A Francesco Paolo Michetti
Questo libro, composto nella tua casa dall'ospite bene accetto, viene a te
come un rendimento di grazie, come un ex-voto.
Nella stanchezza della lunga e grave fatica, la tua presenza m'era fortificante
e consolante come il mare. Nei disgusti che seguivano il doloroso e capzioso
artifizio dello stile, la limpida semplicità del tuo ragionamento m'era
esempio ed emendazione. Ne' dubbii che seguivano lo sforzo dell'analisi, non
di rado una tua sentenza profonda m'era di lume.
A te che studii tutte le forme e tutte le mutazioni dello spirito come studii
tutte le forme e tutte le mutazioni delle cose, a te che intendi le leggi per
cui si svolge l'interior vita dell'uomo come intendi le leggi del disegno e
del colore, a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto grande artefice
di pittura io debbo l'esercizio e lo sviluppo della più nobile tra le
facoltà dell'intelletto: debbo l'abitudine dell'osservazione e debbo,
in ispecie, il metodo. Io sono ora, come te, convinto che c'è per noi
un solo oggetto di studii: la Vita.
Siamo, in verità, assai lontani dal tempo in cui, mentre tu nella Galleria
Sciarra eri intento a penetrare i segreti del Vinci e del Tiziano, io ti rivolgeva
un saluto di rime sospiranti
all'Ideale che non ha tramonti,
alla Bellezza che non sa dolori!
Ben, però, un vóto di quel tempo s'è compiuto. Siam
tornati insieme alla dolce patria, alla tua « vasta casa ». Non
gli arazzi medìcei pendono alle pareti, né convengono dame ai
nostri decameroni, né i coppieri e i levrieri di Paolo Veronese girano
intorno alle mense, né i frutti soprannaturali empiono i vasellami che
Galeazzo Maria Sforza ordinò a Maffeo di Clivate. Il nostro desiderio è men
superbo: e il nostro vivere è più primitivo, forse anche più omerico
e più eroico se valgono i pasti lungo il risonante mare, degni d'Ajace,
che interrompono i digiuni laboriosi.
Sorrido quando penso che questo libro, nel quale io studio, non senza tristezza,
tanta corruzione e tanta depravazione e tanta sottilità e falsità e
crudeltà vane, è stato scritto in mezzo alla semplice e serena
pace della tua casa, fra gli ultimi stornelli della messe e le prime pastorali
della neve, mentre insieme con le mie pagine cresceva la cara vita del tuo
figliuolo.
Certo, se nel mio libro è qualche pietà umana e qualche bontà,
rendo mercede al tuo figliuolo. Nessuna cosa intenerisce e solleva quanto lo
spettacolo d'una vita che si schiude. Perfino lo spettacolo dell'aurora cede
a quella meraviglia.
Ecco, dunque, il volume. Se, leggendolo, l'occhio ti corra più oltre
e veda tu Giorgio porgerti le mani e dal tondo viso riderti, come nella divina
strofe di Catullo, semihiante labello, interrompi la lettura. E le piccole
calcagna rosee, dinanzi a te, premano le pagine dov'è rappresentata
tutta la miseria del Piacere; e quel premere inconsapevole sia simbolo e augurio.
Ave, Giorgio. Amico e maestro, gran mercé.
Dal Convento: secondo Carmine, 1889.
G. d'A.
Libro primo
I
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so
che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte
le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini,
su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando;
e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de'
Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi
i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo
che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un
giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel
tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa
eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion
quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno
rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel
caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe
in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci,
antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere
corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata
dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a
motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine
di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava
mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad
aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un
libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche
cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente
ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna
con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per
ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il
mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di
metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue
azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel
caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora
di intimità. Ella aveva molt'arte nell'accumulare gran pezzi di legno
su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po'
indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto
un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre
pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi,
soffuso d'un pallor d'ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio.
Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i
piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne
in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito
bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante
pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al capo uno
stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile,
alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po' crudele, di sfogliar sul
tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d'amore.
Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo
un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la
grazia dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed
avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse
i nastri delle scarpe ancóra disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate
o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano
tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia.
Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella
poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta;
ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche
il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento
ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta
incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare
tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione
del paesaggio nomentano gli si apriva d'innanzi ora in una luce ideale, come
uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili da lontano
per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie delle
antiche ville patrizie passavano d'innanzi agli sportelli, biancastre, quasi
oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si presentava
un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un sentiero fiancheggiato
di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da statue latine, o un lungo
portico vegetale dove qua e là raggi di sole ridevano pallidamente.
Elena taceva, avvolta nell'ampio mantello di lontra, con un velo su la faccia,
con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il sottile odore
di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre sentiva contro il suo
braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si credevano lontani dagli altri,
soli; ma d'improvviso passava la carrozza nera d'un prelato; o un buttero a
cavallo, o una torma di chierici violacei, o una mandra di bestiame.
A mezzo chilometro dal ponte ella disse:
- Scendiamo.
Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un'acqua sorgiva; e, come gli
alberi al vento ondeggiavano, pareva per un'illusion visuale che l'ondeggiamento
si comunicasse a tutte le cose.
Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro:
- Io parto stasera. Questa è l'ultima volta...
Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della
partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza.
Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli
interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la carne
del polso:
- Non più! Non più!
Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla donna,
in quella solitudine alta e grave, si sentì d'improvviso entrar nell'anima
come l'orgoglio d'una vita più libera, una sovrabbondanza di forze.
- Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre...
Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole
la pelle con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.
Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di vino.
Il ponte era da presso, rossastro, nell'illuminazione del sole. Il fiume pareva
immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi
s'incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune pertiche infisse
nella creta per reggere forse le lenze.
Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi. Le parlava de' primi
giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino
Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine degli
orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella usciva dal
palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei canestri le
rose.
- Ti ricordi? Ti ricordi?
- Sì.
- E quella sera de' fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori...
Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?
- Sì, sì.
- Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che avevi?
Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a
parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: « Già ella
non mi ama più! » Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n'era
piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo
e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva
esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà...
- Segui, segui! - disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata
dal fascino delle acque correnti.
- Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia,
con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la
gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie
fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo,
e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora... Avevi la testa affondata
nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito;
e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle
tue mani pallide su le mie tempie... Ti ricordi?
- Sì. Segui!
Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli quasi
perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte
alla luce, andavasi chinando all'amante. Ambedue sentivano a traverso le vesti
il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume passavano
lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come capigliature, vi
si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano largamente.
Poi non parlarono più; ma, guardandosi, sentivano negli orecchi un rumore
continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte dell'essere
loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del loro cervello
e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.
Elena, sollevandosi, disse:
- Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
Si diressero allora verso l'osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri
staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell'occaso feriva
il gruppo umano ed equino, con viva forza.
Come i due entrarono, nella gente dell'osteria non avvenne alcun moto di meraviglia.
Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere quadrato,
taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo,
tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e
biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno
d'ardor bestiale. E l'ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un
bambino, cullandolo pesantemente.
Mentre Elena beveva l'acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava
il bambino, lamentandosi.
- Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!
Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le
labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l'interno della bocca era
coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita
da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano.
- Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere;
non può più inghiottire; non può più dormire...
La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi pieni
di una immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un atto
d'impazienza.
- Venite, venite! - disse Andrea ad Elena, prendendole il braccio, dopo aver
lasciato sul tavolo una moneta. E la trasse fuori.
Insieme, tornarono verso il ponte. Il corso dell'Aniene ora andavasi accendendo
ai fuochi dell'occaso. Una linea scintillante attraversava l'arco; e in lontananza
le acque prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero
chiazze d'olio o di bitume. La campagna accidentata, simile ad una immensità di
rovine, aveva una general tinta violetta. Verso l'Urbe il cielo cresceva in
rossore.
- Povera creatura! - mormorò Elena con suono profondo di misericordia,
stringendosi al braccio d'Andrea.
Il vento imperversava. Una torma di cornacchie passò nell'aria accesa,
in alto, schiamazzando.
Allora, d'improvviso, una specie di esaltazione sentimentale prese l'anima
di quei due, in conspetto della solitudine. Pareva che qualche cosa di tragico
e di eroico entrasse nella loro passione. I culmini del sentimento fiammeggiarono
sotto l'influenza del tramonto tumultuoso. Elena si arrestò.
- Non posso più - ella disse, ansando.
La carrozza era ancóra lontana, immobile, nel punto dove essi l'avevano
lasciata.
- Ancóra un poco, Elena! Ancóra un poco! Vuoi ch'io ti porti?
Andrea, preso da un impeto lirico infrenabile, si abbandonò alle parole.
« Perché ella voleva partire? Perché ella voleva spezzare
l'incanto? i loro destini ormai non erano legati per sempre? Egli aveva bisogno
di lei per vivere, degli occhi, della voce, del pensiero di lei... Egli era tutto
penetrato da quell'amore; aveva tutto il sangue alterato come da un veleno, senza
rimedio. Perché ella voleva fuggire? Egli si sarebbe avviticchiato a lei,
l'avrebbe prima soffocata sul suo petto. No, non poteva essere. Mai! Mai! »
Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata contro il vento, senza rispondere.
Dopo un poco, ella sollevò il braccio per far cenno al cocchiere di
avanzarsi. I cavalli scalpitarono.
- Fermatevi a Porta Pia - gridò la signora, salendo nella carrozza insieme
all'amante.
E con un movimento subitaneo si offerse al desiderio di lui che le baciò la
bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza
più respirare.
- Elena! Elena!
Un vivo bagliore rossastro entrò nella carrozza, riflesso dalle case
color di mattone. Si avvicinava nella strada il trotto sonante di molti cavalli.
Elena, piegandosi su la spalla dell'amante con una immensa dolcezza di sommessione,
disse:
- Addio, amore! Addio! Addio!
Come ella si sollevò, a destra e a sinistra passarono a gran trotto
dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno,
il duca di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare
nello sportello.
Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto il suo essere mancare
in un abbattimento infinito. La puerile debolezza della sua natura, sedata
la prima sollevazione, gli dava ora un bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto
piegarsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della donna con le lacrime.
Aveva la sensazione confusa e ottusa d'una vertigine; e un freddo sottile gli
assaliva la nuca, gli penetrava la radice dei capelli.
- Addio - ripeté Elena.
Sotto l'arco della Porta Pia la carrozza si fermava, perché egli discendesse.
Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel giorno lontano;
rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva fatto egli, appena
scomparsa la carrozza di Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in verità,
di straordinario. Anche allora, come sempre, appena lontano l'oggetto immediato
da cui il suo spirito traeva quella specie di esaltazione fatua, egli aveva
riacquistato quasi d'un tratto la tranquillità, la conscienza della
vita comune, l'equilibrio. Era salito su una vettura publica per tornare a
casa; là s'era messo l'abito nero, come al solito, non dimenticando
alcuna particolarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina,
come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose
dell'esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d'oblio, lo occupavano,
lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani.
Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando
nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di
tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta
la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il
suo dolore.
Ma il momento si approssimava. L'orologio della Trinità de' Monti suonò le
tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: « Fra
pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola?
Quali parole io le dirò? »
L'ansia in lui era verace e l'amore per quella donna era in lui rinato veracemente;
ma la espressione verbale e plastica de' sentimenti in lui era sempre così artificiosa,
così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli
ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne' più gravi commovimenti
dell'animo.
Cercò d'imaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con gli occhi
intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per
vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza.
E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all'attaccatura
dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le
labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive,
ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua
vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell'amore
alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell'esercizio dell'amore,
trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine
del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivavano l'animo
delle donne. Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino:
sapeva essere l'uomo di una notte erculea e l'amante timido, candido, quasi
verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell'arte d'amare,
egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad
alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nella ipocrisia.
« Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò? » Egli
si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali
disposizioni Elena sarebbe venuta.
L'aveva incontrata la mattina innanzi per la via de' Condotti, mentre ella
guardava nelle vetrine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, dopo una lunga
assenza oscura. L'incontro improvviso aveva dato ad ambedue una commozione
viva; ma la publicità della strada li aveva costretti ad un riserbo
cortese, cerimonioso, quasi freddo. Egli le aveva detto, con un'aria grave,
un po' triste, guardandola negli occhi: - Ho tante cose da raccontarvi, Elena.
Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. - Ella aveva risposto,
semplicemente: - Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa. Ho anch'io
qualche cosa da dirvi. Ora lasciatemi.
Ella aveva accettato sùbito l'invito, senza esitazione alcuna, senza
metter patti, senza mostrar di dare importanza alla cosa. Una tal prontezza
aveva da prima suscitato in Andrea non so qual preoccupazione vaga. Sarebbe
ella venuta come un'amica o come un'amante? Sarebbe venuta a riallacciare l'amore
o a rompere ogni speranza? In quei due anni che era mai accaduto nell'animo
di lei? Andrea non sapeva; ma gli durava ancóra la sensazione avuta
dallo sguardo di lei, nella strada, quando egli erasi inchinato a salutarla.
Era pur sempre il medesimo sguardo, così dolce, così profondo,
così lusinghevole, tra i lunghissimi cigli.
Mancavano due o tre minuti all'ora. L'ansia dell'aspettante crebbe a tal punto
ch'egli credeva di soffocare. Andò alla finestra, di nuovo, e guardò verso
le scale della Trinità. Elena, un tempo, saliva per quelle scale ai
convegni. Mettendo il piede sull'ultimo gradino, si soffermava un istante;
poi traversava rapida quel tratto di piazza ch'è d'innanzi alla casa
dei Casteldelfino. Si udiva il suo passo un poco ondeggiante risonare sul lastrico,
se la piazza era silenziosa.
L'orologio batté le quattro. Giungeva dalla piazza di Spagna e dal Pincio
il romore delle vetture. Molta gente camminava sotto gli alberi, d'innanzi
alla Villa Medici. Due donne stavano sul sedile di pietra, sotto la chiesa,
a guardia di alcuni bimbi che correvano intorno l'obelisco. L'obelisco era
tutto roseo, investito dal sole declinante; e segnava un'ombra lunga, obliqua,
un po' turchina. L'aria diveniva rigida, come più s'appressava il tramonto.
La città, in fondo, si tingeva d'oro, contro un cielo pallidissimo sul
quale già i cipressi del Monte Mario si disegnavano neri.
Andrea trasalì. Vide un'ombra apparire in cima alla piccola scala che
costeggia la casa dei Casteldelfino e discende su la piazzetta Mignanelli.
Non era Elena; ma una signora che voltò per la via Gregoriana, camminando
adagio.
« S'ella non venisse? » dubitò, ritraendosi dalla finestra.
E nel ritrarsi dall'aria fredda, sentì più molle il tepore della
stanza, più acuto il profumo del ginepro e delle rose, più misteriosa
l'ombra delle tende e delle portiere. Pareva che in quel momento la stanza fosse
tutta pronta ad accogliere la donna desiderata. Egli pensò alla sensazione
che Elena avrebbe avuto entrando. Certo, ella sarebbe stata vinta da quella dolcezza
così piena di memorie; avrebbe d'un tratto perduta ogni nozione della
realtà, del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno de' convegni abituali,
di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d'esser pur sempre
la Elena d'una volta. Se il teatro dell'amore era immutato, perché sarebbe
mutato l'amore? Certo, ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle cose
una volta dilette.
Allora cominciò nell'aspettante una nuova tortura. Gli spiriti acuiti
dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico dànno
alle cose un'anima sensibile e mutabile come l'anima umana; e leggono in ogni
cosa, nelle forme, ne' colori, ne' suoni, ne' profumi, un simbolo trasparente,
l'emblema d'un sentimento o d'un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazion
di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale.
Talvolta la visione è così lucida che produce in quegli spiriti
un'angoscia: si sentono essi come soffocare dalla pienezza della vita rivelata
e si sbigottiscono de' loro stessi fantasmi.
Andrea vide nell'aspetto delle cose intorno riflessa l'ansietà sua;
e come il suo desiderio si sperdeva inutilmente nell'attesa e i suoi nervi
s'indebolivano, così parve a lui che l'essenza direi quasi erotica delle
cose anche vaporasse e si dissipasse inutilmente. Tutti quegli oggetti, in
mezzo a' quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per
lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano
testimoni de' suoi amori, de' suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi.
Nella sua memoria, ciascuna forma, ciascun colore armonizzava con una imagine
muliebre, era una nota in un accordo di bellezza, era un elemento in una estasi
di passione. Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio
molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l'alta commozione intellettuale,
gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli
ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose
molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la
comedia dell'amore senza gli scenarii.
Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo
apparecchiatore. Ma nell'artificio quasi sempre egli metteva tutto sé;
vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che
non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua
stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d'un incantatore
il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.
Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita
che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d'una religione, gli
strumenti d'un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o
da cui l'imaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala
rende dopo lunghi anni il profumo dell'essenza che vi fu un giorno contenuta,
così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell'amore onde
li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro
una incitazione tanto forte ch'egli n'era turbato talvolta come dalla presenza
d'un potere soprannaturale.
Pareva, in vero, ch'egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca
latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi
e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s'egli era nelle braccia dell'amata,
dava a sé stesso ed al corpo ed all'anima di lei una di quelle supreme
feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s'egli era
solo, un'angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero
che quel grande e raro apparato d'amore si perdeva inutilmente.
Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch'esse aspettanti, esalavano
tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi argentei in
gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente agli indefinibili
colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano percossi dal
tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana
l'ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti. L'ombra, ovunque,
era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che
hanno i santuarii oscuri ov'è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino
crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo l'imagine di Percy Shelley,
come una gemma disciolta in una luce sempre mobile. Pareva all'amante che ogni
forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore
della sua essenza, in quell'attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!
Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del marito.
Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della
vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d'Inghilterra, con un
Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l'improvvisa partenza da Roma. Andrea
infatti si ricordava di aver visto l'annunzio del matrimonio in una cronaca
mondana, nell'ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d'aver sentito
fare su la nuova Lady Helen Heathfield una infinità di commenti per
tutte le villeggiature di quell'autunno romano. Anche si ricordava di avere
incontrato una decina di volte, nel precedente inverno, quel Lord Humphrey
ai sabati della principessa Giustiniani-Bandini e nelle vendite publiche. Era
un uomo di quarant'anni, d'una biondezza cinerea, calvo su le tempie, quasi
esangue, con due occhi chiari ed acuti, con una grande fronte sporgente solcata
di vene. Il suo nome, Heatfield, era ben quello del luogotenente generale che
fu l'eroe della celebre difesa di Gibilterra (1779-83), reso immortale anche
dal pennello di Joshua Reynolds.
Qual parte aveva quell'uomo nella vita di Elena? Da quali legami, oltre che
dalle nozze, era Elena legata a colui? Quali transformazioni aveva operato
in lei il contatto materiale e spirituale del marito?
Gli enigmi sorsero d'un tratto nell'animo di Andrea, tumultuariamente. In mezzo
al tumulto, gli apparve netta e precisa l'imagine del connubio fisico di que'
due; e il dolore fu così insopportabile ch'egli si levò col balzo
istintivo d'un uomo il quale si senta d'improvviso ferire in un membro vitale.
Attraversò la stanza, uscì nell'anticamera, origliò alla
porta ch'egli aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque meno un quarto.
Dopo un poco, egli udì su per le scale un passo, un fruscìo di
vesti, un respiro affaticato. Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli
si mosse con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva
di smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede feminile
su gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo,
su la soglia. Elena entrò.
- Oh, Elena! Finalmente.
Era in quelle parole così profonda l'espressione dell'angoscia durata
che alla donna apparve su le labbra un'indefinibile sorriso, misto di misericordia
e di piacere. Egli le prese la destra, ch'era senza guanto, traendola verso
la stanza. Ella ansava ancóra; ma aveva per tutto il volto diffusa una
lieve fiamma, sotto il velo nero.
- Perdonatemi, Andrea. Ma non ho potuto liberarmi prima d'ora. Tante visite...
tanti biglietti da restituire... Sono giornate faticose. Non ne posso più.
Come fa caldo qui! Che profumo!
Ella stava ancóra in piedi, nel mezzo della stanza; un po' titubante
e preoccupata, sebbene parlasse rapida e leggera. Un mantello di panno Carmélite,
con maniche nello stile dell'Impero tagliate dall'alto in larghi sgonfi, spianate
e abbottonate al polso, con un immenso bavero di volpe azzurra per unica guarnitura,
le copriva tutta la persona senza toglierle la grazia della snellezza. Ella
guardava Andrea, con gli occhi pieni di non so che sorriso tremulo che ne velava
l'acuta indagine. Disse:
- Voi siete un poco mutato. Non saprei dirvi in che. Avete ora nella bocca,
per esempio, qualche cosa di amaro ch'io non conosceva.
Disse queste parole con un tono di familiarità affettuosa. La voce di
lei, risonando nella stanza, dava ad Andrea un diletto così vivo ch'egli
esclamò:
- Parlate, Elena; parlate ancóra!
Ella rise. E domandò:
- Perché?
Egli rispose, prendendole la mano:
- Voi lo sapete.
Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine fin dentro gli occhi.
- Io non so più nulla.
- Voi siete dunque mutata?
- Molto mutata.
Già il « sentimento » li traeva ambedue. La risposta di
Elena chiariva d'un tratto il problema. Andrea comprese; e, rapidamente ma
precisamente, per un fenomeno d'intuizione non raro in certi spiriti esercitati
all'analisi dell'essere interiore, intravide l'attitudine morale della visitatrice
e lo svolgimento della scena che doveva seguire. Egli però era già tutto
invaso dalla malia di quella donna, come una volta. Inoltre, la curiosità lo
pungeva forte. Disse:
- Non sedete?
- Sì, un momento.
- Là, su la poltrona.
- Ah, la mia poltrona! - ella stava per dire, con un moto spontaneo, poiché l'aveva
riconosciuta; ma si trattenne.
Era una seggiola ampia e profonda, ricoperta d'un cuoio antico, sparso di Chimere
pallide a rilievo, in sul gusto di quello che ricopre le pareti d'una stanza
del palazzo Chigi. Il cuoio aveva preso quella tinta calda e opulenta che ricorda
certi fondi di ritratti veneziani, o un bel bronzo conservante appena una traccia
di doratura o una scaglia di tartaruga fina da cui trasparisca una foglia d'oro.
Un gran cuscino, tagliato in una dalmatica, d'un colore assai disfatto, di
quel colore che i setaiuoli fiorentini chiamavano rosa di gruogo, rendeva molle
la spalliera.
Elena sedette. Posò su l'orlo della tavola da tè il guanto destro
e il portabiglietti ch'era una sottile guaina d'argento liscio con sopra incise
due giarrettiere allacciate, recanti un motto. Quindi si tolse il velo, sollevando
le braccia per sciogliere il nodo dietro la testa; e l'atto elegante destò qualche
onda lucida nel velluto: alle ascelle, lungo le maniche, lungo il busto. Poiché il
calore del camino era soverchio, ella si fece schermo con la mano nuda che
s'illuminò come un alabastro rosato: gli anelli nel gesto scintillarono.
Ella disse:
- Coprite il fuoco; vi prego. Brucia troppo.
- Non vi piace più la fiamma? Ed eravate, un tempo, una salamandra!
Questo camino è memore...
- Non movete le memorie - ella interruppe. - Coprite dunque il fuoco, e accendete
un lume. Io farò il tè.
- Non volete togliervi il mantello?
- No, perché debbo andar via presto. E' già tardi.
- Ma soffocherete.
Ella si levò, con un piccolo atto d'impazienza.
- Aiutatemi, allora.
Andrea sentì, nel toglierle il mantello, il profumo di lei. Non era
più quello d'una volta; ma era d'una tal bontà che gli giunse
fino ai precordii.
- Avete un altro profumo - egli disse, con un accento singolare.
Rispose ella, semplicemente:
- Sì. Vi piace?
Andrea, ancóra tenendo il mantello fra le mani, affondò il volto
nella pelliccia che ornava il collo e che più quindi era profumata dal
contatto della carne e de' capelli di lei. Poi chiese:
- Come si chiama?
- E' senza nome.
Ella di nuovo sedette su la poltrona, entrando nel chiaror della fiamma. Aveva
un abito nero, tutto composto di merletti in mezzo a cui brillavano perline
innumerevoli, nere e d'acciaio.
Il crepuscolo moriva contro i vetri. Andrea accese su i candelabri di ferro
certe candele attorte, di colore aranciato molto intenso. Poi trasse d'innanzi
al caminetto il parafuoco.
Ambedue, in quell'intervallo di silenzio, erano nell'animo perplessi. Elena
non aveva la conscienza esatta del momento, né la sicurezza di sé;
pur tentando uno sforzo, non riusciva a riafferrare il suo proposito, a raccogliere
le sue intenzioni, a riprendere la sua volontà. D'innanzi a quell'uomo
a cui un tempo l'aveva stretta una così alta passione, in quel luogo
dove ella aveva vissuto la sua più ardente vita, sentiva a poco a poco
tutti i pensieri vacillare, dissolversi, dileguarsi. Ormai il suo spirito stava
per entrare in quello stato delizioso, direi quasi di fluidità sentimentale,
in cui riceve ogni movimento, ogni attitudine, ogni forma dalle vicende esterne,
come un vapore aereo dalle mutazioni dell'atmosfera. Esitava, prima di abbandonarvisi.
Andrea disse, piano, quasi umile:
- Va bene, così?
Ella gli sorrise, senza rispondere, poiché quelle parole le avevano
dato un diletto indefinibile, quasi un tremolio di dolcezza a sommo del petto.
Incominciò la sua opera delicata. Accese la lampada sotto il vaso dell'acqua;
aprì la scatola di lacca, dov'era conservato il tè, e mise nella
porcellana una quantità misurata d'aroma; poi preparò due tazze.
I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, come di chi operando abbia l'animo
rivolto ad altro oggetto; le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi
una leggerezza quasi di farfalle, non parendo toccare le cose ma appena sfiorarle;
dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni lieve ondulamento del suo corpo usciva
non so che tenue emanazion di piacere e andava a blandire il senso dell'amante.
Andrea, seduto da presso, la guardava con gli occhi un poco socchiusi, bevendo
per le pupille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. Era come se ogni moto
divenisse per lui tangibile idealmente. Quale amante non ha provato questo
inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si
affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del
contatto?
Ambedue tacevano. Elena s'era abbandonata sul cuscino: aspettava che l'acqua
bollisse. Guardando la fiamma azzurra della lampada, toglieva dalle dita gli
anelli, e se li rimetteva di continuo, smarrita in un'apparenza di sogno. Non
era un sogno, ma come una rimembranza vaga, ondeggiante, confusa, fuggevole.
Tutte le memorie dell'amor passato le risorgevano nello spirito, ma senza chiarezza:
e le davano una espressione incerta ch'ella non sapeva se fosse un piacere
o un dolore. Pareva come quando da molti fiori estinti, de' quali ciascuno
ha perduto ogni singolarità di colori e di effluvi, nasce una comune
esalazione in cui e' possibile riconoscere i diversi elementi. Pareva ch'ella
portasse in sé l'ultimo alito dei ricordi già spirati, l'ultima
traccia delle gioie già scomparse, l'ultimo risentimento della felicità già morta,
qualche cosa di simile a un vapor dubbio da cui emergessero imagini senza nome,
senza contorno, interrotte. Ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore;
ma a poco a poco quell'agitazione misteriosa, quella inquietudine indefinibile
aumentavano e le gonfiavano il cuore di dolcezza e di amarezza. I presentimenti
oscuri, i segreti rimpianti, i timori superstiziosi, le aspirazioni combattute,
i dolori soffocati, i sogni travagliati, i desiderii non appagati, tutti quei
torbidi elementi che componevano l'interior vita di lei ora si rimescolavano
e tempestavano.
Ella taceva, tutta raccolta in sé. Mentre il suo cuore quasi traboccava,
ella godeva accumularvi ancóra col silenzio la commozione. Parlando,
ella l'avrebbe dispersa.
Il vaso dell'acqua incominciò a levare il bollore pianamente.
Andrea su la sedia bassa, tenendo il gomito poggiato al ginocchio e il mento
nella palma, guardava ora la bella creatura con tale intensità ch'ella,
pur non volgendosi, sentiva su la sua persona quella persistenza e ne aveva
quasi un vago malessere fisico. Andrea, guardandola, pensava: « Io ho
posseduto questa donna, un giorno. » Egli ripeteva a sé stesso
l'affermazione, per convincersi; e faceva, per convincersi, uno sforzo mentale,
richiamava alla memoria una qualche attitudine di lei nel piacere, cercava
di rivederla fra le sue braccia. La certezza del possesso gli sfuggiva. Elena
gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta.
Ella era, in verità, ancor più desiderabile che una volta. L'enigma
quasi direi plastico della sua bellezza era ancor più oscuro e attirante.
La sua testa dalla fronte breve, dal naso dritto, dal sopracciglio arcuato,
d'un disegno così puro, così fermo, così antico, che pareva
essere uscita dal cerchio d'una medaglia siracusana, aveva negli occhi e nella
bocca un singolar contrasto di espressione: quell'espressione passionata, intensa,
ambigua, sopraumana, che solo qualche moderno spirito, impregnato di tutta
la profonda corruzione dell'arte, ha saputo infondere in tipi di donna immortali
come Monna Lisa e Nelly O' Brien.
« Altri ora la possiede » pensava Andrea, guardandola. « Altre
mani la toccano, altre labbra la baciano. » E, mentre egli non giungeva
a formar nella fantasia l'imagine dell'unione di sé con lei, vedeva nuovamente
invece, con implacabile precisione, l'altra imagine. E una smania l'invadeva,
di sapere, di scoprire, d'interrogare, acutissima.
Elena s'era chinata al tavolo, poiché il vapore fuggiva, per la commessura
del coperchio, dal vaso bollente. Versò appena un poco d'acqua sul tè;
poi mise due pezzi di zucchero in una sola tazza; poi versò sul tè altra
acqua; poi spense la fiamma azzurra. Ella fece tutto questo con una cura quasi
tenera, ma senza mai volgersi ad Andrea. L'interno tumulto risolvevasi ora
in un intenerimento così molle ch'ella si sentiva chiudere la gola e
inumidire gli occhi; e non poteva resistere. Tanti pensieri contrarii, tante
contrarie agitazioni e alterazioni dell'animo si raccoglievano ora in una lacrima.
Ella, per un gesto, urtò il portabiglietti d'argento, che cadde sul
tappeto. Andrea lo raccolse, e guardò le due giarrettiere incise. Portava
ciascuna un motto sentimentale: From Dreamland - A stranger hither; Dal Paese
del Sogno - Straniera qui.
Com'egli levava gli occhi, Elena gli offerì la tazza fumante, con un
sorriso un poco velato dalla lacrima.
Vide egli quel velo; e innanzi a quell'inaspettato segno di tenerezza fu invaso
da un tale impeto d'amore e di riconoscenza che posò la tazza, s'inginocchiò,
prese la mano d'Elena, sopra vi mise la bocca.
- Elena! Elena!
Le parlava a voce bassa, in ginocchio, così da vicino che pareva volesse
beverne l'alito. L'ardore era sincero, mentre le parole talvolta mentivano. « Egli
l'amava, l'aveva sempre amata, non aveva mai mai mai potuto dimenticarla! aveva
sentito, rincontrandola, tutta la sua passione insorgere con tal violenza che
n'aveva avuto quasi terrore: una specie di terrore ansioso, come s'egli avesse
intravisto, in un lampo, lo sconvolgimento di tutta la sua vita. »
- Tacete! Tacete! - disse Elena, con il volto atteggiato di dolore, pallidissima.
Andrea seguitava, sempre in ginocchio, accendendosi nell'imaginazione del sentimento. « Egli
aveva sentito trascinar via da lei, in quella fuga improvvisa, la maggior e
miglior parte di sé. Dopo, egli non sapeva dirle tutta la miseria dei
suoi giorni, l'angoscia de' suoi rimpianti, l'assidua implacabile divorante
sofferenza interiore. La tristezza era per lui in fondo a tutte le cose. La
fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto egli rimpiangeva
i giorni felici quanto si doleva de' giorni che ora passavano inutilmente per
la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli
lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso... La sua vita si consumava
in sé stessa, portando in sé la fiamma inestinguibile d'un sol
desiderio, l'incurabile disgusto d'ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano
impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era
come una ribellion violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza
che non si rassegnava a morire. Talvolta anche gli pareva d'esser ridotto a
nulla; e rabbrividiva innanzi ai grandi abissi vacui del suo essere: di tutto
l'incendio della sua giovinezza non gli restava che un pugno di cenere. Talvolta
anche, a simiglianza d'uno di que' sogni che si dileguano su l'alba, tutto
il suo passato, tutto il suo presente si dissolvevano; si distaccavano dalla
sua conscienza e cadevano, come una spoglia fragile, come una veste vana. Egli
non si ricordava più di nulla, come un uomo escito da una lunga infermità,
come un convalescente stupefatto. Egli alfine obliava; sentiva l'anima sua
entrar dolcemente nella morte... Ma, d'improvviso, su da quella specie di tranquillità obliosa
scaturiva un nuovo dolore e l'idolo abbattuto risorgeva più alto come
un germe indistruttibile. Ella, ella era l'idolo che seduceva in lui tutte
le volontà del cuore, rompeva in lui tutte le forze dell'intelletto,
teneva in lui tutte le più segrete vie dell'anima chiuse ad ogni altro
amore, ad ogni altro dolore, ad ogni altro sogno, per sempre, per sempre... »
Andrea mentiva; ma la sua eloquenza era così calda, la sua voce era
così penetrante, il tócco delle sue mani era così amoroso,
che Elena fu invasa da una infinita dolcezza.
- Taci! - ella disse. - Io non debbo ascoltarti; io non sono più tua;
io non potrò essere tua più mai. Taci! Taci!
- No, ascoltami.
- Non voglio. Addio. Bisogna ch'io vada. Addio, Andrea. E' già tardi,
lasciami.
Ella sviluppò la mano dalla stretta del giovine; e, superando ogni interno
languore, fece atto di levarsi.
- Perché dunque sei venuta? - chiese egli, con la voce un po' roca,
impedendole quell'atto.
Sebbene la violenza fosse lievissima, ella corrugò i sopraccigli, ed
esitò prima di rispondere.
- Son venuta - ella rispose, con una certa lentezza misurata, guardando l'amante
negli occhi - son venuta perché tu m'hai chiamata. Per l'amore d'una
volta, per il modo con cui quell'amore fu rotto, per il lungo silenzio oscuro
della lontananza, io non avrei potuto senza durezza ricusare l'invito. E poi,
io voleva dirti quel che t'ho detto: ch'io non sono più tua, che non
potrò essere tua più mai. Volevo dirti questo, lealmente, per
evitare a me e a te qualunque inganno doloroso, qualunque pericolo, qualunque
amarezza, nell'avvenire. Hai inteso?
Andrea chinò il capo, quasi su le ginocchia di lei, in silenzio. Ella
gli toccò i capelli, col gesto un tempo familiare.
- E poi - seguitò, con una voce che mise a lui un brivido in tutte le
fibre - e poi... volevo dirti ch'io ti amo, ch'io ti amo non meno d'una volta,
che ancóra tu sei l'anima dell'anima mia, e che io voglio essere la
tua sorella più cara, la tua amica più dolce. Hai inteso?
Andrea non si mosse. Ella, prendendo le tempie di lui fra le sue mani, gli
sollevò la fronte; lo costrinse a guardarla negli occhi.
- Hai inteso? - ripeté, con una voce anche più tenera e più sommessa.
I suoi occhi, all'ombra de' lunghi cigli, parevano come suffusi d'un qualche
olio purissimo e sottilissimo. La sua bocca, un poco aperta, aveva nel labbro
superiore un piccolo tremito.
- No; tu non mi amavi, tu non mi ami! - ruppe infine Andrea, togliendosi dalle
tempie le mani di lei e traendosi indietro, poiché sentiva già nelle
vene il fuoco insinuante ch'esalavano anche involontariamente quelle pupille
e provava più acre il dolore d'aver perduto il possesso materiale della
bellissima donna. - Tu non mi amavi! Tu, allora avesti cuore d'uccidere l'amor
tuo, d'improvviso, quasi a tradimento, mentre ti dava la sua ebrezza più forte.
Tu mi fuggisti, tu mi abbandonasti, tu mi lasciasti solo, sbigottito, tutto
doloroso, a terra, mentre io ero ancóra accecato di promesse. Tu non
mi amavi, tu non mi ami! Dopo una lontananza così lunga, piena di misteri,
muta e inesorabile; dopo una così lunga attesa, in cui ho consunto il
fiore della mia vita a nutrire una tristezza che m'era cara perché mi
veniva da te; dopo tanta felicità e dopo tanta sciagura, ecco, tu rientri
in un luogo dove ogni cosa per noi custodisce un ricordo ancóra vivo,
e mi dici soavemente: « Io non sono più tua. Addio. » Ah,
tu non mi ami!
- Ingrato! Ingrato! - esclamò Elena, ferita dalla voce quasi irosa del
giovine. - Che sai tu di quel ch'è accaduto, di quel ch'io ho sofferto?
Che sai?
- Io non so nulla, io non voglio nulla sapere - rispose Andrea, duramente,
involgendola d'uno sguardo un po' torbido, in fondo a cui tralucevano i suoi
desideri esasperati. - Io so che tu fosti mia, un giorno, tutta quanta, con
un abbandono senza ritegno, con una voluttà senza misura, come non mai
alcuna altra donna; e so che né il mio spirito né la mia carne
dimenticheranno mai quella ebrezza...
- Taci!
- Che fa a me la tua pietà di sorella? Tu, contro il tuo volere, ma
la offri guardandomi con occhi d'amante, toccandomi con mani malsicure. Troppe
volte ho veduto i tuoi occhi spengersi nel gaudio; troppe volte le tue mani
m'han sentito rabbrividire. Io ti desidero.
Incitato dalle sue stesse parole, egli la strinse forte ai polsi ed appressò la
sua faccia a quella di lei così ch'ella ebbe in su la bocca il caldo
alito.
- Io ti desidero, come non mai - seguitò egli, cercando d'attirarla
al suo bacio, circondandole con un braccio il busto. - Ricórdati! Ricórdati!
Elena si levò respingendolo. Tremava tutta.
- Non voglio. Intendi?
Egli non intendeva. Si riavvicinava ancóra, con le braccia tese, per
prenderla: pallidissimo, risoluto.
- Soffriresti tu - gridò ella con la voce un po' soffocata, non potendo
patire la violenza - soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?
Ella aveva profferita quella domanda crudele, senza pensare. Ora, con gli occhi
molto aperti, guardava l'amante: ansiosa e quasi sbigottita, come chi per salvarsi
abbia vibrato un colpo senza misurarne la forza, e tema di aver ferito troppo
nel profondo.
L'ardore di Andrea cadde d'un tratto. E gli si dipinse sul volto un dolor così grave
che la donna n'ebbe al cuore una fitta.
Andrea disse, dopo un intervallo di silenzio:
- Addio.
In quella sola parola era l'amarezza di tutte le altre parole ch'egli aveva
ricacciate indietro.
Elena rispose dolcemente:
- Addio. Perdonami.
Ambedue sentirono la necessità di chiudere, per quella sera, il colloquio
periglioso. L'uno assunse una forma di cortesia esteriore quasi esagerata.
L'altra divenne anche più dolce, quasi umile; e l'agitava un tremito
incessante.
Prese ella di su la sedia il suo mantello. Andrea l'aiutò, con maniere
premurose. Come ella non giungeva a mettere un braccio in una manica, Andrea
la guidò, appena toccandola; quindi le porse il cappello e il velo.
- Volete andare di là, allo specchio?
- No, grazie.
Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva un piccolo
specchio antico dalla cornice ornata di figure scolpite con uno stile così agile
e franco che parevano, piuttosto che nel legno, formate in un oro malleabile.
Era un'assai leggiadra cosa, uscita certo dalle mani d'un delicato quattrocentista
per una Mona Amorrosisca o per una Laldomine. Molte volte, nel tempo felice,
Elena s'era messo il velo d'innanzi a quella lastra offuscata e maculata che
aveva apparenza d'un'acqua torba, un poco verdastra. Ora, si risovveniva.
Quando vide la sua imagine apparire in quel fondo, ebbe un'impressione singolare.
Un'onda di tristezza, più densa, le traversò lo spirito. Ma non
parlò.
Andrea la guardava, con occhi intenti.
Come fu pronta, ella disse:
- Sarà molto tardi.
- Non molto. Saranno le sei, forse.
- Io ho licenziata la mia carrozza - ella soggiunse. - Vi sarei tanto grata
se mi faceste prendere una vettura chiusa.
- Permettete ch'io vi lasci qui sola, un momento? Il mio domestico è fuori.
Ella assentì.
- Date voi stesso l'indirizzo al vetturino, vi prego: Albergo del Quirinale.
Egli uscì, chiudendo dietro di sé la porta della stanza. Ella
rimase sola.
Rapidamente, volse gli occhi intorno, abbracciò con uno sguardo indefinibile
tutta la stanza, si fermò alle coppe dei fiori. Le pareti le sembravano
più vaste, la volta le sembrava più alta. Guardando, ella aveva
la sensazione come d'un principio di vertigine. Non avvertiva più il
profumo; ma certo l'aria doveva essere ardente e grave come in una serra. L'imagine
di Andrea le appariva in una specie di balenio intermittente; le sonava negli
orecchi qualche onda vaga della voce di lui. Stava ella per aver male? - Pure,
che delizia chiudere gli occhi e abbandonarsi a quel languore!
Scotendosi, andò verso la finestra, l'aprì, respirò il
vento. Rianimata, si volse di nuovo alla stanza. Le fiamme pallide delle candele
oscillavano agitando leggere ombre su le pareti. Il camino non aveva più vampa,
ma i tizzoni illuminavano in parte le figure sacre del parafuoco fatto d'un
frammento di vetrata ecclesiastica. La tazza di tè era rimasta su l'orlo
del tavolo, fredda, intatta. Il cuscino della poltrona conservava ancóra
l'impronta del corpo ch'eravisi affondato. Tutte le cose intorno esalavano
una melancolia indistinta che affluiva e s'addensava al cuor della donna. Il
peso cresceva su quel debole cuore, diveniva un'oppressione dura, un affanno
insopportabile.
- Mio Dio! Mio Dio!
Ella avrebbe voluto fuggire. Una folata di vento più viva gonfiò le
tende, agitò le fiammelle, sollevò un fruscìo. Ella trasalì,
con un brivido; e quasi involontariamente chiamò:
- Andrea!
La sua voce, quel nome nel silenzio, le diedero uno strano sussulto, come se
la voce, il nome non fossero partiti dalla sua bocca. - Perché Andrea
indugiava? - Ella si mise in ascolto. Non giungeva che il rumor sordo, cupo,
confuso della vita urbana, nella sera di San Silvestro. Su la piazza della
Trinità de' Monti non passava alcuna vettura. Come il vento a tratti
soffiava forte, ella richiuse la finestra: intravide la cima dell'obelisco,
nera sul cielo stellato.
Forse Andrea non aveva trovato sùbito la vettura coperta, in piazza
Barberini. Ella aspettò, seduta sul divano, cercando di quietare la
folle agitazione, evitando di guardarsi nell'anima, forzando la sua attenzione
alle cose esteriori. Attirarono i suoi occhi le figure vitree del parafuoco,
appena illuminate dai tizzoni semispenti. Più sopra, su la sporgenza
del caminetto, da una della coppe cadevano le foglie d'una grande rosa bianca
che si disfaceva a poco a poco, languida, molle, con qualche cosa di feminino,
direi quasi di carnale. Le foglie, concave, si posavano delicatamente sul marmo,
simili a falde di neve nella caduta.
« Quanto, allora, pareva soave alle dita quella neve odorante! » ella
pensò. « Tutte sfogliate, le rose conspargevano i tappeti, i divani,
le sedie; ed ella rideva, felice, in mezzo alla devastazione; e l'amante, felice,
erale ai piedi. »
Ma udì fermarsi una carrozza d'innanzi alla porta, nella strada; e si
levò, scotendo la povera testa, come per cacciar via quella specie di
ottusità che la fasciava. Sùbito dopo, rientrò Andrea,
ansante.
- Perdonatemi - disse. - Ma, non avendo trovato il portiere, sono sceso fino
in piazza di Spagna. La vettura è giù che aspetta.
- Grazie - fece Elena guardandolo timidamente a traverso il velo nero.
Egli era serio e pallido, ma calmo.
- Mumps arriverà forse domani - soggiunse ella, con una voce tenue.
- Vi scriverò un biglietto, per dirvi quando potrò vedervi.
- Grazie - fece Andrea.
- Addio, dunque - ella riprese, tendendogli la mano.
- Volete che vi accompagni fin giù alla strada? Non c'è nessuno.
- Sì, accompagnatemi.
Ella guardavasi a torno, un poco esitante.
- Avete dimenticato nulla? - chiese Andrea.
Ella guardò i fiori. Ma rispose:
- Ah sì, il portabiglietti.
Andrea corse a prenderlo sul tavolo del tè. Porgendolo a lei, disse:
- A stranger hither!
- No, my dear. A friend.
Elena pronunziò questa risposta con la voce molto animata, vivacemente.
Poi, d'un tratto, con un sorriso tra supplichevole e lusinghevole, misto di
temenza e di tenerezza, su cui tremolò l'orlo del velo che giungeva
fino al labbro superiore lasciando tutta libera la bocca:
- Give me a rose.
Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le rose, stringendole in un
fascio ch'egli a stento reggeva tra le mani. Alcune caddero, altre si sfogliarono.
- Erano per voi, tutte - egli disse, senza guardare l'amata.
Ed Elena si volse per uscire, col capo chino, in silenzio, seguita da lui.
Discesero le scale, sempre in silenzio. Egli le vedeva la nuca, così fresca
e delicata, dove di sotto al nodo del velo i piccoli riccioli neri si mescolavano
alla pelliccia cinerea.
- Elena! - chiamò, a voce bassa, non potendo più vincere la struggente
passione che gli gonfiava il cuore.
Ella si rivolse, mettendosi l'indice su le labbra per indicargli di tacere,
con un gesto dolente che pregava, mentre gli occhi le lucevano. Affrettò il
passo, salì nella vettura, si sentì posare su le ginocchia le
rose.
- Addio! Addio!
E, come la vettura si mosse, ella s'abbandonò al fondo, sopraffatta,
rompendo in lacrime senza freno, straziando le rose con le povere mani convulse.
II
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare
sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe
di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in
generazione una certa tradizion familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di
arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo
più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano
gli Sperelli. L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle delicatezze, la
predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania
archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie.
Un Alessandro Sperelli, nel 1466, portò a Federico d'Aragona, figliuolo
di Ferdinando re di Napoli e fratello d'Alfonso duca di Calabria, il codice
in foglio contenente alcune poesie « men rozze » de' vecchi scrittori
toscani, che Lorenzo de' Medici aveva promesso in Pisa nel '65; e quello stesso
Alessandro scrisse per la morte della divina Simonetta, in coro con i dotti
del suo tempo, una elegìa latina, malinconica ed abbandonata a imitazion
di Tibullo. Un altro Sperelli, Stefano, nel secolo medesimo, fu in Fiandra,
in mezzo alla vita pomposa, alla preziosa eleganza, all'inaudito fasto borgognone;
ed ivi rimase alla corte di Carlo il Temerario, imparentandosi con una famiglia
fiamminga. Un figliuol suo, Giusto, praticò la pittura sotto gli insegnamenti
di Giovanni Gossaert; e insieme col maestro venne in Italia, al seguito di
Filippo di Borgogna ambasciator dell'imperator Massimiliano presso il papa
Giulio II, nel 1508. Dimorò a Firenze, dove il principal ramo della
sua stirpe continuava a fiorire; ed ebbe a secondo maestro Piero di Cosimo,
quel giocondo e facile pittore, forte ed armonioso colorista, che risuscitava
liberamente col suo pennello le favole pagane. Questo Giusto fu non volgare
artista; ma consumò tutto il suo vigore in vani sforzi per conciliare
la primitiva educazione gotica con il recente spirito del Rinascimento. Verso
la seconda metà del secolo XVII la casata degli Sperelli si trasportò a
Napoli. Ivi nel 1679 un Bartolomeo Sperelli pubblicò un trattato astrologico
De Nativitatibus; nel 1720 un Giovanni Sperelli diede al teatro un'opera buffa
intitolata La Faustina e poi una tragedia lirica intitolata Progne; nel 1756
un Carlo Sperelli stampò un libro di versi amatorii in cui molte classiche
lascivie erano rimate con l'eleganza oraziana allora di moda. Miglior poeta
fu Luigi, ed uomo di squisita galanteria, alla corte del re lazzarone e della
regina Carolina. Verseggiò con un certo malinconico e gentile epicureismo,
assai nitidamente; ed amò da fino amatore, ed ebbe avventure in copia,
talune celebri, come quella con la marchesa di Bugnano che per gelosia s'avvelenò,
e come quella con la contessa di Chesterfield che morta etica egli pianse in
canzoni, odi, sonetti ed elegìe soavissime sebbene un poco frondose.
