente il capocomico montò su tutte le furie a una
simile proposta, perché era stufo, ecco, stufo stufo stufo di quella
ridicola paura della signorina Gàstina per i suoi magnifici capelli.
- I capelli?
- Sicuro! sicuro! i capelli! Non ha ancora capito? Le hanno dato a intendere
che, se per caso le sbatte in capo, il pipistrello ha nelle ali non so che
viscosità, per cui non è più possibile distrigarlo dai
capelli, se non a patto di tagliarli. Ha capito? Non teme per altro! Invece
d'interessarsi alla sua parte, d'immedesimarsi nel personaggio, almeno fino
al punto di non pensare a simili sciocchezze!
Sciocchezze, i capelli d'una donna? i magnifici capelli della piccola Gàstina?
Il terrore di Faustino Perres alla sfuriata del capocomico si centuplicò.
Oh Dio! oh Dio! se veramente la piccola Gàstina temeva per questo, la
sua commedia era perduta!
Per far dispetto al capocomico, prima che cominciasse la prova generale, la
piccola Gàstina, col gomito appoggiato sul ginocchio d'una gamba accavalciata
sull'altra e il pugno sotto il mento, seriamente domandò a Faustino
Perres, se la battuta di Sua Eminenza al secondo atto: - «Giuseppe,
smorzate i lumi» - non poteva essere ripetuta, all'occorrenza,
qualche altra volta durante la rappresentazione, visto e considerato che non
c'è altro mezzo per fare andar via un pipistrello, che entri di sera
in una stanza, che spegnere il lume.
Faustino Perres si sentì gelare.
- No, no, dico proprio sul serio! Perché, scusate, Perres: volete dare
veramente, con la vostra commedia, una perfetta illusione di realtà?
- Illusione? No. Perché dice illusione, signorina? L'arte crea veramente
una realtà.
- Ah, sta bene. E allora io vi dico che l'arte la crea, e il pipistrello la
distrugge.
- Come! perché?
- Perché sì., Ponete il caso che, nella realtà della vita,
in una stanza dove si stia svolgendo di sera un conflitto familiare, tra marito
e moglie, tra una madre e una figlia, che so! o un conflitto d'interessi o
d'altro, entri per caso un pipistrello. Bene: che si fa? Vi assicuro io, che
per un momento il conflitto s'interrompe per via di quel pipistrello che è entrato;
o si spenge il lume, o si va in un'altra stanza, o qualcuno anche va a prendere
un bastone, monta su una seggiola e cerca di colpirlo per abbatterlo a terra;
e gli altri allora, credete a me, si scordano lì per lì del conflitto
e accorrono tutti a guardare, sorridenti e con schifo, come quella odiosissima
bestia sia fatta.
- Già! Ma questo, nella vita ordinaria! - obiettò, con un sorriso
smorto sulle labbra, il povero Faustino Perres. - Nella mia opera d'arte, signorina,
il pipistrello, io, non ce l'ho messo.
- Voi non ce l'avete messo; ma se lui ci si ficca?
- Bisogna non farne caso!
- E vi sembra naturale? V'assicuro io, io che debbo vivere nella vostra commedia
la parte di Livia, che questo non è naturale; perché Livia, lo
so io, lo so io meglio di voi, che paura ha dei pipistrelli! La vostra Livia,
- badate - non più io. Voi non ci avete pensato, perché non potevate
immaginare il caso che un pipistrello entrasse nella stanza, mentr'ella si
ribellava fieramente all'imposizione della madre e di Sua Eminenza. Ma questa
sera, potete esser certo che il pipistrello entrerà nella camera durante
quella scena. E allora io vi domando, per la realtà stessa che voi volete
creare, se vi sembri naturale che ella, con la paura che ha dei pipistrelli,
col ribrezzo che la fa contorcere e gridare al solo pensiero d'un possibile
contatto, se ne stia lì come se nulla fosse, con un pipistrello che
le svolazza attorno alla faccia, e mostri di non farne caso. Voi scherzate!