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion
familiare. Egli era, in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano
del XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti
eleganti, ultimo discendente d'una razza intelettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza,
nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò,
fino a vent'anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre
e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura
paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe
il gusto delle cose d'arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale
disprezzo de' pregiudizii, l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica,
sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria
e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso
suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa
passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale.
Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo,
viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta
non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito
di lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento;
e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava
la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la
grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si stancava mai di fornire
tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di quella sua forza era
la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale che il padre stesso
non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era
la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo
piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva
sempre più d'intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: « Bisogna
fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita d'un
uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta
qui. »
Anche, il padre ammoniva: « Bisogna conservare ad ogni costo intiera
la libertà, fin nell'ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola:
- Habere, non haberi. »
Anche, diceva: « Il rimpianto è il vano pascolo d'uno spirito
disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito
con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni. »
Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità loro potevano anche
essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura
involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell'animo di Andrea:
il seme del sofisma. « Il sofisma » diceva quell'incauto educatore « è in
fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi
equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore.
Forse, la scienza della vita sta nell'oscurare la verità. La parola è una
cosa profonda, in cui per l'uomo d'intelletto son nascoste inesauribili ricchezze.
I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori
dell'antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di
Pericle, al secolo gaudioso. »
Un tal seme trovò nell'ingegno malsano del giovine un terreno propizio.
A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso
sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch'egli
giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere
su sé stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno,
signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle
sue passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre
passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma,
per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non
la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville,
delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa
Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tito per la Fontanella
delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini
l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il
suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato
dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani,
di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani,
dove i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni,
le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del
luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa
della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane,
accanto alla domanda « Che vorreste voi essere? » egli aveva scritto « Principe
romano ».
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home
nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario
cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto
il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono
ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza.
Era una estate di San Martino, una primavera de' morti, grave e soave, in cui
Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo Oriente,
sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne' mari
australi.
Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere
la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione
infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine,
di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla
mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni
psichici le impressioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il
sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. - Avrebbe alfin trovato la donna
e l'opera capaci d'impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? -
Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento
della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non
aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. Avido d'amore e di piacere,
non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto
ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta
in cima de' pensieri l'imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione,
era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed
ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro
agli istinti; il senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre
attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si
poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa
ne' limiti d'un certo equilibrio. Gli uomini d'intelletto, educati al culto
della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie
di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l'asse
del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.
Fluttuava ancóra su quella tristezza il ricordo di Costantia Landbrooke,
vagamente, come un profumo svanito. L'amore di Conny era stato un assai fino
amore; ed ella era una molto piacevole donna. Pareva una creatura di Thomas
Lawrence; aveva in sé tutte le minute grazie feminine che son care a
quel pittore dei falpalà, dei merletti, dei velluti, degli occhi luccicanti,
delle bocche semiaperte; era una seconda incarnazione della piccola contessa
di Shaftesbury. Vivace, loquace, mobilissima, prodiga di diminutivi infantili
e di risa scampanellanti, facile alle tenerezze improvvise, alle malinconie
subitanee, alle rapide ire, ella portava nell'amore molto movimento, molta
varietà, molti capricci. La sua qualità più amabile era
la freschezza, una freschezza tenace, continua, di tutte le ore. Quando si
svegliava, dopo una notte di piacere, ella era tutta fragrante e monda come
se uscisse allora dal bagno. La figura di lei, infatti, tornava nella memoria
di Andrea specialmente con un'attitudine; con i capelli in parte sciolti sul
collo e raccolti in parte al sommo del capo da un pettine fatto di greche d'oro;
con l'iride degli occhi natante nel bianco, come una viola pallida nel latte;
con la bocca aperta, rorida, tutta illuminata da' denti ridenti nel sangue
roseo delle gengive; all'ombra delle cortine che diffondevano sul letto un
albore tra glauco ed argenteo, simile alla luce d'un antro marittimo.
Ma il cinguettio melodioso di Conny Landbrooke era passato su l'animo di Andrea
come una di quelle musiche leggere che lascian per qualche tempo nella mente
un ritornello. Più d'una volta ella gli aveva detto, in qualche sua
malinconia vespertina, con gli occhi velati di lacrime: « I know you
love me not... » Egli, infatti, non l'amava, non n'era pago. Il suo ideale
muliebre era men nordico. Idealmente, egli si sentiva attratto da una di quelle
cortigiane del secolo XVI che sembrano portar sul volto non so qual velo magico,
non so qual transparente maschera incantata, direi quasi un oscuro fascino
notturno, il divino orrore della Notte.
Incontrando la duchessa di Scerni, Donna Elena Muti, egli pensò: « Ecco
la mia donna. » Tutto il suo essere ebbe una sollevazione di gioia, nel
presentimento del possesso.
Fu il primo incontro in casa della marchesa d'Ateleta. Questa cugina d'Andrea
nel palazzo Roccagiovine aveva saloni molto frequentati. Ella attraeva specialmente
per la sua arguta giocondità, per la libertà de' suoi motti,
per il suo infaticabile sorriso. I lineamenti gai del volto rammentavano certi
profili feminini ne' disegni del Moreau giovine, nelle vignette del Gravelot.
Ne' modi, ne' gusti, nelle fogge del vestire ella aveva qualche cosa di pompadouresco,
non senza una lieve affettazione, poiché era legata da una singolar
somiglianza alla favorita di Luigi XV.
Il mercoledì d'ogni settimana Andrea Sperelli aveva un posto alla mensa
della marchesa. Un martedì a sera, in un palco del Teatro Valle, la
marchesa gli aveva detto, ridendo:
- Bada di non mancare, Andrea, domani. Abbiamo tra gli invitati una persona
interessante, anzi fatale. Premunisciti però contro la malia... Tu sei
in un momento di debolezza.
Egli le aveva risposto, ridendo:
- Verrò inerme, se non ti dispiace, cugina; anzi in abito di vittima.
E' un abito di richiamo, che porto da molte sere; inutilmente, ahimè!
- Il sacrificio è prossimo, cugino mio.
- La vittima è pronta.
La sera seguente, egli venne al palazzo Roccagiovine alcuni minuti prima dell'ora
consueta, avendo una mirabile gardenia all'occhiello e una inquietudine vaga
in fondo all'anima. Il suo coupé si fermò innanzi alla porta,
perché l'androne era già occupato da un'altra carrozza. Le livree,
i cavalli, tutta la cerimonia che accompagnava la discesa della signora, avevano
l'impronta della grande casata. Il conte intravide una figura alta e svelta,
un'acconciatura tempestata di diamanti, un piccolo piede che si posò sul
gradino. Poi, come anch'egli saliva la scala, vide la dama alle spalle.
Ella saliva d'innanzi a lui, lentamente, mollemente, con una specie di misura.
Il mantello foderato d'una pelliccia nivea come la piuma de' cigni, non più retto
dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle.
Le spalle emergevano pallide come l'avorio polito, divise da un solco morbido,
con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so
qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali; e su dalle spalle svolgevasi
agile e tondo il collo; e dalla nuca i capelli, come ravvolti in una spira,
piegavano al sommo della testa e vi formavano un nodo, sotto il morso delle
forcine gemmate.
Quell'armoniosa ascensione della dama sconosciuta dava agli occhi d'Andrea
un diletto così vivo ch'egli si fermò un istante, sul primo pianerottolo,
ad ammirare. Lo strascico faceva su i gradini un fruscìo forte. Il servo
caminava indietro, non su i passi della sua signora lungo la guida di tappeto
rosso, ma da un lato, lungo la parete, con una irreprensibile compostezza.
Il contrasto tra quella magnifica creatura e quel rigido automa era assai bizzarro.
Andrea sorrise.
Nell'anticamera, mentre il servo prendeva il mantello, la dama gittò uno
sguardo rapidissimo al giovine ch'entrava. Questi udì annunziare:
- Sua Eccellenza la duchessa di Scerni!
Sùbito dopo:
- Il signor conte Sperelli-Fieschi d'Ugenta!
E gli piacque che il suo nome fosse pronunziato accanto al nome di quella donna.
Nel salone erano già il marchese e la marchesa d'Ateleta, il barone
e la baronessa d'Isola, Don Filippo del Monte. Il fuoco ardeva nel caminetto;
alcuni divani erano disposti nel raggio del calore; quattro musae dalle larghe
foglie venate di sanguigno si protendevano su le spalliere basse.
La marchesa, facendosi incontro ai due sopraggiunti, disse con quel suo bel
riso inestinguibile:
- Per l'amabilità del caso, non c'è più bisogno di presentazione
tra voi due. Cugino Sperelli, inchinatevi alla divina Elena.
Andrea s'inchinò profondamente. La duchessa gli offrì la mano,
con un gesto di grazia, guardandolo negli occhi.
- Son molto lieta di vedervi, conte. Mi parlò tanto di voi, a Lucerna,
l'estate scorsa, un vostro amico: Giulio Musèllaro. Ero, confesso, un
po' curiosa... Musèllaro anche mi diede a leggere la rarissima vostra
Favola d'Ermafrodito e mi regalò la vostra acquaforte del Sonno, una
prova avanti lettera, un tesoro. Voi avete in me un'ammiratrice cordiale. Ricordatevi.
Ella parlava con qualche pausa. Aveva la voce così insinuante che quasi
dava la sensazione d'una carezza carnale; e aveva quello sguardo involontariamente
amoroso e voluttuoso che turba tutti gli uomini e ne accende d'improvviso la
brama.
Un servo annunziò:
- Il cavalier Sakumi!
Ed apparve l'ottavo ed ultimo commensale.
Era il segretario della Legazione giapponese, piccolo di statura, giallognolo,
con i pomelli sporgenti, con gli occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue,
su cui le palpebre battevano di continuo. Aveva il corpo troppo grosso in paragon
delle gambe troppo sottili; e camminava con le punte de' piedi in dentro, come
se una cintura gli stringesse forte le anche. Le falde della sua giubba erano
troppo abondanti; i calzoni facevano una quantità di pieghe; la cravatta
portava assai visibili i segni della mano inesperta. Egli pareva un daimio
cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci
di crostacei mostruosi e poi ficcato ne' panni d'un tavoleggiante occidentale.
Ma, pur nella sua goffagine, aveva un'espressione arguta, una specie di finezza
ironica agli angoli della bocca.
A mezzo del salone, s'inchinò. Il gibus gli cadde di mano.
La baronessa d'Isola, una bionda piccoletta, dalla fronte tutta coperta di
riccioli, graziosa e smorfiosa come una giovine bertuccia, disse con la sua
voce acuta:
- Venite qua, Sakumi, qua, accanto a me!
Il cavaliere giapponese s'inoltrava reiterando i sorrisi e gli inchini.
- Vedremo stasera la principessa Issé? - gli domandò Donna Francesca
d'Ateleta, che piacevasi di raccogliere ne' suoi saloni i più bizzarri
esemplari delle colonie esotiche in Roma per amor della varietà pittoresca.
L'Asiatico parlava una lingua barbarica, appena intelligibile, mista d'inglese,
di francese e d'italiano.
Tutti, a un punto, parlavano. Era quasi un coro, di mezzo a cui si levavano
di tratto in tratto, come zampilli d'argento, le fresche risa della marchesa.
- Io vi ho certo veduta un'altra volta; non so più dove, non so più quando,
ma vi ho certo veduta - diceva Andrea Sperelli alla duchessa, ritto in piedi
d'innanzi a lei. - Su per le scale, mentre vi guardavo salire, nel fondo della
mia memoria si risvegliava un ricordo indistinto, qualche cosa che prendeva
forma seguendo il ritmo di quel vostro salire, come un'imagine nascente da
un'aria di musica... Non son giunto ad aver limpido il ricordo; ma, quando
vi siete voltata, ho sentito che il vostro profilo aveva una non dubbia rispondenza
con quella imagine. Non poteva essere una divinazione; era dunque un oscuro
fenomeno della memoria. Io vi ho certo veduta, un'altra volta. Chi sa! Forse
in un sogno, forse in una creazione d'arte, forse anche in un diverso mondo,
in una esistenza anteriore...
Pronunziando queste ultime frasi troppo sentimentali e chimeriche, egli rise
apertamente come per prevenire un sorriso o incredulo o ironico della dama.
Elena invece rimase grave.
« Ascoltava ella o pensava ad altro? Accettava ella quella specie di discorsi
o voleva con quella serietà prendersi gioco di lui? Intendeva ella di
secondare l'opera di seduzione iniziata da lui così sollecitamente o si
chiudeva nell'indifferenza e nel silenzio incurante? Era ella, insomma, una donna
per lui espugnabile o no? » Andrea, perplesso, interrogava il mistero.
A quanti hanno l'abitudine della seduzione, specialmente ai temerarii, è nota
questa perplessità che certe donne sollevano tacendo.
Un servo aprì la grande porta che dava nella sala da pranzo.
La marchesa mise il suo braccio sotto quello di Don Filippo del Monte e diede
l'esempio. Gli altri seguirono.
- Andiamo - disse Elena.
Parve ad Andrea che ella gli si appoggiasse con un po' di abbandono. « Non
era un'illusione del suo desiderio? Forse. » Egli pendeva nel dubbio;
ma, ad ogni attimo che passava, si sentiva più a dentro conquistare
dalla malia dolcissima; ad ogni attimo gli cresceva l'ansietà di penetrare
l'animo della donna.
- Cugino, qui - disse Donna Francesca assegnandogli il posto.
Nella tavola ovale, egli stava tra il barone d'Isola e la duchessa di Scerni,
avendo di fronte il cavaliere Sakumi. Il quale stava tra la baronessa d'Isola
e Don Filippo del Monte. Il marchese e la marchesa occupavano i capi. Su la
mensa le porcellane, le argenterie, i cristalli, i fiori scintillavano.
Assai poche dame potevan gareggiare con la marchesa d'Ateleta nell'arte di
dar pranzi. Ella metteva più cura nella preparazione di una mensa che
in un abbigliamento. La squisitezza del suo gusto appariva in ogni cosa; ed
ella era, in verità, l'arbitra delle eleganze conviviali. Le sue fantasie
e le sue raffinatezze si propagavano per tutte le tavole della nobiltà quirite.
Ella, appunto, in quell'inverno aveva introdotta la moda delle catene di fiori
sospese dall'un capo all'altro, fra i grandi candelabri; ed anche la moda dell'esilissimo
vaso di Murano, latteo e cangiante come l'opale, con entro una sola orchidea,
messo tra i varii bicchieri innanzi a ciascun convitato.
- Fior diabolico - disse Donna Elena Muti, prendendo il vaso di vetro e osservando
da vicino l'orchidea sanguigna e difforme.
Ella aveva la voce così ricca di suono che anche le parole più volgari
e le frasi più comuni parevano prendere su la sua bocca non so qual
significato occulto, non so qual misterioso accento e qual grazia nuova. Alla
guisa medesima il re frigio faceva d'oro quantunque cose ei toccasse con la
mano.
- Fiore simbolico, tra le vostre dita - mormorò Andrea, guardando la
dama che in quell'attitudine era sovrammirabile.
La dama vestiva un tessuto d'un color ceruleo assai pallido, sparso di punti
d'argento, che brillava di sotto ai merletti antichi di Burano bianchi d'un
bianco indefinibile, pendente un poco nel fulvo ma tanto poco che appena pareva.
Il fiore, quasi innaturale, come generato da un malefizio, ondeggiava in sul
gambo, fuor di quel fragile tubo che certo l'artefice avea foggiato con un
soffio in una gemma liquefatta.
- Ma io preferisco le rose - disse Elena, posando l'orchidea, con un atto di
repulsione che faceva contrasto al suo precedente moto di curiosità.
Poi si gettò nella conversazione generale. Donna Francesca parlava dell'ultimo
ricevimento all'Ambasciata d'Austria.
- Vedesti Madame de Cahen? - le chiese Elena. - Aveva un abito di tulle giallo
tempestato di non so quanti colibrì con gli occhi di rubino. Una magnifica
uccelliera danzante... E Lady Ouless, la vedesti? Aveva una vesta di tarlatane
bianca, tutta sparsa di alghe marine e di non so che pesci rossi, e su l'alghe
e su i pesci una seconda vesta di tarlatane verdemare. Non la vedesti? Un acquario
di bellissimo effetto...
Ed ella, dopo le piccole maldicenze, rideva d'un riso cordiale che le dava
un tremolio alla parte inferiore del mento e alle narici.
D'innanzi a quella volubilità incomprensibile, Andrea rimaneva ancor
titubante. Quelle cose frivole o maligne uscivano dalle stesse labbra che allora
allora, pronunziando una frase semplicissima, l'avevan turbato fin nel profondo;
uscivano dalle stesse labbra che allora allora, tacendo, eragli parsa la bocca
della Medusa di Leonardo, umano fiore dell'anima divinizzato dalla fiamma della
passione e dall'angoscia della morte. « Qual era dunque la vera essenza
di quella creatura? Aveva ella percezione e conscienza della sua metamorfosi
costante o era ella impenetrabile anche a sé stessa, rimanendo fuori
dal proprio mistero? Quanto nelle sue espressioni e manifestazioni entrava
d'artificio e quanto di spontaneità? » Il bisogno di conoscere
lo pungeva anche fra la delizia in lui effusa dalla vicinanza della donna ch'egli
incominciava ad amare. La trista consuetudine dell'analisi l'incitava pur sempre,
gli impediva pur sempre di obliarsi; ma ogni tentativo era punito, come la
curiosità di Psiche, dall'allontanamento dell'amore, dall'offuscamento
dell'oggetto vagheggiato, dalla cessazion del piacere. « Non era meglio,
invece, abbandonarsi ingenuamente alla prima ineffabile dolcezza dell'amor
che nasceva? » Egli vide Elena nell'atto di bagnare le labbra in un vino
biondo come un miele liquido. Scelse tra i bicchieri quello ove il servo aveva
versato un egual vino; e bevve con Elena. Ambedue, nel tempo medesimo, posarono
su la tovaglia il cristallo. La comunità dell'atto fece volgere l'una
verso l'altro. E lo sguardo li accese ambedue, più assai del sorso.
- Non parlate? - chiesegli Elena, con un'affettazione di leggerezza, che le
alterava un poco la voce. - Corre fama voi siate uno squisitissimo parlatore...
Scuotetevi, dunque!
- Ah, cugino, cugino! - esclamò Donna Francesca, con un'aria di commiserazione,
mentre Don Filippo del Monte le mormorava qualche cosa nell'orecchio.
Andrea si mise a ridere.
- Cavaliere Sakumi, noi siamo i taciturni. Scuotiamoci!
All'Asiatico scintillarono di malizia i lunghi occhi, ancor più rosseggianti
sul rossor fosco che i vini gli accendevano ai pomelli. Fino a quel momento,
egli aveva guardato la duchessa di Scerni, con l'espressione estatica d'un
bonzo che sia nel conspetto della divinità. La sua larga faccia, che
pareva uscita fuori da una pagina classica del gran figuratore umorista O-kou-sai,
rosseggiava come una luna d'agosto, tra le catene de' fiori.
- Sakumi - soggiunse a bassa voce Andrea, chinandosi verso Elena - è innamorato.
- Di chi?
- Di voi. Non ve ne siete accorta?
- No.
- Guardatelo.
Elena si volse. E l'amorosa contemplazione del daimio travestito le chiamò alle
labbra un riso così aperto che quegli si sentì ferire e restò visibilmente
umiliato.
- Tenete - ella disse per compensarlo; e, spiccando dal festone una camelia
bianca, la gittò all'inviato del Sol Levante. - Trovate una similitudine,
in mia lode.
L'Asiatico portò la camelia alle labbra, con un gesto comico di divozione.
- Ah, Ah, Sakumi, - fece la piccola baronessa d'Isola - voi mi siete infedele!
Egli balbettò qualche parola, accendendosi anche più nel volto.
Tutti ridevano, liberamente, come se quello straniero fosse stato invitato
appunto per dare agli altri argomento di gioco. E Andrea, ridendo, si volse
alla Muti.
Ella tenendo il capo sollevato, anzi piegato indietro un poco, guardava il
giovine furtivamente, di fra le palpebre socchiuse, con uno di quegli indescrivibili
sguardi della donna, che paiono assorbire e quasi direi bevere dall'uom preferito
tutto ciò che in lui è più amabile, più desiderabile,
più godibile, tutto ciò che in lei ha destata quella istintiva
esaltazion sessuale da cui ha principio la passione. I lunghissimi cigli velavano
l'iride inclinata all'angolo dell'orbita; e il bianco nuotava come in una luce
liquida, un po' azzurra; e un tremolio quasi impercettibile moveva la palpebra
inferiore. Pareva che il raggio dello sguardo andasse alla bocca di Andrea,
come alla cosa più dolce.
Elena era presa, infatti, da quella bocca. Pura di forma, accesa di colore,
gonfia di sensualità, con un'espressione un po' crudele quando rimaneva
serrata, quella bocca giovenile ricordava per una singolar somiglianza il ritratto
del gentiluomo incognito ch'è nella Galleria Borghese, la profonda e
misteriosa opera d'arte in cui le imaginazioni affascinate credetter ravvisare
la figura del divino Cesare Borgia dipinta dal divino Sanzio. Quando le labbra
si aprivano al riso, quell'espressione fuggiva; e i denti bianchi quadri, eguali,
d'una straordinaria lucentezza, illuminavano una bocca tutta fresca e gioconda
come quella d'un fanciullo.
Appena Andrea si volse, Elena ritrasse lo sguardo; ma non così presto
che il giovine non ne cogliesse il baleno. N'ebbe egli una gioia così forte
che sentì salire alle gote una fiamma. « Ella mi vuole! Ella mi
vuole! » pensò, esultando, nella certezza d'aver già conquistata
la rarissima creatura. Ed anche pensò: « E' un piacere non mai
provato. »
Ci sono certi sguardi di donna che l'uomo amante non iscambierebbe con l'intero
possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido
il fulgore della prima tenerezza non sa la più alta delle felicità umane.
Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell'attimo.
Elena domandò, mentre intorno la conversazione facevasi più viva:
- Resterete a Roma tutto l'inverno?
- Tutto l'inverno, e oltre - rispose Andrea, a cui quella semplice domanda
parve chiudere una promessa d'amore.
- Avete dunque una casa?
- Casa Zuccari: domus aurea.
- Alla Trinità de' Monti? Voi felice!
- Perché felice?
- Perché voi abitate in un luogo ch'io prediligo.
- V'è raccolta, è vero? come un'essenza in un vaso, tutta la
sovrana dolcezza di Roma.
- E' vero! Tra l'obelisco della Trinità e la colonna della Concezione è sospeso
ex-voto il mio cuore cattolico e pagano.
Ella rise di quella frase. Egli aveva pronto un madrigale intorno il cuor sospeso,
ma non lo profferì; perché gli spiaceva di prolungare il dialogo
su quel tono falso e leggero e di disperdere così l'intimo suo godimento.
Tacque.
Ella rimase un poco pensosa. Poi, di nuovo, si gittò nella conversazione
generale, con una vivacità anche maggiore, profondendo i motti e le
risa, facendo scintillare i suoi denti e le sue parole. Donna Francesca mordeva
un poco la principessa di Ferentino, non senza finezza, accennando all'avventura
lesbica di lei con Giovanella Daddi.
- A proposito, la Ferentino annunzia per l'Epifania un'altra fiera di beneficenza
- disse il barone d'Isola. - Non ne sapete ancóra nulla?
- Io sono patronessa - rispose Elena Muti.
- Voi siete una patronessa preziosa - fece Don Filippo del Monte, un uomo quarantenne,
quasi tutto calvo, sottile aguzzatore di epigrammi, che portava sul volto una
specie di maschera socratica in cui l'occhio destro scintillava mobilissimo
per mille diverse espressioni e il sinistro rimaneva sempre immobile e quasi
vetrificato sotto la lenta rotonda, come se l'uno servisse per esprimere e
l'altro per vedere. - Nella Fiera di maggio, riceveste una nuvola d'oro.
- Ah, la Fiera di maggio! Una follia - esclamò la marchesa d'Ateleta.
Come i servi venivan mescendo vin ghiacciato di Sciampagna, ella soggiunse:
- Ti ricordi, Elena? I nostri banchi erano vicini.
- Cinque luigi per sorso! Cinque luigi per morso! - si mise a gridare Don Filippo
del Monte, imitando per gioco la voce di un banditore.
La Muti e l'Ateleta ridevano.
- Già, già è vero. Voi gittavate il bando, Filippo - disse
Donna Francesca. - Peccato che tu non ci fossi, cugino mio! Per cinque luigi
avresti mangiato un frutto segnato prima da' miei denti e per altri cinque
luigi avresti bevuto Champagne nel concavo delle mani d'Elena.
- Che scandalo! - interruppe la baronessa d'Isola, con una smorfietta d'orrore.
- Ah, Mary! E tu non vendevi le sigarette accese prima da te, e molto inumidate,
per un luigi? - fece Donna Francesca, sempre ridendo.
E Don Filippo:
- Io vidi qualche cosa di meglio. Leonetto Lanza ottenne dalla contessa di
Lùcoli, per non so quanto, un sigaro d'avana ch'ella aveva tenuto sotto
l'ascella...
- Ohibò! - interruppe di nuovo la piccola baronessa, comicamente.
- Ogni opera di carità è santa - sentenziò la marchesa.
- Io, a furia di morsi nelle frutta, misi insieme circa dugento luigi.
- E voi? - chiese Andrea Sperelli alla Muti, sorridendo a mala pena. - E voi,
con la vostra coppa carnale?
- Io, dugento settanta.
Così motteggiavano tutti, tranne il marchese. Questo Ateleta era un
uomo già vecchio, afflitto da una sordità incurabile, bene incerettato,
dipinto d'un color biondastro, artefatto dal capo a' piedi. Pareva uno di quei
personaggi finti che si vedono ne' gabinetti di figure in cera. Ogni tanto,
quasi sempre male a proposito, metteva fuori una specie di risolino secco che
pareva lo stridore d'una macchinetta arruginita ch'egli avesse dentro il corpo.
- Ma, a un certo punto, il prezzo del sorso arrivò a dieci luigi. Capite?
- soggiunse Elena. - E all'ultimo quel matto di Galeazzo Secìnaro venne
ad offrirmi un biglietto da cinquecento lire chiedendo in cambio ch'io m'asciugassi
le mani alla sua barba bionda...
Il finale del pranzo era, come sempre in casa d'Ateleta, splendidissimo; poiché il
vero lusso d'una mensa sta nel dessert. Tutte quelle squisite e rare cose dilettavano
la vista, oltre il palato, disposte con arte in piatti di cristallo guarniti
d'argento. I festoni intrecciati di camelie e di violette s'incurvavano tra
i pampinosi candelabri del XVIII secolo animati dai fauni e dalle ninfe. E
i fauni e le ninfe e le altre leggiadre forme di quella mitologia arcadica,
e i Silvandri e le Filli e le Rosalinde animavan della lor tenerezza, su le
tappezzerie delle pareti, un di que' chiari paesi citerèi ch'esciron
dalla fantasia d'Antonio Watteau.
La leggera eccitazione erotica, che prende gli spiriti al termine d'un pranzo
ornato di donne e di fiori, rivelavasi nelle parole, rivelavasi ne' ricordi
di quella Fiera di maggio ove le dame spinte da una emulazione ardente a raccogliere
la maggior possibile somma nel loro ufficio di venditrici, avevano attirato
i compratori con inaudite temerità.
- Accettaste? - chiese Andrea Sperelli alla duchessa.
- Sacrificai le mie mani alla Beneficenza - ella rispose. - Venticinque luigi
di più!
- All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand...
Egli rideva, ripetendo le parole di Lady Macbeth, ma in fondo a lui era una
sofferenza confusa, un tormento non bene definito, che somigliava la gelosia.
Gli appariva ora, all'improvviso, quel non so che di eccessivo e quasi direi
di cortigianesco onde in qualche momento offuscavasi la gran maniera della
gentildonna. Da certi suoni della voce e del riso, da certi gesti, da certe
attitudini, da certi sguardi ella esalava, forse involontariamente, un fascino
troppo afrodisiaco. Ella dispensava con troppa facilità il godimento
visuale delle sue grazie. Di tratto in tratto, alla vista di tutti, forse involontariamente,
ella aveva una movenza o una posa o una espressione che nell'alcova avrebbe
fatto fremere un amante. Ciascuno, guardandola, poteva rapirle una scintilla
di piacere, poteva involgerla d'imaginazioni impure, poteva indovinarne le
segrete carezze. Ella pareva creata, in verità, soltanto ad esercitare
l'amore; - e l'aria ch'ella respirava era sempre accesa dai desiderii sollevati
intorno.
« Quanti l'han posseduta? » pensò Andrea. « Quanti ricordi
ella serba, della carne e dell'anima? »
Il cuore gli si gonfiava come d'un'onda amara, in fondo a cui per sempre bolliva
quella sua tirannica intolleranza d'ogni possesso imperfetto. E non sapeva
distogliere gli occhi dalle mani d'Elena.
In quella mani incomparabili, morbide e bianche, d'una transparenza ideale,
segnata d'una trama di vene glauche appena visibile; in quelle palme un poco
incavate e ombreggiate di rose, ove un chiromante avrebbe trovato oscuri intrichi,
avevano bevuto, dieci, quindici, venti uomini, l'un dopo l'altro, a prezzo.
Egli vedeva le teste di quegli uomini sconosciuti chinarsi e suggere il vino.
Ma Galeazzo Secìnaro era uno de' suoi amici: bello e gagliardo signore,
imperialmente barbato come un Lucio Vero, rivale temibile.
Allora, sotto l'incitazione di quelle imagini, la cupidigia gli crebbe così fiera
e l'invase una impazienza così tormentosa che il termine del pranzo
gli pareva non giungesse più mai. « Io avrò da lei, in
questa sera medesima, la promessa » pensò. Dentro, lo pungeva
un'ansietà come di chi tema vedersi fuggire un bene a cui molti emuli
mirano. E l'incurabile e insaziabile vanità gli rappresentava l'ebrezza
della vittoria. Certo, quanto più la cosa da un uom posseduta suscita
negli altri l'invidia e la brama, tanto più l'uomo ne gode e n'è superbo.
In questo appunto è l'attrattivo delle donne di palco scenico. Quando
tutto il teatro risona di applausi e fiammeggia di desiderii, quegli che solo
riceve lo sguardo e il sorriso della diva si sente inebriare dall'orgoglio
come da una tazza di vin troppo forte e smarrisce la ragione.
- Tu che sei una innovatrice - diceva la Muti rivolgendosi a Donna Francesca,
mentre bagnava le dita nell'acqua tiepida d'un vaso di cristallo azzurro orlato
d'argento - dovresti rimmeter l'uso del dare acqua alle mani col mesciroba
e col bacino antico, fuor di tavola. Questa modernità è brutta.
Non vi pare, Sperelli?
Donna Francesca si levò. Tutti la imitarono. Andrea offerse il braccio
a Elena, inchinandosi, ed ella lo guardò, senza sorridere, mentre posava
il braccio nudo su quello di lui lentamente. Le sue ultime parole erano state
gaie e leggere; quello sguardo invece era così grave e profondo che
il giovine si sentì prendere l'anima.
- Andate - ella chiese - andate domani sera al ballo dell'Ambasciata di Francia?
- E voi? - chiese a sua volta Andrea.
- Io, sì.
- Io, sì.
Sorrisero, come due amanti. Ed ella soggiunse, mentre sedeva:
- Sedete.
Il divano era discosto dal caminetto, lungo la coda del pianoforte che le pieghe
ricche d'una stoffa celavano in parte. Una gru di bronzo, a una estremità,
reggeva nel becco levato un piatto sospeso a tre catenelle, come quel d'una
bilancia; e il piatto conteneva un libro nuovo e una piccola sciabola giapponese,
un waki-zashi, ornato di crisantemi d'argento nella guaina, nella guardia,
nell'elsa.
Elena prese il libro ch'era a metà intonso; lesse il titolo; poi lo
ripose nel piatto che ondeggiò. La sciabola cadde. Come ella ed Andrea
si chinavano nel tempo medesimo per raccoglierla, le loro mani s'incontrarono.
Ella, rialzatasi, esaminò la bell'arma curiosamente; e la tenne, mentre
Andrea le parlava di quel nuovo libro di romanzo e s'insinuava in argomenti
generali d'amore.
- Perché mai rimanete così lontano dal « gran pubblico »?
- gli domandò ella. - Avete giurato fedeltà ai « Venticinque
Esemplari »?
- Sì, per sempre. Anzi il mio sogno è l'« Esemplare Unico » da
offerire alla « Donna Unica ». In una società democratica
com'è la nostra, l'artefice di prosa o di verso deve rinunziare ad ogni
benefizio che non sia di amore. Il lettor vero non è già chi
mi compra ma chi mi ama. Il lettor vero è dunque la dama benevolente.
Il lauro non ad altro serve che ad attirare il mirto...
- Ma la gloria?
- La vera gloria è postuma, e quindi non godibile. Che importa a me
d'avere, per esempio, cento lettori nell'isola dei Sardi ed anche dieci ad
Empoli e cinque, mettiamo, ad Orvieto? E qual voluttà mi viene dall'essere
conosciuto quanto il confettiere Tizio od il profumiere Caio? Io, autore, andrò nel
conspetto dei posteri armato come potrò meglio; ma io, uomo, non desidero
altra corona di trionfo che una... di belle braccia ignude.
Egli guardò le braccia di Elena, scoperte insino alla spalla. Erano
così perfette nell'appiccatura e nella forma che richiamavano la similitudine
firenzuolesca del vaso antico « di mano di buon maestro » e tali
dovevano essere « quelle di Pallade quando era innanzi al pastore ».
Le dita vagavano su le cesellature dell'arma; e l'unghie lucenti parevan continuare
la finezza delle gemme che distinguevano le dita.
- Voi, se non erro, - disse Andrea, involgendo lei del suo sguardo come d'una
fiamma - dovete avere il corpo della Danae del Correggio. Lo sento, anzi, lo
veggo, dalla forma delle vostre mani.
- Oh, Sperelli!
- Non imaginate voi dal fiore la intera figura della pianta? Voi siete, certo,
come la figlia d'Acrisio, che riceve la nuvola d'oro, non quella della Fiera
di maggio, ohibò! Conoscete il quadro della Galleria Borghese?
- Lo conosco.
- Mi sono ingannato?
- Basta, Sperelli: vi prego.
- Perché?
Ella tacque. Ormai ambedue sentivano avvicinarsi il cerchio che doveva chiuderli
e stringerli insieme rapidamente. Né l'una né l'altro aveva conscienza
di quella rapidità. Dopo due o tre ore dal primo vedersi, già l'una
si dava all'altro, in ispirito; e la scambievole dedizione pareva naturale.
Ella disse, dopo un intervallo, senza guardarlo:
- Siete molto giovine. Avete già molto amato?
Egli rispose con un'altra domanda.
- Credete voi che ci sia più nobiltà di animo e di arte ad imaginare
in una sola unica donna tutto l'Eterno feminino, oppure che un uomo di spiriti
sottili ed intensi debba percorrere tutte le labbra che passano, come le note
d'un clavicembalo ideale, finché trovi l'Ut gaudioso?
- Io non so. E voi?
- Neanche io so risolvere il gran dubbio sentimentale. Ma, per istinto, ho
percorso il clavicembalo; e temo d'aver trovato l'Ut, a giudicare almeno dall'avvertimento
interiore.
- Temete?
- Je crains ce que j'espère.
Egli parlava con naturalezza quel linguaggio manierato, quasi estenuando nell'artifizio
delle parole la forza del suo sentimento. Ed Elena si sentiva dalla voce di
lui prendere come in una rete e trarre fuor della vita che movevasi a torno.
- Sua Eccellenza la principessa di Micigliano! - annunziava il servo.
- Il signor conte di Gissi!
- Madame Chrysoloras!
- Il signor marchese e la signora marchesa Massa d'Albe!
I saloni si popolavano. Lunghi strascichi lucenti passavano sul tappeto purpureo;
fuor de' busti constellati di diamanti, ricamati di perle, avvivati di fiori,
emergevano le spalle nude; le capigliature scintillavano quasi tutte di que'
meravigliosi gioielli ereditarii che fanno invidiata la nobiltà di Roma.
- Sua Eccellenza la principessa di Ferentino!
- Sua Eccellenza il duca di Grimiti!
Già si formavano i diversi gruppi, i diversi focolari della malignità e
della galanteria. Il gruppo maggiore, tutto composto di uomini, stava presso
il pianoforte, intorno la duchessa di Scerni ch'erasi levata in piedi per tener
testa a quella specie d'assedio. La Ferentino si avvicinò a salutare
l'amica con un rimprovero.
- Perché non sei venuta oggi da Ninì Santamarta? Ti aspettavamo.
Ella era alta e magra, con due strani occhi verdi che parevan lontani in fondo
alle occhiaie oscure. Vestiva di nero, con una scollatura a punta sul petto
e sulle spalle; portava tra i capelli, d'un biondo cinereo, una gran mezzaluna
di brillanti, a simiglianza di Diana, e agitava un gran ventaglio di piume
rosse, con gesti repentini.
- Ninì va stasera da Madame Van Huffel.
- Anch'io andrò, più tardi, per un poco - disse la Muti. - La
vedrò.
- Oh, Ugenta, - fece la principessa, volgendosi ad Andrea - vi cercavo per
rammentarvi il nostro appuntamento. Domani è giovedì. La vendita
del cardinale Immenraet comincia domani, a mezzogiorno. Venite a prendermi
all'una.
- Non mancherò, principessa.
- Bisogna ch'io porti via quel cristallo di ròcca ad ogni costo.
- Avrete però qualche competitrice.
- Chi?
- Mia cugina.
- E poi?
- Me - disse la Muti.
- Te? Vedremo.
I cavalieri intorno chiedevano schiarimenti.
- Una contesa di dame del XIX secolo, per un vaso di cristallo di ròcca
già appartenuto a Niccolò Niccoli; su quel vaso è intagliato
il troiano Anchise che scioglie un de' calzari di Venere Afrodite - annunziò solennemente
Andrea Sperelli. - Lo spettacolo è dato per grazia, domani, dopo la
prima ora del pomeriggio, nelle sale delle vendite publiche, in via Sistina.
Contendono: la principessa di Ferentino, la duchessa di Scerni, la marchesa
d'Ateleta.
Tutti ridevano, a quel bando.
Il Grimiti domandò:
- Son lecite le scommesse?
- La côte! La côte! - si mise a garrire Don Filippo del Monte,
imitando la voce stridula del bookmaker Stubbs.
La Ferentino col suo ventaglio rosso gli diede un colpo sulla spalla. Ma la
facezia parve buona. Le scommesse incominciarono. Come dal gruppo partivano
risa e motti, a poco a poco altre dame e altri gentiluomini si avvicinarono
per prender parte all'ilarità. La notizia della contesa si spargeva
rapidamente; prendeva le proporzioni d'un avvenimento mondano; occupava tutti
i belli spiriti.
- Datemi un braccio e facciamo un giro - disse Donna Elena Muti ad Andrea.
Quando furono lontani dal gruppo, nel salone contiguo, Andrea stringendole
il braccio mormorò:
- Grazie!
Ella si appoggiava a lui, soffermandosi di tratto in tratto per rispondere
ai saluti. Pareva un poco stanca; ed era pallida come le perle delle sue collane.
Ciascun giovine elegante le faceva un complimento volgare.
- Questa stupidità mi soffoca - ella disse.
Nel volgersi, vide Sakumi che la seguiva portando la camelia bianca all'occhiello,
in silenzio, con gli occhi imbambolati, senza osare d'accostarsi. Gli mandò un
sorriso misericorde.
- Povero Sakumi!
- L'avete veduto ora soltanto? - le chiese Andrea.
- Sì.
- Quando eravamo seduti accanto al pianoforte, egli dal vano d'una finestra
guardava continuamente le vostre mani che giocavano con un'arma del suo paese
destinata a tagliar le pagine d'un libro occidentale.
- Dianzi?
- Già, dianzi. Forse egli pensava: « Dolce cosa far harakiri con
quella piccola sciabola ornata di crisantemi che paion fiorire dalla lacca
e dal ferro al tocco delle sue dita! »
Ella non sorrise. Su la sua faccia era disceso un velo di tristezza e quasi
di sofferenza; i suoi occhi parevano occupati da un'ombra più cupa,
vagamente illuminati sotto la palpebra superiore, come dell'albor d'una lampada;
un'espressione dolente le abbassava un poco gli angoli della bocca. Ella teneva
il braccio destro abbandonato lungo la veste, reggendo nella mano il ventaglio
e i guanti. Non porgeva più la mano ai salutatori e ai lusingatori;
né dava più ascolto ad alcuno.
- Che avete, ora? - le chiese Andrea.
- Nulla. Bisogna ch'io vada dalla Van Huffel. Conducetemi a salutare Francesca;
e poi accompagnatemi fin giù, alla mia carrozza.
Tornarono nel primo salone. Luigi Gullì, un giovine maestro venuto dalle
natali Calabrie in cerca di fortuna, nero e crespo come un arabo, eseguiva
con molta anima la Sonata in do diesis minore di Ludovico Beethoven. La marchesa
d'Ateleta, ch'era una sua proteggitrice, stava in piedi accanto al pianoforte,
guardando la tastiera. A poco a poco la musica grave e soave prendeva tutti
que' leggeri spiriti ne' suoi cerchi, come un gorgo tardo ma profondo.
- Beethoven - disse Elena, con un accento quasi religioso, arrestandosi e sciogliendo
il suo braccio da quello di Andrea.
Ella così rimase ad ascoltare, in piedi, presso una delle banane. Tenendo
proteso il braccio sinistro, si metteva un guanto, con estrema lentezza. In
quell'attitudine l'arco delle sue reni appariva più svelto; tutta la
figura, continuata dallo strascico, appariva più alta ed eretta; l'ombra
della pianta velava e quasi direi spiritualizzava il pallore della carne. Andrea
la guardò. E le vesti, per lui, si confusero con la persona.
« Ella sarà mia » pensava, con una specie d'ebrietà,
poiché la musica patetica gli aumentava l'eccitamento. « Ella mi
terrà fra le sue braccia, sul suo cuore! »
Imaginò di chinarsi e di posare la bocca su la spalla di lei. - Era
fredda quella pelle diafana che sembrava un latte tenuissimo attraversato da
una luce d'oro? - Ebbe un brivido sottile; e socchiuse le palpebre, come per
prolungarlo. Gli giungeva il profumo di lei, una emanazione indefinibile, fresca
ma pur vertiginosa come un vapore d'aròmati. Tutto il suo essere insorgeva
e tendeva con ismisurata veemenza verso la stupenda creatura. Egli avrebbe
voluto involgerla, attrarla entro di sé, suggerla, beverla, possederla
in un qualche modo sovrumano.
Quasi constretta dal soverchiante desiderio del giovine, Elena si volse un
poco; e gli sorrise d'un sorriso così tenue, direi quasi così immateriale,
che non parve espresso da un moto delle labbra, sì bene da una irradiazione
dell'anima per le labbra, mentre gli occhi rimanevan tristi pur sempre, e come
smarriti nella lontananza d'un sogno interiore. Eran veramente gli occhi della
Notte, così inviluppati d'ombra, quali per una Allegoria avrebbeli forse
imaginati il Vinci dopo aver veduta in Milano Lucrezia Crivelli.
E nell'attimo che durò il sorriso, Andrea si sentì solo con lei,
in mezzo alla moltitudine. un orgoglio enorme gli gonfiava il cuore.
Poiché Elena fece l'atto di mettersi l'altro guanto, egli la pregò sommesso:
- No, non quello!
Elena intese; e lasciò nuda la mano.
Una speranza era in lui, di baciarle la mano, prima ch'ella partisse. D'improvviso,
gli risorse nello spirito la visione della Fiera di maggio, quando gli uomini
le bevevano nel concavo delle palme il vino. Di nuovo, un'acuta gelosia lo
punse.
- Ora, andiamo - ella disse, riprendendogli il braccio.
Finita la Sonata, le conversazioni si riannodavano più vive. Il servo
annunziò altri tre o quattro nomi, tra cui quello della principessa
Issé che entrava con un piccolo passo incerto, vestita all'europea,
sorridente dal volto ovale, candida e minuta come la figurina d'un netske.
Un movimento di curiosità si propagò pel salone.
- Addio, Francesca - disse Elena. prendendo congedo dall'Ateleta. - A domani.
- Così presto?
- Mi aspettano in casa Van Huffel. Ho promesso di andare.
- Peccato! Canterà, ora, Mary Dyce.
- Addio. A domani.
- Prendi. E addio. Cugino amabile, accompagnatela.
La marchesa le diede un mazzo di violette doppie; e si volse poi ad incontrar
la principessa Issè, graziosamente. Mary Dyce, vestita di rosso, alta
e ondeggiante come una fiamma, incominciava a cantare.
- Sono tanto stanca! - mormorò Elena, appoggiandosi ad Andrea. - Chiedete,
vi prego, la mia pelliccia.
Egli prese la pelliccia dal servo che glie la porgeva. Aiutando la dama a indossarla,
le sfiorò l'omero con le dita; e sentì ch'ella rabbrividiva.
Tutta l'anticamera era piena di valletti in livree diverse, che s'inchinavano.
La voce soprana di Mary Dyce portava le parole d'una Romanza di Robert Schumann: « Ich
kann's nicht fassen, nicht glauben... »
Scendevano in silenzio. Il servo era andato innanzi a fare avanzare la carrozza
fino a piè della scala. Udivasi rintronare lo scalpitìo de' cavalli
sotto l'androne sonoro. Ad ogni scalino, Andrea sentiva il premere lieve del
braccio di Elena che s'abbandonava un poco, tenendo il capo sollevato, anzi
alquanto piegato indietro, con gli occhi socchiusi.
- Nel salire, vi seguiva la mia ammirazione sconosciuta. Nel discendere vi
accompagna il mio amore - le disse Andrea, sommessamente, quasi umilmente,
ponendo tra le ultime parole una pausa esitante.
Ella non rispose. Ma portò alle nari il mazzo delle viole ed aspirò il
profumo. Nell'atto, l'ampia manica del mantello scivolò lungo il braccio,
oltre il gomito. La vista di quella viva carne, uscente di fra la pelliccia
come una massa di rose bianche fuor della neve, accese ancor più ne'
sensi del giovine la brama, per la singolar procacità che il nudo feminile
acquista allor quando è mal celato da una veste folta e grave. un piccolo
fremito gli moveva le labbra; ed egli tratteneva a stento le parole desiose.
Ma la carrozza era pronta a piè della scala, e il servo era allo sportello.
- Casa Von Huffel - ordinò la duchessa, montando, aiutata dal conte.
Il servo s'inchinò, lasciando lo sportello; ed occupò il suo
posto. I cavalli scalpitavano forte, levando faville.
- Badate! - gridò Elena, tendendo al giovine la mano; e i suoi occhi
e i suoi diamanti scintillavano nell'ombra.
« Essere con lei, là nell'ombra e cercare con la bocca il suo collo
fra la pelliccia profumata! » Egli avrebbe voluto dirle:
- Prendetemi con voi!
I cavalli scalpitavano.
- Badate! - ripeté Elena.
Egli le baciò la mano, premendo, come per lasciarle su la cute un'impronta
di passione. Quindi chiuse lo sportello. E, al colpo, la carrozza partì rapidamente,
con un alto rimbombo per tutto l'androne, uscendo nel Fòro.
III
Così ebbe principio l'avventura di Andrea Sperelli con Donna Elena
Muti.
Il giorno dopo, le sale delle vendite publiche, in via Sistina, erano piene
di gente elegante, venuta per assistere all'annunziata contesa.
Pioveva forte. In quelle stanze umide e basse entrava una luce grigia; lungo
le pareti erano disposti in ordine alcuni mobili di legno scolpito e alcuni
grandi trittici e dittici della scuola toscana del XIV secolo; quattro arazzi
fiamminghi, rappresentanti la Storia di Narcisso, pendevano fino a terra; le
maioliche metaurensi occupavano due lunghi scaffali; le stoffe, per lo più ecclesiastiche,
stavano o spiegate su le sedie o ammucchiate su i tavoli; i cimeli più rari,
gli avorii, gli smalti, i vetri, le gemme incise, le medaglie, le monete, i
libri di preghiere, i codici miniati, gli argenti lavorati erano raccolti entro
un'alta vetrina, dietro il banco dei periti; un odor singolare, prodotto dall'umidità del
luogo e da quelle cose antiche, empiva l'aria.
Quando Andrea Sperelli entrò, accompagnando la principessa di Ferentino,
ebbe un segreto tremito. Pensò: « Sarà già venuta? » E
i suoi occhi rapidamente la cercarono.
Ella era già venuta, infatti. Sedeva innanzi al banco, tra il cavaliere
Dàvila e Don Filippo del Monte. Aveva posato su l'orlo del banco i guanti
e il manicotto di lontra da cui usciva fuori un mazzo di violette. Teneva tra
le dita un quadretto d'argento, attribuito a Caradosso Foppa; e l'osservava
con molta attenzione. Gli oggetti passavano di mano in mano, lungo il banco;
il perito ne faceva le lodi ad alta voce; le persone in piedi, dietro la fila
delle sedie, si chinavano per guardare; quindi incominciava l'incanto. Le cifre
si seguivano rapidamente. Ad ogni tratto, il perito gridava:
- Si delibera! Si delibera!
Qualche amatore, incitato dal grido, gittava una più alta cifra, guardando
gli avversarii. Il perito gridava, con alzato il martello:
- Uno! Due! Tre!
E percoteva il banco. L'oggetto apparteneva all'ultimo offerente. Un mormorio
si propagava intorno; poi di nuovo accendevasi la gara. Il cavaliere Dàvila,
un gentiluomo napoletano che aveva le forme gigantesche e maniere quasi feminee,
celebre raccoglitore e conoscitor di maioliche, dava il suo giudizio su ciascun
pezzo importante. Tre, veramente, in quella vendita cardinalizia, eran le cose « superiori »:
la Storia di Narcisso, la tazza di cristallo di ròcca, e un elmo d'argento
cesellato da Antonio del Pollajuolo, che la Signoria di Firenze donò al
conte d'Urbino nel 1472, in ricompensa de' servigi da lui resi nel tempo della
presa di Volterra.
- Ecco la principessa - disse Don Filippo del Monte alla Muti.
La Muti si levò per salutare l'amica.
- Di già sul campo! - esclamò la Ferentino.
- Di già.
- E Francesca?
- Non è ancor giunta.
Quattro o cinque eleganti signori, il duca di Grimiti, Roberto Casteldieri,
Ludovico Barbarisi, Giannetto Rùtolo, si appressarono. Altri sopravvenivano.
Lo scroscio della pioggia copriva le parole.
Donna Elena porse la mano allo Sperelli, francamente, come ad ognuno. Egli
si sentì, da quella stretta di mano, allontanare. Elena gli parve fredda
e grave. Tutti i suoi sogni s'agghiacciarono e precipitarono, in un attimo;
i ricordi della sera innanzi si confusero; le speranze si estinsero. Che aveva
ella? Non era più la donna medesima. Vestiva una specie di lunga tunica
di lontra e portava sul capo una specie di tòcco, anche di lontra. Aveva
nell'espressione del volto qualche cosa di aspro e quasi di sprezzante.
- C'è ancóra tempo, alla tazza - ella disse alla principessa;
e si rimise a sedere.
Ogni oggetto passava per le sue mani. Un Centauro intagliato in un sardonio,
opera assai fina, forse proveniente dal disperso museo di Lorenzo il Magnifico,
la tentò. Ed ella prese parte alla gara. Comunicava la sua offerta al
perito, a voce bassa, senza levare gli occhi su di lui. A un certo punto, i
competitori si arrestarono; ella ottenne la pietra, a buon prezzo.
- Acquisto eccellente - disse Andrea Sperelli, che stava in piedi, dietro la
sedia di lei.
Elena non poté trattenere un lieve sussulto. Prese il sardonio e lo
diede a vedere, levando la mano all'altezza della spalla, senza voltarsi. Era
veramente un'assai bella cosa.
- Potrebbe essere il Centauro che Donatello copiò - soggiunse Andrea.
E nell'animo di lui, insieme con l'ammirazione per la cosa bella, sorse l'ammirazione
per il nobile gusto della dama che ora la possedeva. « Ella è dunque,
in tutto, una eletta » pensò. « Quali piaceri può dare
ella a un amante raffinato! » Colei s'ingrandiva, nella sua imaginazione;
ma, ingrandendosi, sfuggivagli. La gran sicurezza della sera innanzi mutavasi
in una specie di scoraggiamento; e i dubbii primitivi risorgevano. Egli aveva
troppo sognato, nella notte, a occhi aperti, nuotando in una felicità senza
fine, mentre il ricordo d'un gesto, d'un sorriso, d'un'aria della testa, d'una
piega del vestito lo prendeva e l'allacciava, come una rete. Ora, tutto quel
mondo imaginario crollava miseramente al contatto della realtà. Egli
non aveva visto negli occhi di Elena il singolar saluto a cui aveva tanto pensato;
egli non era stato distinto da lei, in mezzo agli altri, con nessun segno. « Perché? » Si
sentiva umiliato. Tutta quella gente fatua, d'intorno, gli faceva ira; gli
facevano ira quelle cose che attraevan l'attenzione di lei; gli faceva ira
Don Filippo del Monte che di tratto in tratto chinavasi verso di lei per mormorarle
forse qualche malignità. Sopravvenne l'Ateleta. La quale era, come sempre,
allegra. Il suo riso, tra i signori che già l'attorniavano, fece volgere
vivamente Don Filippo.
- La Trinità è perfetta - egli disse, e si levò.
Andrea occupò sùbito la sedia, accanto alla Muti. Come gli giunse
alle nari il profumo sottile delle viole, mormorò:
- Non sono quelle di ieri sera.
- No - fece Elena, freddamente.
Nella sua mobilità, ondeggiante e carezzante come l'onda, c'era sempre
la minaccia del gelo inaspettato. Ella era soggetta a rigidità subitanee.
Andrea tacque, non comprendendo.
- Si delibera! Si delibera! gridava il perito.
Le cifre salivano. La gara era ardente intorno l'elmo d'Antonio del Pollajuolo.
Anche il cavalier Dàvila entrava in lizza. Pareva che a poco a poco
l'aria si riscaldasse e che il desiderio di quelle cose belle e rare prendesse
tutti gli spiriti. La mania si propagava, come un contagio. In quell'anno,
a Roma, l'amore del bibelot e del bric-à-brac era giunto all'eccesso;
tutti i saloni della nobiltà e dell'alta borghesia erano ingombri di « curiosità »;
ciascuna dama tagliava i cuscini del suo divano in una pianeta o in un piviale
e metteva le sue rose in un vaso di farmacia umbro o in una coppa di calcedonio.
I luoghi delle vendite publiche erano un ritrovo preferito; e le vendite erano
frequentissime. Nelle ore pomeridiane del tè le signore, per eleganza,
giungevano dicendo: « Vengo dalla vendita del pittore Campos. Molta animazione.
Magnifici i piatti arabo-ispani! Ho preso un gioiello di Maria Leczinska. Eccolo. »
- Si delibera!
Le cifre salivano. Intorno al banco si accalcavano gli amatori. La gente elegante
si dava ai bei parlari, fra le Natività e le Annunciazioni giottesche.
Le signore, fra quell'odore di muffa e di anticaglie, portavano il profumo
delle loro pellicce e segnatamente quello delle violette, poiché tutti
i manicotti contenevano un mazzolino secondo la moda leggiadra. Per la presenza
di tante persone, un tepore dilettoso diffondevasi nell'aria, come in una umida
cappella dove fossero molti fedeli. La pioggia seguitava a crosciar di fuori
e la luce a diminuire. Furono accese le fiammelle del gas; e i due diversi
chiarori lottavano.
- Uno! Due! Tre!
Il colpo di martello diede il possesso dell'elmo fiorentino a Lord Humphrey
Heathfield. L'incanto ricominciò di nuovo su piccoli oggetti, che passavano
lungo il banco, di mano in mano. Elena li prendeva delicatamente, li osservava
e li posava quindi innanzi ad Andrea, senza dir nulla. Erano smalti, avorii,
orologi del XVIII secolo, gioielli d'oreficeria milanese del tempo di Ludovico
il Moro, libri di preghiere scritti a lettere d'oro su pergamena colorita d'azzurro.
Tra le dita ducali quelle preziose materie parevano acquistar pregio. Le piccole
mani avevano talvolta un leggero tremito al contatto delle cose più desiderabili.
Andrea guardava intensamente; e nella sua imaginazione egli trasmutava in una
carezza ciascun moto di quelle mani. « Ma perché Elena posava
ogni oggetto sul banco, invece di porgerlo a lui? »
Egli prevenne il gesto di Elena, tendendo la mano. E da allora in poi gli avorii,
gli smalti, i gioielli passarono dalle dita dell'amata in quelle dell'amante,
comunicando un indefinibile diletto. Pareva ch'entrasse in loro una particella
dell'amoroso fascino di quella donna, come entra nel ferro un poco della virtù d'una
calamita. Era veramente una sensazione magnetica di diletto, una di quelle
sensazioni acute e profonde che si provan quasi soltanto negli inizii di un
amore e che non paiono avere né una sede fisica né una sede spirituale,
a simiglianza di tutte le altre, ma sì bene una sede in un elemento
neutro del nostro essere, in un elemento quasi direi intermedio, di natura
ignota, men semplice d'uno spirito, più sottile d'una forma, ove la
passione si raccoglie come in un ricettacolo, onde la passione s'irradia come
da un focolare.
« E' un piacere non mai provato » pensò Andrea Sperelli anche
una volta.
L'invadeva un leggero torpore e a poco a poco lo abbandonava la conscienza
del luogo e del tempo.
- Vi consiglio questo orologio - gli disse Elena, con uno sguardo di cui egli
da prima non comprese la significazione.
Era una piccola testa di morto scolpita nell'avorio con una straordinaria potenza
d'imitazione anatomica. Ciascuna mascella portava una fila di diamanti, e due
rubini scintillavano in fondo alle occhiaie. Su la fronte era inciso un motto:
RUIT HORA; su l'occipite un altro motto: TIBI, HIPPOLYTA. Il cranio si apriva,
come una scatola, sebbene la commessura fosse quasi invisibile. L'interior
battito del congegno dava a quel teschietto una inesprimibile apparenza di
vita. Quel gioiello mortuario, offerta d'un artefice misterioso alla sua donna,
aveva dovuto segnar le ore dell'ebrezza e col suo simbolo ammonire gli spiriti
amanti.
In verità, non poteva il Piacere desiderare un più squisito e
più incitante misurator del tempo. Andrea pensò: « Me lo
consiglia ella per noi? » E a quel pensiero tutte le speranze rinacquero
e risorsero di tra l'incertezza, confusamente. Egli si gittò nella gara,
con una specie d'entusiasmo. Gli rispondevano due o tre competitori accaniti,
tra cui Giannetto Rùtolo che, avendo per amante Donna Ippolita Albónico,
era attratto dall'iscrizione: TIBI, HIPPOLYTA.
Dopo poco, rimasero soli a contendere, il Rùtolo e lo Sperelli. Le cifre
salivano oltre il prezzo reale dell'oggetto, mentre i periti sorridevano. A
un certo punto, Giannetto Rùtolo non rispose più, vinto dalla
ostinazione dell'avversario.
- Si delibera! Si delibera!
L'amante di Donna Ippolita, un poco pallido, gridò un'ultima cifra.
Lo Sperelli aumentò. Ci fu un momento di silenzio. Il perito guardava
i due competitori; quindi levò il martello, con lentezza, sempre guardando.
- Uno! Due! Tre!
La testa di morto rimase al conte d'Ugenta. Un mormorio si diffuse per la sala.
Uno sprazzo di luce entrò per la vetrata e fece splendere i fondi aurei
dei trittici, avvivò la fronte dolente d'una madonna senese e il cappellino
grigio della principessa di Ferentino, coperto di scaglie d'acciaio.
- Quando la tazza? - chiese la principessa con impazienza.
Gli amici guardarono i cataloghi. Non c'era più speranza che la tazza
del bizzarro umanista fiorentino andasse all'incanto in quel giorno. Per la
molta concorrenza, la vendita procedeva lentamente. Rimaneva ancóra
un lungo elenco d'oggetti minuti, come cammei, monete, medaglie. Alcuni antiquarii
e il principe Stroganow si disputavano ogni pezzo. Tutti gli aspettanti ebbero
una disillusione. La duchessa di Scerni si levò per andarsene.
- Addio, Sperelli - disse. - A questa sera, forse.
- Perché dite « forse »?
- Mi sento tanto male.
- Che avete mai?
Ella, senza rispondere, si volse agli altri salutando. Ma gli altri seguivano
il suo esempio; escivano insieme. I giovini signori motteggiavano intorno il
mancato spettacolo. La marchesa d'Ateleta rideva, ma la Ferentino pareva di
pessimo umore. I servi che aspettavano nel corridoio, facevano avanzar le carrozze,
come alla porta d'un teatro o d'una sala di concerti.
- Non vieni dalla Miano? - domandò l'Ateleta ad Elena.
- No; torno a casa.
Ella aspettò, su l'orlo del marciapiede, che il suo coupé s'avanzasse.
La pioggia si disperdeva; tra larghe nuvole bianche scorgevasi qualche intervallo
d'azzurro; una zona di raggi faceva luccicare il lastrico. E la signora, investita
da quel chiaror tra biondo e roseo, nel mantello magnifico che scendeva con
poche pieghe diritte e quasi simmetriche, era bellissima. Il sogno medesimo
della sera innanzi sorse nello spirito d'Andrea, quando egli intravide l'interno
del coupé tappezzato di raso come un boudoir, dove luccicavano il cilindro
d'argento pieno d'acqua calda destinato a tenere tiepidi i piccoli piedi ducali. « Essere
là, con lei, in quella intimità così raccolta, in quel
tepore fatto dal suo alito, nel profumo delle violette appassite, intravedendo
appena da' cristalli appannati le vie coperte di fango, le case grige, la gente
oscura! »
Ma ella inchinò lievemente il capo allo sportello, senza sorridere;
e la carrozza partì, verso il palazzo Barberini, lasciandogli nell'anima
una vaga tristezza, uno scoramento indefinito. - Ella aveva detto « forse ».
Poteva dunque non venire al palazzo Farnese. E allora?
Questo dubbio l'affliggeva. Il pensiero di non rivederla gli era insopportabile:
tutte le ore passate lontano da lei già gli pesavano. Egli chiedeva
a sé stesso: « L'amo io dunque già tanto? » Il suo
spirito pareva chiuso in un cerchio, entro cui turbinavano confusamente tutti
i fantasmi delle sensazioni avute nella presenza di quella donna. D'un tratto,
emergevano dalla sua memoria, con una singolare esattezza, una frase di lei,
una intonazione di voce, un'attitudine, un movimento degli occhi, la forma
d'un divano sul quale ella sedeva, il Finale della Sonata del Beethoven, una
nota di Mary Dyce, la figura del servo che stava allo sportello, una qualunque
particolarità, un qualunque frammento, ed oscuravano con la vivezza
della loro imagine le cose della esistenza in corso, si sovrapponevano alle
cose presenti. Egli le parlava, mentalmente; le diceva, mentalmente, tutto
quello che poi le avrebbe detto in realtà, ne' futuri colloqui. Prevedeva
le scene, i casi, le vicende, tutto lo svolgimento dell'amore, secondo le suggestioni
del suo desiderio. - In che modo si sarebbe ella data a lui, la prima volta?
Mentre saliva le scale del palazzo Zuccari, per rientrare nel suo appartamento,
gli balenava questo pensiero. - Ella, certo, sarebbe venuta là. La via
Sistina, la via Gregoriana, la piazza della Trinità de' Monti, specialmente
in certe ore, erano quasi deserte. La casa non era abitata che da stranieri.
Ella avrebbe dunque potuto avventurarsi senza timori. Ma come attirarla? -
La sua impazienza era tanta ch'egli avrebbe voluto poter dire: « Verrà domani! »
« Ella è libera » pensò. « Non la tiene la vigilanza
d'un marito. Nessuno può chiederle conto delle assenze anche lunghe, anche
insolite. Ella è padrona d'ogni suo atto, sempre. » Gli si presentarono
allo spirito, subitamente, interi giorni e intere notti di voluttà, Si
guardò intorno, nella stanza calda, profonda, segreta; e quel lusso intenso
e raffinato, tutto fatto di arte, gli piacque, per lei. Quell'aria aspettava
il suo respiro; quei tappeti chiedevano d'essere premuti dal suo piede; quei
cuscini volevano l'impronta del suo corpo.
« Ella amerà la mia casa » pensò. « Amerà le
cose ch'io amo. » Il pensiero gli dava una indicibile dolcezza; e gli pareva
che già un'anima nuova, consapevole della imminente gioia, palpitasse
sotto gli alti soffitti.
Chiese il tè al servo; e s'adagiò d'innanzi al caminetto, per
meglio godere le finzioni della sua speranza. Trasse dall'astuccio il piccolo
teschio gemmato e si mise ad esaminarlo attentamente. Al chiaror del fuoco
l'esile dentatura adamantina brillava su l'avorio giallastro e i due rubini
illuminavano l'ombra delle occhiaie. Sotto il cranio polito risonava il battito
incessante del tempo. - RUIT HORA. - Quale artefice mai poteva avere avuta
per una sua Ippolita quella superba e libera fantasia di morte, nel secolo
in cui i maestri smaltisti ornavan di teneri idillii pastorali gli orioletti
destinati a segnar pe' cicisbei l'ora de' ritrovi ne' parchi del Watteau? La
scoltura rivelava una mano dotta, vigorosa, padrona d'uno stile proprio: era
in tutto degna d'un quattrocentista penetrante come il Verrocchio.
« Vi consiglio questo orologio. » Andrea sorrideva un poco, ricordando
le parole di Elena pronunziate in un modo così strano, dopo un così freddo
silenzio. - Senza dubbio, dicendomi quella frase, ella pensava all'amore: ella
pensava ai prossimi convegni d'amore, senza dubbio. Ma perché poi, di
nuovo, era diventata impenetrabile? Perché non s'era curata più di
lui? Che aveva ella? - Andrea si smarrì nell'indagine. Però l'aria
calda, la mollezza della poltrona, la luce discreta, le variazioni del fuoco,
l'aroma del tè, tutte quelle sensazioni grate ricondussero il suo spirito
agli errori dilettosi. Egli andava errando senza mèta, come in un fantastico
labirinto. In lui il pensiero assumeva talvolta la virtù dell'oppio: poteva
inebriarlo.
- Mi permetto di ricordare al signor conte che per le sette è atteso
in casa Doria - disse a voce bassa il servo, che aveva anche l'ufficio di rammentatore.
- Tutto è preparato.
Egli andò a vestirsi, nella camera ottagonale ch'era, in verità,
il più elegante e comodo spogliatoio desiderabile per un giovine signore
moderno. Vestendosi, aveva una infinità di minute cure della sua persona.
Sopra un gran sarcofago romano, trasformato con molto gusto in una tavola per
abbigliamento, erano disposti in ordine i fazzoletti di batista, i guanti da
ballo, i portafogli, gli astucci delle sigarette, le fiale delle essenze, e
cinque o sei gardenie fresche in piccoli vasi di porcellana azzurra. Egli scelse
un fazzoletto con le cifre bianche e ci versò due o tre gocce di pao
rosa; non prese alcuna gardenia perché l'avrebbe trovata alla mensa
di casa Doria; empì di sigarette russe un astuccio d'oro martellato,
sottilissimo, ornato d'uno zaffiro su la sporgenza della molla, un po' curvo
per aderire alla coscia nella tasca de' calzoni. Quindi uscì.
In casa Doria, tra un discorso e l'altro, la duchessa Angelieri, a proposito
del recente parto della Miano, disse:
- Pare che Laura Miano e la Muti sieno in rotta.
- Forse per Giorgio? - chiese un'altra dama, ridendo.
- Si dice. E' una storia incominciata a Lucerna, quest'estate...
- Ma Laura non era a Lucerna.
- Appunto. C'era suo marito...
- Credo che sia una malignità; null'altro - interruppe la contessa fiorentina,
Donna Bianca Dolcebuono. - Giorgio è ora a Parigi.
Andrea aveva udito, sebbene al suo lato destro la loquace contessa Starnina
l'occupasse di continuo. Le parole della Dolcebuono non bastavano a lenirgli
la puntura acutissima. Egli avrebbe voluto, almeno, sapere fino in fondo. Ma
l'Angelieri rinunziava a seguitare; e altre conversazioni si mescolavano fra
i trionfi delle magne rose di Villa Pamphily.
« Chi era questo Giorgio? Forse l'ultimo amante di Elena? Ella aveva passata
una parte dell'estate a Lucerna. Ella veniva di Parigi. Ella, nell'uscire dalla
vendita, erasi rifiutata di andare in casa Miano. » Nell'animo di Andrea
le apparenze erano contro di lei tutte. Un desiderio atroce l'invase, di rivederla,
di parlarle. L'invito al palazzo Farnese era per le dieci; alle dieci e mezzo
egli si trovava già là, aspettando.
Aspettò molto. Le sale si empivano rapidamente; le danze incominciavano:
nella galleria d'Annibale Caracci le semiddie quiriti lottavan di formosità con
le Ariadne, con le Galatee, con le Aurore, con le Diane degli affreschi; le
coppie turbinando esalavano profumi: le mani inguantate delle dame premevano
la spalla dei cavalieri; le teste ingemmate si curvavano o si ergevano; certe
bocche semiaperte brillavano come la porpora; certe spalle nude luccicavano
sparse d'un velo d'umidore; certi seni parevano irrompere dal busto, sotto
la veemenza dell'ansia.
- Non ballate, Sperelli? - chiese Gabriella Barbarisi, una fanciulla bruna
come l'oliva speciosa, mentre passava a braccio d'un danzatore, agitando con
la mano il ventaglio e col sorriso un neo ch'ella aveva in una fossetta presso
la bocca.
- Sì, più tardi - rispose Andrea. - Più tardi.
Incurante delle presentazioni e dei saluti, egli sentiva crescere il suo tormento
nell'attesa inutile; e girava di sala in sala alla ventura. Il « forse » gli
faceva temere ch'Elena non venisse. - E s'ella proprio non veniva? Quando l'avrebbe
egli riveduta? - Passò Donna Bianca Dolcebuono; e, senza sapere perché,
egli le si mise al fianco dicendole molte frasi cortesi, provando quasi un
poco di sollievo in compagnia di lei. Avrebbe voluto parlarle di Elena, interrogarla,
rassicurarsi. L'orchestra diè principio a una Mazurka assai molle; e
la contessa fiorentina col suo cavaliere entrò nella danza.
Allora Andrea si volse a un gruppo di giovini signori, che stava presso una
porta. Eravi Ludovico Barbarisi, eravi il duca di Beffi, con Filippo del Gallo,
con Gino Bommìnaco. Guardavano le coppie girare e malignavano un po'
grossolanamente. Il Barberisi raccontava d'aver vedute le rotondità del
petto alla contessa Lùcoli, ballando il Walzer. Il Bommìnaco
domandò:
- Ma come?
- Provaci. Basta chinare gli occhi nel corsage. Ti assicuro che vale la pena...
- Avete badato alle ascelle di Madame Chrysoloras? Guardate!
Il duca di Beffi mostrava una danzatrice che aveva in su la fronte bianca come
il marmo di Luni un'accensione di chiome rosse, a similitudine d'una sacerdotessa
d'Alma Tadema. Il suo busto era congiunto agli omeri da un semplice nastro,
e si scorgevano sotto le ascelle due ciuffi rossastri troppo abondanti.
Il Bommìnaco si mise a ragionare dell'odor singolare che hanno le donne
rosse.
- Tu lo conosci bene, quell'odore - disse con malizia il Barbarisi.
- Perché?
- La Micigliano...
Il giovine si compiacque manifestamente di sentir nominare una delle sue amanti.
Non protestò, ma rise; poi volgendosi allo Sperelli:
- Che hai stasera? Ti cercava tua cugina, un momento fa. Ora balla con mio
fratello. Eccola.
- Guarda! - esclamò Filippo del Gallo. - E' tornata l'Albónico.
Balla con Giannetto.
- E' tornata anche la Muti, da una settimana - fece Ludovico. - Che bella creatura!
- E' qui?
- Non l'ho veduta ancóra.
Andrea ebbe al cuore un sussulto, temendo che da qualcuna di quelle bocche
fosse per uscire una malignità anche contro di lei. Ma il passaggio
della principessa Issé, a braccio del ministro di Danimarca, divagò gli
amici. Egli nondimeno sentivasi spingere da una temeraria curiosità a
riallacciare il discorso sul nome dell'amata, per sapere, per iscoprire; ma
non osò. La Mazurka finiva; il gruppo disperdevasi. « Ella non
viene! Ella non viene! » L'inquietudine interiore gli cresceva così fieramente
che egli pensò d'abbandonare le sale, poiché il contatto di quella
folla eragli insoffribile.
Volgendosi, vide apparire su l'ingresso della galleria la duchessa di Scerni
a braccio dell'ambasciatore di Francia. In un attimo, egli incontrò lo
sguardo di lei; e gli occhi d'ambedue in quell'attimo, parvero mescolarsi,
penetrarsi, beversi. Ambedue sentirono che l'uno cercava l'altra e l'altra
l'uno; ambedue sentirono, ad un punto, scendere su l'anima un silenzio, in
mezzo a quel rumore, e quasi direi aprirsi un abisso in cui tutto il mondo
circostante scomparve sotto la forza d'un pensiero unico.
Ella s'avanzava nell'istoriata galleria del Caracci, dov'era minore la calca,
portando un lungo strascico di broccato bianco che la seguiva come un'onda
grave sul pavimento. Così bianca e semplice, nel passare volgeva il
capo ai molti saluti, mostrando un'aria di stanchezza, sorridendo con un piccolo
sforzo visibile che le increspava gli angoli della bocca, mentre gli occhi
sembravan più larghi sotto la fronte esangue. Non la fronte sola ma
tutte le linee del volto assumevano dall'estremo pallore una tenuità quasi
direi psichica. Ella non era più né la donna seduta alla mensa
degli Ateleta, né quella al banco delle vendite, né quella diritta
un'istante sul marciapiede della via Sistina. La sua bellezza aveva ora un'espressione
di sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo alle altre dame accese
in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po' convulse. Alcuni uomini,
guardandola, rimanevan pensosi. Ella metteva anche negli animi più ottusi
o fatui un turbamento, una inquietudine, un'aspirazione indefinibile. Chi aveva
il cuor libero imaginava con un fremito profondo l'amore di lei; chi aveva
un'amante provava un oscuro rammarico sognando un'ebrezza sconosciuta, nel
cuore non pago; chi recava entro di sé la piaga d'una gelosia o d'un
inganno aperta da un'altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto guarire.
Ella s'avanzava così, tra gli omaggi, avvolta dallo sguardo degli uomini.
All'estremità della galleria, si unì ad un gruppo di dame che
parlavano vivamente agitando i ventagli, sotto la pittura di Perseo e di Fineo
impietrato. Eranvi la Ferentino, la Massa d'Albe, la marchesa Daddi-Tosinghi,
la Dolcebuono.
- Perché così tardi? - le chiese quest'ultima.
- Ho esitato molto, prima di venire, perché non mi sento bene.
- Infatti, sei pallida.
- Credo che riavrò le nevralgie alla faccia, come l'anno scorso.
- Non sia mai!
- Guarda, Elena, Madame de la Boissière - disse Giovanella Daddi, con
quella sua strana voce rauca. - Non sembra un cammello vestito da cardinale,
con un parrucchino giallo?
- Madamoiselle Vanloo stasera perde la testa per tuo cugino - disse la Massa
d'Albe alla principessa, vedendo passare Sofia Vanloo a braccio di Ludovico
Barbarisi. - L'ho sentita dianzi che supplicava, dopo un giro di Polka accanto
a me: « Ludovic, ne faites plus ça en dansant; je frissonne toute... »
Le dame si misero a ridere in coro, tra l'agitazion de' ventagli. Giungevano
dalle sale contigue le prime note d'un Walzer ungherese. I cavalieri si presentarono.
Andrea poté finalmente offrire il braccio a Elena e trarla seco.
- Aspettandovi, ho creduto di morire! Se voi non foste venuta, Elena, io vi
avrei cercata ovunque. Quando vi ho vista entrare, ho trattenuto a stento un
grido. Questa è la seconda sera ch'io vi vedo, ma mi par già di
amarvi non so da che tempo. Il pensiero di voi, unico, incessante, è ora
la vita della mia vita...
Egli proferiva le parole d'amore sommessamente, senza guardarla, tenendo gli
occhi fissi d'innanzi a sé; ed ella le ascoltava nella stessa attitudine,
impassibile in vista, quasi marmorea. Nella galleria rimanevano poche persone.
Lungo le pareti, tra i busti dei Cesari, i cristalli opachi de' lumi, in forma
di gigli, versavano un chiarore eguale, non troppo forte. La profusione delle
piante verdi e fiorite dava imagine di una serra suntuosa. Le onde della musica
si propagavano nell'aria calda, sotto le volte concave e sonore, passando su
tutta quella mitologia come un vento su un giardino opulento.
- Mi amerete voi? - chiese il giovine. - Ditemi che mi amerete!
Ella rispose, con lentezza:
- Son venuta qui per voi soltanto.
- Ditemi che mi amerete! - ripeté il giovine, sentendo tutto il sangue
delle sue vene affluire al cuore come un torrente di gioia.
Ella rispose:
- Forse.
E lo guardò con lo sguardo medesimo che la sera innanzi era a lui parso
una divina promessa, con quell'indefinibile sguardo che quasi dava alla carne
la sensazione del tócco amoroso d'una mano. Poi ambedue tacquero; ed
ascoltarono l'avviluppante musica della danza, che a tratti a tratti facevasi
piana come un sussurro o levavasi come un turbine improvviso.
- Volete che balliamo? - domandò Andrea, che dentro tremava al pensiero
di tenerla fra le braccia.
Ella esitò un poco. Quindi rispose:
- No; non voglio.
Vedendo entrare nella galleria la duchessa di Bugnara, sua zia materna, e la
principessa Alberoni con l'ambasciatrice di Francia, soggiunse:
- Ora, siate prudente; lasciatemi.
Ella gli tese la mano inguantata; e andò incontro alle tre dame, sola,
con un passo ritmico e leggero. Dava una sovrana grazia alla sua persona e
al suo passo il lungo strascico bianco, poiché l'ampiezza e la pesantezza
del broccato contrastavano con l'esilità della cintura. Andrea, seguendola
con gli occhi, ripeteva mentalmente la frase di lei: « Son venuta per
voi soltanto. » - Ella era pur così bella, per lui, per lui solo!
- Subitamente, dal fondo del cuore gli si levò un resto dell'amarezza
che vi avevano messa le parole dell'Angelieri. L'orchestra lanciavasi con impeto
in una ripresa. Ed egli non dimenticò mai né quelle note, né lo
splendor della stoffa trascinata, né una minima piega, né una
minima ombra, né alcuna particolarità di quel momento supremo.
IV
Elena, dopo poco, aveva lasciato il palazzo Farnese, quasi di nascosto, senza
prender congedo né da Andrea né da alcun altro. Era dunque rimasta
al ballo appena mezz'ora. L'amante l'aveva cercata per tutte le sale, a lungo
e invano.
La mattina seguente, egli mandò un servo al palazzo Barberini per avere
notizie di lei; e seppe ch'ella stava male. La sera andò di persona,
sperando d'esser ricevuto; ma una camerista gli disse che la signora soffriva
molto e che non poteva vedere nessuno. Il sabato, verso le cinque del pomeriggio,
tornò, sempre sperando.
Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo,
un po' lugubre, che a poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve.
Intorno alla fontana della piazza Barberini i fanali già ardevano, con
fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un feretro; e il Tritone non gittava
acqua, forse per causa d'un restauro o d'una pulitura. Venivano giù per
la discesa carri tirati da due o da tre cavalli messi in file e torme d'operai
tornanti dalle opere nuove. Alcuni, allacciati per le braccia, si dondolavano
cantando a squarciagola una canzone impudica.
Egli si fermò, per lasciarli passare. Due o tre di quelle figure rossastre
e bieche gli rimasero impresse. Notò che un carrettiere aveva una mano
fasciata e le fasce macchiate di sangue. Anche, notò un altro carrettiere
in ginocchio sul carro, che aveva la faccia livida, le occhiaie cave, la bocca
contratta, come un uomo attossicato. Le parole della canzone si mescevano ai
gridi gutturali, ai colpi delle fruste, al rumore delle ruote, al tintinnio
dei sonagli, alle ingiurie, alle bestemmie, alle aspre risa.
La sua tristezza s'aggravò. Egli si trovava in una disposizion di spirito
strana. La sensibilità de' suoi nervi era così acuta che ogni
minima sensazione a lui data dalle cose esteriori pareva una ferita profonda.
Mentre un pensiero fisso occupava e tormentava tutto il suo essere, egli aveva
tutto il suo essere esposto agli urti della vita circostante. Contro ogni alienazione
della mente ed ogni inerzia della volontà, i suoi sensi rimanevano vigili
ed attivi; e di quell'attività egli aveva una conscienza non esatta.
I gruppi delle sensazioni gli attraversavano d'improvviso lo spirito, simili
a grandi fantasmagorie in una oscurità; e lo turbavano e sbigottivano.
Le nuvole del tramonto, la forma del Tritone cupa in un cerchio di fanali smorti,
quella discesa barbarica d'uomini bestiali e di giumenti enormi, quelle grida,
quelle canzoni, quelle bestemmie esasperavano la sua tristezza, gli suscitavano
nel cuore un timor vago, non so che presentimento tragico.
Una carrozza chiusa usciva dal giardino. Egli vide chinarsi al cristallo un
volto di donna, in atto di saluto; ma non lo riconobbe. Il palazzo levavasi
d'innanzi a lui, ampio come una reggia; le vetrate del primo piano brillavano
di riflessi violacei; su la sommità indugiava un bagliore fievole; dal
vestibolo usciva un'altra carrozza chiusa.
« Se potessi vederla! » egli pensò, soffermandosi. Rallentava
il passo, per prolungare l'incertezza e la speranza. Ella gli pareva assai lontana,
quasi perduta, in quell'edificio così vasto.
La carrozza si fermò; e un signore mise il capo fuori dello sportello,
chiamando:
- Andrea!
Era il duca di Grimiti, un parente.
- Vai dalla Scerni? - chiese colui con un sorriso fine.
- Sì, - rispose Andrea - a prendere notizie. Tu sai, è malata.
- Lo so. Vengo di là. Sta meglio.
- Riceve?
- Me, no. Ma potrà forse ricever te.
E il Grimiti si mise a ridere maliziosamente, tra il fumo della sua sigaretta.
- Non capisco - fece Andrea, serio.
- Bada; si dice già che tu sia in favore. L'ho saputo iersera, in casa
Pallavicini; da una tua amica: te lo giuro.
Andrea fece un atto d'impazienza e si voltò per andarsene.
- Bonne chance! - gli gridò il duca.
Andrea entrò sotto il portico. In fondo a lui, la vanità godeva
di quella diceria già sorta. Egli ora si sentiva più sicuro,
più leggero, quasi lieto, pieno d'un intimo compiacimento. Le parole
del Grimiti gli avevano d'un tratto sollevato gli spiriti, come un sorso d'un
liquor cordiale. Mentre saliva le scale, gli cresceva la speranza. Giunto avanti
alla porta, aspettò per contenere l'ansia. Suonò.
Il servo lo riconobbe; e disse sùbito:
- Se il signor conte ha la bontà d'attendere un momento, vado ad avvertire
Mademoiselle.
Egli assentì; e si mise a passeggiare su e giù per la vasta anticamera
ove gli pareva ripercuotersi forte il tumulto del suo sangue. Le lanterne di
ferro battuto illuminavano inegualmente il cuoio delle pareti, le cassapanche
scolpite, i busti antichi su' piedistalli di broccatello. Sotto il baldacchino
splendeva di ricami l'impresa ducale; un liocorno d'oro in campo rosso. In
mezzo a un tavolo, un piatto di bronzo era colmo di biglietti; e, gittandovi
gli occhi sopra, Andrea vide quello recente del Grimiti. « Bonne chance! » Gli
risonava ancor negli orecchi l'augurio ironico.
Madamoiselle apparve, dicendo:
- La duchessa sta un poco meglio. Credo che il conte potrà passare,
un momento. Venga, di grazia, con me.
Ella era una donna di gioventù già sfiorita, piuttosto sottile,
vestita di nero, con due occhi grigi che scintillavano singolarmente tra i
falsi ricci biondicci. Aveva il passo e il gesto lievissimi, quasi furtivi,
come di chi abbia la consuetudine di vivere intorno agli infermi o di attendere
ad uffici delicati o di eseguire ordini di segretezza.
- Venga, signor conte.
Ella precedeva Andrea, lungo le stanze appena rischiarate, su i tappeti folti
che attenuavano ogni rumore; e il giovine, pur nell'irrefrenabile tumulto del
suo spirito, provava contro di lei un senso istintivo di repulsione, senza
sapere perché.
Giunta innanzi a una porta che coprivano due bande di tappezzeria medìcea
orlate di velluto rosso, ella si fermò, dicendo:
- Entro prima io, ad annunziarla. Attenda qui.
Una voce di dentro, la voce di Elena, chiamò:
- Cristina!
Andrea si sentì tremar le vene con tal furia a quel suono inaspettato,
che pensò: « Ecco, ora vengo meno. » Aveva come l'antiveggenza
indistinta d'una qualche felicità soprannaturale, superante la sua aspettazione,
avanzante i suoi sogni, soverchiante le sue forze. - Ella era là, oltre
quella soglia. - Ogni nozione della realità fuggiva dal suo spirito.
Gli pareva d'aver, un tempo, pittoricamente o poeticamente imaginata una simile
avventura d'amore, in quello stesso modo, con quello stesso apparato, con quello
stesso fondo, con quello stesso mistero; e un altro, un suo personaggio imaginario,
n'era l'eroe. Ora, per uno strano fenomeno fantastico, quella ideal finzione
d'arte confondevasi col caso reale; ed egli provava un senso inesprimibile
di smarrimento. - Ciascuna banda di arazzo recava una figura simbolica. Il
Silenzio e il Sonno, due efebi, svelti e lunghi quali avrebbe potuto disegnarli
il Primaticcio bolognese, custodivano la porta. Ed egli, egli proprio, eravi
d'innanzi, in attesa; ed oltre la soglia, forse nel letto, respirava la divina
amante. - Egli credeva udire il respiro di lei nel palpito delle sue arterie.
Madamoiselle uscì, alfine. Tenendo sollevato con la mano il grave tessuto,
disse a voce bassa, con un sorriso:
- Può entrare.
E si ritrasse. Andrea entrò.
Ebbe, da prima, l'impressione d'un'aria assai calda, quasi soffocante: sentì nell'aria
l'odor singolare del cloroformio; scorse qualche cosa di rosso nell'ombra,
il damasco rosso delle pareti, i cortinaggi del letto; udì la voce stanca
di Elena, che mormorava:
- Vi ringrazio, Andrea, d'esser venuto. Sto meglio.
Un poco esitando, poiché non vedeva distintamente le cose a quel lume
fievole, s'avanzò fino al letto.
Ella sorrideva, col capo affondato su i guanciali, supina, nella mezz'ombra.
Una zona di lana bianca le fasciava la fronte e le gote, passando di sotto
al mento, come un soggólo monacale; né la pelle del volto era
men bianca di quella fascia. Gli angoli esterni delle palpebre si restringevano
per la contrazion dolorosa dei nervi infiammati; a intervalli la palpebra inferiore
aveva un piccolo tremolio involontario; e l'occhio era umido, infinitamente
soave, come velato da una lacrima che non potesse sgorgare, quasi implorante,
fra i cigli che trepidavano.
Una immensa tenerezza invase il cuore del giovine, quando la vide da presso.
Elena trasse fuori una mano e gliela tese, con un gesto assai lento. Egli si
chinò, quasi in ginocchio contro la proda del letto; e si mise a coprir
di baci rapidi e leggeri quella mano che ardeva, quel polso che batteva forte.
- Elena! Elena! Mio amore!
Elena aveva chiuso gli occhi, come per gustare più intimamente il rivo
di piacere che le saliva dal braccio e le si effondeva a sommo del petto e
le s'insinuava nelle fibre più segrete. Volgeva la mano, sotto la bocca
di lui, per sentire i baci su la palma, sul dosso, tra le dita, intorno intorno
al polso, su tutte le vene, in tutti i pori.
- Basta! - mormorò, riaprendo gli occhi; e con la mano che le parve
un po' intorpidita sfiorò i capelli d'Andrea.
In quella carezza così tenue era tanto abbandono che fu su l'anima di
lui la foglia di rosa sul calice colmo. La passione traboccò. Gli tremavano
le labbra, sotto l'onda confusa di parole ch'egli non conosceva, ch'egli non
profferiva. Aveva la sensazione violenta e divina come d'una vita che si dilatasse
oltre le sue membra.
- Che dolcezza! E' vero? - disse Elena, sommessa, ripetendo quel gesto blando.
E un brivido visibile le corse la persona, a traverso le coperte pesanti.
Poiché Andrea fece l'atto di prenderle di nuovo la mano, ella pregava...
- No... Così, resta così! Mi piaci!
Premendogli la tempia, lo costrinse a posare il capo su la sponda, per modo
ch'egli sentiva contro una guancia la forma del ginocchio di lei. Lo guardò quindi
ella un poco, pur sempre accarezzandogli i capelli; e con una voce morente
di delizia, mentre le passava tra' cigli qualche cosa come un baleno bianco,
soggiunse, allungando le parole:
- Quanto mi piaci!
Un inesprimibile allettamento voluttuoso era nell'apertura delle sue labbra,
quando pronunziava la prima sillaba di quel verbo così liquido e sensuale
in bocca a una donna.
- Ancóra! - mormorò l'amante, i cui sensi languivano di passione,
alla carezza delle dita, alla lusinga della voce di lei. - Ancóra! Dimmi!
Parla!
- Mi piaci! - ripeteva Elena, vedendo ch'egli la guardava fiso nelle labbra
e forse conoscendo il fascino ch'ella emanava con quella parola.
Poi tacquero ambedue. L'uno sentiva la presenza dell'altra fluire e mescersi
nel suo sangue, finché questo divenne la vita di lei e il sangue di
lei la vita sua. Un silenzio profondo ingrandiva la stanza; il crocifisso di
Guido Reni faceva religiosa l'ombra dei cortinaggi; il romore dell'Urbe giungeva
come il murmure d'un flutto assai lontano.
Allora, con un movimento repentino, Elena si sollevò sul letto, strinse
fra le due palme il capo del giovine, l'attirò, gli alitò sul
volto il suo desiderio, lo baciò, ricadde, gli si offerse.
Dopo, una immensa tristezza la invase; la occupò l'oscura tristezza
che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti
i fiumi è l'acqua amara. Ella, giacendo, teneva le braccia fuori dalla
coperta abbandonate lungo i fianchi, le mani supine, quasi morte, agitate di
tratto in tratto da un lieve sussulto; e guardava Andrea, con gli occhi bene
aperti, con uno sguardo continuo, immobile, intollerabile. A una a una, le
lacrime incominciarono a sgorgare; e scendevano per le gote a una a una, silenziosamente.
- Elena, che hai! Dimmi: che hai? - le chiese l'amante, prendendole i polsi,
chinandosi a suggerle dai cigli le lacrime.
Ella stringeva forte i denti e le labbra per contenere il singulto.
- Nulla. Addio. Lasciami; ti prego! Mi vedrai domani. Va.
La sua voce e il suo gesto furono così supplichevoli che Andrea obbedì.
- Addio - egli disse; e la baciò in bocca, teneramente, provando il
sapore delle stille salse, bagnandosi di quel caldo pianto. - Addio. Amami!
Ricòrdati!
Gli parve, rivarcando la soglia, di udire dietro di sé uno scoppio di
singulti. Andò innanzi, un po' incerto, titubante come un uomo che abbia
la vista malsicura. Gli persisteva nel senso l'odore del cloroformio, simile
a un vapor d'ebrezza; ma ad ogni passo qualche cosa d'intimo gli sfuggiva,
si disperdeva nella'aria; ed egli, per un istintivo impulso, avrebbe voluto
restringersi, chiudersi, invilupparsi, impedire quella dispersione. Le stanze
erano deserte e mute, d'innanzi. A una porta, Madamoiselle comparve, senza
alcun rumore di passi, senza alcun fruscìo di vesti, come un fantasma.
- Di qua, signor conte. Ella non ritrova la via.
Sorrideva in una maniera ambigua e irritante; e la curiosità rendeva
più pungenti i suoi occhi grigi. Andrea non parlò. Di nuovo la
presenza di quella donna gli era molesta, lo turbava, gli suscitava quasi un
vago ribrezzo, gli faceva ira.
Appena fu sotto il portico, respirò come un uomo liberato da un'angoscia.
La fontana metteva tra gli alberi un chioccolìo sommesso, rompendo a
tratti in uno strepito sonoro; tutto il cielo risfavillava di stelle che certe
nuvole lacere avvolgevano come in lunghe capigliature cineree o in vaste reti
nere; fra i colossi di pietra, a traverso i cancelli, apparivano e sparivano
i fanali delle vetture in corsa; spandevasi nell'aria fredda il soffio della
vita urbana; le campane sonavano, da lungi e da presso. Egli aveva alfine la
conscienza intera della sua felicità.
Una felicità piena, obliosa, libera, sempre novella, tenne ambedue,
dopo d'allora. La passione li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò che
per ambedue non fosse un godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati
nello spirito e nel corpo all'esercizio di tutti i più alti e più rari
diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, l'Insuperabile, l'Inarrivabile;
e giungevano così oltre, che talvolta una oscura inquietudine li prendeva
pur nel colmo dell'oblio, quasi una voce d'ammonimento salisse dal fondo dell'essere
loro ad avvertirli d'un ignoto castigo, d'un termine prossimo. Dalla stanchezza
medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente;
come più s'inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s'agitava,
generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la
fiamma non trova la vita che nella combustione. Talvolta, una fonte di piacere
inopinata aprivasi dentro di loro, come balza d'un tratto una polla viva sotto
le calcagna d'un uomo che vada alla ventura per l'intrico d'un bosco; ed essi
vi bevevano senza misura, finché non l'avevano esausta. Talvolta, l'anima,
sotto l'influsso dei desiderii, per un singolar fenomeno d'allucinazione, produceva
l'imagine ingannevole d'una esistenza più larga, più libera,
più forte, « oltrapiacente »; ed essi vi s'immergevano,
vi godevano, vi respiravano come in una loro atmosfera natale. Le finezze e
le delicatezze del sentimento e dell'imaginazione succedevano agli eccessi
della sensualità.