Livia se ne scappa, ve lo dico io; pianta la scena e se ne scappa, o si nasconde
sotto il tavolino, gridando come una pazza. Vi consiglio perciò di riflettere,
se proprio non vi convenga meglio di far chiamare Giuseppe da Sua Eminenza
e di fargli ripetere la battuta: - «Giuseppe, smorzate i lumi». -
Oppure... aspettate! oppure... - ma sì! meglio! sarebbe la liberazione!
- che gli ordinasse di prendere un bastone, montare su una seggiola, e...
- Già! sì! proprio! interrompendo la scena a metà, è vero?
tra l'ilarità fragorosa di tutto il pubblico.
- Ma sarebbe il colmo della naturalezza, caro mio! Credetelo. Anche per la
vostra stessa commedia, dato che quel pipistrello c'è e che in quella
scena è inutile - vogliate o non vogliate - ci si ficca: pipistrello
vero! Se non ne tenete conto, parrà finta, per forza, Livia
che non se ne cura, gli altri due che non ne fanno caso e seguitano a recitar
la commedia come se lui non ci fosse. Non capite questo?
Faustino Perres si lasciò cader le braccia, disperatamente.
- O Dio mio, signorina, - disse. - Se volete scherzare, è un conto...
- No no! Vi ripeto che sto discutendo con voi sul serio, sul serio, proprio
sul serio! - ribatté la Gàstina.
- E allora io vi rispondo che siete matta, - disse il Perres alzandosi. - Dovrebbe
far parte della realtà che ho creato io, quel pipistrello, perché io
potessi tenerne conto e farne tener conto ai personaggi della mia commedia;
dovrebbe essere un pipistrello finto e non vero, insomma! Perché non
può, così, incidentalmente, da un momento all'altro, un elemento
della realtà casuale introdursi nella realtà creata, essenziale,
dell'opera d'arte.
- E se ci s'introduce?
- Ma non è vero! Non può! Non s'introduce mica nella mia commedia,
quel pipistrello, ma sul palcoscenico dove voi recitate.
- Benissimo! Dove io recito la vostra commedia. E allora sta tra due: o lassù è viva
la vostra commedia; o è vivo il pipistrello. Il pipistrello, vi assicuro
io che è vivo, vivissimo, comunque. Vi ho dimostrato che con lui così vivo
lassù non possono sembrar naturali Livia e gli altri due personaggi,
che dovrebbero seguitar la loro scena come se lui non ci fosse, mentre c'è.
Conclusione: o via la vostra commedia, o via il pipistrello. Se stimate impossibile
eliminare il pipistrello, rimettetevi in Dio, caro Perres, quanto alle sorti
della vostra commedia. Ora vi faccio vedere che la mia parte io la so e che
la recito con tutto l'impegno, perché mi piace. Ma non rispondo dei
miei nervi stasera.
Ogni scrittore, quand'è un vero scrittore, ancor che sia mediocre,
per chi stia a guardarlo in un momento come quello in cui si trovava Faustino
Perres la sera della prima rappresentazione, ha questo di commovente, o anche,
se si vuole, di ridicolo: che si lascia prendere, lui stesso prima di tutti,
lui stesso qualche volta solo fra tutti, da ciò che ha scritto, e piange
e ride e atteggia il volto, senza saperlo, delle varie smorfie degli attori
sulla scena, col respiro affrettato e l'animo sospeso e pericolante, che gli
fa alzare or questa or quella mano in atto di parare o di sostenere.
Posso assicurare, io che lo vidi e gli tenni compagnia, mentre se ne stava
nascosto dietro le quinte tra i pompieri di guardia e i servi di scena, che
Faustino Perres per tutto il primo atto e per parte del secondo non pensò affatto
al pipistrello, tanto era preso dal suo lavoro e immedesimato in esso. E non è a
dire che non ci pensava perché il pipistrello non aveva ancor fatto
la sua consueta comparsa sul palcoscenico. No. Non ci pensava perché non
poteva pensarci. Tanto vero, che quando, sulla metà del second'atto,
il pipistrello finalmente comparve, egli nemmeno se n'accorse; non capì nemmeno
perché io col gomito lo urtassi e si voltò a guardarmi in faccia
come un insensato:
- Che cosa?