Ambedue non avevano alcun ritegno alle mutue prodigalità della carne
e dello spirito. Provavano una gioia indicibile a lacerare tutti i veli, a
palesare tutti i segreti, a violare tutti i misteri, a possedersi fin nel profondo,
a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo.
- Che strano amore! - diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo
male, la rapida dedizione. - Mi sarei data a te la sera stessa ch'io ti vidi.
Ella ne provava una specie d'orgoglio. E l'amante diceva:
- Quando udii, quella sera, annunziare il mio nome accanto al tuo, su la soglia,
ebbi, non so perché, la certezza che la mia vita era legata alla tua,
per sempre!
Essi credevano quel che dicevano. Rilessero insieme l'elegia romana del Goethe: « Lass
dich, Geliebte, nicht reun, dass du mir so schnell dich ergeben!... Non ti
pentire, o diletta, d'esserti così prontamente concessa! Credimi, io
di te non serbo alcun pensiero basso e impuro. Gli strali d'Amore han vario
effetto: gli uni graffiano appena, e del tossico che s'insinua il suo cuor
soffre molt'anni; bene pennuti e armati d'un ferro aguzzo e vivo, gli altri
penetrano nel midollo e subitamente infiammano il sangue. Ai tempi eroici,
quando gli dei e le dee amavano, il desio seguiva lo sguardo, il godimento
seguiva il desio. Credi tu che la dea dell'Amore abbia a lungo meditato quando
sotto i boschetti d'Ida, Anchise un giorno le piacque? E la Luna? S'ella esitava,
l'Aurora gelosa avrebbe presto risvegliato il bel pastore! Ero vede Leandro
in piena festa, e l'acceso amante si tuffa nell'onda notturna. Rea Silva, la
vergine regia, va ad attingere acqua nel Tevere e la ghermisce il dio... »
Come per il divino elegiopèo di Faustina, per essi Roma s'illuminava
d'una voce novella. Ovunque passavano, lasciavano una memoria d'amore. Le chiese
remote dell'Aventino: Santa Sabina su le belle colonne di marmo pario, il gentil
verziere di Santa Maria del Priorato, il campanile di Santa Maria in Cosmedin,
simile a un vivo stelo roseo nell'azzurro, conoscevano il loro amore. Le ville
dei cardinali e dei principi: la Villa Pamphily, che si rimira nelle sue fonti
e nel suo lago tutta graziata e molle, ove ogni boschetto par chiuda un nobile
idillio ed ove i baluardi lapidei e i fusti arborei gareggian di frequenza;
la Villa Albani, fredda e muta come un chiostro, selva di marmi effigiati e
museo di bussi centenarii, ove dai vestibili e dai portici, per mezzo alle
colonne di granito, le cariatidi e le erme, simboli d'immobilità, contemplano
l'immutabile simetria del verde; e la Villa Medici che pare una foresta di
smeraldo ramificante in una luce soprannaturale; e la Villa Ludovisi, un po'
selvaggia, profumata di viole, consacrata dalla presenza della Giunone cui
Wolfgang adorò, ove in quel tempo i platani d'Oriente e i cipressi dell'Aurora,
che parvero immortali, rabbrividivano nel presentimento del mercato e della
morte; tutte le ville gentilizie, sovrana gloria di Roma, conoscevano il loro
amore. Le gallerie dei quadri e delle statue: la sala borghesiana delle Danae
d'innanzi a cui Elena sorrideva quasi rivelata, e la sala degli specchi ove
l'imagine di lei passava tra i putti di Ciro Ferri e le ghirlande di Mario
de' Fiori; la camera dell'Eliodoro, prodigiosamente animata della più forte
palpitazion di vita che il Sanzio abbia saputo infondere nell'inerzia d'una
parete, e l'appartamento dei Borgia, ove la grande fantasia del Pinturicchio
si svolge in un miracoloso tessuto d'istorie, di favole, di sogni, di capricci,
di artifizi e di ardiri; la stanza di Galatea, per ove si diffonde non so che
pura freschezza e che serenità inestinguibile di luce, e il gabinetto
dell'Ermafrodito, ove lo stupendo mostro, nato dalla voluttà d'una ninfa
e d'un semidio, stende la sua forma ambigua tra il rifulgere delle pietre fini;
tutte le solitarie sedi della Bellezza conoscevano il loro amore.
Essi comprendevano l'alto grido del poeta: « Eine Welt zwar bist Du,
o Rom! Tu sei un mondo, o Roma! Ma senza l'amore il mondo non sarebbe il mondo,
Roma stessa non sarebbe Roma. » E la scala della Trinità, glorificata
dalla lenta ascensione del Giorno, era la scala della Felicità, per
l'ascensione della bellissima Elena Muti.
Elena spesso piacevasi di salire per quei gradini al buen retiro del palazzo
Zuccari. Saliva piano, seguendo l'ombra; ma l'anima sua correva rapida alla
cima. Ben molte ore gaudiose misurò il piccolo teschio d'avorio dedicato
ad Ippolita, che Elena talvolta accostava all'orecchio con un gesto infantile,
mentre premeva l'altra guancia sul petto dell'amante, per ascoltare insieme
la fuga degli attimi e il battito del cuore. Andrea le pareva sempre nuovo.
Talvolta, ella rimaneva quasi attonita d'innanzi all'infaticabile vitalità di
quello spirito e di quel corpo. Talvolta, le carezze di lui le strappavano
un grido in cui esalavasi tutto il terribile spasimo dell'essere sopraffatto
dalla violenza della sensazione. Talvolta, fra le braccia di lui, la occupava
una specie di torpore quasi direi veggente, in cui ella credeva divenire, per
la transfusione d'un'altra vita, una creatura diafana, leggera, fluida, penetrata
d'un elemento immateriale, purissima; mentre tutte le pulsazioni nella lor
moltitudine le davano imagine del tremito innumerevole d'un mar calmo in estate.
Anche, talvolta, fra le braccia, sul petto di lui, dopo le carezze, ella sentiva
dentro di sé la voluttà acquietarsi, agguagliarsi, addormentarsi,
a similitudine di un'acqua estuante che a poco a poco si posi; ma se l'amato
respirava più forte o appena appena si muoveva, ella sentiva di nuovo
un'onda ineffabile attraversarla dal capo a' piedi, vibrare diminuendo, e infine
morire. Questa « spiritualizzazione » del gaudio carnale, causata
dalla perfetta affinità dei due corpi, era forse il più saliente
tra i fenomeni della loro passione. Elena, talvolta, aveva lacrime più dolci
dei baci.
E nei baci, che dolcezza profonda! Ci sono bocche di donne le quali paiono
accendere d'amore il respiro che le apre. Le invermigli un sangue ricco più d'una
porpora o le geli un pallor d'agonia, le illumini la bontà d'un consenso
o le oscuri un'ombra di disdegno, le dischiuda il piacere o le torca la sofferenza,
portano sempre in loro un enigma che turba gli uomini intellettuali e li attira
e li captiva. Un'assidua discordia tra l'espression delle labbra e quella degli
occhi genera il mistero; per che un'anima duplice vi si riveli con diversa
bellezza, lieta e triste, gelida e passionata, crudele e misericorde, umile
e orgogliosa, ridente e irridente; e l'ambiguità suscita l'inquietudine
nello spirito che si compiace delle cose oscure. Due quattrocentisti meditativi,
perseguitori infaticabili d'un Ideale raro e superno, psicologi acutissimi
a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana,
immersi di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue
e de' segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, compresero e resero
per vario modo nell'arte loro tutta l'indefinibile seduzione di tali bocche.
Ne' baci d'Elena era, in verità, per l'amato, l'elisir sublimissimo.
Di tutte le mescolanze carnali quella pareva loro la più completa, la
più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo fiore delle loro anime
si disfacesse premuto dalle labbra, spargendo un succo di delizie per ogni
vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al cuore la sensazione illusoria
come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era la congiunzion
perfetta, che l'una forma sembrava il natural complemento dell'altra. Per prolungare
il sorso, contenevano il respiro finché non si sentivan morire d'ambascia,
mentre le mani dell'una tremavan su le tempie dell'altro smarritamente. Un
bacio li prostrava più d'un amplesso. Distaccati, si guardavano, con
gli occhi fluttuanti in una nebbia torbida. Ed ella diceva, con voce un po'
roca, senza sorridere:- Moriremo.
Talvolta, riverso, egli chiudeva le palpebre aspettando. Ella, che conosceva
quell'artifizio, chinavasi sopra di lui con meditata lentezza, a baciarlo.
Non sapeva l'amato dove avrebbe ricevuto quel bacio ch'egli, nella sua volontaria
cecità, vagamente presentiva. In quel minuto d'aspettazione e d'incertezza,
un'ansia indescrivibile gli agitava tutte le membra, simile nell'intensità al
raccapriccio d'un uomo bendato che sia sotto la minaccia d'un suggello di fuoco.
Quando infine le labbra lo toccavano, frenava a stento un grido. E la tortura
di quel minuto gli piaceva; poiché non di rado la sofferenza fisica
nell'amore attrae più della blandizia. Elena anche, per quel singolare
spirito imitativo che spinge gli amanti a rendere esattamente una carezza,
voleva provare.
- Mi sembra - diceva ad occhi chiusi - che tutti i pori della mia pelle sieno
come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere
elette, invidiose l'una dell'altra...
Egli allora, per equità, si metteva a coprirla di baci rapidi e fitti,
trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun minimo spazio,
non allentando la sua opera mai. Ella rideva, felice, sentendosi cingere come
d'una veste invisibile; rideva e gemeva, folle, sentendo la furia di lui imperversare;
rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore.
Poi, con uno sforzo repentino, faceva prigione il collo di lui fra le sue braccia,
l'allacciava con i suoi capelli, lo teneva, tutto palpitante, simile a una
preda. Egli, stanco, era contento di cedere e di rimaner così presto
in quei vincoli. Guardandolo, ella esclamava:
- Come sei giovine! Come sei giovine!
La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, contro tutte le dispersioni,
resisteva, persisteva, a somiglianza d'un metallo inalterabile, d'un aroma
indistruttibile. Lo splendor sincero della giovinezza era, appunto, la qualità sua
più preziosa. Alla gran fiamma della passione, quanto in lui era più falso,
più tristo, più arteficiato, più vano, si consumava come
un rogo. Dopo la resoluzion delle forze, prodotta dall'abuso dell'analisi a
dall'azion separata di tutte le sfere interiori, egli tornava ora all'unità delle
forze, dell'azione, della vita; riconquistava la confidenza e la spontaneità;
amava e godeva giovenilmente. Certi suoi abbandoni parevano d'un fanciullo
inconsapevole; certe sue fantasie erano piene di grazia, di freschezza e di
ardire.
- Qualche volta - gli diceva Elena - la mia tenerezza per te si fa più delicata
di quella d'un amante. Io non so... Diventa quasi materna.
Andrea rideva, perché ella era maggiore appena di tre anni.
- Qualche volta - egli diceva a lei - la comunione del mio spirito col tuo
mi par così casta ch'io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani.
Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del sentimento avvenivano sempre
nei languidi intervalli del piacere, quando sul riposo della carne l'anima
provava un bisogno vago d'idealità. Allora, anche, risorgevano nel giovine
le idealità dell'arte ch'egli amava; e gli tumultuavano nell'intelletto
tutte le forme un tempo create e contemplate, chiedendo di uscire; e le parole
del monologo goethiano l'incitavano. « Che può sotto i tuoi occhi
l'accesa natura? Che può la forma dell'arte intorno a te, se la passionata
forza creatrice non t'empie l'anima e non affluisce alla punta delle tue dita,
incessantemente, per riprodurre? » Il pensiero di dar gioia all'amante,
con un verso numeroso o con una linea nobile, lo spinse all'opera. Egli scrisse
La Simona; e fece le due acqueforti, dello Zodiaco e della Tazza d'Alessandro.
Eleggeva, nell'esercizio dell'arte, gli strumenti difficili, esatti, perfetti,
incorruttibili: la metrica e l'incisione; e intendeva proseguire e rinnovare
le forme tradizionali italiane, con severità, riallacciandosi ai poeti
dello stil novo e ai pittori che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito
era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l'espressione.
I suoi saggi letterarii erano esercizii, giuochi, studii, ricerche, esperimenti
tecnici, curiosità. Egli pensava, con Enrico Taine, fosse più difficile
compor sei versi belli che vincere una battaglia in campo. La sua Favola d'Ermafrodito
imitava nella struttura la Favola di Orfeo del Poliziano; ed aveva strofe di
straordinaria squisitezza, potenza e musicalità specialmente nei cori
cantati da mostri di duplice natura: dai Centauri, dalle Sirene e dalle Sfingi.
Questa sua nuova tragedia, La Simona, di breve misura, aveva un sapor singolarissimo.
Sebbene rimata negli antichi modi toscani, pareva immaginata da un poeta inglese
del secolo scorso d'Elisabetta, sopra una novella del Decamerone; chiudeva
in sè qualche parte del dolce e strano incanto che c'è in certi
drammi minori di Guglielmo Shakespeare.
Il poeta segnò così la sua opera, nel frontespizio dell'Esemplare
Unico: A. S. CALCOGRAPHUS AQUA FORTI SIBI TIBI FECIT.
Il rame l'attraeva più della carta; l'acido nitrico, più dell'inchiostro;
il bulino, più della penna. Già uno de' suoi maggiori, Giusto
Sperelli, aveva esperimentata l'incisione. Alcune stampe di lui, eseguite intorno
l'anno 1520, rivelavano manifestamente l'influenza di Antonio Pollajuolo, per
la profondità e quasi direi acerbità del segno. Andrea praticava
la maniera rembrandtesca a tratti liberi e la maniera nera prediletta dagli
acquafortisti inglesi della scuola del Green, del Dixon, dell'Earlom. Egli
aveva formata la sua educazione su tutti gli esemplari, aveva studiata partitamente
la ricerca di ciascuno intagliatore, aveva imparato da Alberto Durero e dal
Parmigiano, da Marc'Antonio e dall'Holbein, da Annibale Caracci e dal Marc-Ardell,
da Guido e dal Callotta, dal Toschi e da Gerardo Audran; ma l'intendimento
suo, d'innanzi al rame, era questo: rischiarare con gli effetti di luce del
Rembrandt le eleganze di disegno de' Quattrocentisti fiorentini appartenenti
alla seconda generazione come Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandajo e Filippino
Lippi.
I due rami recenti rappresentavano, in due episodii d'amore, due attitudini
della bellezza d'Elena Muti; e prendevano il titolo dagli accessorii.
Tra le cose più preziose possedute da Andrea Sperelli era una coperta
di seta fina, d'un colore azzurro disfatto, intorno a cui giravano i dodici
segni dello Zodiaco in ricamo, con le denominazioni Aries, Taurus, Gemini,
Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius, Arcitenens, Caper, Amphora, Pisces a caratteri
gotici. Il Sole trapunto d'oro occupava il centro del cerchio; le figure degli
animali, disegnate con uno stile un po' arcaico che ricordava quello de' musaici,
aveva uno splendore straordinario; tutta quanta la stoffa pareva degna d'ammantare
un talamo imperiale. Essa, infatti, proveniva dal corredo di Bianca Maria Sforza,
nipote di Ludovico il Moro; la quale andò in sposa all'imperator Massimiliano.
La nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca
ammantatura. Talvolta, mentre Andrea stava nell'altra stanza, ella si svestiva
in furia, si distendeva nel letto, sotto la coperta mirabile; e chiamava forte
l'amante. Ed a lui che accorreva ella dava imagine d'una divinità avvolta
in una zona di firmamento. Anche, talvolta, volendo andare innanzi al camino,
ella levavasi dal letto traendo seco la coperta. Freddolosa, si stringeva addosso
la seta, con ambo le braccia; e camminava a piedi nudi, con passi brevi, per
non implicarsi nelle pieghe abbondanti. Il Sole splendevale su la schiena,
a traverso i capelli disciolti; lo Scorpione le prendeva una mammella; un gran
lembo zodiacale strisciava dietro di lei, sul tappeto, trasportando le rose,
s'ella le aveva già sparse.
L'acquaforte rappresentava appunto Elena dormente sotto i segni celesti. La
forma muliebre appariva secondata dalle pieghe della stoffa, col capo abbandonato
un poco fuor della proda del letto, con i capelli pioventi fino a terra, con
un braccio pendulo e l'altro posato lungo il fianco. Le parti non nascoste,
ossia la faccia, il sommo del petto e le braccia erano luminosissime; e il
bulino aveva reso con molta potenza lo scintillio dei ricami nella mezz'ombra
e il mistero dei simboli. Un alto levriere bianco, Famulus, fratel di quello
che posa la testa su le ginocchia della contessa d'Arundel nel quadro di Pietro
Paolo Rubens, tendeva il collo verso la signora, guatando, fermo su le quattro
zampe, disegnato con una felice arditezza di scorcio. Il fondo della stanza
era opulento e oscuro.
L'altra acquaforte riferivasi al gran bacino d'argento che Elena Muti aveva
ereditato da sua zia Flaminia.
Questo bacino era storico: e si chiamava la Tazza d'Alessandro. Fu donato alla
principessa di Bisenti da Cesare Borgia prima ch'ei partisse per la terra di
Francia a portare la bolla di divorzio e le dispense di matrimonio a Luigi
XII; e doveva esser compreso fra le salmerie favolose che il Valentino portò seco
nel suo ingresso a Chinon descritto dal signor di Brantôme. Il disegno
delle figure che giravano a torno e di quelle che sorgevano dal margine delle
due estremità era attribuito al Sanzio.
La tazza si chiamava di Alessandro perché fu composta in memoria di
quella prodigiosa a cui nei vasti conviti soleva prodigiosamente bere il Macedone.
Stuoli di Sagittarii giravano intorno ai fianchi del vaso, con tesi gli archi,
tumultuando, nelle attitudini mirabili di quelli i quali Raffaello dipinse
ignudi saettanti contro l'Erma nel fresco che sta nella sala borghesiana ornata
da Giovan Francesco Bolognesi. Inseguivano una gran Chimera che sorgeva su
dall'orlo, come un'ansa, alla estremità del vaso, mentre dalla parte
opposta balzava il giovine sagittario Bellerofonte con l'arco teso contro il
mostro nato di Tifone. Gli ornamenti della base e dell'orlo erano d'una rara
leggiadria. L'interno era dorato, come quel d'un ciborio. Il metallo era sonoro
come uno strumento. Il peso era di trecento libbre. La forma tutta quanta era
armoniosa.
Spesso, per capriccio, Elena Muti prendeva in quella tazza il suo bagno mattutino.
Ella vi si poteva bene immergere, se non distendere, con tutta la persona;
e nulla, in verità, eguagliava la suprema grazia di quel corpo raccolto
nell'acqua che la doratura tingeva d'un indescrivibile tenuità di riflessi,
poiché il metallo non era argento ancóra e l'oro moriva.
Invaghito di tre forme diversamente eleganti, cioè della donna, della
tazza, e del veltro, l'acquafortista trovò una composizione di linee
bellissima. La donna, ignuda, in piedi, entro il bacino, appoggiandosi con
una mano su la sporgenza della Chimera e con l'altra su quella di Bellerofonte,
protendevasi innanzi ad irridere il cane che, piegato in arco su le zampe anteriori
abbassate e su le posteriori diritte, a simiglianza di un felino quando spicca
il salto, ergeva verso di lei il muso lungo e sottile come quel d'un luccio,
argutamente.
Non mai Andrea Sperelli aveva con più ardore goduta e sofferta l'intenta
ansietà dell'artefice in vigilare l'azion dell'acido cieca e irreparabile;
non mai aveva con più ardore acuita la pazienza nella sottilissima opera
della punta secca su le asprezze dei passaggi. Egli era nato, in verità,
calcografo, come Luca d'Olanda. Possedeva una scienza mirabile (ch'era forse
un raro senso) di tutte le minime particolarità di tempo e di grado
le quali concorrono a infinitamente variare sul rame l'efficacia dell'acqua
forte. Non la pratica, non la diligenza, non la intelligenza soltanto, ma specie
quel natio senso quasi infallibile l'avvertiva del momento giusto, dell'attimo
puntuale, in cui la corrosione giungeva a dare tal preciso valor d'ombra che
nell'intenzion dell'artefice doveva avere la stampa. E nel padroneggiar così spiritualmente
quell'energia bruta e quasi direi nell'infonderle uno spirito d'arte e nel
sentir non so che occulta rispondenza di misura tra il battere del polso e
il progressivo mordere dell'acido, era il suo inebriante orgoglio, la sua tormentosa
gioia.
Pareva ad Elena esser deificata dall'amante, come l'Isotta riminese nelle indistruttibili
medaglie che Sigismondo Malatesta fece coniare in gloria di lei.
Ma ella, ne' giorni appunto in cui Andrea attendeva all'opera, diveniva triste
e taciturna e sospirosa, quasi l'occupasse un'interna angoscia. Aveva, d'improvviso,
effusioni di tenerezza così struggenti, miste di lacrime e di singhiozzi
mal frenati, che il giovine rimaneva attonito, in sospetto, senza comprendere.
Una sera, tornavano a cavallo, dall'Abentino, giù per la via di Santa
Sabina, avendo ancóra negli occhi la gran visione dei palazzi imperiali
incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava
una polvere d'oro. Cavalcavano in silenzio, poiché la tristezza di Elena
erasi comunicata all'amante. D'innanzi a Santa Sabina, questi fermò il
baio, dicendo:
- Ti ricordi?
Alcune galline, che beccavano in pace tra i ciuffi d'erba, si dispersero ai
latrati di Famulus. Lo spiazzo, invaso dalle gramigne, era tranquillo e modesto
come il sagrato d'un villaggio; ma i muri avevano quella luminosità singolare
che riflettesi dagli edifizi di Roma « nell'ora di Tiziano »,
Elena anche sostò.
- Come pare lontano, quel giorno! - disse, con un po' di tremito nella voce.
Infatti, quella memoria si perdeva nel tempo indefinitamente, quasi che il
loro amore durasse da molti mesi, da molti anni. Le parole di Elena avevano
suscitato nell'animo di Andrea la strana illusione e, insieme, una inquietudine.
Elena si mise a ricordare tutte le particolarità di quella visita, fatta
in un pomeriggio di gennaio, sotto un sole primaverile. Si diffondeva nelle
minuzie, insistendo; e di tratto in tratto interrompevasi come chi segua, oltre
le sue parole, un pensiero non espresso. Andrea credé sentire nella
voce di lei il rimpianto. - Che rimpiangeva ella mai? Il loro amore non vedeva
d'innanzi a sé giorni anche più dolci? La primavera non teneva
già Roma? - Egli, perplesso, quasi non l'ascoltava più. I cavalli
scendevano, al passo, l'uno a fianco dell'altro, talvolta respirando forte
dalle froge o accostando i musi come per confidarsi un secreto. Famulus andava
su e giù, in perpetua corsa.
- Ti ricordi - seguitava Elena - ti ricordi di quel frate che ci venne ad aprire,
quando sonammo la campanella?
- Sì, sì...
- Come ci guardò stupefatto! Era piccolo piccolo, senza barba, tutto
rugoso. Ci lasciò soli nell'atrio, per andare a prendere le chiavi della
chiesa; e tu mi baciasti. Ti ricordi?
- Sì.
- E tutti quei barili, nell'atrio! E quell'odore di vino, mentre il frate ci
spiegava le storie intagliate nella porta di cipresso! E poi, la Madonna del
Rosario! Ti ricordi? La spiegazione ti fece ridere; e io sentendoti ridere,
non potei frenarmi; e ridemmo tanto innanzi a quel poveretto che si confuse
e non aprì più bocca neanche all'ultimo per dirti grazie...
Dopo un intervallo, ella riprese:
- E a Sant'Alessio, quando tu non volevi lasciarmi vedere la cupola pel buco
della serratura! Come ridemmo, anche là!
Tacque, di nuovo. Veniva su per la strada una compagnia d'uomini con una bara,
seguitata da una carrozza pubblica, piena di parenti che piangevano. Il morto
andava al cimitero degli Israeliti. Era un funerale muto e freddo. Tutti quegli
uomini, dal naso adunco e dagli occhi rapaci, si somigliavano tra loro come
consanguinei.
Affinché la compagnia passasse, i due cavalli si divisero, prendendo
ciascuno un lato, rasente il muro; e gli amanti si guardarono, al di sopra
del morto, sentendosi crescere la tristezza.
Quando si riaccostarono, Andrea domandò:
- Ma tu che hai? A che pensi?
Ella esitò, prima di rispondere. Teneva gli occhi abbassati sul collo
dell'animale, accarezzandolo col pomo del frustino, irresoluta e pallida.
- A che pensi? - ripeté il giovine.
- Ebbene, te lo dirò. Io parto mercoledì, non so per quanto tempo;
forse per molto, per sempre; non so... Quest'amore si rompe, per colpa mia;
ma non mi chiedere come, non mi chiedere perché, non mi chiedere nulla:
ti prego! Non potrei risponderti.
Andrea la guardò, quasi incredulo. La cosa gli pareva così impossibile
che non gli fece dolore.
- Tu dici per gioco; è vero Elena?
Ella scosse la testa, negando, poiché le si era chiusa la gola; e subitamente
spinse al trotto il cavallo. Dietro di loro, le campane di Santa Sabina e di
Santa Prisca cominciarono a suonare, nel crepuscolo. Essi trottavano in silenzio,
suscitando gli echi sotto gli archi, sotto i templi, nelle ruine solitarie
e vacue. Lasciarono a sinistra San Giorgio in Velabro che aveva ancóra
un bagliore vermiglio su i mattoni del campanile, come nel giorno della felicità.
Costeggiarono il Fòro romano, il Fòro di Nerva, già occupati
da un'ombra azzurrognola, simile a quella de' ghiacciai nella notte. Si fermarono
all'Arco dei Pantani, dove li attendevano gli staffieri e le carrozze.
Appena fuor di sella, Elena tese la mano ad Andrea, evitando di guardarlo negli
occhi. Pareva ch'ella avesse gran fretta di allontanarsi.
- Ebbene? - le chiese Andrea, aiutandola a montar nel legno.
- A domani. Stasera, no.
V
Il commiato su la via Nomentana, quell'adieu au grand air voluto da Elena,
non isciolse alcuno de' dubbi che Andrea aveva nell'animo. - Quali erano mai
le cagioni occulte di quella partenza subitanea? - Invano egli cercava di penetrare
il mistero; i dubii l'opprimevano.
Ne' primi giorni, gli assalti del dolore e del desiderio furono così crudeli
ch'egli credeva morirne. La gelosia, che dopo le prime apparite erasi dileguata
innanzi all'assiduo ardore di Elena, risorgeva in lui destata dalle imaginazioni
impure; e il sospetto che un uomo potesse nascondersi in quell'oscuro intrico,
gli dava un tormento insopportabile. Talvolta, contro la donna lontana, l'invadeva
una bassa ira, un rancore pien d'amarezza, e quasi un bisogno di vendetta,
come s'ella lo avesse ingannato e tradito per abbandonarsi a un altro amante.
Anche, talvolta credeva di non desiderarla più, di non amarla più,
di non averla mai amata; ed era in lui un fenomeno non nuovo questa cessazion
momentanea d'un sentimento, questa specie di sincope spirituale che, per esempio,
gli rendeva completamente estranea in mezzo alla gente la donna diletta e gli
permetteva d'assistere a un gaio pranzo un'ora dopo aver bevute le lacrime
di lei. Ma quegli oblii non duravano. La primavera romana fioriva con inaudita
letizia: la città di travertino e di mattone sorbiva la luce, come un'avida
selva; le fontane papali si levavano in un cielo più diafano d'una gemma;
la piazza di Spagna odorava come un roseto; e la Trinità de' Monti,
in cima alla scala popolata di putti, pareva un duomo d'oro.
Alle incitazioni che gli venivano dalla nuova bellezza di Roma, quanto in lui
rimaneva del fascino di quella donna, nel sangue e nell'anima, ravvivavasi
e raccendevasi. Ed egli era turbato, fin nel profondo, da invincibili angosce,
da implacabili tumulti, da indefinibili languori, che somigliavano un poco
quelli della pubertà. Una sera, in casa Dolcebuono, dopo un tè,
essendo rimasto ultimo nel salone tutto pieno di fiori e ancor vibrante d'una
Cachoucha del Raff, egli parlò d'amore a Donna Bianca; e non se ne pentì,
né in quella sera né in seguito.
La sua avventura con Elena Muti era ormai notissima come, o prima o poi, o
più o meno, nella società elegante di Roma e in ogni altra società son
note tutte le avventure e tutte le flirtations. Le precauzioni non valgono.
Ciascuno ivi è così buon conoscitore della mimica erotica, che
gli basta sorprendere un gesto o un'attitudine o uno sguardo per avere un sicuro
indizio, mentre gli amanti, o coloro che son per divenire tali, non sospettano.
Inoltre, ci sono in ogni società alcuni curiosi che fan professione
di scoprire e che vanno su le vestigia degli amori altrui con non minor perseveranza
de' segugi in traccia di selvaggina. Essi sono sempre vigili e non paiono;
colgono infallibilmente una parola mormorata, un sorriso tenue, un piccolo
sussulto, un lieve rossore, un baleno d'occhi; ne' balli, nelle grandi feste,
dove sono più probabili le imprudenze, girano di continuo, sanno insinuarsi
nel più fitto, con un'arte straordinaria, come nelle moltitudini i borsaiuoli;
e l'orecchio è teso a rapire un frammento di dialogo, l'occhio è pronto
dietro il luccicor della lente, a notare una stretta, una languidezza, un fremito,
la pression nervosa d'una mano feminea su la spalla d'un danzatore.
Un terribile segugio era, per esempio, Don Filippo del Monte, il commensale
della marchesa d'Ateleta. Ma, in verità, Elena Muti non si preoccupava
molto delle maldicenze mondane; e in questa sua ultima passione era giunta
a temerità quasi folli. Ella copriva ogni ardimento con la sua bellezza,
col suo lusso, col suo alto nome; e passava pur sempre inchinata, ammirata,
adulata, per quella certa molle tolleranza che è una delle più amabili
qualità dell'aristocrazia quirite e che le viene forse appunto dall'abuso
della mormorazione.
Or dunque l'avventura aveva, d'un tratto, inalzato Andrea Sperelli, in conspetto
delle dame, a un alto grado di potere. Un'aura di favore l'avvolse; e la sua
fortuna, in poco tempo, divenne meravigliosa. Un fenomeno assai frequente,
nelle società moderne, è il contagio del desiderio. Un uomo,
che sia stato amato da una donna di pregi singolari, eccita nelle altre l'imaginazione;
e ciascuna arde di possederlo, per vanità e per curiosità, a
gara. Il fascino di Don Giovanni è più nella sua fama che nella
sua persona. Inoltre, giovava allo Sperelli quel certo nome ch'egli aveva d'artista
misterioso; ed erano rimasti celebri due sonetti, scritti nell'albo della principessa
di Ferentino, ne' quali come in un dittico ambiguo egli aveva lodato una bocca
diabolica e una bocca angelica, quella che perde le anime e quella che dice
Ave. La gente volgare non imagina quali profondi e nuovi godimenti l'aureola
della gloria, anche pallida o falsa, porti all'amore. Un amante oscuro, avesse
anche la forza di Ercole e la bellezza d'Ippolito e la grazia d'Ila, non mai
potrà dare all'amata le delizie che l'artista, forse inconsapevolmente,
versa in abondanza negli ambiziosi spiriti feminili. Gran dolcezza dev'essere
per la vanità di una donna il poter dire: - In ciascuna lettera ch'egli
mi scrive è forse la più pura fiamma del suo intelletto a cui
mi riscalderò io sola; in ciascuna carezza egli perde una parte della
sua volontà e della sua forza; e i suoi più alti sogni di gloria
cadono nelle pieghe della mia veste, ne' cerchi che segna il mio respiro!
Andrea Sperelli non esitò un istante d'innanzi alle lusinghe. A quella
specie di raccoglimento, prodotto in lui dal dominio unico di Elena, succedeva
ora il dissolvimento. Non più tenute dall'ignea fascia che le stringeva
ad unità, le sue forze tornavano al primitivo disordine. Non potendo
più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a una superior forma dominatrice,
l'anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava,
prendeva tutte le forme. Egli passava dall'uno all'altro amore con incredibile
leggerezza; vagheggiava nel tempo medesimo diversi amori; tesseva, senza scrupolo,
una gran trama d'inganni, di finzioni, di menzogne, d'insidie, per raccogliere
il maggior numero di prede. L'abitudine della falsità gli ottundeva
la conscienza. Per la continua mancanza della riflessione, egli diveniva a
poco a poco impenetrabile a sé stesso, rimaneva fuori del suo mistero.
A poco a poco egli quasi giungeva a non vedere più la sua vita interiore,
in quella guisa che l'emisfero esterno della terra non vede il sole pur essendogli
legato indissolubilmente. Sempre vivo, spietatamente vivo, era in lui un istinto:
l'istinto del distacco da tutto ciò che l'attraeva senza avvincerlo.
E la volontà, disutile come una spada di cattiva tempra, pendeva al
fianco di un ebro o di un inerte.
Il ricordo di Elena talvolta, risorgendo d'improvviso, lo riempiva; ed egli
o cercava di sottrarsi alle malinconie del rimpianto o piacevasi invece rivivere
nella imaginazione viziata l'eccessività di quella vita, per averne
uno stimolo ai nuovi amori. Ripeteva a sé stesso le parole del lied: « Ricorda
i giorni spenti! E metti su le labbra della seconda baci soavi quanto quelli
che tu davi alla prima, non è gran tempo! » Ma già la seconda
eragli uscita dall'anima. Egli aveva parlato d'amore a Donna Bianca Dolcebuono,
da principio senza quasi pensarci, istintivamente attratto forse per virtù di
un indefinito riflesso che a colei veniva dall'essere amica di Elena. Forse
germogliava il piccolo seme di simpatia che avevan gittato in lui le parole
della contessa fiorentina, al pranzo in casa Doria. Chi sa dire per quale misterioso
procedere un qualunque contatto spirituale o materiale tra un uomo e una donna,
anche insignificante, può generare ed alimentare in ambedue un sentimento
latente, innavvertito, insospettato, che dopo molto tempo le circostanze faranno
emergere d'un tratto? E' il fenomeno medesimo che noi riscontriamo nell'ordine
intellettuale, quando il germe d'un pensiero o l'ombra d'una imagine si ripresentano
d'un tratto, dopo un lungo intervallo, per uno sviluppo inconsciente, elaborati
in imagine compiuta, in pensiero complesso. Le medesime leggi governano tutte
le attività del nostro essere; e le attività di cui noi siam
consapevoli non sono che una parte delle nostre attività.
Donna Bianca Dolcebuono era l'ideal tipo della bellezza fiorentina, quale fu
reso dal Ghirlandajo nel ritratto di Giovanna Tornabuoni, ch'è in Santa
Maria Novella. Aveva un chiaro volto ovale, la fronte larga alta e candida,
la bocca mite, il naso un poco rilevato, gli occhi di quel color tanè oscuro
lodato dal Firenzuola. Prediligeva disporre i capelli con abbondanza su le
tempie, fino a mezzo delle guance, alla foggia antica. Ben le conveniva il
cognome, poiché ella portava nella vita mondana una bontà nativa,
una grande indulgenza, una cortesia per tutti eguale, e una parlatura melodiosa.
Era, insomma, una di quelle donne amabili, senza profondità né di
spirito né d'intelletto, un poco indolenti, che sembrano nate a vivere
in piacevolezza e a cullarsi ne' discreti amori come gli uccelli su gli alberi
fiorenti.
Quando udì le frasi di Andrea, ella esclamò, con un grazioso
stupore:
- Dimenticate Elena così presto?
Poi, dopo alcuni giorni di graziose esitazioni, le piacque di cedere; e non
di rado ella parlava d'Elena al giovine infedele, senza gelosia, candidamente.
- Ma perché mai sarà partita prima del solito, quest'anno? -
gli chiese una volta, sorridendo.
- Io non so - rispose Andrea, senza poter nascondere un po' d'impazienza e
di amarezza.
- Tutto, proprio, è finito?
- Bianca, vi prego, parliamo di noi! - interruppe egli con la voce alterata,
poiché quei discorsi lo turbavano e irritavano.
Ella rimase un momento pensosa, come se volesse sciogliere un enigma; quindi
sorrise scotendo la testa, come se rinunziasse, con una fugace ombra di malinconia
su gli occhi.
- Così è l'amore.
E rese all'amante le carezze.
Andrea, possedendola, possedeva in lei tutte le gentili donne fiorentine del
Quattrocento, alle quali cantava il Magnifico:
E' si vede in ogni lato
Che 'l proverbio dice il vero,
Che ciascun muta pensiero
Come l'occhio è separato.
Vedesi cambiare amore:
Come l'occhio sta di lunge,
Così sta di lunge il core:
Perché appresso un altro il punge.
Col qual tosto e' si congiunge
Con piacere e con diletto...
Allorché, nell'estate, ella era per partire, disse, prendendo congedo,
senza nascondere la sua commozione gentile:
- Io so che, quando ci rivedremo, voi non mi amerete più. Così è l'amore.
Ma ricordatevi di un'amica!
Egli non l'amava. Pure, nelle giornate calde e tediose, certe molli cadenze
della voce di lei gli tornavan nell'anima come la magia d'una rima e gli suscitavano
la visione d'un giardin fresco d'acque pel quale ella andasse in compagnia
d'altre donne sonando e cantando come in una vignetta del Sogno di Polifilo.
E Donna Bianca si dileguò. E vennero altre, talvolta in coppia: Barbarella
Viti, la mascula, che aveva una superba testa di giovinetto, tutta quanta dorata
e fulgente come certe teste giudee del Rembrandt; la contessa di Lùcoli,
la dama delle turchesi, una Circe di Dosso Dossi, con due bellissimi occhi
pieni di perfidia, varianti come i mari d'autunno, grigi, azzurri, risplendenti
di quella prodigiosa carnagione, composta di luce, di rose e di latte, che
han soltanto i babies delle grandi famiglie inglesi nelle tele del Reynolds,
del Gainsborough e del Lawrences; la marchesa Du Deffand, una bellezza del
Direttorio, una Récamier, dal lungo e puro ovale, dal collo di cigno,
dalle mammelle saglienti, dalle braccia bacchiche; Donna Isotta Cellesi, la
dama degli smeraldi, che volgeva con una lenta maestà divina la sua
testa d'imperatrice tra lo scintillio delle enormi gemme ereditarie; la principessa
Kalliwoda, la dama senza gioielli, che nella fragilità delle sue forme
chiudeva nervi d'acciaio per il piacere, e su la cerea delicatezza dei suoi
lineamenti apriva due voraci occhi leonini, gli occhi d'uno Scita.
Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno
l'inebriò d'una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una
qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancóra
ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le infezioni. Corrompendosi,
corrompeva. La frode gli invescava l'anima, come d'una qualche materia viscida
e fredda che ogni giorno divenisse più tenace. Il pervertimento de'
sensi gli faceva ricercare e rilevare nelle sue amanti quel ch'era in loro
men nobile e men puro. Una bassa curiosità lo spingeva a scieglier le
donne che avevan peggior fama; un crudel gusto di contaminazione lo spingeva
a sedurre le donne che avean fama migliore. Fra le braccia dell'una egli si
ricordava d'una carezza dell'altra, d'un modo di voluttà appreso dall'altra.
Talvolta (e fu, in ispecie, quando la notizia delle seconde nozze di Elena
Muti gli riaprì per qualche tempo la ferita) piacevasi di sovrapporre
alla nudità presente le evocate nudità di Elena e di servirsi
della forma reale come d'un appoggio sul qual godere la forma ideale. Nutriva
l'imagine con uno sforzo intenso, finché l'imaginazione giungeva a possedere
l'ombra quasi creata.
Pur tuttavia egli non aveva culto per le memorie dell'antica felicità.
Talvolta, anzi, quelle gli davano un appiglio a una qualunque avventura. Nella
Galleria Borghese, per esempio, nella memore sala degli specchi, egli ottenne
da Lilian Theed la prima promessa; nella Villa Medici, su per la memore scala
verde che conduce al Belvedere, egli intrecciò le sue dita alle lunghe
dita d'Angélique Du Deffand; e il piccolo teschio d'avorio appartenuto
al cardinale Immenraet, il gioiello mortuario segnato del nome d'Ippolita oscura,
gli suscitò il capriccio di tentare Donna Ippolita Albónico.
Questa dama aveva nella sua persona una grande aria di nobiltà, somigliando
un poco a Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II de' Medici, nel ritratto
di Giusto Suttermans, ch'è in Firenze, dai Corsini. Amava gli abiti
suntuosi, i broccati, i velluti, i merletti. I larghi collari medìcei
parevano la foggia meglio adatta a far risaltare la bellezza della sua testa
superba.
In una giornata di corse, su la tribuna, Andrea Sperelli voleva ottenere da
Donna Ippolita ch'ella andasse la dimane al palazzo Zuccari per prendere il
misterioso avorio dedicato a lei. Ella si schermiva, ondeggiando tra la prudenza
e la curiosità. Ad ogni frase del giovine un po' ardita, corrugava le
sopracciglia mentre un sorriso involontario le sforzava la bocca; e la sua
testa, sotto il cappello ornato di piume bianche, sul fondo dell'ombrellino
ornato di merletti bianchi, era in un momento di singolare armonia.
- Tibi, Hippolyta! Dunque venite? Io vi aspetterò tutto il giorno, dalle
due fino a sera. Va bene?
- Ma siete pazzo?
- Di che temete? Io giuro alla Maestà Vostra di non toglierle neppure
un guanto. Rimarrà seduta come in un trono, secondo il suo regal costume;
e, anche prendendo una tazza di te, potrà non posare lo scettro invisibile
che porta sempre nella destra imperiosa. E' concessa la grazia, a questi patti?
- No.
Ma ella sorrideva, poiché compiacevasi di sentir rilevare quell'aspetto
di regalità ch'era la sua gloria. E Andrea Sperelli continuava a tentarla,
sempre in tono di scherzo o di preghiera, unendo alla seduzione della sua voce
uno sguardo continuo, sottile, penetrante, quello sguardo indefinibile che
sembra svestire le donne, vederle ignude a traverso le vesti, toccarle su la
pelle viva.
- Non voglio che mi guardiate così - disse Donna Ippolita, quasi offesa,
con un lieve rossore.
Su la tribuna eran rimaste poche persone. Signore e signori passeggiavano su
l'erba, lungo lo steccato, o circondavano il cavallo vittorioso, o scommettevano
coi publici scommettitori urlanti, sotto l'incostanza del sole che appariva
e spariva fra i molti arcipelaghi delle nuvole.
- Scendiamo - ella soggiunse, non accorgendosi degli occhi seguaci di Giannetto
Rùtolo che stava appoggiato alla ringhiera della scala.
Quando, per discendere, passarono d'innanzi a colui, lo Sperelli disse:
- Addio, marchese, a poi. Correremo.
Il Rùtolo s'inchinò profondamente a Donna Ippolita; e una sùbita
fiamma gli colorò la faccia. Eragli parso di sentire nel saluto del
conte una leggera irrisione. Rimase alla ringhiera, seguendo sempre con gli
occhi la coppia nel recinto. Visibilmente, soffriva.
- Rùtolo, alle vedette! - fecegli, con un riso malvagio, la contessa
di Lùcoli passando a braccio con Don Filippo del Monte, giù per
la scala di ferro.
Egli sentì la punta nel mezzo del cuore. Donna Ippolita e il conte d'Ugenta,
dopo essere giunti fin sotto la specola dei giudici, tornavano verso la tribuna.
La dama teneva il bastone dell'ombrellino su la spalla, girandolo fra le dita;
la cupola bianca le roteava dietro la schiena, come un'aureola, e i molti merletti
s'agitavano e si sollevavano incessantemente. Entro quel cerchio mobile ella
di tratto in tratto rideva alle parole del giovine; e ancóra un lieve
rossore tingeva la nobile pallidezza del suo volto. Di tratto in tratto, i
due si soffermavano.
Giannetto Rùtolo, fingendo di voler osservare i cavalli che entravano
nella pista, volse il binocolo fra i due. Visibilmente, gli tremavano le mani.
Ogni sorriso, ogni gesto, ogni attitudine di Ippolita gli dava un atroce dolore.
Quando abbassò il binocolo, egli era assai smorto. Aveva sorpreso negli
occhi dell'amata, che si posavano su lo Sperelli, quello sguardo ch'egli ben
conosceva poiché n'era stato, un tempo, illuminato di speranza. Gli
parve che tutto ruinasse intorno a lui. Un lungo amore finiva, troncato da
quello sguardo, irreparabilmente. Il sole non era più il sole; la vita
non era più la vita.
La tribuna si ripopolava rapidamente, già che il segnale della terza
corsa era prossimo. Le dame salivano in piedi su i sedili. Un mormorio correva
lungo i gradi, simile a un vento sopra un giardino in pendio. La campanella
squillò. I cavalli partirono come un gruppo di saette.
- Correrò in onor vostro, Donna Ippolita - disse Andrea Sperelli all'Albónico,
prendendo congedo per andare a prepararsi alla seguente corsa, ch'era di gentiluomini.
- Tibi, Hippolyta, semper!
Ella gli strinse la mano, forte, per augurio, non pensando che anche Giannetto
Rùtolo stava fra i contenditori. Quando vide, poco oltre, l'amante pallido
scender giù per la scala, l'ingenua crudeltà dell'indifferenza
le regnava nei belli occhi oscuri. Il vecchio amore le cadeva dall'anima, pari
a una spoglia inerte, per l'invasione del nuovo. Ella non apparteneva più a
quell'uomo; non gli era legata da nessun legame. Non è concepibile come
prontamente e intieramente rientri nel possesso del proprio cuore la donna
che non ama più.
« Egli me l'ha presa » pensò colui, camminando verso la tribuna
del Jockey-club, su l'erba che parevagli s'affondasse sotto i suoi piedi come
un'arena. Davanti, a poca distanza, camminava l'altro, con un passo disinvolto
e sicuro. La persona alta e snella, nell'abito cinerino, aveva quella particolare
inimitabile eleganza che sol può dare il lignaggio. Egli fumava. Giannetto
Rùtolo, venendo dietro, sentiva l'odore della sigaretta, ad ogni buffo
di fumo; ed era per lui un fastidio insopportabile, un disgusto che gli saliva
dalle viscere, come contro un veleno.
Il duca Beffi e Paolo Caligàro stavano su la soglia, già in assetto
di corsa. Il duca si chinava su le gambe aperte, con un movimento ginnico,
per provare l'elasticità de' suoi calzoni di pelle o la forza de' suoi
ginocchi. Il piccolo Caligàro imprecava alla pioggia della notte, che
aveva reso pesante il terreno.
- Ora - disse allo Sperelli - tu hai molte probabilità, con Miching
Mallecho.
Giannetto Rùtolo udì quel presagio, ed ebbe al cuore una fitta.
Egli riponeva nella vittoria una vaga speranza. Nella sua imaginazione vedeva
gli effetti d'una corsa vinta e d'un duello fortunato, contro il nemico. Spogliandosi,
ogni suo gesto tradiva la preoccupazione.
- Ecco un uomo che, prima di montare a cavallo, vede aperta la sepoltura -
disse il duca di Beffi, posandogli una mano su la spalla, con un atto comico.
- Ecce homo novus.
Andrea Sperelli, il quale in tal momento aveva gli spiriti gai, ruppe in un
di que' suoi franchi scoppi di risa, ch'erano la più seducente effusione
della sua giovinezza.
- Perché ridete, voi? - gli chiese Rùtolo, pallidissimo, fuori
di sé, fissandolo di sotto ai sopraccigli corrugati.
- Mi pare - rispose lo Sperelli, senza turbarsi - che voi mi parliate in un
tono assai vivo, caro marchese.
- Ebbene?
- Pensate del mio riso quel che più vi piace.
- Penso che è sciocco.
Lo Sperelli balzò in piedi, fece un passo, e levò contro Giannetto
Rùtolo il frustino. Paolo Caligàro giunse a trattenergli il braccio,
per prodigio. Altre parole irruppero. Sopravvenne Don Marcantonio Spada; udì l'alterco,
e disse:
- Basta, figliuoli. Sapete ambedue quel che dovrete fare domani. Ora, dovete
correre.
I due avversari compirono la lor vestizione, in silenzio. Quindi uscirono.
Già la notizia del litigio s'era sparsa nel recinto e saliva su per
le tribune, ad accrescere l'aspettazion della corsa. La contessa di Lùcoli,
con raffinata perfidia, la diede a Donna Ippolita Albónico. Questa,
non lasciando trasparire alcun turbamento, disse:
- Mi dispiace. Parevano amici.
La diceria si diffondeva, trasformandosi, per le belle bocche feminee. Intorno
ai publici scommettitori ferveva la folla. Miching Mallecho, il cavallo del
conte d'Ugenta, e Brummel, il cavallo del marchese Rùtolo, erano i favoriti;
venivano poi Satirist del duca di Beffi e Carbonilla del conte Caligàro.
I buoni conoscidori però diffidavano de' due primi, pensando che la
concitazion nervosa dei due cavalieri avrebbe certamente nociuto alla corsa.
Ma Andrea Sperelli era calmo, quasi allegro.
Il sentimento della sua superiorità su l'avversario l'assicurava; inoltre,
quella tendenza cavalleresca alle avventure perigliose, ereditata dal padre
byroneggiante, gli faceva vedere il suo caso in una luce di gloria; e tutta
la nativa generosità del suo sangue giovenile risvegliavasi, d'innanzi
al rischio. Donna Ippolita Albónico, d'un tratto, gli si levava in cima
dell'anima, più desiderabile e più bella.
Egli andò incontro al suo cavallo, con il cuor palpitante, come incontro
a un amico che gli portasse l'annunzio aspettato d'una fortuna. Gli palpò il
muso, con dolcezza; e l'occhio dell'animale, quell'occhio ove brillava tutta
la nobiltà della razza per una inestinguibile fiamma, l'inebriò come
lo sguardo magnetico di una donna.
- Mallecho, - mormorava, palpandolo - è una gran giornata! Dobbiamo
vincere.
Il suo trainer, un omuncolo rossiccio, figgendo le pupille acute su gli altri
cavalli che passavano portati a mano dai palafrenieri, disse, con la voce roca:
- No doubt.
Miching Mallecho esq. era un magnifico baio, proveniente dalle scuderie del
barone di Soubeyran. Univa alla slanciata eleganza delle forme una potenza
di reni straordinaria. Dal pelo lucido e fino, di sotto a cui apparivano gli
intichi delle vene sul petto e su le cosce, pareva esalare quasi un fuoco vaporoso,
tanto era l'ardore della sua vitalità. Fortissimo nel salto, aveva portato
assai spesso nelle cacce il suo signore, di là da tutti gli ostacoli,
non rifiutandosi d'innanzi a una triplice filagna o d'innanzi a una maceria
mai, sempre alla coda dei cani, intrepidamente. Un hop del cavaliere l'incitava
più d'un colpo di sperone; e una carezza lo faceva fremere.
Prima di montare, Andrea esaminò attentamente tutta la bardatura, si
assicurò d'ogni fibbia e d'ogni cinghia; quindi balzò in sella,
sorridendo. Il trainer dimostrò con un espressivo gesto la sua fiducia,
guardando il padrone allontanarsi.
Intorno alle tabelle delle quote persisteva la folla degli scommettitori. Andrea
sentì su la sua persona tutti gli sguardi. Volse gli occhi alla tribuna
destra per vedere l'Albónico, ma non poté distinguer nulla tra
la moltitudine delle dame. Salutò da presso Lilian Theed a cui eran
ben noti i galoppi di Mallecho dietro le volpi e dietro le chimere. La marchesa
d'Ateleta fece da lontano un atto di rimprovero, poiché aveva saputo
l'alterco.
- Com'è quotato Mallecho? - chiese egli a Ludovico Barbarisi.
Andando al punto di partenza, egli pensava freddamente al metodo che avrebbe
tenuto per vincere; e guardava i suoi tre competitori, che lo precedevano,
calcolando la forza e la scienza di ciascuno. Paolo Caligàro era un
demonio di malizia, rotto a tutte le furberie del mestiere, come un jockey;
ma Carbonilla, sebbene veloce, era di poca resistenza. Il duca di Beffi, cavaliere
d'alta scuola, che aveva vinto più d'un match in Inghilterra, montava
un animale d'umor difficile, che poteva rifiutarsi innanzi a qualche ostacolo.
Giannetto Rùtolo invece ne montava uno eccellente ed assai ben disciplinato;
ma sebben forte, egli era troppo impetuoso e prendeva parte a una corsa publica
per la prima volta. Inoltre, doveva trovarsi in uno stato di nervosità terribile,
come da molti segni appariva.
Andrea pensava, guardandolo: « La mia vittoria d'oggi influirà sul
duello di domani, senza dubbio. Egli perderà la testa, certo, qui e
là. Io debbo essere calmo, su tutt'e due i campi. » Poi, anche,
pensò: « Quale sarà l'animo di Donna Ippolita? » Gli
parve che intorno ci fosse un silenzio insolito. Misurò con l'occhio
la distanza fino alla prima siepe; notò su la pista un sasso luccicante;
s'accorse d'essere osservato dal Rùtolo; ebbe un fremito per tutta la
persona.
La campanella diede il segnale; ma Brummel aveva già preso lo slancio;
e la partenza quindi, non essendo stata contemporanea, fu ritenuta non buona.
Anche la seconda fu una falsa partenza, per colpa di Brummel. Lo Sperelli e
il duca di Beffi si sorrisero fuggevolmente.
La terza partenza fu valida. Brummel, sùbito, si staccò dal gruppo,
radendo lo steccato. Gli altri tre cavalli seguirono di pari, per un tratto;
e saltarono la prima siepe, felicemente; poi, la seconda. Ciascuno dei tre
cavalieri faceva un gioco diverso. Il duca di Beffi cercava di mantenersi nel
gruppo perché d'innanzi agli ostacoli Satirist fosse istigato dall'esempio.
Il Caligàro moderava la foga di Carbonilla, a conservarle le forze per
gli ultimi cinquecento metri. Andrea Sperelli aumentava gradatamente la velocità,
volendo incalzare il suo nemico in prossimità dell'ostacolo più difficile.
Poco dopo, infatti, Mallecho avanzò i due compagni e si diede a serrare
da presso Brummel.
Il Rùtolo sentì dietro di sé il galoppo incalzante, e
fu preso da tale ansietà che non vide più nulla. Tutto alla vista
gli si confuse, come s'egli fosse per perdere gli spiriti. Faceva uno sforzo
immenso per tenere piantati gli speroni nel ventre del cavallo; e lo sbigottiva
il pensiero che le forze lo abbandonassero. Aveva negli orecchi un rombo continuo,
e in mezzo al rombo udiva il grido breve e secco d'Andrea Sperelli.
- Hop! Hop!
Sensibilissimo alla voce più che ad ogni altra instigazione, Mallecho
divorava l'intervallo di distanza, non era più che a tre o quattro metri
da Brummel, stava per raggiungerlo, per superarlo.
- Hop!
Un'altra barriera attraversava la pista. Il Rùtolo non la vide, poiché aveva
smarrita ogni conscienza, conservando solo un furioso istinto di aderire all'animale
e di spingerlo innanzi, alla ventura. Brummel saltò; ma, non coadiuvato
dal cavaliere, urtò le zampe posteriori e ricadde dall'altra parte così male
che il cavaliere perse le staffe, pur restando in sella. Seguitò tuttavia
a correre. Andrea Sperelli teneva ora il primo posto; Giannetto Rùtolo,
senza aver recuperato le staffe, veniva secondo, incalzato da Paolo Caligàro;
il duca di Beffi, avendo sofferto da Satirist un rifiuto, veniva ultimo. Passarono
sotto le tribune, in quest'ordine; udirono un clamore confuso, che si dileguò.
Su le tribune, tutti gli animi stavan sospesi nell'attenzione. Alcuni indicavano
ad alta voce le vicende della corsa. Ad ogni mutamento nell'ordine dei cavalli,
molte esclamazioni si levavano tra un lungo mormorio; e le dame ne avevano
un fremito. Donna Ippolita Albónico, ritta in piedi sul sedile, appoggiandosi
alle spalle del marito il quale era sotto di lei, guardava senza mai mutarsi,
con una meravigliosa padronanza; se non che le labbra troppo chiuse e un leggerissimo
increspamento della fronte potevan forse rivelare a un indagatore lo sforzo.
A un certo punto, ritrasse dalle spalle del marito le mani per tema di tradirsi
con un qualche involontario moto.
- Sperelli è caduto - annunziò a voce alta la contessa di Lùcoli.
Mallecho, infatti, saltando, aveva messo un piede in fallo su l'erba umida
ed erasi piegato su le ginocchia, rialzandosi immediatamente. Andrea gli era
passato dal collo, senza danno; e con una prontezza fulminea era tornato in
sella, mentre il Rùtolo e il Caligàro sopraggiungevano. Brummel,
sebbene offeso alle zampe posteriori, faceva prodigi, per virtù del
suo sangue puro. Carbonilla infine spiegava tutta la sua velocità, condotta
con arte mirabile dal suo cavaliere. Mancavano circa ottocento metri alla mèta.
Lo Sperelli vide la vittoria fuggirgli; ma raccolse tutti gli spiriti per riafferrarla.
Teso su le staffe, curvo su la criniera, gittava di tratto in tratto quel grido
breve, èsile, penetrante, che aveva tanto potere sul nobile animale.
Mentre Brummel e Carbonilla, affaticati sul terreno pesante, perdevano vigore,
Mallecho aumentava la veemenza del suo slancio, stava per riconquistare il
suo posto, già sfiorava la vittoria con la fiamma delle sue narici.
Dopo l'ultimo ostacolo, avendo superato Brummel, raggiungeva con la testa la
spalla di Carbonilla. A circa cento metri dalla mèta, radeva lo steccato,
avanti, avanti, lasciando dietro di sé e la morella del Caligàro
lo spazio di dieci « lunghezze ». La campana squillò; un
applauso risonò per tutte le tribune, come il crepitar sordo di una
grandine; un clamore si propagò nella folla su la prateria inondata
dal sole.
Andrea Sperelli rientrando nel recinto pensava: « La fortuna è con
me, oggi. Sarà con me anche domani? » Sentendo venire a sé l'aura
del trionfo, ebbe contro l'oscuro pericolo quasi una sollevazion d'ira. Avrebbe
voluto affrontarlo sùbito, in quello stesso giorno, in quella stessa
ora, senza altro indugio, per godere una duplice vittoria e per mordere quindi
al frutto che gli offriva la mano di Donna Ippolita. Tutto il suo essere accendevasi
d'orgoglio selvaggio, al pensiero di posseder quella bianca e superba donna
per diritto di conquista violenta. L'imaginazione gli fingeva un gaudio non
mai provato, quasi direi una voluttà d'altri tempi, quando i gentiluomini
scioglievano i capelli delle amasie con mani omicide e carezzevoli, affondandovi
la fronte ancóra grondante per la fatica dell'abbattimento e la bocca
ancóra amara delle profferte ingiurie. Egli era invaso da quella inesplicabile
ebrezza che dànno a certi uomini d'intelletto l'esercizio della forza
fisica, l'esperimento del coraggio, la rivelazione della brutalità.
Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al sommo
talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza dell'abito
moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania sanguinaria
ed anela alla strage. Andrea Sperelli aspirava la calda ed acre esalazion del
suo cavallo, pienamente, e nessuno di quanti delicati profumi egli aveva fin
allora preferiti, nessuno aveva mai dato al suo senso un più acuto piacere.
Appena smontò, fu accerchiato da amiche e da amici che si congratulavano.
Miching Mallecho, sfinito, tutto fumante e spumante, sbuffava protendendo il
collo e scotendo le briglie. I suoi fianchi s'abbassavano e si sollevavano
con un moto continuo, così forte che pareva scoppiare; i suoi muscoli
sotto la pelle tremavano come le corde degli archi dopo lo scocco; i suoi occhi
iniettati di sangue e dilatati avevano ora l'atrocità di quelli d'una
fiera; il suo pelo, ora interrotto da larghe chiazze più oscure, si
apriva qua e là a spiga sotto i rivoli del sudore; la vibrazione incessante
di tutto il suo corpo faceva pena e tenerezza, come la sofferenza d'una creatura
umana.
- Poor fellow! - mormorò Lilian Theed.
Andrea gli esaminò i ginocchi per veder se la caduta li avesse offesi.
Erano intatti. Allora, battendolo pianamente in sul collo, gli disse con un
accento indefinibile di dolcezza:
- Va, Mallecho, va.
E lo riguardò allontanarsi.
Poi, avendo lasciato l'abito di corsa, cercò di Ludovico Barbarisi e
del barone di Santa Margherita.
Ambedue accettarono l'incarico di assisterlo nella questione col marchese Rùtolo.
Egli li pregò di sollecitare.
- Stabilite, dentro questa sera, ogni cosa. Domani, all'una dopo mezzogiorno,
io debbo essere già libero. Ma domattina lasciatemi dormire almeno fino
alle nove. Io pranzo dalla Ferentino; e passerò poi in casa Giustiniani;
e poi, a ora tarda, al Circolo. Sapete dove trovarmi. Grazie, e a rivederci,
amici.
Salì alla tribuna; ma evitò di avvicinarsi sùbito a Donna
Ippolita. Sorrideva, sentendosi avvolgere dagli sguardi feminili. Molte belle
mani si tendevano a lui; molte belle voci lo chiamavano familiarmente Andrea;
alcune anzi lo chiamavan con una certa ostentazione. Le dame che avevano scommesso
per lui gli dicevano la somma della loro vincita; dieci luigi, venti luigi.
Altre gli domandarono, con curiosità:
- Vi batterete?
A lui pareva di aver raggiunto il culmine della gloria avventurosa in un sol
giorno, meglio che il duca di Buckingham e il signor di Lauzun. Egli era uscito
vincitore da una corsa eroica, aveva acquistata una nuova amante, magnifica
e serena come una dogaressa; aveva provocato un duello mortale; ed ora passava
tranquillo e cortese, né più né meno del solito, fra il
sorriso di tali dame a cui egli conosceva altro che la grazia della bocca.
Non poteva egli forse indicare di molte un vezzo segreto o una particolare
abitudine di voluttà? Non vedeva egli, a traverso tutta quella chiara
freschezza di stoffe primaverili, il neo biondo, simile a una piccola moneta
d'oro, sul fianco sinistro d'Isotta Cellesi; o il ventre incomparabile di Giulia
Moceto, polito come una coppa d'avorio, puro come quel d'una statua, per l'assenza
perfetta di ciò che nelle sculture e nelle pitture antiche rimpiangeva
il poeta del Musée secret? Non udiva nella voce sonora di Barbarella
Viti un'altra indefinibile voce che ripeteva di continuo una parola invereconda;
o nell'ingenuo riso di Aurora Seymour un altro indefinibile suono, rauco e
gutturale, che ricordava un poco il rantolo dei gatti in su' focolari e il
tubare delle tortore ne' boschi? Non sapeva le squisite depravazioni della
contessa de Lùcoli che s'inspirava su i libri erotici, su le pietre
incise e su le miniature; o gli invincibili pudori di Francesca Daddi che ne'
supremi aneliti, come un'agonizzante, invocava il nome di Dio? Quasi tutte
le donne ch'egli aveva ingannato, o che lo avevano ingannato, erano là e
gli sorridevano.
- Ecco l'eroe! - disse il marito dell'Albónico, tendendogli la mano,
con amabilità insolita, e stringendogliela forte.
- Eroe da vero - aggiunse Donna Ippolita, col tono insignificante d'un complimento
obbligato, parendo ignorare il dramma.
Lo Sperelli s'inchinò e passò oltre, perché provava non
so che imbarazzo d'innanzi a quella strana benevolenza del marito. Un sospetto
gli balenò nell'animo, che il marito gli fosse grato d'aver attaccato
briga con l'amante della moglie; e sorrise alla viltà di quell'uomo.
Come si volse, gli occhi di Donna Ippolita s'incontrarono, si mescolarono con
i suoi.
Nel ritorno, dal mail-coach del principe di Ferentino vide fuggire verso Roma
Giannetto Rùtolo con un piccolo legno a due ruote, al trotto fitto d'un
gran roano ch'egli guidava chinato avanti, tenendo la testa bassa e il sigaro
tra i denti, senza curarsi delle guardie che gli intimavano di mettersi nella
fila. Roma, in fondo, si disegnava oscura sopra una zona di luce gialla come
zolfo; e le statue in sommo della basilica di San Giovanni entro un ciel viola,
fuor della zona, grandeggiavano. Allora ebbe Andrea la conscienza intera del
male ch'egli faceva soffrire a quell'anima.
La sera, in casa Giustiniani, disse all'Albónico:
- Riman dunque fermo che domani, dalle due alle cinque, io vi aspetterò.
Ella voleva chiedergli:
- Come? non vi battete, domani?
Ma non osò. Rispose:
- Ho promesso.
Poco tempo dopo, si accostò ad Andrea il marito, mettendoglisi a braccio
con affettuosa premura, per chiedergli notizie del duello. Egli era un uomo
ancor giovine, biondo, elegante, con i capelli molto radi, con l'occhio biancastro,
con i due canini sporgenti fuor dalle labbra. Aveva una leggera balbuzie.
- Dunque? Dunque? Domani, eh?
Andrea non sapeva vincere la ripugnanza; e teneva il braccio teso lungo il
fianco, per dimostrare che non amava quella familiarità. Come vide entrare
il barone di Santa Margherita, si liberò dicendo:
- Mi preme di parlare col Santa Margherita. Scusate, conte.
Il barone l'accolse con queste parole:
- Tutto è stabilito.
- Bene. Per che ora?
- Per le dieci e mezzo, alla Villa Sciarra. Spada e guanto di sala. A oltranza.
- Chi sono gli altri due?
- Roberto Casteldieri e Carlo de Souza. Ci siamo sbrigati sùbito, evitando
le formalità. Giannetto aveva già pronti i suoi. Abbiamo steso
il verbale di scontro, al Circolo, senza discussione. Cerca di non andare a
letto troppo tardi; mi raccomando. Tu devi essere stanco.
Per millanteria, uscendo di casa Giustiniani, Andrea andò al Circolo
delle Cacce; e si mise a giocare cogli sportsmen napoletani. Verso le due il
Santa Margherita lo sorprese, lo forzò ad abbandonare il tavolo, e volle
ricondurlo a piedi fino al palazzo Zuccari.
- Mio caro, - ammoniva, in cammino - tu sei troppo temerario. In questi casi,
un'imprudenza può esser fatale. Per conservarsi intatta la vigoria,
un buono spadaccino deve avere a sé medesimo le cure che ha un buon
tenore per conservarsi la voce. Il polso è delicato quanto la laringe;
le articolazioni delle gambe sono delicate quanto le corde vocali. Intendi?
Il meccanismo si risente d'ogni minimo disordine; lo strumento si guasta, non
obedisce più. Dopo una notte d'amore o di giuoco o di crapula, anche
le stoccate di Camillo Agrippa non potrebbero andar diritte e le parate non
potrebbero essere né esatte né veloci. Ora, basta sbagliare d'un
millimetro per prendersi tre pollici di ferro in corpo.
Erano al principio della via de' Condotti; e vedevano, al fondo, la piazza
di Spagna illuminata dalla piena luna, la scala biancheggiante, la Trinità de'
Monti alta nell'azzurro soave.
- Tu, certo, - seguitò il barone - hai molti vantaggi su l'avversario:
tra gli altri, il sangue freddo e la pratica del terreno. T'ho veduto a Parigi
contro il Gavaudan. Ti ricordi? Gran bel duello! Ti battesti come un dio.
Andrea si mise a ridere di compiacenza. L'elogio di quell'insigne duello gli
gonfiava il cuore d'orgoglio, gli metteva nei nervi una sovrabbondanza di forze.
La sua mano, istintivamente, stringendo il bastone faceva atto di ripetere
il famoso colpo che trafisse il braccio al marchese di Gavaudan il 12 dicembre
del 1885.
- Fu - egli disse - una « contro di terza » e un « filo ».
E il barone riprese:
- Giannetto Rùtolo, su la pedana, è un discreto tiratore; sul
terreno, è di primo impeto. S'è battuto una volta sola, con mio
cugino Cassìbile; e n'è uscito male. Fa molto abuso di « uno,
due » e di « uno, due, tre », attaccando. Ti gioveranno gli « arresti
in tempo » e specialmente le « inquartate ». Mio cugino,
appunto, lo bucò con una « inquartata » netta, al secondo
assalto. E tu sei un tempista forte. Abbi però l'occhio sempre vigile,
e cerca di conservar la misura. Sarà bene che tu non dimentichi d'avere
a fronte un uomo a cui hai presa, dicono, l'amante e su cui hai levato il frustino.
Erano nella piazza di Spagna. La Barcaccia metteva un chioccolìo roco
ed umile, luccicando alla luna che vi si specchiava dall'alto della colonna
cattolica. Quattro o cinque vetture publiche stavano ferme, in file, coi fanali
accesi. Dalla via del Babuino giungeva un tintinnio di sonagli e un romor sordo
di passi, come d'un gregge in cammino.
A piè della scala, il barone s'accomiatò.
- Addio, a domani. Verrò qualche minuto prima delle nove, con Ludovico.
Tirerai due colpi, per scioglierti. Penseremo noi ad avvisare il medico. Va;
dormi profondo.
Andrea si mise su per la scala. Al primo ripiano si soffermò, attirato
dal tintinnio dei sonagli, che s'avvicinava. Veramente, egli si sentiva un
po' stanco; a anche un po' triste, in fondo al cuore. Dopo la fierezza suscitatagli
nel sangue da quel colloquio di scienza d'arme e dal ricordo della sua bravura,
una specie d'inquietudine l'invadeva, non bene distinta, mista di dubbio e
di scontento. I nervi, troppo tesi in quella giornata violenta e torbida, gli
si rilassavano ora, sotto la clemenza della notte primaverile. - Perché,
senza passione, per puro capriccio, per sola vanità, per sola prepotenza,
erasi egli compiaciuto di sollevare un odio e di rendere dolorosa l'anima di
un uomo? - Il pensiero della orribile pena che certo doveva affliggere il suo
nemico, in una notte così dolce, gli mosse quasi un senso di pietà.
L'imagine di Elena gli traversò il cuore, in un baleno; gli tornarono
nella mente le angosce durate un anno innanzi, quando egli l'aveva perduta,
e le gelosie, e le collere, e gli sconforti inesprimibili. - Anche allora le
notti erano chiare, tranquille, solcate di profumi; e come gli pesavano! -
Aspirò l'aria, per ove salivano i fiati delle rose fiorite ne' piccoli
giardini laterali; e guardò giù nella piazza passare il gregge.
La folta lana biancastra delle pecore agglomerate procedeva con un fluttuamento
continuo, accavallandosi, a similitudine d'un'acqua fangosa che inondasse il
lastrico. Qualche belato tremulo mescevasi al tintinno; altri belati, più sottili,
più timidi, rispondevano; i butteri gittavano di tratto in tratto un
grido e distendevano le aste, cavalcando dietro e a' fianchi; la luna dava
a quel passaggio d'armenti, per mezzo alla gran città addormentata,
non so che mistero quasi di cosa veduta in sogno.
Andrea si ricordò che in una notte serena di febbraio, uscendo da un
ballo dell'Ambasciata inglese nella via Venti Settembre, egli ed Elena avevano
incontrata una mandra; e la carrozza aveva dovuto fermarsi. Elena, china al
cristallo, guardava le pecore passar rasente le ruote e indicava gli agnelli
più piccoli, un un'allegria infantile; ed egli teneva il suo viso accosto
al viso di lei, socchiudendo gli occhi, ascoltando lo scalpiccìo, i
belati, il tintinno.
Perché mai gli tornavano ora tutte quelle memorie di Elena? - Riprese
a salire, lentamente. Sentì più grave, nel salire, la sua stanchezza;
i ginocchi gli si piegavano. Gli lampeggiò d'improvviso il pensiero
della morte. « S'io rimanessi ucciso? S'io ricevessi una cattiva ferita
e n'avessi per tutta la vita un impedimento? » La sua avidità di
vivere e di godere si sollevò contro quel pensiero lugubre. Egli disse
a sé medesimo: « Bisogna vincere. » E vide tutti i vantaggi
ch'egli avrebbe avuti da quell'altra vittoria: il prestigio della sua fortuna,
la fama della sua prodezza, i baci di Donna Ippolita, nuovi amori, nuovi godimenti,
nuovi capricci.
Allora, dominando ogni agitazione, si mise a curare l'igiene della sua forza.
Dormì fino a che non fu risvegliato dalla venuta dei due amici; prese
la doccia consueta; fece distendere sul pavimento la striscia d'incerato; e
invitò il Santa Margherita a tirar due « cavazioni » e quindi
il Barbarisi a un breve assalto, durante il quale compì con esattezza
parecchie azioni di tempo.
- Ottimo pugno - disse il barone, congratulandosi.
Dopo l'assalto, lo Sperelli, prese due tazze di tè e qualche biscotto
leggero. Scelse un paio di calzoni larghi, un paio di scarpe comode e col tacco
molto basso, una camicia poco inamidata; preparò il guanto, bagnandolo
alquanto su la palma e spargendolo di pece greca in polvere: vi unì una
stringa di cuoio per fermar l'elsa al polso; esaminò la lama e la punta
delle due spade; non dimenticò alcuna cautela, alcuna minuzia.
Quando fu pronto, disse:
- Andiamo. Sarà bene che ci troviamo sul terreno prima degli altri.
Il medico?
Aspetta di là.
Giù per le scale, egli incontrò il duca di Grimiti che veniva
anche da parte della marchesa d'Ateleta.
- Vi seguirò nella villa, e porterò poi sùbito la notizia
a Francesca - disse il duca.
Discesero tutti insieme. Il duca salì nel suo legnetto, salutando. Gli
altri salirono nella carrozza coperta. Andrea non ostentava il buon umore,
perché i motti prima d'un duello grave gli parevano di pessimo gusto;
ma era tranquillissimo. Fumava, ascoltando il Santa Margherita e il Barbarisi
discutere, a proposito d'un recente caso avvenuto in terra di Francia, se fosse
o non fosse lecito adoperar la mano sinistra contro l'avversario. Di tratto
in tratto, chinavasi allo sportello per guardar nella via.
Roma splendeva, nel mattino di maggio, abbracciata dal sole. Lungo la corsa,
una fontana illustrava del suo riso argenteo una piazzetta ancor nell'ombra;
il portone d'un palazzo mostrava il fondo d'un cortile ornato di portici e
di statue; dall'architrave barocco d'una chiesa di travertino pendevano i paramenti
del mese di Maria. Sul ponte apparve il Tevere lucido fuggente tra le case
verdastre, verso l'isola di San Bartolomeo. Dopo un tratto di salita, apparve
la città immensa, augusta, radiosa, irta di campanili, di colonne e
d'obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente intagliata, come
un'acropoli, nel pieno azzurro.
- Ave, Roma. Moriturus te salutat - disse Andrea Sperelli, gittando il residuo
della sigaretta, verso l'Urbe.
Poi soggiunse:
- In verità, cari amici, un colpo di spada oggi mi seccherebbe.
Erano nella Villa Sciarra, già per metà disonorata dai fabricatori
di case nuove; e passavano in un viale di lauri alti e snelli, tra due spalliere
di rose. Il Santa Margherita, sporgendosi fuor dello sportello, vide un'altra
carrozza, ferma sul piazzale, d'innanzi alla villa; e disse:
- Ci aspettano già.
Guardò l'orologio. Mancavano dieci minuti all'ora precisa. Fece fermare
il legno; e insieme col testimone e col chirurgo si diressero verso gli avversari.
Andrea rimase nel viale, ad attendere. Mentalmente, si mise a svolgere alcune
azioni di offesa e di difesa, ch'egli intendeva eseguire con probabilità di
esito; ma lo distraevano i vaghi miracoli della luce e dell'ombra per l'intrico
dei lauri. I suoi occhi erravano dietro le apparenze dei rami commossi dal
vento mattutino, mentre il suo animo meditava la ferita; e gli alberi, gentili
come nelle amorose allegorie di Francesco Petrarca, gli facevano sospiri in
sul capo ove regnava il pensiero del buon colpo.
Sopraggiunse a chiamarlo il Barbarisi, dicendo:
- Siamo pronti. Il custode ha aperto la villa. Abbiamo a disposizione le stanze
terrene; una gran comodità. Vieni a spogliarti.
Andrea lo seguì. Mentre si spogliava, i due medici aprivano i loro astucci
dove riscintillavano i piccoli strumenti d'acciaio. Uno era ancor giovine,
pallido, calvo, con le mani feminee, con la bocca un po' cruda, con un continuo
visibile attrito della mandibola inferiore sviluppata straordinariamente. L'altro
era già maturo, fatticcio, sparso di lentiggini, con una folta barba
rossastra, con un collo taurino. L'uno pareva la contraddizione fisica dell'altro;
e la lor diversità richiamava l'attenzion curiosa dello Sperelli. Preparavano,
sopra un tavolo, le fasce e l'acqua fenicata per disinfettar le lame. L'odore
dell'acido spandevasi nella stanza.
Quando lo Sperelli fu in assetto, uscì col suo testimone e con i medici,
sul piazzale. Ancóra una volta, lo spettacolo di Roma tra le palme attrasse
i suoi sguardi e gli diede un gran palpito. L'impazienza l'invase. Egli avrebbe
voluto già trovarsi in guardia e udire il comando dell'attacco. Gli
pareva d'aver nel pugno il colpo decisivo, la vittoria.
- Pronto? - gli chiese il Santa Margherita, andandogli incontro.
- Pronto.
Il terreno scelto era a fianco della villa, nell'ombra, sparso di fina ghiaia
e battuto. Giannetto Rùtolo stava già all'altra estremità,
con Roberto Casteldieri e con Carlo de Souza. Ciascuno aveva assunto un'aria
grave, quasi solenne. I due avversarii furono posti l'uno di fronte all'altro;
e si guardarono. Il Santa Margherita, che aveva il comando del combattimento,
notò la camicia di Giannetto Rùtolo fortemente inamidata, troppo
salda, con il colletto troppo alto; e fece osservar la cosa al Casteldieri,
ch'era il secondo. Questi parlò al suo primo; e lo Sperelli vide il
nemico accendersi d'improvviso nel volto e con un gesto risoluto far l'atto
di scamiciarsi. Egli, con tranquillità fredda, seguì l'esempio;
si rimboccò i pantaloni; prese dalle mani del Santa Margherita il guanto,
la stringa e la spada; si armò con molta cura, e quindi agitò l'arma
per accertarsi di averla bene impugnata. In quel moto, il bicipite emerse visibilissimo,
rivelando il lungo esercizio del braccio e l'acquisito vigore.
Quando i due stesero le spade per prendere la misura, quella di Giannetto Rùtolo
oscillava in un pugno convulso. Dopo l'ammonimento d'uso intorno la lealtà,
il barone di Santa Margherita comandò con una voce squillante e virile:
- Signori, in guardia!
I due scesero in guardia nel tempo medesimo, il Rùtolo battendo il piede,
lo Sperelli inarcandosi con leggerezza. Il Rùtolo era di statura mediocre,
assai smilzo, tutto nervi, con una faccia olivastra a cui davan fierezza le
punte de' baffi rilevate e la piccola barba acuta in sul mento, alla maniera
di Carlo I ne' ritratti del Van Dyck. Lo Sperelli era più alto, più slanciato,
più composto, bellissimo nell'attitudine, fermo e tranquillo in un equilibrio
di grazia e di forza, con in tutta la persona una sprezzatura di grande signore.
L'uno guardava l'altro entro gli occhi; e ciascuno provava internamente un
indefinibile brivido alla vista dell'altrui carne nuda contro cui appuntavasi
la lama sottile. Nel silenzio, udivasi il mormorio fresco della fontana misto
al fruscìo del vento su per i rosai rampicanti ove le innumerevoli rose
bianche e gialle tremolavano.
- A loro! - comandò il barone.
Andrea Sperelli aspettava dal Rùtolo un attacco impetuoso; ma colui
non si mosse. Per un minuto, ambedue rimasero a studiarsi, senza avere il contatto
del ferro, quasi immobili. Lo Sperelli, chinandosi ancor più su' garretti,
in guardia bassa, si scoperse interamente, col portar la spada molto in terza;
e provocò l'avversario, con l'insolenza degli occhi e col batter del
piede. Il Rùtolo venne innanzi con una finta di botta diritta, accompagnandola
con una voce, alla maniera di certi spadaccini siciliani; e l'assalto incominciò.
Lo Sperelli non isviluppava alcuna azione decisiva, limitandosi quasi sempre
alle parate, costringendo l'avversario a scoprire tutte le intenzioni, a esaurire
tutti i mezzi, a svolgere tutte le varietà del gioco. Parava netto e
veloce, senza ceder terreno, con una precision mirabile, come s'ei fosse su
la pedana, in un'academia di scherma, d'innanzi a un fioretto innocuo; mentre
il Rùtolo attaccava con ardore, accompagnando ogni botta con un grido
spento, simile a quello degli abbattitori d'alberi in esercitar l'accetta.
- Alt! - comandò il Santa Margherita, a' cui vigili occhi non isfuggiva
alcun moto delle due lame.
E si accostò al Rùtolo, dicendo:
- Ella è toccato, se non erro.
Infatti, colui aveva una scalfittura su l'antibraccio, ma così lieve
che non ci fu nemmen bisogno del taffetà. Alenava però; e la
sua estrema pallidezza, cupa come un lividore, era un segno dell'ira contenuta.
Lo Sperelli, sorridendo, disse a bassa voce al Barbarisi:
- Conosco ora il mio uomo. Gli metterò un garofano sotto la mammella
destra. Sta attento al secondo assalto.
Poiché, senza badarci, egli posò a terra la punta della spada,
il dottor calvo, quel della gran mandibola, venne a lui con la spugna imbevuta
d'acqua fenicata e disinfettò di nuovo la lama.
- Per iddio! - mormorò Andrea al Barbarisi. - M'ha l'aria d'un iettatore.
Questa lama si rompe.
Un merlo si mise a fischiare tra gli alberi. Ne' rosai qualche rosa sfogliavasi
e disperdevasi al vento. Alcune nuvole a mezz'aria salivano incontro al sole,
rade, simili a velli di pecore; e si disfacevano in bioccoli; e a mano a mano
si dileguavano.
- In guardia!
Giannetto Rùtolo, conscio della sua inferiorità al paragon del
nemico, risolse di lavorar sotto misura, alla disperata, e di rompere così ogni
azion seguita dell'altro. Egli aveva da ciò la bassa statura e il corpo
agile, esile, flessibile, che offriva assai poco bersaglio ai colpi.
- A loro!
Andrea Sperelli sapeva già che il Rùtolo sarebbesi avanzato in
quel modo, con le solite finte. Egli stava in guardia inarcato come una balestra
pronta a scoccare, intento per scegliere il tempo.
- Alt! - gridò il Santa Margherita.
Il petto del Rùtolo faceva un po' di sangue. La spada dell'avversario
eragli penetrata sotto la mammella destra, ledendo i tessuti fin quasi alla
costola. I medici accorsero. Ma il ferito disse sùbito al Casteldieri,
con voce rude, in cui sentivasi un tremito di collera:
- Non è nulla. Voglio seguitare.
Egli si rifiutò di rientrare nella villa per la medicatura. Il dottor
calvo, dopo aver spremuto il piccolo fòro, appena sanguinante e dopo
avergli fatta una lavanda antisettica, applicò un semplice pezzo di
drappo; e disse:
- Può seguitare.
Il barone, per invito del Casteldieri, senza indugio comandò il terzo
assalto.
- In guardia!
Andrea Sperelli s'avvide del pericolo. Di fronte a lui il nemico, tutto raccolto
su i garretti, quasi direi nascosto dietro la punta della sua lama, appariva
risoluto a un supremo sforzo. Gli occhi gli brillavano singolarmente e la coscia
sinistra, per l'eccessiva tension de' muscoli, gli tremava forte. Andrea questa
volta, contro l'impeto, si preparava a gittarsi da banda per ripetere il colpo
decisivo del Cassìbile, e il disco bianco del drappo sul petto ostile
servivagli da bersaglio. Egli ambiva rimettere ivi la stoccata ma trovar lo
spazio intercostale, non la costa. D'intorno, il silenzio pareva più profondo;
tutti gli astanti avevano conscienza della volontà micidiale che animava
que' due uomini; e l'ansietà li teneva, e li stringeva il pensiero di
dover forse ricondurre a casa un morto o un morente. Il sole, velato dalle
pecorelle, spandeva una luce quasi lattea; le piante, or sì or no, stormivano;
il merlo fischiava ancóra, invisibile.
- A loro!
Il Rùtolo si precipitò sotto misura, con due giri di spada e
con una botta in seconda. Lo Sperelli parò e rispose, facendo un passo
indietro. Il Rùtolo incalzava, furioso, con stoccate velocissime, quasi
tutte basse, non accompagnandole più con i gridi. Lo Sperelli, senza
sconcertarsi a quella furia, volendo evitare un incontro, parava forte e rispondeva
con tale acredine che ogni sua botta avrebbe potuto passar fuor fuora il nemico.
La coscia del Rùtolo, presso l'inguine, sanguinava.
- Alt! - tuonò il Santa Margherita quando se n'accorse.
Ma in quell'attimo appunto lo Sperelli, facendo una parata di quarta bassa
e non trovando il ferro avversario, ricevé in pieno torace un colpo;
e cadde tramortito su le braccia del Barbarisi.
- Ferita toracica, al quarto spazio intercostale destro, penetrante in cavità,
con lesione superficiale del polmone - annunziò nella stanza, quand'ebbe
osservato, il chirurgo taurino.
Libro secondo
I
La convalescenza e' una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso
della vita è soave come dopo l'angoscia del male; e non mai l'anima
umana più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato
negli abissi della morte. Comprende l'uomo, nel guarire, che il pensiero, il
desiderio, la volontà, la conscienza della vita non sono la vita. Qualche
cosa è in lui più vigile del pensiero, più continua del
desiderio, più potente della volontà, più profonda anche
della conscienza; ed è la sostanza, la natura dell'essere suo. Comprende
egli che la sua vita reale è quella, dirò così, non vissuta
da lui; è il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti,
istintive; è l'attività armoniosa e misteriosa della vegetazione
animale; è l'impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte
le rinnovellazioni. Quella vita appunto in lui compie i miracoli della convalescenza:
richiude le piaghe, ripara le perdite, riallaccia le trame infrante, rammenda
i tessuti lacerati, ristaura i congegni degli organi, rinfonde nelle vene la
ricchezza del sangue, riannoda su gli occhi la benda dell'amore, rintreccia
d'intorno al capo la corona de' sogni, riaccende nel cuore la fiamma della
speranza, riapre le ali alle chimere della fantasia.
Dopo la mortale ferita, dopo una specie di lunga e lenta agonia, Andrea Sperelli
ora a poco a poco rinasceva, quasi con un altro corpo e con un altro spirito,
come un uomo nuovo, come una creatura uscita da un fresco bagno letèo,
immemore e vacua. Parevagli d'essere entrato in una forma più elementare.
Il passato per la sua memoria aveva una sola lontananza, come per la vista
il cielo stellato è un campo eguale e diffuso sebbene gli astri sian
diversamente distanti. I tumulti si pacificavano, il fango scendeva dall'imo,
l'anima facevasi monda; ed egli rientrava nel grembo della natura madre, sentivasi
da lei maternamente infondere la bontà e la forza.
Ospitato da sua cugina nella villa di Schifanoja, Andrea Sperelli si riaffacciava
all'esistenza in cospetto del mare. Poiché ancóra in noi la natura
simpatica persiste e poiché la nostra vecchia anima abbracciata dalla
grande anima naturale palpita ancóra a tal contatto, il convalescente
misurava il suo respiro sul largo e tranquillo respiro del mare, ergeva il
suo corpo a similitudine de' validi alberi, serenava il suo pensiero alla serenità degli
orizzonti. A poco a poco, in quegli ozii intenti e raccolti, il suo spirito
si stendeva, si svolgeva, si dispiegava, si sollevava dolcemente come l'erba
premuta in su' sentieri; diveniva infine verace, ingenuo, originale, libero,
aperto alla pura conoscenza, disposto alla pura contemplazione; attirava in
sé la cose, le concepiva come modalità del suo proprio essere,
come forme della sua propria esistenza; si sentiva infine penetrato dalla verità che
proclamava l'Oupanischad dei Veda: «Hae omnes creaturae in totum ego
sum, et praeter me aliud ens non est. » Il gran soffio d'idealità che
esalano i libri sacri indiani, studiati e amati un tempo, pareva lo sollevasse.
E tornava a risplendergli singolarmente la formula sanscrita, chiamata Mahavakya
cioè la Gran Parola: «TAT TWAM ASI »; che significa: « Questa
cosa vivente, sei tu. »
Erano i giorni ultimi di agosto. Una quiete estatica teneva il mare; le acque
avean tal transparenza che ripetevan con perfetta esattezza qualunque imagine;
l'estrema linea delle acque perdevasi nel cielo così che i due elementi
parevano un elemento unico, impalpabile, innaturale. Il vasto anfiteatro dei
colli, popolato d'olivi, d'aranci, di pini, di tutte le più nobili forme
della vegetazione italica, abbracciando quel silenzio, non era più una
moltitudine di cose ma una cosa unica, sotto il comune sole.
Il giovine, disteso all'ombra o addossato a un tronco o seduto su una pietra,
credeva di sentire in sé medesimo scorrere il fiume del tempo; con una
specie di tranquillità catalettica, credeva sentir vivere nel suo petto
l'intero mondo; con una specie di religiosa ebrietà, credeva posseder
l'infinito. Quel ch'ei provava era ineffabile, non esprimibile neppur con le
parole del mistico: « Io sono ammesso dalla natura nel più secreto
delle sue divine sedi, alla sorgente della vita universa. Quivi io sorprendo
la causa del moto e odo il primo canto degli esseri in tutta la sua freschezza. » La
vista a poco a poco mutàvaglisi in visione profonda e continua; i rami
degli alberi sul suo capo gli parevan sollevare il cielo, ampliare l'azzurro,
risplendere come corone d'immortali poeti; ed egli contemplava ed ascoltava,
respirando col mare e con la terra, placido come un dio.
Dov'eran mai tutte le sue vanità e le sue crudeltà e i suoi artifici
e le sue menzogne? Dov'erano gli amori e gli inganni e i disinganni e i disgusti
e le incurabili ripugnanze dopo il piacere? Dov'erano quegli immondi e rapidi
amori che gli lasciavan nella bocca come la strana acidezza di un frutto tagliato
con un coltello d'acciaio? Egli non si ricordava più di nulla. Il suo
spirito avea fatto una grande renunziazione. Un altro principio di vita entrava
in lui; qualcuno entrava in lui, segreto, il quale sentiva la pace profondamente.
Egli riposava, poiché non desiderava più.
Il desiderio aveva abbandonato il suo regno; l'intelletto nell'attività seguiva
libero le sue proprie leggi e rispecchiava il mondo oggettivo come un puro
soggetto della conoscenza; le cose apparivano nella lor forma vera, nel lor
vero colore, nella vera ed intera lor significazione e bellezza, precise, chiarissime;
spariva ogni sentimento della persona. In questa temporanea morte del desiderio,
in questa temporanea assenza della memoria, in questa perfetta oggettività della
contemplazione appunto era la causa del non mai provato godimento.
Die Sterne, die begehrt man nicht,
Man freut sich ihrer Pracht.
« Le stelle, uom non le desidera, - ma gioisce del lor fulgore. » Per
la prima volta, infatti, il giovine conobbe tutta l'armoniosa poesia notturna
de' cieli estivi.
Erano le ultime notti d'agosto, senza luna. Innumerevoli, nella profonda conca,
palpitava la vita ardente delle constellazioni. Le Orse, il Cigno, Ercole,
Boote, Cassiopea riscintillavano con un palpito così rapido e così forte
che quasi parevano essersi appressati alla terra, essere entrati nell'atmosfera
terrena. La Via Lattea svolgevasi come un regal fiume aereo, come un adunamento
di riviere paradisiache, come una immensa correntìa silenziosa che traesse
nel suo « miro gurge » una polvere di minerali siderei, passando
sopra un àlveo di cristallo, tra falangi di fiori. Ad intervalli, meteore
lucide rigavano l'aria immobile, con la discesa lievissima e tacita d'una goccia
d'acqua su una lastra di diamante. Il respiro del mare, lento e solenne, bastava
solo a misurare la tranquillità della notte, senza turbarla; e le pause
eran più dolci del suono.
Ma questo periodo di visioni, di astrazioni, di intuizioni, di contemplazioni
pure, questa specie di misticismo buddhistico e quasi direi cosmogonico, fu
brevissimo. Le cause del raro fenomeno, oltre che nella natura plastica del
giovine e nella sua attitudine alla oggettività, eran forse da ricercarsi
nella singolar tensione e nella estrema impressionabilità del suo sistema
nervoso cerebrale. A poco a poco, egli incominciò a riprender coscienza
di sé stesso, a ritrovare il sentimento della sua persona, a rientrare
nella sua corporeità primitiva. Un giorno, nell'ora meridiana, mentre
la vita delle cose pareva sospesa, il grande e terribile silenzio gli lasciò vedere
dentro, d'improvviso, abissi vertiginosi, bisogni inestinguibili, indistruttibili
ricordi, cumuli di sofferenza e di rimpianto, tutta la sua miseria d'un tempo,
tutti i vestigi del suo vizio, tutti gli avanzi delle sue passioni.
Da quel giorno, una malinconia pacata ed uguale gli occupò l'anima;
ed egli vide in ogni aspetto delle cose uno stato dell'anima sua. Invece di
transmutarsi in altre forme di esistenza o di mettersi in altre condizioni
di conscienza o di perdere l'esser suo particolare nella vita generale, ora
egli presentava i fenomeni contrarii, involgendosi d'una natura ch'era una
concezion tutta soggettiva del suo intelletto. Il paesaggio divenne per lui
un simbolo, un emblema, un segno, una scorta che lo guidava a traverso il labirinto
interiore. Segrete affinità egli scopriva tra la vita apparente delle
cose e l'intima vita de' suoi desiderii e de' suoi ricordi. « To me -
High mountains are a feeling. » Come nel verso di Giorgio Byron le montagne,
per lui erano un sentimento le marine.
Chiare marine di settembre! - Il mare, calmo e innocente come un fanciullo
addormentato, si distendeva sotto un cielo angelico di perla. Talvolta appariva
tutto verde, del fino e prezioso verde d'una malachite; e, sopra, le piccole
vele rosse somigliavano fiammelle erranti. Talvolta appariva tutto azzurro,
d'un azzurro intenso, quasi direi araldico, solcato di vene d'oro, come un
lapislazzuli; e, sopra, le vele istoriate somigliavano una processione di stendardi
e di gonfaloni e di pavesi cattolici. Anche, talvolta prendeva un diffuso luccicore
metallico, un color pallido di argento, misto del color verdiccio d'un limone
maturo, qualche cosa d'indefinibilmente strano e delicato; e, sopra, le vele
erano pie ed innumerevoli come le ali de' cherubini ne' fondi delle ancóne
giottesche.