Cominciò a pensarci solo quando le sorti della commedia, non per colpa
del pipistrello, non per l'apprensione degli attori a causa di esso, ma per
difetti evidenti della commedia stessa, accennarono di volgere a male. Già il
primo atto, per dir la verità, non aveva riscosso che pochi e tepidi
applausi.
- Oh Dio mio, eccolo, guarda... - cominciò a dire il poverino, sudando
freddo; e alzava una spalla, tirava indietro o piegava di qua, di là il
capo, come se il pipistrello svoltasse attorno a lui e volesse scansarlo; si
storceva le mani; si copriva il volto. - Dio, Dio, Dio, pare impazzito... Ah,
guarda, a momenti in faccia alla Rossi!... Come si fa? come si fa? Pensa che
proprio ora entra in iscena la Gàstina!
- Sta' zitto, per carità! - lo esortai, scrollandolo per le braccia
e cercando di strapparlo di là.
Ma non ci riuscii. La Gàstina faceva la sua entrata dalle quinte dirimpetto,
e il Perres, mirandola, come affascinato, tremava tutto.
Il pipistrello girava in alto, attorno al lampadario che pendeva dal tetto
con otto globi di luce, e la Gàstina non mostrava d'accorgersene, lusingata
certo dal gran silenzio d'attesa, con cui il pubblico aveva accolto il suo
apparire sulla scena. E la scena proseguiva in quel silenzio, ed evidentemente
piaceva.
Ah, se quel pipistrello non ci fosse stato! Ma c'era! c'era! Non se n'accorgeva
il pubblico, tutto intento allo spettacolo; ma eccolo lì, eccolo lì,
come se, a farlo apposta, avesse preso di mira la Gàstina, ora, proprio
lei che, poverina, faceva di tutto per salvar la commedia, resistendo al suo
terrore di punto in punto crescente per quella persecuzione ostinata, feroce,
della schifosa, maledettissima bestia.
A un tratto Faustino Perres vide l'abisso spalancarglisi davanti agli occhi
sulla scena, e si recò le mani al volto, a un grido improvviso, acutissimo
della Gàstina, che s'abbandonava tra le braccia di Sua Eminenza.
Fui pronto a trascinarmelo via, mentre dalla scena gli attori si trascinavano
a loro volta la Gàstina svenuta.
Nessuno, nel subbuglio del primo momento, là sul palcoscenico in iscompiglio,
poté pensare a ciò che intanto accadeva nella sala del teatro.
S'udiva come un gran frastuono lontano, a cui nessuno badava. Frastuono? Ma
no, che frastuono! Erano applausi. - Che? - Ma sì! Applausi! applausi!
Era un delirio d'applausi! Tutto il pubblico, levato in piedi, applaudiva da
quattro minuti freneticamente, e voleva l'autore, gli attori al proscenio,
per decretare un trionfo a quella scena dello svenimento, che aveva preso sul
serio come se fosse nella commedia, e che aveva visto rappresentare con così prodigiosa
verità.
Che fare? Il capocomico, su tutte le furie, corse a prendere per le spalle
Faustino Perres, che guardava tutti, tremando d'angosciosa perplessità,
e lo cacciò con uno spintone fuori delle quinte, sul palcoscenico. Fu
accolto da una clamorosa ovazione, che durò più di due minuti.
E altre sei o sette volte dovette presentarsi a ringraziare il pubblico che
non si stancava d'applaudire, perché voleva alla ribalta anche la Gàstina.
- Fuori la Gàstina! Fuori la Gàstina!
Ma come far presentare la Gàstina, che nel suo camerino si dibatteva
ancora in una fierissima convulsione di nervi, tra la costernazione di quanti
le stavano attorno a soccorrerla?