Il convalescente rinveniva sensazioni obliate della puerizia, quell'impression
di freschezza che dànno al sangue puerile gli aliti del vento salso,
quegli inesprimibili effetti che fanno le luci, le ombre, i colori, gli odori
delle acque su l'anima vergine. Il mare non soltanto era per lui una delizia
degli occhi, ma era una perenne onda di pace a cui si abbeveravano i suoi pensieri,
una magica fonte di giovinezza in cui il suo corpo riprendeva la salute e il
suo spirito la nobiltà. Il mare aveva per lui l'attrazion misteriosa
d'una patria; ed egli vi si abbandonava con una confidenza filiale, come un
figliuol debole nelle braccia d'un padre onnipossente. E ne riceveva conforto;
poiché nessuno mai ha confidato il suo dolore, il suo desiderio, il
suo sogno al mare invano.
Il mare aveva sempre per lui una parola profonda, piena di rivelazioni subitanee,
d'illuminazioni improvvise, di significazioni inaspettate. Gli scopriva nella
segreta anima un'ulcera ancor viva sebben nascosta e glie la faceva sanguinare;
ma il balsamo poi era più soave. Gli scoteva nel cuore una chimera dormente
e glie la incitava così ch'ei ne sentisse di nuovo le unghie e il rostro;
ma glie la uccideva poi e glie la seppelliva nel cuore per sempre. Gli svegliava
nella memoria una ricordanza e glie l'avvivava così ch'ei sofferisse
tutta l'amarezza del rimpianto verso le cose irrimediabilmente fuggite; ma
gli prodigava poi la dolcezza d'un oblio senza fine. Nulla entro quell'anima
rimaneva celato, al conspetto del gran consolatore. Alla guisa che una forte
corrente elettrica rende luminosi i metalli e rivela la loro essenza dal color
della loro fiamma, la virtù del mare illuminava e rivelava tutte le
potenze e le potenzialità di quell'anima umana.
In certe ore il convalescente, sotto l'assiduo dominio d'una tal virtù,
sotto l'assiduo giogo d'un tal fascino, provava una specie di smarrimento e
quasi di sbigottimento, come se quel dominio e quel giogo fossero per la sua
debolezza insostenibili. In certe ore aveva dal colloquio incessante tra la
sua anima e il mare un senso vago di prostrazione, come se quel gran verbo
gli facesse troppa violenza all'angustia dell'intelletto avido di comprendere
l'incomprendibile. Una tristezza delle acque lo sconvolgeva come una sventura.
Un giorno, egli si vide perduto. Vapori sanguigni e maligni ardevano all'orizzonte,
gittando sprazzi di sangue e d'oro sul fosco delle acque; un viluppo di nuvoli
paonazzi ergevasi da' vapori, simile a una zuffa di centauri immani sopra un
vulcano in fiamme; e per quella luce tragica un corteo funebre di vele triangolari
nereggiava su l'ultimo limite. Erano vele d'una tinta indescrivibile, sinistre
come le insegne della morte; segnate di croci e di figure tenebrose; parevano
vele di navigli che portassero cadaveri di appestati a una qualche maledetta
isola popolata di avvoltoi famelici. Un senso umano di terrore e di dolore
incombeva su quel mare, un accasciamento d'agonia gravava su quell'aria. Il
fiotto sgorgante dalle ferite de' mostri azzuffati non restava mai, anzi cresceva
in fiumi che arrossavano le acque per tutto lo spazio, sino alla sponda, facendosi
qua e là violaceo e verdastro come per corruzione. Di tratto in tratto
il viluppo crollava, i corpi si deformavano o si squarciavano, lembi sanguinosi
pendevano giù dal cratere o sparivano inghiottiti dall'abisso. Poi,
dopo il gran crollo, rigenerati, i giganti balzavan di nuovo alla lotta, più atroci;
il cumulo si ricomponeva, più enorme; e ricominciava la strage, più rossa,
finché i combattenti rimanevan esangui tra la cenere del crepuscolo,
esanimi, disfatti, sul vulcano semispento.
Pareva un episodio d'una qualche titanomachia primitiva, uno spettacolo eroico,
visto, a traverso un lungo ordine di età, nel cielo della favola. Andrea,
con l'animo sospeso, seguiva tutte le vicende. Abituato alle tranquille discese
dell'ombra, in quella declinazion serena dell'estate, ora si sentiva dall'insolito
contrasto riscuotere e sollevare e intorbidare con una strana violenza. Da
prima, fu come un'angoscia confusa, tumultuaria, piena di palpiti inconsapevoli.
Affascinato dal tramonto bellicoso, egli non anche giungeva a veder chiaramente
in sé medesimo. Ma, quando la cenere del crepuscolo piovve spegnendo
ogni guerra e il mare sembrò un'immensa palude plumbea, egli credé udire
nell'ombra il grido dell'anima sua, il grido d'altre anime.
Era dentro di lui, come un cupo naufragio nell'ombra. Tante tante voci chiamavano
al soccorso, imploravano aiuto, imprecavano alla morte; voci note, voci ch'egli
aveva un tempo ascoltate (voci di creature umane o di fantasmi?); ed ora non
distingueva l'una dall'altra! Chiamavano, imploravano, imprecavano inutilmente,
sentendosi perire; s'affievolivano soffocate dall'onda vorace; divenivano deboli,
lontane, interrotte, irriconoscibili; divenivano un gemito; s'estinguevano;
non risorgevano più.
Egli restava solo. Di tutta la sua giovinezza, di tutta la sua vita interiore,
di tutte le sue idealità non restava nulla. Dentro di lui non restava
che un freddo abisso vacuo; d'intorno a lui, una natura impassibile, fonte
perenne di dolore per l'anima solitaria. Ogni speranza era spenta; ogni voce
era muta; ogni àncora era rotta. A che vivere?
Subitamente, l'imagine di Elena gli risorse nella memoria. Altre imagini di
donne si sovrapposero a quella, si confusero con quella, la dispersero, si
dispersero. Egli non riuscì a cambiarne alcuna. Tutte parevano sorridere,
d'un sorriso nemico, nel dileguarsi; e tutte, nel dileguarsi, parevano portar
seco qualche cosa di lui. Che cosa? Egli non sapeva. Un avvilimento indicibile
l'oppresse: lo gelò quasi un senso di vecchiezza; gli occhi gli si empirono
di lacrime. Una tragica ammonizione gli sonò nel cuore: « Troppo
tardi! »
Le dolcezze recenti della pace e della malinconia gli sembrarono già lontane,
gli sembrarono un'illusion già fuggita; quasi gli sembrarono essere
state godute da un altro spirito, nuovo, straniero, entrato in lui e poi scomparso.
Gli sembrò che il suo vecchio spirito non potesse più omai rinnovellarsi
né risollevarsi. Tutte le ferite, ch'egli senza ritegno aveva aperte
nella dignità del suo essere interiore, sanguinarono. Tutte le degradazioni,
ch'egli senza ripugnanza aveva inflitte alla sua conscienza, vennero fuori
come macchie e si dilatarono come una lebbra. Tutte le violazioni, ch'egli
senza pudore aveva fatte alle sue idealità, gli suscitarono un rimorso
acuto, disperato, terribile, come se dentro di lui piangessero anime di sue
figliuole a cui egli padre avesse tolta la verginità mentre dormivano
sognando.
Ed egli piangeva con loro; e gli sembrava che le sue lacrime non gli scendessero
sul cuore come un balsamo ma gli rimbalzassero come sopra una materia viscida
e fredda onde il cuor suo fosse fasciato. L'ambiguità, la simulazione,
la falsità, l'ipocrisia, tutte le forme della menzogna e della frode
nella vita del sentimento, tutte aderivano al suo cuore come un vischio tenace.
Egli aveva troppo mentito, aveva troppo ingannato, s'era troppo abbassato.
Un ribrezzo di sé e del suo vizio l'invase. - Vergogna! Vergogna! -
La disonorante bruttura gli pareva indelebile; le piaghe gli parevano immedicabili;
gli pareva ch'egli dovesse portarne la nausea per sempre, per sempre, come
un supplizio senza termine. - Vergogna! - Piangeva, chino sul davanzale, abbandonato
sotto il peso della sua miseria, affranto come un uomo che non veda salvezza;
e non vedeva le stelle riscintillare a una a una sul suo povero capo, nella
sera profonda.
Al nuovo giorno egli ebbe un grato risveglio, un di que' freschi e limpidi
risvegli che ha soltanto l'Adolescenza nelle sue primavere trionfanti. Il mattino
era una meraviglia; respirare il mattino era una beatitudine immensa. Tutte
le cose vivevano nella felicità della luce; i colli parevano avvolti
in un velario diafano d'argento, scossi da un agile fremito; il mare pareva
attraversato da riviere di latte, da fiumi di cristallo, da ruscelli di smeraldi,
da mille vene che formavano come il mobile intrico d'un labirinto liquido.
Un senso di letizia nuziale e di grazia religiosa emanava dalla concordia del
mare, del cielo e della terra.
Egli respirava, guardava, ascoltava, un poco attonito. Nel sonno, la sua febbre
era guarita. Egli aveva chiuso gli occhi, nella notte, cullato dal coro delle
acque come da una voce amica e fedele. Chi s'addormenta al suono di quella
voce ha un riposo pieno di riparatrice tranquillità. Neanche le parole
della madre inducono un sonno così puro e così benefico al figliuolo
che soffre.
Guardava, ascoltava, muto, raccolto, intenerito, lasciando entrare in sé quell'onda
di vita immortale. Non mai la musica sacra d'un altro maestro, un Offertorio
di Giuseppe Haydn o un Te Deum di Volfango Mozart, gli aveva data la commozione
che ora gli davano le semplici campane delle chiese di lungi, salutanti l'ascension
del Giorno ne' cieli del Signore Uno e Trino. Egli sentiva il suo cuore colmarsi
e traboccar di commozione. Qualche cosa come un sogno vago ma grande gli si
levava su l'anima, qualche cosa come un velo ondeggiante a traverso il quale
splendesse il misterioso tesoro della felicità. Finora egli aveva sempre
saputo quel che desiderava e non aveva quasi mai trovato piacere da desiderare
invano. Ora, non poteva dire il suo desiderio; non sapeva. Ma, certo, la cosa
desiderata doveva essere infinitamente soave, poiché era una soavità anche
desiderarla.
I versi della Chimera nel Re di Cipro, antichi versi, quasi obliati, gli ritornarono
alla memoria, gli sonarono come una lusinga.
« Vuoi tu pugnare?
Uccidere? Veder fiumi di sangue?
gran mucchi d'oro? greggi di captive
femmine? schiavi? altre, altre prede? Vuoi
Tu far vivere un marmo? Ergere un tempio?
Comporre un immortale inno? Vuoi (m'odi,
giovine, m'odi) vuoi divinamente
amare? »
La chimera gli ripeteva, nel cuor segreto, sommessa, con oscure paure:
« M'odi,
giovine, m'odi: vuoi divinamente
amare? »
Egli un poco sorrise. E pensò: « Amare chi? l'Arte? una donna?
quale donna? » Elena gli apparve lontana, perduta, morta, non più sua;
le altre gli apparvero anche più lontane, morte per sempre. Egli era
libero, dunque. Perché mai avrebbe di nuovo seguita una ricerca inutile
e perigliosa? Era in fondo il suo cuore il desiderio di darsi, liberamente
e per riconoscenza, a un essere più alto e più puro. Ma dov'era
questo essere? L'Ideale avvelena ogni possesso imperfetto; e nell'amore ogni
possesso è imperfetto e ingannevole, ogni piacere è misto di
tristezza, ogni godimento è dimezzato, ogni gioia porta in sé un
germe di sofferenza, ogni abbandono porta in sé un germe di dubbio;
e i dubbii guastano, contaminano, corrompono tutti i diletti come le Arpie
rendevano immangiabili tutti i cibi a Fineo. Perché mai dunque avrebbe
egli di nuovo stesa la mano all'albero della scienza?
« The tree of knowledge has been pluck'd, - all's known. »
« L'albero della scienza è stato spogliato, - tutto è conosciuto » come
canta Giorgio Byron nel Don Juan. In verità, per l'avvenire, la sua salute
stava nella « eylabeia», cioè nella prudenza, nella finezza,
nella cautela, nella sagacità. Questo suo intendimento gli pareva bene
espresso in un sonetto d'un poeta contemporaneo che, per certa affinità di
gusti letterarii e comunanza di educazione estetica, egli prediligeva.
Sarò come colui che si distende
sotto l'ombra d'un grande albero carco,
ormai sazio di trar balestra od arco;
e in sul capo il maturo frutto pende.
Non ei scuote quel ramo, né protende
la man, né veglia in su le prede al varco.
Giace; e raccoglie con un gesto parco
i frutti che quel ramo al suol rende.
Di tal soave polpa ei nel profondo
non morde, a ricercar l'intima essenza,
perché teme l'amaro; anzi la fiuta,
poi sugge, con piacer limpido, senza
avidità, né triste né giocondo.
La sua favola breve è già compiuta.
Ma la «eylabeia», se può valere ad escludere in parte
dalla vita il dolore, esclude anche ogni alta idealità. La salute dunque
stava in una specie di equilibrio goethiano tra un cauto e fine epicureismo
pratico e il culto profondo e appassionato dell'Arte.
- L'Arte! L'Arte! - Ecco l'Amante fedele, sempre giovine, immortale; ecco la
Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco
il prezioso Alimento che fa l'uomo simile a un dio. Come aveva egli potuto
bevere ad altre coppe dopo avere accostate le labbra a quell'una? Come aveva
egli potuto ricercare altri gaudii dopo aver gustato il supremo? Come il suo
spirito aveva potuto accogliere altre agitazioni dopo aver sentito in sé l'indimenticabile
tumulto della forza creatrice? Come le sue mani avevan potuto oziare e lascivire
su i corpi delle femmine dopo aver sentito erompere dalle dita una forma sostanziale?
Come, infine, i suoi sensi avean potuto indebolirsi e pervertirsi nella bassa
lussuria dopo essere stati illuminati da una sensibilità che coglieva
nelle apparenze le linee invisibili, percepiva l'impercettibile, indovinava
i pensieri nascosti della Natura?
Un improvviso entusiasmo l'invase. In quel mattin religioso, egli voleva di
nuovo inginocchiarsi all'altare e, secondo il verso del Goethe, leggere i suoi
atti di divozione nella liturgia d'Omero.
« Ma se la mia intelligenza fosse decaduta? Se la mia mano avesse perduta
la prontezza? S'io non fossi più degno? » A questo dubbio, l'assalse
uno sbigottimento così forte ch'egli, con una smania puerile, si mise
a cercare qual potesse essere una prova immediata per aver la certezza che il
suo era un irragionevole timore. Avrebbe voluto sùbito fare un esperimento
reale: comporre una strofa difficile, disegnare una figura, incidere un rame,
sciogliere un problema di forme. Ebbene? E poi? non sarebbe stato quello un esperimento
fallace? La lenta decadenza dell'ingegno può anche essere inconsciente:
qui sta il terribile. L'artista che a poco a poco perde le sue facoltà non
si accorge della sua debolezza progressiva; poiché insieme con la potenza
di produrre e di riprodurre lo abbandona anche il giudizio critico, il criterio.
Egli non distingue più i difetti dell'opera sua, non sa che la sua opera è cattiva
o mediocre; s'illude; crede che il suo quadro, che la sua statua, che il suo
poema sieno nelle leggi dell'Arte mentre son fuori. Qui sta il terribile. L'artista
colpito nell'intelletto può non avere conscienza della propria imbecillità,
come il pazzo non ha conscienza della propria aberrazione. E allora?
Fu pel convalescente una specie di pànico. Egli si strinse le tempie
fra le palme; e rimase alcuni istanti sotto l'urto di quel pensiero spaventevole,
sotto l'orrore di quella minaccia, come annientato. - Meglio, meglio morire!
- Non mai, come in quel momento, aveva sentito il divino pregio del dono; non
mai come in quel momento, la scintilla gli era parsa sacra. Tutto il suo essere
tremava con una strana violenza, al solo dubbio che quel dono potesse struggersi,
che quella scintilla potesse spegnersi. - Meglio morire!
Levò il capo; scosse da sé ogni inerzia; discese nel parco; camminò lentamente
sotto gli alberi, non avendo un pensiero determinato. Un soffio leggero correva
su le cime; a intervalli, le foglie si scompigliavano con un fruscìo
forte, come se per mezzo vi passasse una torma di scoiattoli; piccoli frammenti
di cielo apparivano tra i rami, come occhi cerulei sotto palpebre verdi. In
un luogo favorito, ch'era una specie di lucus minimo in signoria di una Erma
quadrifronte intenta a una quadruplice meditazione, egli sostò; e si
mise a sedere sull'erba, con le spalle appoggiate alla base del simulacro,
con la faccia rivolta al mare. D'innanzi a lui, certi fusti, diritti e digradanti
come le canne della fistola di Pane, secavano l'oltramarino; intorno, gli acanti
aprivano con sovrana eleganza i cesti delle loro foglie, intagliate simetricamente
come nel capitello di Callimaco.
I versi di Salmace nella Favola d'Ermafrodito gli vennero alla memoria.
« Nobili acanti, o voi ne le terrestri
selve indizi di pace, alte corone,
di pura forma; o voi, snelli canestri
che il Silenzio con lieve man compone
a raccogliere il fiore de' silvestri
Sogni, qual mai virtù sul bel garzone
versaste da le foglie oscura e dolce?
Ei dorme, nudo; e il braccio il capo folce. »
Altri versi gli vennero alla memoria, altri ancóra, altri ancóra,
tumultuariamente. La sua anima si empì tutta d'una musica di rime e
di sillabe ritmiche. Egli gioiva; quella spontanea improvvisa agitazion poetica
gli dava un inesprimibile diletto. Egli ascoltava in sé medesimo que'
suoni, compiacendosi delle ricche imagini, degli epiteti esatti, delle metafore
lucide, delle armonie ricercate, delle squisite combinazioni di iati e di dieresi,
di tutte le più sottili raffinatezze che variavano il suo stile e la
sua metrica, di tutti i misteriosi artifizii dell'endecasillabo appresi dagli
ammirabili poeti del XIV secolo e in ispecie dal Petrarca. La magia del verso
gli soggiogò di nuovo lo spirito; e l'emistichio sentenziale d'un poeta
contemporaneo gli sorrideva singolarmente. - « Il Verso è tutto. »
Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessun istrumento d'arte è più vivo,
agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. Più compatto
del marmo, più malleabile della cera, più sottile d'un fluido,
più vibrante d'una corda, più luminoso d'una gemma, più fragrante
d'un fiore, più tagliente d'una spada, più flessibile d'un virgulto,
più carezzevole d'un murmure, più terribile d'un tuono, il verso è tutto
e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi
moti della sensazione; può definire l'indefinibile e dire l'ineffabile;
può abbracciare l'illimitato e penetrare l'abisso; può avere
dimensioni d'eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale,
l'oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un'estasi;
può nel tempo medesimo posseder il nostro intelletto, il nostro spirito,
il nostro corpo; può, infine, raggiungere l'Assoluto. Un verso perfetto
e assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza
d'un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza
mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame da ogni
dominio; non appartiene più all'artefice, ma è di tutti e di
nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue. Un
pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che
già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua.
Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini.
Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre
un maggior numero di codeste preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo
alla scoperta d'uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente
di gioia che gli invade d'improvviso tutto l'essere.
Quale gioia è più forte? - Andrea socchiuse un poco gli occhi,
quasi per prolungare quel particolar brivido ch'era in lui foriero della inspirazione
quando il suo spirito si disponeva all'opera d'arte, specialmente al poetare.
Poi, pieno d'un diletto non mai provato, si mise a trovar rime con la èsile
matita su le brevi pagine bianche del taccuino. Gli vennero alla memoria i
primi versi d'una canzone del Magnifico:
Parton leggieri e pronti
dal petto i miei pensieri...
Quasi sempre, per incominciare a comporre, egli aveva bisogno d'una intonazione
musicale datagli da un altro poeta; ed egli usava prenderla quasi sempre dai
verseggiatori antichi di Toscana. Un emistichio di Lapo Gianni, del Cavalcanti,
di Cino, del Petrarca, di Lorenzo de' Medici, il ricordo d'un gruppo di rime,
la congiunzione di due epiteti, una qualunque concordanza di parole belle e
bene sonanti, una qualunque frase numerosa bastava ad aprirgli la vena, a dargli,
per così dire, il la, una nota che gli servisse di fondamento all'armonia
della prima strofa. Era una specie di topica applicata non alla ricerca degli
argomenti ma alla ricerca dei preludii. Il primo settenario medìceo
gli offerse infatti la rima; ed egli vide distintamente tutto ciò ch'egli
voleva mostrare al suo imaginario uditore in persona dell'Erma; e, insieme
con la visione, nel tempo medesimo, si presentò spontaneamente al suo
spirito la forma metrica in cui egli doveva versare, come un vino in una coppa,
la poesia. Poiché quel suo sentimento poetico era duplice, o meglio,
nasceva da un contrasto, cioè dal contrasto fra l'abiezion passata e
la presente risurrezione, e poiché nel suo movimento lirico procedeva
per elevazione, egli elesse il sonetto; la cui architettura consta di due ordini:
del superiore rappresentato dalle due quartine e dell'inferiore rappresentato
dalle due terzine. Il pensiero e la passione dunque, dilatandosi nel primo
ordine, si sarebber raccolti, rinforzati, elevati nel secondo. La forma del
sonetto, pur essendo meravigliosamente bella e magnifica, è in qualche
parte manchevole; perché somiglia una figura con il busto troppo lungo
e le gambe troppo corte. Infatti le due terzine non soltanto sono in realtà più corte
delle quartine, per numero di versi; ma anche sembrano più corte delle
quartine, per quel che la terzina ha di rapido e di fluido nell'andatura sua
in confronto alla lentezza e alla maestà della quartina. Quegli è migliore
artefice, il quale sa coprire la mancanza; il quale, cioè, serbando
alle terzine la imagine più precisa e più visibile e le parole
più forti e più sonore, ottiene che le terzine grandeggino e
armonizzino con le superiori strofe senza però nulla perdere della lor
leggerezza e rapidità essenziali. I dipintori del Rinascimento sapevano
equilibrare una intiera figura con il semplice svolazzo d'un nastro o d'un
lembo o d'una piega.
Andrea, nel comporre, studiava se medesimo curiosamente. Non aveva fatto versi
da gran tempo. Quell'intervallo d'ozio aveva nociuto alla sua abilità tecnica?
Gli pareva che le rime, uscenti a mano a mano dal suo cervello, avessero un
sapor nuovo. La consonanza gli veniva spontanea, senza ch'ei la cercasse; e
i pensieri gli nascevano rimati. Poi, d'un tratto, un intoppo arrestava il
fluire; un verso gli si ribellava; tutto il resto gli si scomponeva come un
musaico sconnesso; le sillabe lottavano contro la constrizion della misura;
una parola musicale e luminosa, che gli piaceva, era esclusa dalla severità del
ritmo ad onta d'ogni sforzo; da una rima nasceva un'idea nuova, inaspettata,
a sedurlo, a distrarlo dall'idea primitiva; un epiteto, pur essendo giusto
ed esatto, aveva un suono debole; la tanto cercata qualità, la coerenza,
mancava completamente; e la strofa era come una medaglia riuscita imperfetta
per colpa d'un fonditore inesperto il qual non avesse saputo calcolare la quantità di
metallo fuso necessaria a riempirne il cavo. Egli, con acuta pazienza, rimetteva
di nuovo nel crogiuolo il metallo, e ricominciava l'opera da capo. La strofa
alla fine gli usciva intera e precisa; qualche verso, qua e là, aveva
una certa asprezza piacente; a traverso le ondulazioni del ritmo appariva evidentissima
la simetria; la ripetizion delle rime faceva una musica chiara, richiamando
allo spirito con l'accordo de' suoni l'accordo de' pensieri e rafforzando con
un legame fisico il legame morale; tutto il sonetto viveva e respirava come
un organismo indipendente, nell'unità. Per passare da un sonetto all'altro
egli teneva una nota, come in musica la modulazione da un tono all'altro è preparata
dall'accordo di settima, nel qual si tiene la nota fondamentale per farne la
dominante del nuovo tono.
Così componeva, or rapido or lento, con un diletto non mai provato;
e il luogo raccolto, in verità, pareva escito dalla fantasia d'un solitario
egipane dedito ai carmi. Il mare, mentre più cresceva il giorno, balenava
fra i tronchi come negli intercolunnii d'un portico di diaspro; gli acanti
corintii eran come le coronazioni abbattute di quelle colonne arboree; nell'aria,
glauca come l'ombra d'un antro lacustre, il sole gittava a quando a quando
strali e anelli e dischi d'oro. Certo, Alma Tadema avrebbe ivi imaginata una
Saffo dal crin di viola, seduta sotto l'Erma di marmo, poetante su la lira
di sette corde, in mezzo a un coro di fanciulle dal crin di fiamma pallide
e intente a bevere dall'adonio la compiuta armonia di ciascuna strofe.
Quando egli ebbe condotti a termine i quattro sonetti, trasse un respiro e
li recitò senza voce, con una enfasi interiore. L'apparente rottura
del ritmo nel quinto verso dell'ultimo, causata dalla mancanza di un accento
tonico e quindi d'una posa grave della ottava sillaba, gli parve efficace e
la mantenne. Quindi scrisse i quattro sonetti su la base quadrangolare dell'Erma:
ogni faccia uno, in quest'ordine.
I
Erma quadrata, le tue quattro fronti
sanno mie novità meravigliose?
Spirti, cantando, da le sedi ascose
partono del mio cor leggieri e pronti
Il cor mio prode tutte impure fonti
serrò, cacciò da se tutt'altre cose
impure, tutte fiamme obbrobriose
domò, ruppe all'assedio tutti i ponti.
Spirti, cantando, salgono. Ben odo
io l'inno; e inestinguibile, possente,
del periglio di me mi prende un riso.
Pallido sì ma come un re, io godo
sentir nel core l'anima ridente,
mentre il già vinto Mal rimiro fiso.
II
L'anima ride li amor suoi lontani
mentre fiso rimiro il Mal già vinto
che in quei di foco intrichi aveami spinto
come in boschi nudriti da vulcani.
Or nel gran cerchio de' dolori umani
entra, novizia in veste di jacinto,
dietro lasciando il falso laberinto
ove i belli ruggìan mostri pagani.
Non più sfinge con unghie auree l'abbranca,
non górgone la fa pietra restare,
non sirena per lunga ode l'incanta.
Alta, in sommo del cerchio, un'assai bianca
donna, con atto di comunicare,
tien fra le pure dita l'Ostia santa.
III
Ella fuor de l'insidie e fuor de l'ire
e fuor de' danni, sta pacata e forte
come colei che può fino a la morte
sapere il Male, senza quel soffrire.
- O voi che fate tutti i venti aulire,
che d'avete in signorìa tutte le porte,
io metto a' vostri piedi la mia sorte:
Madonna me 'l vogliate consentire!
Folgora ne la pura mano vostra
quell'Ostia desiata, come un sole.
Non vedrò dunque il gesto che consente? -
Ed ella, ch'è benigna a chi si prostra,
comunicando dice le parole:
- Offerto t'è il tuo Ben, anzi è presente.
IV
Io - dice - son l'innaturale Rosa
generata dal sen de la Bellezza.
Io son che infondo la suprema ebrezza.
Io son colei che esalta e che riposa.
Ara con pianti, anima dolorosa,
per mietere con canti d'allegrezza.
Dopo un lungo dolor, la mia dolcezza
passerà di dolcezza ogni altra cosa. -
- Tal sia, Madonna; e dal mio cor disgorghi
gran sangue, e i fiumi scorrano sul mondo,
e il dolore immortal pur gli rinnovi,
e me stesso travolgano que'gorghi,
me coprano; ma veda io dal profondo
la luce che a la invitta anima piovi. -
DIE XII SEPTEMBRIS MDCCCLXXXVI.
II
Schifanoja sorgeva su la collina, nel punto in cui la catena dopo aver seguito
il litorale ed abbracciato il mare come in un anfiteatro, piegava verso l'interno
e declinava alla pianura. Sebbene edificata dal cardinale Alfonso Carafa d'Ateleta,
nella seconda metà del XVIII secolo, la villa aveva nella sua architettura
una certa purezza di stile. Formava un quadrilatero, alto di due piani, ove
i portici si alternavano con gli appartamenti; e le aperture de' portici appunto
davano all'edificio agilità ed eleganza, poiché le colonne e
i pilastri ionici parevano disegnati e armonizzati dal Vignola. Era veramente
un palazzo d'estate, aperto ai venti del mare. Dalla parte dei giardini, sul
pendio, un vestibolo metteva su una bella scala a due rami discendente in un
ripiano limitato da balaustri di pietra come un vasto terrazzo e ornato di
due fontane. Altre scale dalle estremità del terrazzo si prolungavano
giù per il pendio arrestandosi ad altri ripiani sinchè terminavano
quasi sul mare e da questa inferiore area presentavano alla vista una specie
di settemplice serpeggiamento tra la verdura superba e tra i foltissimi rosai.
Le meraviglie di Schifanoja erano le rose e i cipressi. Le rose, di tutte le
qualità, di tutte le stagioni, erano a bastanza pour en tirer neuf ou
dix muytz d'eaue rose, come avrebbe detto il poeta del Vergier d'honneur. I
cipressi, acuti ed oscuri, più ieratici delle piramidi, più enigmatici
degli obelischi, non cedevano né a quelli della Villa d'Este né a
quelli della Villa Mondragone né a quanti altri simili giganti grandeggiano
nelle gloriate ville di Roma.
La marchesa d'Ateleta soleva passare a Schifanoja l'estate e parte dell'autunno;
poiché ella, pur essendo tra le dame una delle più mondane, amava
la campagna e la libertà campestre ed ospitare amici. Ella aveva usato
ad Andrea infinite cure e premure, durante la malattia, come una sorella maggiore,
quasi come una madre, senza stancarsi. Una profonda affezione la legava al
cugino. Ella era per lui piena d'indulgenze e di perdoni; era un'amica buona
e franca, capace di comprendere molte cose, pronta, sempre gaia, sempre arguta,
a un tempo spiritosa e spirituale. Pur avendo varcata da circa un anno la trentina,
conservava una mirabile vivacità giovenile e una grande piacenza, poiché possedeva
il segreto della signora di Pompadour, quella beauté sans traits che
può avvivarsi d'inaspettate grazie. Anche possedeva una virtù rara,
quella che comunemente si chiama « il tatto ». Un delicato genio
feminile erale di guida infallibile. Nelle sue relazioni con innumerevoli conoscenti
d'ambo i sessi, ella sapeva sempre, in ogni circostanza, come contenersi; e
non commetteva mai errori, non pesava mai su la vita altrui, non veniva mai
inopportuna né diveniva mai importuna, faceva sempre a tempo ogni suo
atto e diceva a tempo ogni sua parola. Il suo contegno verso Andrea, in questo
periodo di convalescenza un po' strano e ineguale, non poteva essere, in verità,
più squisito. Ella cercava in tutti i modi di non disturbarlo e di ottenere
che nessuno lo disturbasse; gli lasciava pienissima libertà; mostrava
di non accorgersi delle bizzarrie e delle malinconie; non l'infastidiva mai
con domande indiscrete; faceva sì che la sua compagnia gli fosse leggera
nelle ore obbligatorie; rinunziava perfino ai motti, in presenza di lui, per
evitargli la fatica d'un sorriso forzato.
Andrea. che comprendeva quella finezza, era riconoscente.
Il 12 di settembre, dopo i sonetti dell'Erma, egli tornò a Schifanoja
con una insolita letizia; incontrò Donna Francesca su la scala e le
baciò le mani, dicendole con un tono di gioco:
- Cugina, ho trovato la Verità e la Via.
- Alleluia! - fece Donna Francesca, levando le belle braccia rotonde. - Alleluia!
Ed ella discese nei giardini e Andrea salì alle sue stanze, col cuor
sollevato.
Dopo poco, egli udì battere leggermente all'uscio e la voce di Donna
Francesca chiedere:
- Posso entrare?
Ella entrò portando nella sopravveste e tra le braccia un gran fascio
di rose rosee, bianche, gialle, vermiglie, brune. Alcune larghe e chiare, come
quelle della Villa Pamphily, freschissime e tutte imperlate, avevano non so
che di vitreo tra foglia e foglia; altre avevano petali densi e una dovizia
di colore che faceva pensare alla celebrata magnificenza delle porpore d'Elisa
e di Tiro; altre parevano pezzi di neve odorante e facevano venire una strana
voglia di morderle e d'ingoiarle; altre erano di carne, veramente di carne,
voluttuose come le più voluttuose forme d'un corpo di donna, con qualche
sottile venatura. Le infinite gradazioni del rosso, dal cremisi violento al
color disfatto della fragola matura, si mescevano alle più fini e quasi
insensibili variazioni del bianco, dal candore della neve immacolata al colore
indefinibile del latte appena munto, dell'ostia, della midolla d'una canna,
dell'argento opaco, dell'alabastro, dell'opale.
- Oggi è festa - ella disse, ridendo; e i fiori le coprivano il petto
fin quasi alla gola.
- Grazie! Grazie! Grazie! - ripeteva Andrea aiutandola a deporre il fascio
sul tavolo, su i libri, su gli albi, su le custodie de' disegni. - Rosa rosarum!
Ella, poi che fu libera, adunò tutti i vasi sparsi per le stanze e si
mise a riempirli di rose, componendo tanti singoli mazzi con una scelta che
rivelava in lei un gusto raro, il gusto della gran convivatrice. Scegliendo
e componendo, parlava di mille cose con quella sua gaia volubilità,
quasi volesse compensarsi della parsimonia di parole e di risa usata fin allora
con Andrea per riguardo alla malinconia taciturna di lui.
Tra le altre cose, disse:
- Il 15 avremo una bella ospite: Donna Maria Ferres y Capdevila, la moglie
del ministro plenipotenziario di Guatemala. La Conosci?
- Non mi pare.
- Infatti, non la puoi conoscere. E' tornata in Italia da pochi mesi; ma passerà l'inverno
prossimo a Roma, perché il marito è destinato a quel posto. E'
una mia amica d'infanzia, molto cara. Siamo state insieme a Firenze, tre anni,
all'Annunziata; ma è più giovine di me.
- Americana?
- No; italiana e di Siena, per giunta. Nasce di casa Bandinelli, battezzata
con l'acqua della Fonte Gaia. Ma è piuttosto malinconica, di natura;
e tanto dolce. La storia del suo matrimonio, anche, è poco allegra.
Quel Ferres non è simpatico punto. Hanno però una bambina ch'è un
amore. Vedrai; pallida pallida con tanti capelli, con due occhi smisurati.
Somiglia molto alla madre... Guarda, Andrea, questa rosa, se non pare di velluto!
E quest'altra? Me la mangerei. Ma guarda, proprio, se non pare una crema ideale.
Che delizia!
Ella seguitava a scegliere le rose e a parlare amabilmente.
Un profumo pieno, inebriante come un vino di cent'anni, saliva dal mucchio;
alcune corolle si sfogliavano e si fermavano tra le pieghe della gonna di Donna
Francesca; innanzi alla finestra, nel sole biondissimo, la punta cupa d'un
cipresso accennava appena. E nella memoria di Andrea cantava con insistenza,
come una frase musicale, un verso del Petrarca:
« Così partìa le rose e le parole. »
Due mattine dopo, egli offerì in compenso alla marchesa d'Ateleta un sonetto curiosamente foggiato all'antica e manoscritto in una pergamena ornata con fregi in sul gusto di quelli che ridono nei messali d'Attavante e di Liberale da Verona.
Schifanoja in Ferrara (oh gloria d'Este!),
ove il Cossa emulò Cosimo Tura
in trionfi d'iddii su per le mura,
non vide mai tanto gioconde feste.
Tante rose portò ne la sua veste
Monna Francesca all'ospite in pastura
quante mai n'ebbe il Ciel per avventura,
bianche angelelle, a cingervi le teste.
Ella parlava ed iscegliea que'fiori
con tal vaghezza ch'io pensai: - Non forse
venne una Grazia per le vie del Sole? -
Travidi, inebriato dalli odori.
Un verso del Petrarca a l'aria sorse:
« Così partìa le rose e le parole. »
Così Andrea cominciava a riavvicinarsi all'Arte, curiosamente esperimentandosi
in piccoli esercizii e in piccoli giuochi, ma ben meditando opere meno lievi.
Molte ambizioni, che già un tempo l'avevano incitato, tornarono ad incitarlo;
molti progetti d'un tempo gli si riaffacciarono nello spirito modificati o
completi; molte antiche idee gli si ripresentarono sotto una luce nuova o più giusta;
molte imagini, una volta appena intraviste, gli brillarono chiare e nitide,
senza ch'egli potesse rendersi conto di quel loro svolgimento. Pensieri subitanei
insorgevano dalle profondità misteriose della conscienza e lo sorprendevano.
Pareva che tutti i confusi elementi accumulati in fondo a lui, ora combinati
con la disposizion particolare della volontà, si transformassero in
pensieri con lo stesso processo per cui la digestione stomacale elabora i cibi
e li cangia in sostanza del corpo.
Egli intendeva trovare una forma di Poema moderno, questo inarrivabile sogno
di molti poeti; e intendeva fare una lirica veramente moderna nel contenuto
ma vestita di tutte le antiche eleganze, profonda e limpida, appassionata e
pura, forte e composta. Inoltre vagheggiava un libro d'arte su i Primitivi,
su gli artisti che precorrono la Rinascenza, e un libro d'analisi psicologica
e letteraria su i poeti del Dugento in gran parte ignorati. Un terzo libro
avrebbe egli voluto scrivere sul Bernini, un grande studio di decadenza, aggruppando
intorno a quest'uomo straordinario che fu il favorito di sei papi non soltanto
tutta l'arte ma anche tutta la vita del suo secolo. Per ognuna di tali opere
bisognavano naturalmente, molti mesi, molte ricerche, molte fatiche, un alto
calore d'ingegno, una vasta capacità di coordinazione.
In materia di disegno, egli intendeva illustrare con acque forti la terza e
la quarta giornata del Decamerone, prendendo ad esempio quella Istoria di Nastagio
degli Onesti ove Sandro Botticelli rivela tanta raffinatezza di gusto nella
scienza del gruppo e dell'espressione. Inoltre vagheggiava una serie di Sogni,
di Capricci, di Grotteschi, di Costumi, di Favole, di Allegorie, di Fantasie,
alla maniera volante del Callot ma con un ben diverso sentimento e un ben diverso
stile, per potersi liberamente abbandonare a tutte le sue predilezioni, a tutte
le sue imaginazioni, a tutte le sue più acute curiosità e più sfrenate
temerità di disegnatore.
Il 15 settembre, un mercoledì, giunse l'ospite nuova.
La marchesa andò, insieme con il suo primogenito Ferdinando e con Andrea,
ad incontrar l'amica nella prossima stazione di Rovigliano. Mentre il phaeton
discendeva per la strada ombreggiata di alti pioppi, la marchesa parlava dell'amica
ad Andrea con molta benevolenza.
- Credo che ti piacerà - ella concluse.
Poi si mise a ridere, come per un pensiero che le attraversasse lo spirito
improvvisamente.
- Perché ridi? - le chiese Andrea.
- Per un'analogia.
- Quale?
- Indovina.
- Non so.
- Ecco: pensavo a un altro annunzio di presentazione e a un'altra presentazione
ch'io ti feci, son quasi due anni, accompagnandola con una profezia allegra.
Ti ricordi?
- Ah!
- Rido perché anche questa volta si tratta di una incognita e anche
questa volta io sarei... l'auspice involontaria.
- Ohibò.
- Ma il caso è diverso, ossia è diverso il personaggio del possibile
dramma.
- Cioè?
- Maria è una turris eburnea.
- Io sono ora un vas spirituale.
- Guarda! Dimenticavo che tu hai finalmente trovato la Verità e la Via. « L'anima
ride li amor suoi lontani... »
- Tu citi i miei versi?
- Li so a memoria.
- Che amabilità!
- Del resto, caro cugino, quell'« assai bianca donna » con l'Ostia
in mano m'è sospetta. M'ha tutta l'aria d'una forma fittizia, d'una
stola senza corpo, che sia alla mercede di quella qualunque anima d'angelo
o di demonio intenzionata d'entrarci, di amministrarti la comunione e di farti « il
gesto che consente ».
- Sacrilegio! Sacrilegio!
- Bada a te e fa ben la guardia alla stola e fa molti esorcismi... Ricasco
nelle profezie! Proprio, le profezie sono una delle mie debolezze.
- Siamo giunti, cugina.
Ridevano ambedue. Entravano nella stazione, mancando pochi minuti all'arrivo
del treno. Il dodicenne Ferdinando, un fanciullo malaticcio, portava un mazzo
di rose per offerirlo a Donna Maria. Andrea, dopo quel dialogo, si sentiva
allegro, leggero, vivacissimo, quasi che d'un tratto fosse rientrato nella
primiera vita di frivolezza e di fatuità: era una sensazione inesplicabile.
Gli pareva che qualche cosa come un soffio femineo, come una tentazione indefinita,
gli attraversasse lo spirito. Scelse dal mazzo di Ferdinando una rosa thea
e se la mise all'occhiello; diede un'occhiata rapida al suo abbigliamento estivo;
si guardò con compiacenza le mani bene curate ch'eran divenute più sottili
e più bianche nella malattia. Fece tutto questo senza riflessione, quasi
per un istinto di vanità risvegliatosi in lui d'un tratto.
- Ecco il treno - disse Ferdinando.
La marchesa si avanzò incontro alla ben venuta; ch'era già allo
sportello e salutava con la mano e accennava con la testa tutt'avvolta d'un
gran velo color di perla coprente a metà il cappello di paglia nera.
- Francesca! Francesca! - ella chiamava, con una effusione tenera di gioia.
Quella voce fece su Andrea un'impression singolare; gli ricordò vagamente
una voce conosciuta. Quale?
Donna Maria discese con un atto rapido ed agile; e con un gesto pieno di grazia
sollevò il velo fitto scoprendosi la bocca per baciare l'amica. Sùbito,
per Andrea quella signora alta e ondulante sotto il mantello di viaggio e velata,
di cui egli non vedeva che la bocca e il mento, ebbe una profonda seduzione.
Tutto il suo essere, illuso in quei giorni da una parvenza di liberazione,
era disposto ad accogliere il fascino dell'« eterno feminino ».
Appena smosse da un soffio di donna, le ceneri davano faville.
- Maria, ti presento mio cugino, il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta.
Andrea s'inchinò. La bocca della signora si aperse ad un sorriso, che
sembrò misterioso poiché la lucentezza del velo nascondeva il
resto della faccia.
Quindi la marchesa presentò Andrea a Don Manuel Ferres y Capdevila.
Poi disse, accarezzando i capelli della bimba che guardava il giovine con due
dolci occhi attoniti:
- Ecco Delfina.
Nel phaeton Andrea sedeva di fronte a Donna Maria e a fianco del marito. Ella
non aveva ancor svolto il velo; teneva su le ginocchia il mazzo di Ferdinando
e di tratto in tratto lo portava alle nari, mentre rispondeva alle domande
della marchesa. Andrea non s'era ingannato: nella voce di lei sonavano alcuni
accenti della voce di Elena Muti, perfetti. Una curiosità impaziente
l'invase, di vedere il volto nascosto, l'espressione, il colore.
- Manuel - dicea ella, discorrendo - partirà venerdì. Poi verrà a
riprendermi, più tardi.
- Molto tardi, speriamo - s'augurò cordialmente Donna Francesca. - Anzi
la miglior cosa sarebbe d'andar via tutti in un giorno. Noi resteremo a Schifanoja
sino al primo di novembre, non più oltre.
- Se la mamma non m'aspettasse, resterei volentieri con te. Ma ho promesso
di trovarmi in tutti i modi a Siena pel 17 d'ottobre, ch'è il natalizio
di Delfina.
- Peccato! Il 20 d'ottobre c'è la festa delle donazioni a Rovigliano,
tanto bella e strana.
- Come fare? S'io mancassi, la mamma n'avrebbe certo un gran dolore. Delfina è l'adorata...
Il marito taceva: doveva essere di natura taciturno. Di mezza taglia, un poco
obeso, un po' calvo, aveva la pelle d'un color singolare, d'un pallore tra
verdognolo e violaceo, su cui il bianco dell'occhio nei movimenti dello sguardo
spiccava come quel d'un occhio di smalto in certe teste di bronzo antiche.
I baffi, neri, duri ed egualmente tagliati come i peli d'una spazzola, ombravano
una cruda bocca sardonica. Egli pareva un uomo tutto irrigato di bile. Poteva
aver quarant'anni o poco più. Nella sua persona era qualche cosa di
ibrido e di subdolo, che non isfuggiva a un osservatore; era quell'indefinibile
aspetto di viziosità che portano in loro le generazioni provenienti
da un miscuglio di razze imbastardite, crescenti nella turbolenza.
- Guarda, Delfina, gli aranci tutti fioriti! - esclamò Donna Maria stendendo
la mano al passaggio per cogliere un rametto.
La strada infatti saliva tra due boschi d'agrumi, in vicinanza di Schifanoja.
Le piante eran così alte che facevano ombra. Un vento marino alitava
e sospirava nell'ombra, carico d'un profumo che si poteva quasi bevere a sorsi
come un'acqua refrigerante.
Delfina aveva posate le ginocchia sul sedile e si sporgeva fuor della carrozza
per afferrare i rami. La madre la cingeva con un braccio per reggerla.
- Bada! Bada! Puoi cadere. Aspetta un poco ch'io mi tolga il velo - ella disse.
- Scusa, Francesca; aiutami.
E chinò la testa verso l'amica per farsi districare il velo dal cappello.
In quell'atto il mazzo di rose le cadde a' piedi. Andrea fu pronto a raccoglierlo;
e nel rialzarsi a porgerlo, vide alfine l'intero volto della signora scoperto.
- Grazie - ella disse.
Aveva un volto ovale, forse un poco troppo allungato, ma appena appena un poco,
di quell'aristocratico allungamento che nel XV secolo gli artisti ricercatori
d'eleganza esageravano. Ne' lineamenti delicati era quell'espressione tenue
di sofferenza e di stanchezza, che forma l'umano incanto delle Vergini ne'
tondi fiorentini del tempo di Cosimo. Un'ombra morbida, tenera, simile alla
fusione di due tinte diafane, d'un violetto e d'un azzurro ideali, le circondava
gli occhi che volgevan l'iride lionata degli angeli bruni. I capelli le ingombravano
la fronte e le tempie, come una corona pesante; si accumulavano e si attortigliavano
su la nuca. Le ciocche, d'innanzi, avevan la densità e la forma di quelle
che coprono a guisa d'un casco la testa dell'Antinoo Farnese. Nulla superava
la grazia della finissima testa che pareva esser travagliata dalla profonda
massa, come da un divino castigo.
- Dio mio! - esclamò ella, provando a sollevare con le mani il peso
delle trecce constrette insieme sotto la paglia. - Ho tutta quanta la testa
addolorata come se fossi rimasta sospesa pe' capelli un'ora. Non posso stare
molto tempo senza scioglierli; mi affaticano troppo. E' una schiavitù
- Ti ricordi, - chiese Donna Francesca - in conservatorio, quando eravamo in
tante a volerti pettinare? Succedevano gran liti, ogni giorno. Figurati, Andrea,
che corse perfino il sangue! Ah, non dimenticherò mai la scena tra Carlotta
Fiordelise e Gabriella Vanni. Era una mania. Pettinar Maria Bandinelli era
l'aspirazione di tutte le educande, maggiori e minori. Il contagio si sparse
per tutto il conservatorio; ne vennero proibizioni, ammonizioni, rigori, minacce
perfin di tonsura. Ti ricordi, Maria? Tutte le nostre anime erano allacciate
da quel bel serpente nero che ti pendeva fino ai calcagni. Che pianti di passione,
la notte! E quando Gabriella Vanni, per gelosia, ti diede a tradimento una
forbiciata? Proprio, Gabriella aveva perduta la testa. Ti ricordi?
Donna Maria sorrideva, d'un certo sorriso malinconico e quasi direi incantato
come quel d'una persona che sogni. Nella sua bocca socchiusa il labbro di sopra
avanzava un poco quel di sotto, ma così poco che appena pareva, e gli
angoli si chinavano in giù dolenti e nel loro incavo lieve accoglievano
un'ombra. Queste cose creavano un'espressione di tristezza e di bontà,
ma temperata da quella fierezza che rivela l'elevazion morale di chi ha molto
sofferto e saputo soffrire.
Andrea pensò che in nessuna delle sue amiche egli aveva posseduta una
tal capigliatura, una così vasta selva e così tenebrosa, ove
smarrirsi. La storia di tutte quelle fanciulle innamorate d'una treccia, accese
di passione e di gelosia, smanianti di mettere il pettine e le dita nel vivo
tesoro, gli parve un gentile e poetico episodio di vita claustrale; e la chiomata
nell'imaginazione gli s'illuminò vagamente come l'eroina d'una favola,
come l'eroina d'una leggenda cristiana in cui fosse descritta la puerizia d'una
santa destinata a un martirio e a una glorificazione futura. Nel tempo medesimo,
gli sorgeva nello spirito una finzione d'arte. Quanta ricchezza e varietà di
linee avrebbe potuto dare al disegno d'una figura muliebre quella volubile
e divisibile massa di capelli neri!
Non erano, veramente, neri. Egli li guardava, il giorno dopo, a mensa, nel
punto in cui il riverbero del sole li feriva. Avevano riflessi di viola cupi,
di que' riflessi che ha la tinta del campeggio o anche talvolta l'acciaio provato
alla fiamma o anche certa specie di palissandro polito; e parevano aridi, per
modo che pur nella lor compattezza i capelli rimanevan distaccati l'uno dall'altro,
penetrati d'aria, quasi direi respiranti. I tre luminosi e melodiosi epiteti
d'Alceo andavano a Donna Maria naturalmente. « Ioploch' agnameilichomeide...» -
Ella parlava con finezza, mostrando uno spirito delicato e inchino alle cose
dell'intelligenza, alle rarità del gusto, al piacere estetico. Possedeva
la coltura abondante e varia, l'imaginazione sviluppata, la parola colorita
di chi ha veduto molti paesi, ha vissuto in diversi climi, ha conosciuto genti
diverse. E Andrea sentiva un'aura esotica involgere la persona di lei, sentiva
da lei partire una strana seduzione, un incanto composto dai fantasmi vaghi
delle cose lontane ch'ella aveva guardate, degli spettacoli ch'ella ancóra
serbava negli occhi, dei ricordi che le empivano l'anima. Ed era un incanto
indefinibile, inesprimibile; era come s'ella portasse nella sua persona una
traccia della luce in cui erasi immersa, de' profumi ch'ella aveva respirati,
degli idiomi ch'ella aveva uditi; era come s'ella portasse in sé confuse,
svanite, indistinte tutte le magie di que' paesi del Sole.
La sera, nella gran sala che dava sul vestibolo, ella s'accostò al pianoforte
e l'aperse per provarlo, dicendo:
- Suoni ancóra, tu, Francesca?
- Oh, no - rispose la marchesa. - Ho smesso di studiare, da parecchi anni.
Penso che la semplice audizione sia una voluttà preferibile. Però mi
do l'aria di proteggere l'arte; e l'inverno in casa mia presiedo sempre a un
po' di buona musica. E vero, Andrea?
- Mia cugina è assai modesta, Donna Maria. E' qualche cosa più che
una protettrice; e una restauratrice del buon gusto. Proprio quest'anno, nel
febbraio, in casa sua, per sua cura, sono stati eseguiti due Quintetti, un
Quartetto e un Trio del Boccherini e un Quartetto del Cherubini: musica quasi
in tutto dimenticata, ma ammirabile e sempre giovine. Gli Adagio e i Minuetti
del Boccherini sono d'una freschezza deliziosa; i Finali soltanto mi paiono
un po' invecchiati. Voi, certo, conoscete qualche cosa di lui...
- Mi ricordo d'aver sentito un Quintetto quattro o cinque anni fa, al Conservatorio
di Bruxelles; e mi parve magnifico, e poi nuovissimo, pieno d'episodii inaspettati.
Mi ricordo bene che in alcune parti il Quintetto, per l'uso dell'unisono, si
riduceva a un Duo; ma gli effetti ottenuti con la differenza dei timbri erano
d'una finezza straordinaria. Non ho ritrovato nulla di simile nelle altre composizioni
strumentali.
Ella parlava di musica con sottilità d'intenditrice; e per rendere il
sentimento, che una data composizione o l'intera arte di un dato maestro suscitava
in lei, aveva espressioni ingegnose ed imagini ardite.
- Io ho eseguita ed ascoltata molta musica - diceva ella. - E di ogni Sinfonia,
di ogni Sonata, di ogni Notturno, di ogni singolo pezzo insomma, conservo una
imagine visibile, un'impressione di forma e di colore, una figura, un gruppo
di figure, un paesaggio; tanto che tutti i miei pezzi prediletti portano un
nome, secondo l'imagine. Io ho, per esempio, la Sonata delle quaranta nuore
di Priamo, il Notturno della Bella addormentata nel bosco, la Gavotta delle
dame gialle, la Giga del mulino, il Preludio della goccia d'acqua, e così via.
Ella si mise a ridere, d'un tenue riso che su quella bocca afflitta aveva una
indicibile grazia e sorprendeva come un baleno inatteso.
- Ti ricordi, Francesca, in collegio, di quanti commenti in margine affliggemmo
la musica di quel povero Chopin, del nostro divino Federico? Tu eri la mia
complice. Un giorno mutammo tutti i titoli allo Schumann, con gravi discussioni;
e tutti i titoli avevano una lunga nota esplicativa. Conservo ancóra
quelle carte, per memoria. Ora, quando risuono i Myrthen e le Albumblätter,
tutte quelle significazioni misteriose mi sono incomprensibili; la commozione
e la visione sono assai diverse; ed è un fino piacere questo, di poter
paragonare il sentimento presente con il passato, la nuova imagine con l'antica.
E un piacere simile a quello che si prova nel rileggere il proprio Giornale;
ma è forse più malinconico e più intenso. Il Giornale
in genere è la descrizione degli avvenimenti reali, la cronaca dei giorni
felici e dei giorni tristi, la traccia grigia o rosea lasciata dalla vita che
fugge; le note prese in margine d'un libro di musica, in giovinezza, sono invece
i frammenti del poema segreto d'un'anima che si schiude, sono le effusioni
liriche della nostra idealità intatta, sono la storia dei nostri sogni.
Che linguaggio! Che parole! Ti ricordi, Francesca?
Ella parlava con piena confidenza, forse con una leggera esaltazione spirituale,
come una donna che, lungamente oppressa dalla frequentazion forzata di gente
inferiore o da uno spettacolo di volgarità, abbia il bisogno irresistibile
di aprire il suo intelletto e il suo cuore a un soffio di vita più alta.
Andrea l'ascoltava, provando per lei un sentimento dolce che somigliava alla
gratitudine. Gli pareva che ella, parlando di tali cose innanzi a lui e con
lui, gli desse una prova gentile di benevolenza e quasi gli permettesse di
avvicinarsi. Egli credeva intravedere lembi di quel mondo interiore non tanto
pel significato delle parole ch'ella diceva, quanto pe' suoni e per le modulazioni
della voce. Di nuovo, egli riconosceva gli accenti dell'altra.
Era una voce ambigua, direi quasi bisessuale, duplice, androgìnica;
di due timbri. Il timbro maschile, basso e un poco velato, s'ammorbidiva, si
chiariva, s'infemminiva talvolta con passaggi così armoniosi che l'orecchio
dell'uditore n'aveva sorpresa e diletto a un tempo e perplessità. Come
quando una musica passa dal tono minore al tono maggiore o come quando una
musica trascorrendo in dissonanze dolorose torna dopo molte battute al tono
fondamentale, così quella voce ad intervalli faceva il cangiamento.
Il timbro feminile appunto ricordava l'altra.
E il fenomeno era tanto singolare che bastava da solo ad occupare l'animo dell'uditore,
indipendentemente dal senso delle parole. Le quali quanto più da un
ritmo o da una modulazione acquistano di valor musicale, tanto più pèrdono
di valore simbolico. L'animo infatti, dopo qualche minuto d'attenzione, si
piegava al fascino misterioso; e rimaneva sospeso aspettando e desiderando
la cadenza soave, come per una melodia eseguita da uno strumento.
- Cantate? - chiese Andrea alla signora, quasi con timidezza.
- Un poco - ella rispose.
- Canta, un poco - la pregò Donna Francesca.
- Si, - consentì ella - ma appena accennando, perché proprio,
da più d'un anno, ho perduta ogni forza.
Nella stanza attigua, Don Manuel giocava col marchese d'Ateleta, senza romore,
senza motto. Nella sala la luce si diffondeva a traverso un gran paralume giapponese,
temperata e rossa. Tra le colonne del vestibolo passava l'aria marina e moveva
di tratto in tratto le alte tende di Karamanieh recando il profumo dei giardini
sottoposti. Negli intercolunnii apparivano le cime dei cipressi nere, solide,
come di ebano, sopra un cielo diafano, tutto palpitante di stelle.
Donna Maria si mise al pianoforte, dicendo:
- Già che siamo nell'antico accennerò una melodia del Paisiello
nella Nina pazza, una cosa divina.
Ella cantava, accompagnandosi. Nel fuoco del canto i due timbri della sua voce
si fondevano come due metalli preziosi componendo un sol metallo sonoro, caldo,
pieghevole, vibrante. La melodia del Paisiello, semplice, pura, spontanea,
piena di soavità accorata e di alata tristezza, su un accompagnamento
chiarissimo, sgorgando dalla bella bocca afflitta s'inalzava con tal fiamma
di passione che il convalescente, turbato fin nel profondo, sentì passarsi
per le vene le note a una a una, come se nel corpo il sangue gli si fosse arrestato
ad ascoltare. Un gelo sottile gli prendeva le radici de' capelli; ombre rapide
e spesse gli cadevano su gli occhi; l'ansia gli premeva il respiro. E l'intensità della
sensazione, ne' suoi nervi acuiti, era tanta ch'egli doveva fare uno sforzo
per contenere uno scoppio di lacrime.
- Oh, Maria mia! - esclamò Donna Francesca, baciando teneramente su
i capelli la cantatrice quando tacque.
Andrea non parlò; rimase seduto nella poltrona, con le spalle rivolte
al lume, col viso in ombra.
- Ancóra! - soggiunse Donna Francesca.
Ella cantò ancóra un'Arietta di Antonio Salieri. Poi sonò una
Toccata di Leonardo Leo, una Gavotta del Rameau e una Giga di Sebastiano Bach.
Riviveva meravigliosamente sotto le sue dita la musica del XVIII secolo, così malinconica
nelle arie di danza: che paion composte per esser danzate in un pomeriggio
languido d'una estate di San Martino, entro un parco abbandonato, tra fontane
ammutolite, tra piedestalli senza statue, sopra un tappeto di rose morte, da
coppie di amanti prossimi a non amar più.
III
- Gittatemi una treccia, ch'io salga! - gridò Andrea, ridendo, giù dal
primo ripiano della scala, a Donna Maria che stava su la loggia contigua alle
sue stanze, tra due colonne.
Era di mattina. Ella stava al sole per farsi asciugare i capelli umidi che
l'ammantavano tutta quanta, come un velluto d'un bel violetto profondo, tra
il quale appariva il pallore opaco della faccia. La tenda di tela, a metà sollevata,
d'un vivo colore arancione, le metteva in sul capo il bel fregio nero del lembo
nello stile de' fregi che girano intorno gli antichi vasi greci della Campania;
e, s'ella avesse avuto intorno le tempie corona di narcisi e da presso una
di quelle grandi lire a nove corde che portano dipinta a encausto l'effigie
d'Apollo e d'un levriere, certo sarebbe parsa un'alunna della scuola di Mitilene,
una lirista lesbiaca in atto di riposo, ma quale avrebbe potuto imaginarla
un prerafaelita.
- Voi gittatemi un madrigale - rispose ella, per gioco, ritraendosi alquanto.
- Vado a scriverlo sul marmo d'un balaustro, all'ultima terrazza, in vostro
onore. Venite a leggerlo, quando sarete pronta, poi.
Andrea seguitò a discendere lentamente le scale che conducevano all'ultima
terrazza. In quel mattino di settembre, l'anima gli si dilatava col respiro.
Il giorno aveva una specie di santità; il mare pareva risplendere di
luce propria, come se ne' fondi vivessero magiche sorgenti di raggi; tutte
le cose erano penetrate di sole.
Andrea discendeva, di tratto in tratto, soffermandosi. Il pensiero che Donna
Maria fosse rimasta su la loggia a guardarlo gli dava un turbamento indefinito,
gli metteva nel petto un palpito forte, quasi l'intimidiva, come s'ei fosse
un giovinetto in sul primo amore. Provava una beatitudine ineffabile a respirare
quella calda e limpida atmosfera ove respirava anch'ella, ove immergevasi anche
il corpo di lei. Un'onda immensa di tenerezza gli sgorgava dal cuore spargendosi
su gli alberi, su le pietre, sul mare, come su esseri amici e consapevoli.
Egli era spinto come da un bisogno di adorazione sommessa, umile, pura; come
da un bisogno di piegare i ginocchi e di congiungere le mani e di offerire
quell'affetto vago e muto ch'egli non sapeva qual fosse. Credeva sentir venire
a sè la bontà delle cose e mescersi alla sua bontà e traboccare.
- Dunque l'amo? - si chiese; e non osò di guardar dentro e di riflettere,
poiché temeva che quell'incanto delicato si dileguasse e si disperdesse
come un sogno d'un'alba.
- L'amo? Ed ella che pensa? E s'ella vien sola, le dirò io che l'amo?
- Godeva interrogar sé medesimo e non rispondere e interrompere la risposta
del cuore con una nuova domanda e prolungare quella fluttuazione tormentosa
e deliziosa a un tempo. - No, no, io non le dirò che l'amo. Ella è sopra
tutte le altre.
Si volse; e vide ancóra, in sommo, nella loggia, nel sole, la forma
di lei, indistinta. Ella, forse, l'aveva seguito con gli occhi e col pensiero
fin là giù, assiduamente. Per una curiosità infantile
egli pronunziò a voce chiara il nome, su la terrazza solitaria; lo ripeté due
o tre volte, ascoltandosi. - Maria! Maria! - Nessuna parola giammai, nessun
nome eragli parso più soave, più melodioso, più carezzevole.
E pensò che sarebbe stato felice s'ella gli avesse permesso di chiamarla
semplicemente Maria, come una sorella.
Quella creatura così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di
devozione e di sommessione, altissimo. Se gli avessero chiesto quale cosa sarebbegli
stata più dolce, avrebbe risposto con sincerità: - Obedirla.
- Nessuna cosa gli avrebbe fatto dolore quanto l'esser da lei creduto un uomo
comune. Da nessuna altra donna, quanto da lei, avrebbe voluto essere ammirato,
lodato, compreso nelle opere dell'intelligenza, nel gusto, nelle ricerche,
nelle aspirazioni d'arte, negli ideali, nei sogni, nella parte più nobile
del suo spirito e della sua vita. E l'ambizione sua più ardente era
di riempirle il cuore.
Già da dieci giorni ella viveva a Schifanoja; e in quei dieci giorni
come interamente l'aveva ella conquistato! Le loro conversazioni, su le terrazze
o su i sedili sparsi all'ombra o lungo i viali fiancheggiati di rosai, duravano
talvolta ore ed ore, mentre Delfina correva come una gazelletta tra gli avvolgimenti
dell'agrumeto. Ella aveva nel conversare una fluidità mirabile; profondeva
un tesoro d'osservazioni delicate e penetranti; rivelavasi talvolta con un
candore pieno di grazia; in proposito de' suoi viaggi, talvolta con una sola
frase pittoresca suscitava in Andrea larghe visioni di paesi e di mari lontani.
Ed egli poneva un'assidua cura nel mostrare a lei il suo valore, la larghezza
della sua cultura, la raffinatezza della sua educazione, la squisitezza della
sua sensibilità; e un orgoglio enorme gli sollevò tutto l'essere
quando ella gli disse con accento di verità, dopo la lettura della Favola
d'Ermafrodito:
- Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data
della bellezza un'impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano
senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono
intensi.
Egli ora, seduto su i balaustri, ripensava quelle parole. Donna Maria non era
più nella loggia; anzi la tenda copriva tutto l'intercolunnio. Sarebbe
forse discesa tra poco. Doveva egli scriverle il madrigale, secondo la promessa?
Il piccolo supplizio del versificare a furia gli parve insoffribile, in quel
grandioso e gaudioso giardino ove il sole di settembre faceva dischiudere una
specie di primavera soprannaturale. Perché disperdere quella rara commozione
in un giuoco affrettato di rime? Perché rimpicciolire quel vasto sentimento
in un breve sospiro metrico? Risolse di mancare alla promessa; e restò seduto
a guardare le vele sul limite estremo dell'acqua, che brillavano a simiglianza
di fuochi soverchianti il sole.
Ma un'ansietà lo stringeva come più i minuti fuggivano; ed egli
volgevasi tutti i minuti a vedere se in sommo della scala, tra le colonne del
vestibolo, apparisse una forma feminile. - Era forse quello un ritrovo d'amore?
Veniva forse quella donna in quel luogo a un colloquio segreto? Imaginava ella
di lui quell'ansietà?
- Eccola! - il cuore gli disse. Ed era.
Era sola. Scendeva pianamente. Su la prima terrazza, presso una delle fontane,
si soffermò. Andrea la seguiva con gli occhi, sospeso, provando ad ogni
moto, ad ogni passo, ad ogni attitudine di lei una trepidazione come se il
moto, il passo, l'attitudine avessero un significato, fossero un linguaggio.
Ella si mise per quella successione di scale e di terrazze intramezzate d'alberi
e di cespugli. La sua persona appariva e scompariva, ora tutta intera, ora
dalla cintola in su, ora emergente con la testa fuor d'un rosaio. A volte l'intrico
dei rami la celava per un buon tratto: si vedeva soltanto negli spazii più radi
passare la sua veste oscura o brillare la paglia chiara del suo cappello. Come
più si avvicinava, più ella facevasi lenta, indugiando per le
siepi, arrestandosi a guardare i cipressi, inchinandosi a raccogliere un pugno
di foglie cadute. Dalla penultima terrazza salutò con la mano Andrea
che aspettava ritto su l'ultimo gradino; e gli gettò le foglie raccolte,
che si sparpagliarono come uno sciame di farfalle, tremolando, rimanendo qual
più qual meno nell'aria, posandosi su la pietra con una mollezza di
neve.
- Ebbene? - chiese ella, a mezzo della branca.
Andrea piegò le ginocchia sul gradino, levando le palme.
- Nulla! - egli confessò. - Chiedo perdono; ma voi e il sole stamani
empite i cieli di troppa dolcezza. Adoremus.
La confessione era sincera e anche l'adorazione, sebbene fatte ambedue con
un'apparenza di gioco; e certo Donna Maria comprese quella sincerità,
poiché arrossì un poco, dicendo con una singolare premura:
- Alzatevi, alzatevi.
Egli s'alzò. Ella gli tese la mano, soggiungendo:
- Vi perdono, perché siete in convalescenza.
Portava un abito d'uno strano color di ruggine, d'un color di croco, disfatto,
indefinibile; d'uno di que' colori cosiddetti estetici che si trovano ne' quadri
del divino Autunno, in quelli dei Primitivi, e in quelli di Dante Gabriele
Rossetti.
La gonna componevasi di molte pieghe, diritte e regolari, che si partivano
di sotto al braccio. Un largo nastro verdemare, del pallore d'una turchese
malata, formava la cintura e cadeva con un solo grande cappio giù pel
fianco. Le maniche ampie, molli, in fittissime pieghe all'appiccatura, si restringevano
intorno i polsi. Un altro nastro verdemare, ma sottile, cingeva il collo, annodato
a sinistra con un piccolo cappio. Un nastro anche eguale legava l'estremità della
prodigiosa treccia cadente di sotto a un cappello di paglia coronato d'una
corona di giacinti simile a quella della Pandora d'Alma Tadema. Una grossa
turchese della Persia, unico gioiello, in forma d'uno scarabeo, incisa di caratteri
come un talismano, fermava il collare sotto il mento.
- Aspettiamo Delfina - ella disse. - Poi andremo fino al cancello della Cibele.
Volete?
Ella aveva pel convalescente riguardi assai gentili. Andrea era ancóra
molto pallido e molto scarno, e gli occhi gli si erano straordinariamente ingranditi
in quella magrezza; e l'espression sensuale della bocca un po' tumida faceva
uno strano e attirante contrasto con la parte superiore del viso.
- Si - rispose. - Anzi vi son grato.
Poi, dopo un poco di esitazione:
- Mi permettete qualche silenzio, stamani?
- Perché mi chiedete questo?
- Mi pare di non aver la voce e di non saper dire nulla. Ma i silenzii, certe
volte, possono essere gravi e infastidire e anche turbare se si prolungano.
Perciò vi chiedo se mi permettete di tacere durante il cammino, e d'ascoltarvi.
- Allora, taceremo insieme - disse ella, con un sorriso tenue.
E guardò in alto, verso la villa, con una impazienza visibile
- Quanto tarda Delfina!
- Francesca s'era già levata, quando siete discesa? - domandò Andrea.
- Oh, no! E' d'una pigrizia incredibile... Ecco Delfina. La vedete?
La bimba discendeva rapidamente, seguita dalla sua governante. Invisibile giù per
le scale, riappariva su i terrazzi ch'ella attraversava correndo. I capelli
disciolti le ondeggiavano per le spalle, nel vento della corsa, sotto una larga
paglia coronata di papaveri. Quando fu all'ultimo gradino, aperse le braccia
verso la madre e la baciò tante volte su le guance. Poi disse:
- Buon giorno, Andrea.
E gli porse la fronte, con un atto infantile d'adorabile grazia.
Era una creatura fragile e vibrante come uno strumento formato di materie sensibili.
Le sue membra eran così delicate che parevan quasi non poter nascondere
e neppur velare lo splendor dello spirito entro vivente, come una fiamma in
una lampada preziosa, d'una vita intensa e dolce.
- Amore! - sussurrò la madre, guardandola con uno sguardo indescrivibile,
nel quale esalavasi tutta la tenerezza dell'anima occupata da quell'unico affetto.
E Andrea ebbe dalla parola, dallo sguardo, dall'espressione, dalla carezza
una specie di gelosia, una specie di scoramento, come s'egli sentisse l'anima
di lei allontanarsi, sfuggirgli per sempre, divenire inaccessibile.
La governante chiese licenza di risalire; ed essi presero il viale degli aranci.
Delfina correva innanzi, spingendo un suo cerchio; e le sue gambe diritte,
strette nella calza nera, un po' lunghe dell'affilata lunghezza d'un disegno
efebico, si movevano con ritmica agilità.
- Mi sembrate un po' triste ora, - disse la senese al giovine - mentre dianzi,
nello scendere, eravate lieto. Vi tormenta qualche pensiero? O non vi sentite
bene?
Ella chiedeva queste cose con una maniera quasi fraterna, grave e soave, persuadente
alla confidenza. Una voglia timida, quasi una vaga tentazione, prese il convalescente,
di mettere il suo braccio sotto il braccio della donna e di lasciarsi condurre
da lei in silenzio, per quell'ombra, per quel profumo, su quel suolo consparso
di zàgare, in quel sentiere che misuravano i vecchi Termini vestiti
di musco. Gli pareva quasi d'esser tornato ai primi giorni dopo la malattia,
a quei giorni indimenticabili di languore, di felicità, d'inconscienza;
e d'aver bisogno d'un appoggio amico, d'una guida affettuosa, d'un braccio
familiare. Quel desiderio gli crebbe così che le parole gli salivano
alle labbra spontaneamente per esprimerlo. Ma invece rispose:
- No, Donna Maria; mi sento bene. Grazie. E' il settembre che mi stordisce
un poco...
Ella lo guardò come se dubitasse della verità di quella risposta.
Quindi, per evitare il silenzio dopo la frase evasiva, domandò:
- Preferite, fra i mesi neutri, l'aprile o il settembre?
- Il settembre. E' più feminino, più discreto, più misterioso.
Pare una primavera veduta in un sogno. Tutte le piante, perdendo lentamente
la forza, perdono anche qualche parte della loro realtà. Guardate il
mare, la giù. Non dà imagine d'un'atmosfera piuttosto che d'una
massa d'acqua? Mai, come nel settembre, le alleanze del cielo e del mare sono
mistiche e profonde. E la terra? Non so perché, guardando un paese,
di questo tempo, penso sempre a una bella donna che abbia partorito e che si
riposi in un letto bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, pallido, inestinguibile.
E' un'impressione giusta? C'è qualche cosa dello stupore e della beatitudine
puerperale in una campagna di settembre.
Erano quasi alla fine del sentiere. Certe erme aderivano a certi fusti così da
formar con essi quasi un sol tronco, arboreo e lapideo; e i frutti numerosi,
taluni già tutti d'oro, altri maculati d'oro e di verde, altri tutti
verdi, pendevano in su le teste de' Termini che parean custodire alberi intatti
e intangibili, esserne i genii tutelari. - Perché Andrea fu assalito
da una inquietudine e da un'ansietà improvvise avvicinandosi al luogo
dove, due settimane innanzi, aveva scritto i sonetti di liberazione? Perché lottò fra
il timore e la speranza ch'ella li scoprisse e li leggesse? Perché alcuni
di quei versi gli tornarono alla memoria distaccati dagli altri, come rappresentando
il suo sentimento presente, la sua aspirazione presente, il nuovo sogno ch'egli
chiudeva nel cuore?
« O voi che fate tutti i venti aulire,
che avete in signoria tutte le porte,
io metto a' vostri piedi la mia sorte:
Madonna, me 'l vogliate consentire! »
Era vero! Era vero! Egli l'amava; egli le metteva a' piedi tutta l'anima
sua; egli aveva un solo desiderio, umile e immenso: - esser terra sotto le
vestigia di lei.
- Com'è bello, qui! - esclamò Donna Maria, entrando nel dominio
dell'Erma quadrifronte, nel paradiso degli acanti; - Che odore strano!
Si spandeva all'aria infatti un odore di muschio, come per la presenza invisibile
d'un insetto d'un rettile muschiato. L'ombra era misteriosa, e le linee di
luce traversanti il fogliame già tocco dal mal d'autunno erano come
raggi lunari traversanti i vetri istoriati d'una cattedrale. Un sentimento
misto, pagano e cristiano, emanava dal luogo, come da una pittura mitologica
d'un quattrocentista pio.
- Guardate, guardate Delfina! - ella soggiunse, con nella voce la commozione
di chi vede una cosa di bellezza.
Delfina aveva intrecciata ingegnosamente con ramoscelli d'arancio fioriti una
ghirlanda; e, per una improvvisa fantasia infantile, ora voleva inghirlandarne
la divinità di pietra. Ma, poiché non giungeva al sommo, si sforzava
di riuscir nell'impresa alzandosi su le punte de' piedi, sollevando il braccio,
allungandosi come più poteva; e la sua forma gracile, elegante e viva
faceva contrasto con la forma rigida, quadrata e solenne del simulacro, come
uno stelo di giglio a piè d'una quercia. Ogni sforzo era vano.
Allora, sorridendo, le venne in soccorso la madre. Le prese dalle mani la ghirlanda
e la posò su le quattro fronti pensose. Involontariamente, il suo sguardo
cadde su le inscrizioni.
- Chi ha scritto qui? Voi? - domandò ad Andrea, sorpresa e lieta. -
Sì; è la vostra scrittura.
E, sùbito, si mise in ginocchio su l'erba a leggere; curiosa, quasi
avida. Per imitazione, Delfina si chinò dietro la madre, cingendole
il collo con le braccia e avanzando il viso contro una guancia di lei e così quasi
coprendola. La madre mormorava le rime. E quelle due figure muliebri, chine
a piè dell'alta pietra ghirlandata, nella dubbia luce, tra gli acanti
simbolici, facevano un componimento di linee e di colori tanto armonioso che
il poeta per qualche istante restò sotto il dominio unico del godimento
estetico e della pura ammirazione.
Ma ancóra l'oscura gelosia lo punse. Quella creatura sottile, così avviticchiata
alla madre, così intimamente confusa con l'anima di lei, gli parve una
nemica; gli parve un insormontabile ostacolo che s'inalzasse contro il suo
amore, contro il suo desiderio, contro la sua speranza. Egli non era geloso
del marito ed era geloso della figlia. Egli voleva possedere non il corpo ma
l'anima, di quella donna; e possedere l'anima intera, con tutte le tenerezze,
con tutte le gioie, con tutti i timori, con tutte le angosce, con tutti i sogni,
con tutta quanta insomma la vita dell'anima; e poter dire: - Io sono la vita
della sua vita.
La figlia, invece, aveva quel possesso, incontrastato, assoluto, continuo.
Pareva che mancasse alla madre un elemento essenziale della sua esistenza,
quando per poco l'adorata era lontana. Una transfigurazione subitanea avveniva
nella sua faccia, visibilissima, quando dopo un'assenza breve ella riudiva
la voce infantile. Talvolta, involontariamente, per una segreta rispondenza,
quasi direi per legge d'un comun ritmo vitale, ella ripeteva il gesto della
figlia, un sorriso, un'attitudine, un'aria del capo. Ella aveva talvolta, su
la quiete o sul sonno filiale, momenti di contemplazione così intensa
che pareva aver perduta la conscienza d'ogni altra cosa per divenir simile
all'essere ch'ella contemplava. Quando ella rivolgeva la parola all'adorata,
la parola era una carezza e la bocca perdeva ogni traccia di dolore. Quando
ella riceveva i baci, un tremito le agitava le labbra e gli occhi le si empivano
d'un gaudio indescrivibile tra i cigli palpitanti, come gli occhi d'una beata
in assunzione. Quando ella conversava con altri o ascoltava, pareva di tratto
in tratto aver come una sospension del pensiero improvvisa, come una momentanea
assenza dello spirito; ed era per la figlia, per lei, sempre per lei.
« Chi mai poteva rompere quella catena ? Chi poteva conquistare una parte
di quel cuore, anche minima? » Andrea soffriva come d'una perdita irrimediabile,
come d'una rinunzia necessaria, come d'una speranza estinta. « Anche ora,
anche ora, la figlia non toglieva a lui qualche cosa? »
Ella infatti, per gioco, voleva costringer la madre a restare in ginocchio.
Le si abbandonava sopra e la premeva con le braccia intorno al collo, gridando
fra le risa:
- No, no, no; tu non ti alzerai.
E, come la madre apriva la bocca per parlare, ella le metteva su la bocca le
sue piccole mani per impedir che parlasse; e la faceva ridere; e poi la bendava
con la treccia; e non voleva finire, accesa e inebriata dal gioco.
Guardandola, Andrea aveva l'impressione come s'ella con quegli atti scuotesse
dalla madre e devastasse e disperdesse tutto ciò che nello spirito di
lei la lettura de' versi aveva forse fatto fiorire.
Quando finalmente Donna Maria riuscì a liberarsi dalla dolce tirannella,
gli disse, leggendogli sul volto la contrarietà:
- Perdonatemi, Andrea. Delfina certe volte ha di queste follie.
Quindi, con una mano leggera, ricompose le pieghe della gonna. Era soffusa
d'una tenue fiamma sotto gli occhi, e anche aveva il respiro un poco alenante.
Soggiunse, sorridente d'un sorriso che in quella insolita animazione del sangue
fu d'una luminosità singolare:
- E perdonatela, in compenso del suo augurio inconsapevole; perché ella
dianzi ha avuta l'inspirazione di mettere una corona nuziale su la vostra poesia
che canta una comunione nuziale. Il simbolo è un suggello dell'alleanza.
- A Delfina e a voi, grazie - rispose Andrea che si sentiva chiamar da lei
per la prima volta non col titolo gentilizio ma col semplice nome.
Quella familiarità inaspettata e le parole buone gli rimisero nell'animo
la confidenza. Delfina s'era allontanata per uno de' viali, correndo.
- Questi versi dunque sono un documento spirituale - seguitò Donna Maria.
- Me li darete. perché io li conservi.
Egli voleva dirle: - Vengono a voi, oggi, naturalmente. Sono vostri, parlano
di voi, pregano voi. - Ma disse, invece, semplicemente:
- Ve li darò
Ripresero il cammino, verso la Cibele. Prima d'uscire dal dominio, Donna Maria
si rivolse all'Erma, come se avesse udito un richiamo; e la sua fronte pareva
piena di pensiero. Andrea le chiese, con umiltà:
- Che pensate?
Ella rispose:
- Penso a voi.
- Che pensate di me?
- Penso alla vostra vita d'un tempo, ch'io non conosco. Avete molto sofferto?
- Ho molto peccato.
- E amato anche, molto?
- Non so. Forse l'amore non è quale io l'ho provato. Forse io debbo
ancóra amare. Non so, veramente.
Ella tacque. Camminarono, l'uno accanto all'altra, per un tratto. A destra
del sentiere si leavano alti lauri, interrotti da un cipresso a intervalli
eguali; e il mare or sì or no rideva in fondo, tra i fogliami leggerissimi,
azzurro come il fiore del lino. A sinistra, contro il rialto era una specie
di parete, simile alla spalliera d'un lunghissimo sedile di pietra, portante
in cima ripetuto per tutta la lunghezza lo scudo degli Ateleta e un alerione,
alterni. A ciascuno scudo e a ciascuno alerione corrispondeva, più sotto,
una maschera scolpita dalla cui bocca usciva una cannella d'acqua versandosi
nelle vasche sottostanti che avean forma di sarcofaghi posti l'uno accanto
all'altro, ornate di storie mitologiche in basso rilievo. Le bocche dovevan
esser cento, perché il viale si chiamava delle Cento Fontane; ma alcune
non versavano più, chiuse dal tempo, altre versavano appena. Molti scudi
erano infranti e il musco aveva coperta l'impresa; molti alerioni eran decapitati;
le figure dei bassi rilievi apparivano tra il musco come pezzi d'argenteria
mal nascosti sotto un vecchio velluto lacerato. Nelle vasche, su l'acqua più limpida
e più verde d'uno smeraldo, tremolava il capelvenere o galleggiava qualche
foglia di rosa caduta dai cespugli di sopra; e le cannelle superstiti facevano
un canto roco e soave che correva sul romore del mare, come una melodia su
l'accompagnamento.
- Udite? - chiese Donna Maria, soffermandosi, tendendo l'orecchio, presa all'incanto
di quei suoni. - La musica dell'acqua amara e dell'acqua dolce!
Ella stava in mezzo del sentiere, un po' china verso le fontane, attratta più dalla
melodia, con l'indice sollevato verso la bocca nell'atto involontario di chi
teme sia turbata la sua ascoltazione. Andrea, ch'era più presso alle
vasche, la vedeva sorgere sopra un fondo di verdura gracile e gentile quale
un pittore umbro avrebbe potuto metter dietro un'Annunciazione o una Natività.
- Maria - mormorò il convalescente, che aveva il cuore gonfio di tenerezza.
- Maria, Maria...
Egli provava un'indicibile voluttà a mescere il nome di lei in quella
musica delle acque. Ella premé l'indice su la bocca, per indicargli
di tacere; senza guardarlo.
- Perdonatemi, - egli disse, sopraffatto dalla commozione - ma io non reggo
più. E' l'anima mia che vi chiama!
Una strana eccitazion sentimentale l'avea vinto; tutte le sommità liriche
del suo spirito s'erano accese e fiammeggiavano; l'ora, la luce, il luogo,
tutte le cose intorno gli suggerivano l'amore; dagli estremi limiti del mare
insino all'umile capelvenere delle fonti, per lui si disegnava un sol circolo
magico; ed egli sentiva che il centro era quella donna.
- Voi non saprete mai - soggiunse, con la voce sommessa, quasi temendo di offenderla
- non saprete mai fino a qual punto la mia anima è vostra.
- Ella divenne anche più pallida, come se tutto tutto il sangue delle
vene le si fosse raccolto sul cuore. Non disse nulla; evitò di guardarlo.
Chiamò, con la voce un poco alterata:
- Delfina!
La figlia non rispose, perché s'era forse internata fra gli alberi all'estremità del
sentiere.
- Delfina! - ripeté, più forte, con una specie di sbigottimento.
Nell'aspettazione, dopo il grido, si udivano le due acque cantare in un silenzio
che pareva ingrandirsi.
- Delfina!
Un fruscìo venne di tra i fogliami come pel passaggio d'un capriuolo;
e la bimba sbucò dal folto dei lauri agilmente, portando tra le mani
la paglia colma di piccoli frutti rossi che aveva colti da un àlbatro.
La fatica e la corsa l'invermigliavano; molti pruni le restavano tra la lana
della tunica; e qualche foglia le s'impigliava nella ribellion de' capelli.
- Oh mamma, vieni, vieni meco!
Ella voleva trascinare la madre a cogliere gli altri frutti.
- Là giù, ce n'è un bosco; tanti tanti tanti. Vieni meco,
mamma; vieni!
- No, amore; ti prego. E' tardi.
- Vieni!
- Ma è tardi.
- Vieni! Vieni!
Donna Maria dall'insistenza fu costretta a cedere e a farsi condurre per mano.
- C'è una via per andare al bosco degli àlbatri, senza passare
nel folto - disse Andrea.
- Hai inteso, Delfina? C'è una via migliore.
- No, mamma. Vieni meco!
Delfina la trasse tra gli allòri selvatici, dalla parte del mare. Andrea
seguiva; ed era felice di poter guardare liberamente d'innanzi a sé la
figura dell'amata, di poterla bevere con gli occhi, di poterne cogliere tutti
i moti diversi e i ritmi sempre interrotti del passo sul pendio ineguale, tra
gli ostacoli dei tronchi, tra gli intralci dei virgulti, tra le resistenze
dei rami. Ma mentre i suoi occhi si pascevano di quelle cose, l'anima riteneva
sopra tutte le altre un'attitudine, un'espressione. - Oh il pallore, il pallore
di dianzi quando egli aveva profferite le parole sommesse! E il suono indefinibile
di quella voce che chiamava Delfina!
- E' ancóra lontano? - chiese Donna Maria.
- No, no, mamma. Ecco, già ci siamo.
Una specie di timidezza invase il giovine, al termine del camminio. Non anche,
dopo le parole, i suoi occhi s'erano incontrati con gli occhi di lei. Che pensava
ella? Che sentiva? Con quale sguardo l'avrebbe ella guardato?
- Eccoci! - gridò la bimba.
Il laureto infatti andavasi diradando, il mare appariva più libero;
d'un tratto il bosco dei corbezzoli andracni rosseggiò come un bosco
di coralli terrestri portanti alla sommità de' rami ampie ciocche di
fiori.
- Che meraviglia! - mormorò Donna Maria.
Il bel bosco fioriva e fruttificava entro una insenatura ricurva come un ippodromo,
profonda e solatìa, dove tutta la mitezza di quel lido raccoglievasi
in delizia. I tronchi degli arbusti, vermigli i più, taluni gialli,
sorgevano svelti portando grandi foglie lucide, verdi di sopra e glauche di
sotto, immobili nell'aria quieta. I grappoli floridi, simili a mazzi di mughetti,
bianchi e rosei ed innumerevoli, pendevano dalle cime dei rami giovini; le
bacche rosse e aranciate pendevano dalle cime de' rami vecchi. Ogni pianta
n'era carica; e la magnifica pompa dei fiori, dei frutti, delle foglie e degli
steli dispiegavasi, contro il vivo azzurro marino, con la intensità e
la incredibilità d'un sonno, come l'avanzo d'un orto favoloso.
- Che meraviglia!
Donna Maria entrava lentamente, non più tenuta per mano da Delfina;
che correva folle di gioia, avendo un solo desiderio: quel di spogliare tutto
il bosco.
- Mi perdonate? - osò dire Andrea. - Io non voleva offendervi. Anzi,
vedendovi così in alto, così lontana da me, così pura,
io pensava che non vi avrei mai mai parlato del mio segreto, che non vi avrei
mai chiesto un consenso né mai vi avrei attraversato il cammino. Da
che vi ho conosciuta, ho molto sognato per voi, di giorno e di notte, ma senza
una speranza e senza un fine. Io so che voi non mi amate e che non potete amarmi.
Eppure, credetemi, io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere
in una piccola parte del vostro cuore...
Ella seguitava a camminare, lentamente, sotto i brillanti alberi che le stendevano
in sul capo le ciocche pendule, i bianchi e rosei grappoli delicati.
- Credetemi, Maria, credetemi. Se ora mi dicessero di abbandonare ogni vanità ed
ogni orgoglio, ogni desiderio ed ogni ambizione, qualunque più caro
ricordo del passato, qualunque più dolce lusinga del futuro, e di vivere
unicamente in voi e per voi, senza domani, senza ieri, senza alcun altro legame,
senza alcuna altra preferenza, fuor del mondo, interamente perduto nel vostro
essere, per sempre, fino alla morte, io non esiterei, io non esiterei. Credetemi.
Voi mi avete guardato, parlato, e sorriso e risposto; voi vi siete seduta accanto
a me, e avete taciuto e pensato; e avete vissuto, accanto a me, della vostra
esistenza interiore, di quella invisibile e inaccessibile esistenza ch'io non
conosco, ch'io non conoscerò mai; e la vostra anima ha posseduta la
mia fin nel profondo, senza mutarsi, senza pur saperlo, come il mare beve un
fiume... Che vi fa il mio amore? Che vi fa l'amore? E' una parola troppe volte
profanata, un sentimento falsato troppe volte. Io non vi offro l'amore. Ma
non accetterete voi l'umile tributo, di religione, che lo spirito volge a un
essere più nobile e più alto?
- Ella seguitava a camminare, lentamente, col capo chino, pallidissima, esangue,
verso un sedile che stava sul limite del bosco riguardante la sponda. Come
vi giunse, vi si piegò a sedere, con una specie di abbandono, in silenzio;
e Andrea le si mise da presso ancóra parlandole.
Il sedile era un gran semicerchio di marmo bianco, limitato per tutta la lunghezza
da una spalliera, liscio, lucido, senz'altri ornamenti che una zampa di leone
scolpita a ciascuna estremità in guisa di sostegno; e ricordava quelli
antichi, su' quali nelle isole dell'Arcipelago e nella Magna Grecia e in Pompei
le donne oziavano e ascoltavano lèggere i poeti, all'ombra degli oleandri,
in conspetto del mare. Qui gli àlbatri facevano ombra di fiori e di
frutti, più che di foglie; e gli steli di corallo pel contrasto del
marmo parean più vivi.
- Io amo tutte quelle cose che voi amate; voi possedete tutte quelle cose che
io cerco. La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara
della passione di qualunque altra. La vostra mano sul mio cuore farebbe, sento,
germinare una seconda giovinezza, assai più pura della prima, assai
più forte. Quell'eterno ondeggiamento, ch'è la mia vita interiore,
si riposerebbe in voi; troverebbe in voi la calma e la sicurtà. Il mio
spirito irrequieto e scontento, travagliato da attrazioni e da repulsioni e
da gusti e da disgusti in continua guerra, eternamente, irrimediabilmente solo,
troverebbe nel vostro un rifugio contro il dubbio che contamina ogni idealità e
abbatte ogni volere e scema ogni forza. Altri sono più infelici; ma
io non so se ci sia stato al mondo uomo men felice di me.
Egli faceva sue le parole d'Obermann. In quella specie d'ebrezza sentimentale,
tutte le malinconie gli risalivano alle labbra; e il suono stesso della sua
voce, umile e un po' tremante, gli aumentava la commozione.
- Io non oso dire i miei pensieri. Stando vicino a voi, in questi pochi giorni,
da che vi conosco, ho avuto momenti d'oblio così pieno che quasi m'è parso
di tornare ai primissimi tempi della convalescenza, quando viveva in me il
sentimento profondo d'un'altra vita. Il passato, il futuro non erano più;
anzi era come se l'uno non fosse mai stato e l'altro non dovesse mai essere.
Il mondo era come un'illusione informe e oscura. Qualche cosa come un sogno
vago ma grande mi si levava su l'anima: un velo ondeggiante, ora denso ora
diafano, a traverso il quale or sì or no splendeva il tesoro intangibile
della felicità. Che sapevate voi di me, in quei momenti? Forse, eravate
lontana, con l'anima; assai assai lontana! Ma pure, la sola presenza vostra
visibile bastava a darmi l'ebrezza; io la sentiva fluire nelle mie vene, come
un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano.
Ella taceva, col capo eretto, immobile, con il busto sollevato, con le mani
posate su le ginocchia, nell'attitudine di chi sia tenuto desto da un fiero
sforzo di coraggio contro un languor che l'invada. Ma la sua bocca, l'espression
della sua bocca, invano serrata con violenza, tradiva una sorta di dolorosa
voluttà.
- Io non oso dire i miei pensieri. Maria, Maria, mi perdonate voi? Mi perdonate?
Due piccole mani, di dietro al sedile, si stesero a bendarla e una voce palpitante
di gioia gridò:
- Indovina! Indovina!
Ella sorrise, abbandonata alla spalliera perché Delfina l'attirava tenendole
le sue dita su le palpebre, e Andrea vide, lucidamente, con una strana chiarezza,
quel sorriso lieve disperdere su quella bocca tutto l'oscuro contrasto dell'espression
primitiva, cancellar qualunque traccia che a lui potesse parere l'indizio d'un
consentimento o d'una confessione, fugar qualunque ombra dubbia che potesse
nell'anima di lui convertirsi in barlume di speranza. E restò come un
uomo che sia ingannato da una coppa creduta quasi colma, la quale non offra
che aria alla sua sete.
- Indovina!
La figlia copriva di baci forti e rapidi il capo della madre, con una specie
di frenesia, forse un poco facendole male.
- So chi sei, so chi sei - diceva la bendata. - Lasciami!
- Che mi dài, se ti lascio?
- Quello che vuoi.
- Voglio un giumento, per portarmi le albatrelle a casa. Vieni a vedere quante!
Girò il sedile e prese per mano la madre. Ella si levò con qualche
fatica; e, poi che fu in piedi, batté più volte le palpebre come
per togliersi dalla vista un barbaglio. Anche Andrea si levò. Seguirono
ambedue Delfina.
La terribile creatura aveva spogliato di frutti quasi la metà del bosco.
Le piante basse non mostravano più su i rami una bacca. Ella s'era aiutata
con una canna trovata chi sa dove e aveva fatta una raccolta prodigiosa, riunendo
infine tutte le albatrelle ad un sol mucchio che pareva un mucchio di carboni
ardenti, per la intensità della tinta, sul suolo bruno. Ma le ciocche
de' fiori non l'avevano attratta: pendevano, bianche, rosee, giallette, quasi
diafane, più delicate de' grappoli d'un'acacia, più gentili de'
mughetti, immerse nella vaga luce come nella trasparenza d'un latte ambrato.
- Oh, Delfina, Delfina! - esclamò Donna Maria, guardando quella devastazione.
- Che hai fatto?
La bimba rideva, felice, d'innanzi alla piramide vermiglia.
- Bisognerà bene che tu lasci qui ogni cosa.
- No, no...
Ella non voleva, da prima. Poi ripensò; e disse quasi fra sè,
con gli occhi luccicanti:
- Verrà la cerva a mangiare.
Aveva, forse, veduto apparire la bella bestia, libera pel parco, in quelle
vicinanze; e il pensiero di aver radunato per lei il cibo l'appagò e
le accese l'imaginazione già nudrita delle favole ove le cerve sono
fate benigne e possenti che giacciono su cuscini di raso e bevono in coppe
di zaffiro. Ella tacque, assorta, vedendo già forse la bella bestia
bionda satollarsi d'albatrelle, sotto le piante fiorite.
- Andiamo - disse Donna Maria - ch'è tardi.
Teneva Delfina per la mano, e camminava sotto le piante fiorite. Sul limite
del bosco si soffermò, a guardare il mare.
Le acque, accogliendo i riflessi delle nuvole, davano apparenza d'una immensa
stoffa di seta, morbida, fluida, cangiante, mossa in larghe pieghe; e le nuvole,
bianche e d'oro, l'una divisa dall'altra ma emergenti da una comune zona, somigliavano
statue criselefantine avvolte in veli tenui, alzate sopra un ponte senz'archi.