Il capocomico dovette farsi al proscenio ad annunziare, dolentissimo, che l'acclamata
attrice non poteva comparire a ringraziare l'eletto pubblico, perché quella
scena, vissuta con tanta intensità, le aveva cagionato un improvviso
malore, per cui anche la rappresentazione della commedia, quella sera, doveva
essere purtroppo interrotta.
Si domanda a questo punto, se quel dannato pipistrello poteva rendere a Faustino
Perres un servizio peggiore di questo.
Sarebbe stato in certo qual modo un conforto per lui attribuire a esso la caduta
della commedia; ma dovergli ora il trionfo, un trionfo che non aveva altro
sostegno che nel pazzo volo di quelle sue ali schifose!
Riavutosi appena dal primo stordimento, ancora più morto che vivo, corse
incontro al capocomico che lo aveva spinto con tanta mala grazia sul palcoscenico
a ringraziare il pubblico, e con le mani tra i capelli gli gridò:
- E domani sera?
- Ma che dovevo dire? che dovevo fare? - gli urlò furente, in risposta,
il capocomico. - Dovevo dire al pubblico che toccavano al pipistrello quegli
applausi, e non a lei? Rimedii piuttosto, rimedii subito; faccia che tocchino
a lei domani sera!
- Già! Ma come? - domandò, con strazio, smarrendosi di nuovo,
il povero Faustino Perres.
- Come! Come! Lo domanda a me, come?
- Ma se quello svenimento nella mia commedia non c'è e non c'entra,
commendatore!
- Bisogna che lei ce lo faccia entrare, caro signore, a ogni costo! Non ha
veduto che po' po' di successo? Tutti i giornali domattina ne parleranno. Non
se ne potrà più fare a meno! Non dubiti, non dubiti che i miei
attori sapranno far per finta con la stessa verità ciò che questa
sera hanno fatto senza volerlo.
- Già... ma, lei capisce, - si provò a fargli osservare il Perres,
- è andato così bene, perché la rappresentazione, lì,
dopo quello svenimento, è stata interrotta! Se domani sera, invece,
deve proseguire...
- Ma è appunto questo, in nome di Dio, il rimedio che lei deve trovare!
- tornò a urlargli in faccia il commendatore.
Se non che, a questo punto:
- E come? e come? - venne a dire, calcandosi con ambo le mani sfavillanti d'anelli
il berretto di pelo sui magnifici capelli, la piccola Gàstina già rinvenuta.
- Ma davvero non capite che qua deve dirlo il pipistrello e non voi, signori
miei?
- Lei la finisca col pipistrello! - fremette il capocomico, facendolesi a petto,
minaccioso.
- Io, la finisco? Deve finirla lei, commendatore! - rispose, placida e sorridente,
la Gàstina, sicurissima di fargli così, ora, il maggior dispetto.
- Perché, guardi, commendatore, ragioniamo: io potrei aver sotto comando
uno svenimento finto, al secondo atto, se il signor Perres, seguendo il suo
consiglio, ce lo mette. Ma dovreste anche aver voi allora sotto comando il
pipistrello vero, che non mi procuri un altro svenimento, non finto ma vero
al primo atto. O al terzo, o magari nel secondo stesso, subito dopo quel primo
finto! Perché io vi prego di credere, signori miei, che sono svenuta
davvero, sentendomelo venire in faccia, qua, qua, sulla guancia! E domani sera
non recito, no, no, non recito, commendatore, perché né lei né altri
può obbligarmi a recitare con un pipistrello che mi sbatte in faccia!
- Ah no, sa! Questo si vedrà! questo si vedrà! - le rispose,
crollando il capo energicamente, il capocomico.
Ma Faustino Perres, convinto pienamente che la ragione unica degli applausi
di quella sera era stata l'intrusione improvvisa e violenta di un elemento
estraneo, casuale, che invece di mandare a gambe all'aria, come avrebbe dovuto,
la finzione dell'arte, s'era miracolosamente inserito in essa, conferendole
lì per lì, nell'illusione del pubblico, l'evidenza d'una prodigiosa
verità, ritirò la sua commedia, e non se ne parlò più.