In silenzio, Andrea spiccò da un àlbatro una ciocca che piegava
il ramo col suo peso, tanto era folta; e la offerse a Donna Maria. Ella, nel
prenderla, lo guardò; ma non aprì bocca.
Si rimisero pe' sentieri. Delfina ora parlava, parlava abondantemente, ripetendo
senza fine le stesse cose, infatuata della cerva, mescolando le più strane
fantasie, inventando lunghe storie monotone, confondendo una favola con l'altra,
componendo intrichi ne' quali si smarriva ella stessa. Parlava, parlava, con
una specie d'inconscienza, quasi che l'aria del mattino l'avesse inebriata;
e intorno a quella sua cerva chiamava figli e figlie di re, cenerentole, reginelle,
maghi, mostri, tutti i personaggi de' regni imaginarii, in folla, in tumulto,
come nella metamorfosi continua d'un sogno. Parlava allo stesso modo che un
uccello gorgheggia, con modulazioni canore, talvolta con successioni di suoni
che non eran parole, ne' quali esalavasi l'onda musicale già iniziata,
come il fremito d'una corda nella pausa, quando in quello spirito infantile
il legame tra il segno verbale e l'idea rimaneva interrotto.
Gli altri due non parlavano, ne ascoltavano. Ma pareva loro che quella cantilena
coprisse i lor pensieri, il murmure de' lor pensieri, poiché pensando
essi avevan l'impressione come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo
del lor cervello, qualche cosa che nel silenzio sarebbesi potuto fisicamente
percepire; e, se Delfina per poco taceva, provavano uno strano senso d'inquietudine
e di sospensione, come se il silenzio dovesse rivelare e quasi direi denudare
l'anima loro.
Il viale delle Cento Fontane apparve in una prospettiva fuggente, ove gli spilli
e gli specchi dell'acqua mettevano un fino luccichio vitreo, una mobile transparenza
ialina. Un pavone, che stava posato su uno degli scudi, s'involò facendo
cadere nella vasca sottostante qualche rosa sfogliata. Andrea riconobbe, alcuni
passi più in là, la vasca innanzi a cui Donna Maria gli aveva
detto: - Udite?
Nel dominio dell'Erma l'odor del muschio non si sentiva più. L'Erma,
cogitabonda sotto la ghirlanda, era tutta constellata dai raggi che penetravano
tra gli intervalli de' fogliami. I merli cantavano, rispondendosi.
Delfina, presa da un nuovo capriccio, disse:
- Mamma, rendimi la ghirlanda.
- No, lasciamola li. Perché la rivuoi?
- Rendimela, ché la porto a Muriella.
- Muriella la guasterà.
- Rendimela; ti prego!
La madre guardò Andrea. Egli si avvicinò alla pietra, le tolse
la ghirlanda e rese questa a Delfina. Ne' loro spiriti esaltati la superstizione,
ch'è un degli oscuri turbamenti portati dall'amore anche nelle creature
intellettuali, diede all'insignificante episodio la misteriosità di
una allegoria. Parve loro che in quel semplice fatto si occultasse un simbolo.
Non sapevan bene quale; ma ci pensavano. Un verso tormentava Andrea.
« Non vedrò dunque il gesto che consente? »
Un'ansia enorme gli premeva il cuore, come più s'avvicinava il termine
del sentiere; ed egli avrebbe dato metà del suo sangue per una parola
della donna. Ma fu ella cento volte sul punto di parlare, e non parlò.
- Guarda, mamma, là giù, Ferdinando, Muriella, Riccardo... -
disse Delfina, scorgendo in fondo al sentiere i figli di Donna Francesca; e
si spiccò a corsa, agitando la corona. - Muriella! Muriella! Muriella!
IV
Maria Ferres era sempre rimasta fedele all'abitudine giovenile di notar cotidianamente
in un suo Giornale intimo i pensieri, le gioie, le tristezze, i sogni, le agitazioni,
le aspirazioni, i rimpianti, le speranze, tutte le vicende della sua vita interiore,
tutti gli episodii della sua vita esterna, componendo quasi un Itinerario dell'Anima,
ch'ella di tratto in tratto amava rileggere per averne una regola nel viaggio
futuro e per ritrovar la traccia delle cose da gran tempo morte.
Constretta dalle circostanze a ripiegarsi di continuo su sé medesima,
sempre chiusa nella sua purità come in una torre d'avorio incorruttibile
e inaccessibile, ella provava un sollievo e un conforto in quella specie di
confessione cotidiana affidata alla pagina bianca d'un libro segretissimo.
Si lamentava de' suoi travagli, s'abbandonava alle lacrime, cercava di penetrare
gli enigmi del suo cuore, interrogava la sua conscienza, riprendeva coraggio
dalla preghiera, si ritemprava nella meditazione, allontanava da se ogni debolezza
ed ogni vana imagine, metteva il suo spirito nelle mani del Signore. E tutte
le pagine splendevano d'una comune luce, ossia di Verità.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"15 settembre 1886 (Schifonoja). - Come mi sento stanca! Il viaggio
mi ha un poco affaticata e quest'aria nuova del mare e della campagna m'ha
un poco stordita. Ho bisogno di riposo; e già mi par di pregustare la
bontà del sonno e la dolcezza del risveglio di domani. Mi sveglierò in
una casa amica, nella cordiale ospitalità di Francesca, in questa Schifanoja
che ha rose così belle e cipressi così grandi; e mi sveglierò avendo
innanzi a me qualche settimana di pace, venti giorni d'esistenza spirituale,
forse più. Sono molto riconoscente a Francesca, dell'invito. Rivedendola,
ho riveduta una sorella. Quante mutazioni in me, e quanto profonde, dai belli
anni fiorentini!
Francesca, a proposito de' miei capelli, ricordava oggi le passioni e le malinconie
di quel tempo, e Carlotta Fiordelise, e Gabriella Vanni, e tutta quella storia
lontana che ora non mi par vissuta ma letta in un vecchio libro obliato o vista
in sogno. I capelli non son caduti, ma son cadute da me ben altre cose più vive.
Tanti capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel mio destino.
Ma perché mi riprende la tristezza? E perché le memorie mi dànno
pena? E perché di tratto in tratto la mia rassegnazione è scossa?
E' inutile lamentarsi sopra una tomba; e il passato è come una tomba
che non rende più i suoi morti. Dio mio, fa tu ch'io me ne ricordi una
volta per sempre!
Francesca e ancóra giovine, e conserva ancóra quella sua bella
e franca giovialità che in collegio aveva un fascino così strano
sul mio spirito un po' oscuro. Ella ha una grande e rara virtù: è gaia,
ma sa intendere i dolori altrui e sa anche lenirli con la sua misericordia
consapevole. Ella è, sopra tutto, una donna intellettuale, una donna
d'alti gusti, una dama perfetta, un'amica che non pesa. Si compiace forse un
po' troppo dei motti e delle frasi acute, ma le sue saette hanno sempre la
punta d'oro e son lanciate con una grazia inimitabile. Certo, fra quante signore
mondane ho conosciute, ella è la più fine; fra le amiche, è la
prediletta.
I figli non le somigliano molto, non sono belli. Ma la bimba, Muriella, è assai
gentile; ha un riso chiaro e gli occhi della madre. Ha fatto gli onori di casa
a Delfina con una compitezza di piccola dama. Ella, certo, erediterà la « gran
maniera » materna.
Delfina sembra felice. Ha esplorata già la maggior parte del giardino, è andata
giù fino al mare, è discesa per tutte le scale; è venuta
a raccontarmi le meraviglie, ansando, divorando le parole, con negli occhi
una specie di barbaglio. Ella ripeteva spesso il nome della nuova amica: Muriella.
E' un grazioso nome, e su la sua bocca diventa più grazioso ancóra.
Dorme, profondamente. Quando i suoi occhi son chiusi, i cigli le fanno sul
sommo della gota un'ombra lunga lunga. Si meravigliava della lunghezza, stasera,
il cugino di Francesca e ripeteva un verso di Guglielmo Shakespeare nella Tempesta,
molto bello, su i cigli di Miranda.
C'è troppo odore, qui. Delfina ha voluto ch'io le lasciassi il mazzo
delle rose accanto al letto, prima d'addormentarsi. Ma io, ora che dorme, lo
toglierò e lo metterò su la loggia, al sereno.
Sono stanca, eppure ho scritto tre o quattro pagine. Ho sonno. eppure vorrei
prolungare la veglia per prolungare questo languore dell'anima indefinito,
ondeggiante in non so che tenerezza diffusa fuori di me, intorno a me. Da tanto,
da tanto tempo non avevo sentito un po' di benevolenza circondarmi!
Francesca è molto buona, e io le sono molto riconoscente.
*
Ho portato su la loggia il vaso delle rose; e son rimasta là qualche
minuto ad ascoltare la notte, tenuta là dal rammarico di perdere nella
cecità del sonno ore che passano sotto un cielo così bello. E'
strano l'accordo tra la voce delle fontane e la voce del mare. I cipressi,
d'innanzi a me, parevano le colonne del firmamento: le stelle brillavan proprio
su le cime, le accendevano.
Perché di notte i profumi hanno nella loro onda qualche cosa che parla,
hanno un significato, hanno un linguaggio?
No, i fiori non dormono, di notte.
16 settembre. - Pomeriggio delizioso, passato quasi tutto a conversare con
Francesca su le logge, su le terrazze, per i viali, in tutti i luoghi aperti
di questa villa che pare edificata da un principe poeta per dimenticare un
affanno. Il nome del palazzo ferrarese le convien perfettamente.
Francesca mi ha fatto leggere un sonetto del conte Sperelli, scritto su pergamena:
una inezia molto fine. Questo Sperelli è uno spirito eletto ed intenso.
Stamani, a tavola, ha detto due o tre cose bellissime. Egli è convalescente
d'una ferita mortale avuta in un duello, a Roma, nello scorso maggio. Ha negli
atti, nelle parole, nello sguardo quella specie d'abbandono affettuoso e delicato
ch'è proprio de' convalescenti, di quelli che sono usciti dalle mani
della morte. Dev'essere molto giovine; ma deve aver molto vissuto, e d'una
vita inquieta. Porta i segni della lotta.
*
Serata deliziosa, di conversazione intima, di musica intima, dopo il pranzo.
Io, forse, ho parlato troppo; o, per lo meno, troppo caldamente. Ma Francesca
mi ascoltava e mi secondava; e il conte Sperelli, anche. Uno de' più alti
piaceri, nella conversazione non volgare, appunto è sentire che uno
stesso grado di calore anima tutte le intelligenze presenti. Allora soltanto,
le parole prendono il suono della sincerità e dànno a chi le
profferisce e a chi le ode il supremo diletto.
II cugino di Francesca, è, in musica, un conoscitore raffinato. Ama
molto i maestri settecentisti e in ispecie, tra i compositori per clavicembalo,
Domenico Scarlatti. Ma il suo più ardente amore è Sebastiano
Bach. Lo Chopin gli piace poco; il Beethoven gli penetra troppo a dentro e
lo turba troppo. Nella musica sacra non trova da paragonare al Bach altri che
il Mozart. - Forse - egli ha detto - in nessuna Messa la voce del soprannaturale
giunge alla religiosità e alla terribilità a cui è giunto
il Mozart nel Tuba mirum del Requiem. Non è vero che sia un greco, un
platonico, un puro ricercatore della grazia, della bellezza, della serenità,
chi ebbe così profondo il senso del soprannaturale da crear musicalmente
il fantasma del Commendatore e chi, creando Don Giovanni e Donna Anna, seppe
spinger tant'oltre l'analisi dell'essere interno...
Egli ha detto queste parole ed altre, con quel singolare accento che hanno
nel parlar d'arte gli uomini i quali sono di continuo assorti nella ricerca
delle cose elevate e difficili.
Poi, nell'ascoltarmi, aveva una strana espressione, come di stupore, e qualche
volta d'ansietà. Io mi rivolgevo quasi sempre a Francesca, con gli occhi;
eppure, sentivo lo sguardo di lui fisso su di me con una insistenza che mi
dava fastidio ma non mi offendeva. Egli dev'essere ancóra malato, debole,
in preda alla sua sensibilità. M'ha chiesto infine: - Cantate? - allo
stesso modo che m'avrebbe chiesto: - Mi amate?
Ho cantato un'Aria del Paisiello e una del Salieri. Ho suonato un po' di settecento.
Avevo la voce calda e la mano felice.
Egli non mi ha fatto alcun elogio. E' rimasto in silenzio. Perché?
Delfina dormiva già, quassù. Quando son salita a vederla, l'ho
trovata che dormiva ma con le ciglia umide come s'ella avesse pianto. Povero
amore! Dorothy m'ha detto che la mia voce giungeva fin qui distintamente e
che Delfina s'è scossa dal primo sopore e s'è messa a singhiozzare
e voleva discendere. Sempre, quando io canto, ella piange.
Ora dorme; ma di tratto in tratto il suo respiro divien più vivo, somiglia
un singhiozzo spento, e mette nel mio stesso respiro un affanno vago, quasi
un bisogno di rispondere a quel singhiozzo inconscio, a quella pena che non
s'è acquietata nel sonno. Povero amore!
Chi suona, giù, il pianoforte? Qualcuno accenna, con la sordina, la
Gavotta di Luigi Rameau, una gavotta piena di affascinante malinconia, quella
ch'io sonavo dianzi. Chi può essere? Francesca è risalita con
me; è tardi.
Mi sono affacciata alla loggia. La sala del vestibolo è buia; è chiara
soltanto la sala attigua dove il marchese e Manuel giocano ancóra.
La Gavotta cessa. Qualcuno scende per la scala, nel giardino.
Mio Dio, perché son così attenta, così vigilante, così curiosa?
Perchè i rumori mi scuotono così a dentro, questa notte?
Delfina si sveglia, mi chiama.
17 settembre. - Stamani è partito Manuel. Siamo stati ad accompagnarlo
fino alla stazione di Rovigliano. Verso il 10 di ottobre egli tornerà a
prendermi; e andremo a Siena, da mia madre. Io e Delfina rimarremo a Siena
probabilmente fino all'anno nuovo: due o tre mesi. Rivedrò la Loggia
del Papa e la Fonte Gaia e il mio bel Duomo bianco e nero, la casa diletta
della Beata Vergine Assunta, dove una parte dell'anima mia è ancóra
a pregare, accanto alla cappella Chigi, nel luogo che sa i miei ginocchi.
Ho sempre lucida nella memoria l'imagine del luogo; e quando tornerò m'inginocchierò nel
punto preciso dove io soleva, esattamente, meglio che se ci fossero rimasti
due cavi profondi. E là ritroverò quella parte dell'anima mia
a pregare ancóra, sotto la volta azzurra constellata che si specchia
nel marmo come un cielo notturno in un'acqua tranquilla.
Nulla, certo, è mutato. Nella cappella preziosa, piena d'un'ombra palpitante,
d'una oscurità animata da' riflessi gemmei delle pietre, ardevano le
lampade; e la luce pareva raccogliersi tutta nel breve cerchio d'olio in cui
si nutriva la fiammella, come in un topazio limpido. A poco a poco, sotto il
mio sguardo intento, il marmo effigiato prendeva un pallor men freddo, quasi
direi un tepore d'avorio; a poco a poco entrava nel marmo la pallida vita delle
creature celesti, e nelle forme marmoree si diffondeva la vaga trasparenza
d'una carne angelicale.
Quanto era ardente e spontanea la mia preghiera! S'io leggeva la Filotea di
San Francesco, mi sembrava che le parole scendessero sul mio cuore come le
lacrime di miele, come stille di latte. S'io mi metteva in meditazione, mi
sembrava di camminare per le vie segrete dell'anima come per un giardino di
delizia ove gli usignoli cantassero su gli alberi fiorenti e le colombe tubassero
in riva ai ruscelli della Grazia divina. La divozione m'infondeva una calma
piena di freschezza e di profumi, mi faceva dischiudere nel cuore le sante
primavere dei Fioretti, m'inghirlandava di rose mistiche e di gigli soprannaturali.
E nella mia vecchia Siena, nella vecchia città della Vergine, io udiva
sopra tutte le voci i richiami delle campane.
18 settembre. - Ora di tortura indefinibile. Mi par d'esser condannata a riappezzare, a riappiccare, a riunire, a ricomporre i frammenti d'un sogno, del quale una parte sia per avverarsi confusamente fuori di me e l'altra si agiti confusamente in fondo al mio cuore. E m'affatico m'affatico, senza riescir mai a ricomporlo per intiero.
19 settembre. - Altra tortura. Qualcuno mi cantò, gran tempo indietro; e non terminò la sua canzone. Qualcuno ora mi canta, riprendendo la canzone dal punto in cui fu interrotta; ma da gran tempo io ho dimenticato il principio. E l'anima inquieta, mentre cerca di ricordarsene per collegarlo al proseguimento, si smarrisce; e non ritrova gli antichi accenti né gode i nuovi.
20 settembre. - Oggi, dopo la colazione, Andrea Sperelli ha fatto a me e
a Francesca l'invito di andare a veder nelle sue stanze i disegni che gli giunsero
ieri da Roma.
Si può dire che tutta un'arte sia passata oggi sotto i nostri occhi,
tutta un'arte studiata e analizzata dalla matita d'un disegnatore. Ho avuto
un de' più intensi godimenti della mia vita.
Questi disegni sono di mano dello Sperelli; sono i suoi studii, i suoi schizzi,
i suoi appunti, i suoi ricordi presi qua e là in tutte le gallerie d'Europa;
sono, dirò così, il suo breviario, un meraviglioso breviario
nel quale ogni antico maestro ha la sua pagina suprema, la pagina ov'è compendiata
la maniera, ove son notate le bellezze dell'opera più alte e più originali,
ov'è colto il punctum saliens di tutta quanta la produzione. Scorrendo
questa larga raccolta, io non soltanto mi son fatta un'idea precisa delle diverse
scuole, dei diversi movimenti, delle diverse correnti, delle diverse influenze
per cui si sviluppa la Pittura in una data regione; ma son penetrata nell'intimo
spirito, nella essenziale sostanza dell'arte d'ogni singolo pittore. Come profondamente
ora comprendo, per esempio, il XIV e il XV secolo, i Trecentisti e i Quattrocentisti,
i semplici i nobili i grandi Primitivi!
I disegni sono conservati in belle custodie di cuoio inciso con borchie e fermagli
d'argento imitanti quelli dei messali. La varietà della tecnica è ingegnosissima.
Certi disegni, dal Rembrandt, sono eseguiti su una specie di carta un po' rossastra,
riscaldata con matita sanguigna, acquerellata con bistro; e le luci son rilevate
con bianco a tempera. Certi altri disegni, dai maestri fiamminghi, sono eseguiti
su una carta rugosa molto simile alla carta preparata per la pittura a olio,
dove l'acquerello di bistro prende il carattere degli schizzi a bitume. Altri
sono a matita sanguigna, a matita nera, a tre matite con qualche tocco di pastello,
acquerellati con bistro su tratti a penna, acquerellati con inchiostro di China,
su carta bianca, su carta gialla, su carta grigia. Talvolta la matita sanguigna
par che contenga porpora; la matita nera dà un segno vellutato; il bistro è caldo,
fulvo, biondo, d'un color di tartaruga fina.
Tutte queste particolarità le ho dal disegnatore; provo uno strano piacere
a ricordarle, a scriverle; mi par d'essere inebriata di arte; ho il cervello
pieno di mille linee, di mille figure; e in mezzo al tumulto confuso vedo pur
sempre le donne dei Primitivi, le indimenticabili teste delle Sante e delle
Vergini, quelle che sorridevano alla mia infanzia religiosa, nella vecchia
Siena, dai freschi di Taddeo e di Simone.
Nessun capolavoro d'un'arte più avanzata e più raffinata lascia
nell'animo un'impressione così forte, così durevole, così tenace.
Quei lunghi corpi snelli come steli di gigli; quei colli sottili e reclinati;
quelle fronti convesse e sporgenti; quelle bocche piene di sofferenza e di
affabilità; quelle mani (o Memling!) affilate, ceree, diafane come un'ostia,
più significative di qualunque altro lineamento; e quei capelli rossi
come il rame, fulvi come l'oro, biondi come il miele, quasi distinti a uno
a uno dalla religiosa pazienza del pennello; e tutte quelle attitudini nobili
e gravi o nel ricevere un fiore da un angelo o nel posar le dita sopra un libro
aperto o nel chinarsi verso l'infante o nel sostener su' ginocchi il corpo
di Gesù o nel benedire o nell'agonizzare o nell'ascendere al Paradiso,
tutte quelle cose pure, sincere e profonde inteneriscono e impietosiscono fin
nell'intimo spinto; e s'imprimono per sempre nella memoria, come uno spettacolo
di tristezza umana veduto nella realità della vita, nella realità della
morte.
A una a una, oggi, passavano le donne dei Primitivi, sotto i nostri occhi.
Io e Francesca eravamo sedute in un divano basso, avendo d'innanzi a noi un
gran leggìo sul quale posava la custodia di cuoio con i disegni che
il disegnatore, seduto incontro, svolgeva lentamente, comentando. Ad ogni tratto,
io vedevo la sua mano prendere il foglio e posarlo su l'altra faccia della
custodia con una delicatezza singolare. Perché, ad ogni tratto, sentivo
dentro di me un principio di brivido come se quella mano stesse per toccarmi?
A un certo punto, trovando forse incomoda la sedia, egli s'è messo in
ginocchio sul tappeto e ha seguitato a svolgere. Parlando, si dirigeva quasi
sempre a me; e non aveva l'aria di ammaestrarmi ma di ragionare con una egual
conoscitrice; e in fondo a me si moveva un poco di compiacenza, mista di riconoscenza.
Quando io faceva una esclamazione di meraviglia, egli mi guardava con un sorriso
che ancóra ho presente e che non so definire. Due o tre volte Francesca
ha appoggiato il braccio su la spalla di lui, con familiarità, senza
badarci. Vedendo la testa del primogenito di Mosè, presa dal fresco
di Sandro Botticelli nella Cappella Sistina, ella ha detto: - Ha un po' della
tua aria, quando sei malinconico. - Vedendo la testa dell'arcangelo Michele,
che è un frammento della Madonna di Pavia, del Perugino, ella ha detto:
- Somiglia Giulia Moceto; è vero? - Egli non ha risposto e ha voltato
il foglio con minor lentezza. Allora ella ha soggiunto, ridendo: - Lungi le
imagini del peccato!
Questa Giulia Moceto è forse una donna che un tempo egli amò?
Voltato il foglio, ho provato un incomprensibile desiderio di rivedere l'arcangelo
Michele, di esaminarlo con maggiore attenzione. Era curiosità soltanto?
Io non so. Non oso guardarmi dentro, nel segreto; amo meglio indugiare, ingannando
me stessa; non penso che o prima o poi tutte le terre vaghe cadono in dominio
del Nemico; non ho il coraggio di affrontare la lotta; son pusillanime.
Intanto, l'ora è dolce. Ho una imaginosa eccitazione intellettuale,
come se avessi bevute molte tazze di tè forte. Non ho nessuna volontà di
coricarmi. La notte è tiepidissima, come in agosto; il cielo è chiaro
ma velato, simile a un tessuto di perle; il mare ha una respirazione lenta
e sommessa, ma le fontane riempiono le pause. La loggia m'attira. Sogniamo
un poco! Quali sogni?
Gli occhi delle Vergini e delle Sante mi perseguitano. Vedo ancóra quegli
occhi cavi, lunghi e stretti, con le palpebre abbassate, di sotto a cui guardano
con uno sguardo affascinante, mite come quel d'una colomba, un po' obliquo
come quel d'una serpe. « Sii semplice come la colomba e prudente come
la serpe » ha detto Gesù Cristo.
Sii prudente. Prega, còricati e dormi.
21 settembre. - Ahimè, bisogna pur sempre ricominciar l'opera dura, risalire l'erta già salita, riconquistare il suolo già conquistato ricombattere la battaglia già vinta!
22 settembre. - Egli mi ha donato un suo libro di poesia, La Favola d`Ermafrodito,
il ventunesimo dei venticinque soli esemplari, tirato su pergamena, con due
prove del frontispizio avanti lettera.
E' una singolare opera, ove si chiude un senso misterioso e profondo, sebbene
l'elemento musicale prevalga trascinando lo spirito in una magia inaudita di
suoni e avvolgendo i pensieri; che splendono come una polvere d'oro e di diamante
in un fiume limpido.
I cori dei Centauri, delle Sirene e delle Sfingi dànno un turbamento
indefinibile, svegliano nell'orecchio e nell'anima una inquietudine e una curiosità non
appagate, prodotte dal continuo contrasto d'un sentimento duplice, d'una aspirazione
duplice, della natura umana e della natura bestiale. Ma con qual purezza, e
come visibile, l'ideal forma dell'Androgine si delinea tra gli agitati cori
dei mostri! Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua
mi ha data della bellezza un'impressione più armonica. Certi versi mi
perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse;
tanto sono intensi.
*
Egli mi conquista l'intelletto e l'anima, ogni giorno più, ogni ora più, senza tregua, contro la mia volontà, contro la mia resistenza. Le sue parole, i suoi sguardi, i suoi gesti, i suoi minimi moti entrano nel mio cuore.
23 settembre. - Quando parliamo insieme, talvolta io sento che la sua voce è come
l'eco dell'anima mia.
Accade talvolta che io mi senta spingere da un subitaneo fascino, da un'attrazione
cieca, da una violenza irragionevole, verso una frase, verso una parola che
potrebbe rivelare la mia debolezza. Mi salvo per prodigio; e viene allora un
intervallo di silenzio, nel quale io sono agitata da un terribile tremito interiore.
Se riprendo a parlare, io dico una cosa frivola e insignificante, con un tono
leggero; ma mi pare che una fiamma mi corra sotto la pelle del viso, quasi
ch'io sia per arrossire. S'egli cogliesse quell'attimo per guardarmi risolutamente
negli occhi, sarei perduta.
*
Ho suonato molta musica, di Sebastiano Bach e di Roberto Schumann. Egli stava
seduto, come quella sera, alla mia destra, un poco indietro, su la poltrona
di cuoio. Di tratto in tratto, alla fine d'ogni pezzo, egli si levava e, chino
alle mie spalle, sfogliava il libro per indicarmi un'altra Fuga, un altro Intermezzo,
un altro Improvviso. Quindi si metteva di nuovo a sedere; ed ascoltava, senza
muoversi, profondamente assorto, con gli occhi fissi sopra di me, facendomi
sentire la sua presenza.
Intendeva egli quanto di mio, del mio pensiero, della mia tristezza, del mio
essere intimo, passava nella musica altrui?
*
« Musica, - chiave d'argento che apri la fontana delle lacrime, ove lo spirito beve finché la mente si smarrisce; soavissima tomba di mille timori, ove la loro madre, l'Inquietudine, simile a un fanciullo che dorma, giace sopita ne' fiori... » SHELLEY.
La notte è minacciosa. Un vento caldo e umido soffia nel giardino;
e il fremito cupo si prolunga nell'oscurità, poi cade, poi ricomincia
più forte. Le vette dei cipressi oscillano sotto un cielo quasi nero,
dove le stelle appaiono semispente. Una striscia di nuvole attraversa lo spazio,
dall'uno all'altro orizzonte, frastagliata, contorta, più nera del cielo,
simile alla capigliatura tragica di una Medusa. Il mare nell'oscurità è invisibile;
ma singhiozza, come un immenso e inconsolabile dolore, solo.
Che è mai questo sbigottimento? Mi sembra che la notte mi ammonisca
d'una sciagura prossima e che all'ammonizione risponda in fondo a me un rimorso
indefinito. Il Preludio di Sebastiano Bach ancóra m'incalza; si mesce
nell'anima mia con il fremito del vento e con il singhiozzo del mare.
Non piangeva, dianzi, qualche cosa di me in quelle note?
Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall'angoscia; qualcuno piangeva, gemeva,
chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l'aiuto, pregava con una preghiera
che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed
era esaudito; riceveva la luce dall'alto, gittava gridi d'allegrezza, stringeva
alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore.
*
Sempre, mia figlia mi conforta; e mi guarisce da ogni febbre; come un balsamo
sublime.
Ella dorme, nell'ombra rischiarata dalla lampada che è mite come una
luna. La sua faccia, bianca della fresca bianchezza d'una rosa bianca, quasi
si sprofonda nell'abbondanza de' capelli oscuri. Pare che il fino tessuto delle
sue palpebre appena appena riesca a nascondere nell'interno gli occhi luminosi.
Io mi piego su lei, la riguardo; e tutte le voci della notte si estinguono,
per me; e il silenzio per me non è misurato che dalla respirazione ritmica
della sua vita.
Ella sente la vicinanza della madre. Leva un braccio e lo lascia ricadere;
sorride dalla bocca che si schiude come un fiore perlifero e per un istante
tra i cigli appare uno splendore simile all'umido splendore argenteo della
polpa d'un asfodelo. Come più la contemplo, diventa alla mia vista una
creatura immateriale, un essere formato dell'elemento as dreams are made on.
Perché, a dare un'idea della sua bellezza e della sua spiritualità,
sorgono spontanee nella memoria imagini e parole di Guglielmo Shakespeare,
di questo possente selvaggio atroce poeta che ha così melliflue labbra?
Ella crescerà, nutrita e avvolta dalla fiamma del mio amore, mio grande
unico amore...
Oh Desdemona, Ofelia, Cordelia, Giulietta! Oh Titania! Oh Miranda!
24 settembre. - Io non so prendere una risoluzione, non so fare un proposito.
Io mi abbandono un poco a questo nuovissimo sentimento, chiudendo gli occhi
sul pericolo lontano, chiudendo gli orecchi alle ammonizioni savie della conscienza,
con il trepidante ardire di chi, per cogliere le violette, s'avventura su l'orlo
d'un abisso in fondo a cui rugge un fiume vorace.
Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla
sua. Le Anime saliranno insieme, un breve tratto, su per le colline dell'Ideale,
beveranno qualche sorso alle fonti perenni; quindi ciascuna riprenderà la
sua via, con maggior confidenza, con minor sete.
*
Che tranquillità nell'aria, dopo il mezzogiorno! Il mare ha il color bianco azzurrognolo latteo d'un opale, d'un vetro di Murano: ed è qua e là come un cristallo appannato da un alito.
*
Leggo Percy Shelley, un poeta ch'egli ama, il divino Ariele che si nutre
di luce e parla nella lingua degli Spiriti. E' notte. Questa allegoria mi si
leva d'innanzi visibile.
« Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da
noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. Intorno imperversa una perpetua
guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s'affollano nella fenditura
d'una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore.
E molti passano con passo incurante, d'innanzi a quel portico, non sapendo che
un'ombra segue i vestigi d'ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano
in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso,
si fermano a riguardare. Sono costoro in esilissimo numero; ed ivi ben poco apprendono,
se non che ombre li seguono ovunque eglino vadano. »
Dietro di me, così da presso che quasi mi tocca, è l'Ombra. Io
la sento, che mi guarda; allo stesso modo che ieri sonando, sentivo lo sguardo
di lui, senza vederlo.
25 settembre. - Mio Dio, mio Dio!
Quando egli mi ha chiamata, con quella voce, con quel tremito, io ho creduto
che il cuore mi si fosse disciolto nel petto e ch'io fossi per venir meno.
- Voi non saprete mai - egli ha detto - non saprete mai fino a qual punto
la mia anima è vostra.
Eravamo nel viale delle fontane. Io ascoltavo le acque. Non ho visto più nulla;
non ho udito più nulla; m'è parso che tutte le cose si allontanassero
e che il suolo si affondasse e che si dileguasse con loro la mia vita. Ho fatto
uno sforzo sovrumano; e m'è venuto alle labbra il nome di Delfina, e
m'è venuto un impeto folle di correre a lei, di fuggire, di salvarmi.
Ho gridato tre volte quel nome. Negli intervalli, il mio cuore non palpitava,
i miei polsi non battevano, dalla mia bocca non usciva il respiro...
26 settembre.- E vero? Non è un inganno del mio spirito fuorviato?
Ma perché l'ora di ieri mi par così lontana, così irreale?
Egli parlò, di nuovo, a lungo, standomi vicino, mentre io camminava
sotto gli alberi, trasognata. Sotto quali alberi? Era come s'io camminassi
nelle vie segrete dell'anima mia, tra fiori nati dall'anima mia, ascoltando
le parole d'uno Spirito invisibile che un tempo si fosse nutrito dell'anima
mia.
Odo ancóra le parole soavi e tremende.
Egli diceva: - Io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere in
una piccola parte del vostro cuore...
Diceva: - ... fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere, per sempre,
fino alla morte...
Diceva: - La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara
della passione di qualunque altra...
- La sola presenza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza; e io la sentiva
fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento
sovrumano...
27 settembre. - Quando, sul limite del bosco, egli colse questo fiore e me
l'offerse, non lo chiamai Vita della mia vita?
Quando ripassammo pel viale delle fontane, d'innanzi a quella fontana, dove
egli prima aveva parlato, non lo chiamai Vita della mia vita?
Quando tolse la ghirlanda dall'Erma e la rese a mia figlia, non mi fece intendere
che la Donna inalzata ne' versi era già decaduta e che io sola, io sola
ero la sua speranza? Ed io non lo chiamai Vita della mia vita?
28 settembre. - Com'è stato lungo a venire, il raccoglimento! In tante
ore, dopo quell'ora, ho lottato, ho penato per rientrar nella mia vera conscienza,
per veder le cose nella vera luce, per giudicare l'accaduto con fermo e calmo
giudizio, per risolvere, per decidere, per riconoscere il dovere. Io sfuggivo
a me stessa; la mente si smarriva; la volontà si ripiegava; ogni sforzo
era vano. Quasi per istinto, evitavo di rimaner sola con lui, mi tenevo sempre
vicina a Francesca e a mia figlia, o rimanevo qui nella stanza, come in un
rifugio. Quando i miei occhi s'incontravano con i suoi, mi pareva di legger
ne' suoi una profonda e supplichevole tristezza. Non sa egli quanto, quanto,
quanto io l'ami?
Non lo sa; non lo saprà mai. Così voglio. Debbo così.
Coraggio !
Mio Signore, aiutatemi voi.
29 settembre. - Perché ha parlato? Perché ha voluto rompere l'incanto del silenzio ove l'anima mia si cullava senza quasi rimorso e senza quasi paura? Perché ha voluto strappare i veli vaghi dell'incertezza e mettermi in conspetto del suo amore svelato? Ormai non posso più indugiare, non posso più illudermi, né concedermi una mollezza, né abbandonarmi a un languore. Il pericolo è là, certo, aperto, manifesto; e m'attira con la vertigine, come un abisso. Un attimo di languore, di mollezza, e io sono perduta.
*
Io mi domando: - E' un dolor sincero il mio, è un sincero rammarico, per quella rivelazione inattesa? Perché penso sempre a quelle parole? E perché, quando le ripeto in me stessa, un'onda ineffabile di voluttà mi attraversa? E perché un brivido mi corre per tutte le midolle, se imagino che potrei udire altre parole, altre parole ancóra?
*
Un verso di Guglielmo Shakespeare, nel As you like it:
« Who ever lov'd, that lov'd not at first sight? »
Notte. - I moti del mio spirito prendono forma d'interrogazioni, di enigmi.
Io interrogo di continuo me stessa e non rispondo mai. Non ho avuto il coraggio
di guardar proprio in fondo, di conoscere con esattezza il mio stato, di prendere
una risoluzione veramente forte e leale. Io sono pusillanime, io sono vile;
ho paura del dolore, voglio soffrire il meno possibile; voglio ancóra
ondeggiare, temporeggiare, palliare, salvarmi con sotterfugi, nascondermi,
invece d'affrontare a viso aperto la battaglia decisiva.
Il fatto è questo: che io temo di rimaner sola con lui, d'aver con lui
un colloquio grave, e che la mia vita qui è ridotta una continuazione
di piccole astuzie, di piccoli ripieghi, di piccoli pretesti per evitare la
sua compagnia. L'artificio è indegno di me. O voglio assolutamente rinunziare
a questo amore; ed egli udrà la mia parola triste ma ferma. O voglio
accettarlo, nella sua purità; ed egli avrà il mio consenso spirituale.
Ora, io mi domando: - Che voglio? Quale scelgo delle due vie? Rinunziare? Accettare?
Mio Dio, mio Dio, rispondete voi per me, illuminatemi voi!
Rinunziare è omai come strappar con le mie unghie una parte viva del
mio cuore. L'angoscia sarà suprema, lo spasimo passerà i limiti
d'ogni sofferenza; ma l'eroismo, per la grazia di Dio, verrà coronato
dalla rassegnazione, verrà premiato dalla divina dolcezza che segue
ogni forte elevazion morale, ogni trionfo dell'anima su la paura di soffrire.
Rinunzierò. Mia figlia manterrà il possesso di tutto tutto il
mio essere, di tutta tutta la mia vita. Questo è il dovere.
« Ara con pianti, anima dolorosa,
per mietere con canti d'allegrezza! »
30 settembre. - Scrivendo queste pagine, mi sento un poco più calma:
riacquisto, almeno momentaneamente, un poco di equilibrio e considero con maggior
lucidità il mio infortunio e mi par che il cuore si alleggerisca come
dopo una confessione.
Oh, s'io potessi confessarmi! S'io potessi chiedere consiglio e aiuto al mio
vecchio amico, al mio vecchio consolatore!
In queste turbolenze, mi sostiene più d'ogni altra cosa il pensiero
ch'io rivedrò fra pochi giorni Don Luigi e che gli parlerò e
che gli mostrerò tutte le mie piaghe, e gli scoprirò tutte le
mie paure e gli chiederò un balsamo per tutti i miei mali, come un tempo;
come quando la sua parola mite e profonda chiamava lacrime di tenerezza su'
miei occhi che ancóra non conoscevano il sale amaro d'altre lacrime
o l'arsione, ben più terribile, dell'aridità.
Mi comprenderà egli ancóra? Comprenderà le oscure angosce
della donna allo stesso modo che comprendeva le malinconie della fanciulla
indefinite e fugaci? Rivedrò inchinarsi verso di me, in atto di misericordia
e di compatimento, la sua bella fronte incoronata di capelli bianchi, illuminata
di santità, pura come l'ostia nel ciborio, benedetta dalla mano del
Signore?
*
Ho sonato, su l'organo della cappella, musica di Sebastiano Bach e del Cherubini,
dopo la messa. Ho sonato il Preludio dell'altra sera.
Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall'angoscia; qualcuno piangeva, gemeva,
chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l'aiuto, pregava con una preghiera
che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed
era esaudito; riceveva la luce dall'alto, gittava gridi d'allegrezza, stringeva
alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore.
Quest'organo non è grande, la cappella non è grande; eppure la
mia anima s'è dilatata come in una basilica, s'è inalzata come
in una cupola immensa, ha toccato il culmine dell'aguglia ideale ove splende
il segno dei segni, nell'azzurro paradisiaco, nell'etere sublime.
Io penso ai massimi organi delle cattedrali massime, a quelli di Amburgo, di
Strasburgo, di Siviglia, della badia di Weingarten, della badia di Subiaco,
dei Benedettini in Catania, di Montecassino, di San Dionigi. Qual voce, qual
coro di voci, qual moltitudine di grida e di preghiere, qual canto e qual pianto
di popoli eguaglia la terribilità e la soavità di questo prodigioso
istrumento cristiano che può riunire in se tutte le intonazioni da orecchio
umano percettibili e le impercettibili ancóra?
Io sogno: - un Duomo solitario, immerso nell'ombra, misterioso, nudo, simile
alla profondità d'un cratere spento che riceva dall'alto una luce siderale;
e un'Anima ebra d'amore, ardente come quella di san Paolo, dolce come quella
di san Giovanni, molteplice come mille anime in una, bisognosa d'esalar la
sua ebrietà in una voce sopraumana; e un organo vasto come una foresta
di legno e di metallo, che, come quel di San Sulpizio, abbia cinque tastiere,
venti pedali, cento otto registri, più di settemila canne, tutti i suoni.
Notte. - Invano! Invano! Nessuna cosa mi calma; nessuna cosa mi dà un'ora,
un minuto, un attimo di oblio; nessuna cosa mai mi guarirà; nessun sogno
della mia mente cancellerà il sogno del mio cuore. Invano!
La mia angoscia è mortale. Io sento che il mio male è incurabile;
il cuore mi duole come se proprio me l'avessero stretto, me l'avessero premuto,
me l'avessero guasto per sempre; il dolore morale è così intenso
che si cangia in dolore fisico, in uno spasimo atroce, insostenibile. Io sono
esaltata, lo so; io sono in preda a una specie di follia; e non posso vincermi,
non posso contenermi, non posso riprendere la mia ragione; non posso, non posso.
Questo è dunque l'amore?
Egli e partito stamani, a cavallo, con un servo, senza ch'io l'abbia veduto.
La mia mattina è passata quasi tutta nella cappella. Per l'ora della
colazione egli non è ritornato. La sua assenza mi faceva soffrire così ch'io
era stupita dell'acutezza di quel soffrire. Son venuta qui nella stanza; per
diminuir la pena, ho scritta una pagina del Giornale, una pagina religiosa,
riscaldandomi al ricordo della mia fede matutina; poi ho letto qualche brano
dell'Epipsychidion di Percy Shelley; poi son discesa nel parco a cercar di
mia figlia. In tutti questi atti, il pensiero vivo di lui mi teneva, mi occupava,
mi tormentava senza tregua.
Quando ho riudita la sua voce, io era sulla prima terrazza. Egli parlava con
Francesca, sul vestibolo. Francesca s'è affacciata, chiamandomi dall'alto:
- Vieni su.
Risalendo la scala, sentivo che le ginocchia mi si piegavano. Salutandomi,
egli mi ha tesa la mano; e deve aver notato il tremito della mia perché ho
visto qualche cosa passargli nello sguardo, rapidamente. Ci siamo seduti su
le lunghe sedie di paglia, nel vestibolo, rivolti al mare. Egli ha detto d'essere
molto stanco; e s'è messo a fumare, raccontando la sua cavalcata. Era
giunto sino a Vicomìle, dove aveva fatto una sosta.
- Vicomìle - ha detto - possiede tre meraviglie: una pineta, una torre,
e un ostensorio del Quattrocento. Figuratevi una pineta tra il mare e il colle,
tutta piena di stagni che moltiplicano il bosco all'infinito; un campanile
di stil lombardo barbaro, che risale certo al XI secolo, uno stelo di pietra
carico di sirene, di paoni, di serpenti, di Chimere, d'ippogrifi, di mille
mostri e di mille fiori; e un ostensorio d'argento dorato, smaltato, intagliato
e cesellato, di foggia gotico-bizantina con un presentimento della Rinascenza,
opera del Gallucci, artefice quasi ignoto, ch'è un gran precursore di
Benvenuto...
Egli si rivolgeva a me, parlando. E' strano come io ricordo esattamente tutte
le sue parole. Potrei scrivere per intera la sua conversazione, con le particolarità più insignificanti
e minute; se ci fosse un mezzo, potrei riprodurre ogni modulazione della sua
voce.
Egli ci ha mostrato due o tre piccoli disegni a matita, sul suo taccuino. Poi
ha seguitato a parlare delle meraviglie di Vicomìle, con quel calore
ch'egli ha quando parla di cose belle, con quell'entusiasmo d'arte, ch'è una
delle sue più alte seduzioni.
- Ho promesso al Canonico che sarei tornato domenica. Andremo; è vero,
Francesca? Bisogna che Donna Maria conosca Vicomìle.
Oh, il mio nome su la sua bocca! Se ci fosse un modo, potrei riprodurre esattamente
l'attitudine, l'apertura delle sue labbra nel profferire ciascuna sillaba delle
due parole: - Donna Maria. - Ma non mai potrei esprimere la mia sensazione;
non potrei mai ridire tutto ciò che di sconosciuto, d'inopinato, d'insospettato
si va risvegliando nel mio essere alla presenza di quell'uomo.
Siamo rimasti là seduti, fino all'ora del pranzo. Francesca pareva,
contro il suo solito, un poco malinconica. A un certo punto, il silenzio è caduto
su noi, gravemente. Ma tra lui e me è incominciato un di que' colloqui
di silenzio, ove l'anima esala l'Ineffabile e intende il murmure dei pensieri.
Egli mi diceva cose che mi facevano languir di dolcezza sopra il cuscino: cose
che la sua bocca non potrà mai ripetermi e il mio orecchio non potrà mai
udire.
D'innanzi, i cipressi immobili, leggeri alla vista quasi fossero immersi in
un etere sublimante, accesi dal sole, parevano portare una fiamma alla sommità,
come i torchi votivi. Il mare aveva il color verde d'una foglia d'aloe, e qua
e là il color mavì d'una turchina liquefatta: una indescrivibile
delicatezza di pallori, una diffusion di luce angelicata, ove ogni vela dava
imagine d'un angelo che nuotasse. E la concordia dei profumi illanguiditi dall'Autunno
era come lo spirito e il sentimento di quello spettacolo pomeridiano.
Oh morte serena di settembre!
Anche questo mese è finito, è perduto, è caduto nell'abisso.
Addio.
Una tristezza immensa mi opprime. Quanta parte di me porta seco questa parte
di tempo! Ho vissuto più in quindici giorni che in quindici anni; e
mi sembra che nessuna delle mie lunghe settimane di dolore eguagli in acutezza
di spasimo questa breve settimana di passione. Il cuore mi duole; la testa
mi si perde; una cosa oscura e bruciante è in fondo a me, una cosa ch'è apparsa
d'improvviso come un'infezione di morbo e che incomincia a contaminarmi il
sangue e l'anima, contro ogni volontà, contro ogni rimedio: il Desiderio.
Io n'ho vergogna e raccapriccio, come d'un disonore, come d'un sacrilegio,
come d'una violazione; io n'ho una paura disperata e folle, come d'un nemico
fraudolento che a penetrar nella cittadella conosca vie da me stessa non conosciute.
E intanto io veglio, nella notte; e, scrivendo questa pagina nell'orgasmo in
cui gli amanti scrivono le loro lettere d'amore, non odo il respiro di mia
figlia che dorme. Ella dorme in pace; ella non sa quanto l'anima della madre
sia lontana...
1 ottobre. - I miei occhi vedono in lui quel che prima non vedevano. Quando egli parla, io guardo la sua bocca; e l'attitudine e il colore delle labbra mi occupano più che il suono e il significato delle parole.
2 ottobre. - Oggi è sabato: oggi è l'ottavo giorno dal giorno indimenticabile: - 25 SETTEMBRE I886.
*
Per un caso singolare, sebbene io ora non eviti di trovarmi sola con lui,
sebbene anzi io desideri che venga il momento terribile ed eroico; per un caso
singolare, il momento non è venuto.
Francesca è rimasta sempre con me, oggi. Stamani abbiamo fatto una cavalcata
per la via di Rovigliano. E abbiamo passato il pomeriggio quasi tutto al pianoforte.
Ella ha voluto ch'io le sonassi alcune danze del XVI secolo, poi la Sonata
in fa diesis minore e la celebre Toccata di Muzio Clementi, poi due o tre Capricci
di Domenico Scarlatti; e ha voluto ch'io le cantassi alcune parti dei Frauenliebe
di Roberto Schumann. Che contrasti!
Francesca non è più gaia, come una volta, com'era anche ai primi
giorni della mia dimora qui. Spesso, ella è pensosa; quando ride, quando
scherza, la sua gaiezza mi sembra artificiale. Le ho chiesto: - Hai qualche
pensiero che ti tormenta? - Ella mi ha risposto, mostrando di meravigliarsi:
- Perché? Io ho soggiunto: - Ti vedo un po' triste. - Ed ella: - Triste?
Oh no; t'inganni. - Ed ha riso, ma d'un riso involontariamente amaro.
Questa cosa mi affligge e mi dà una inquietudine vaga.
*
Andremo dunque domani a Vicomìle, dopo mezzogiorno. Egli mi ha domandato:
- Avreste forza di venire a cavallo? A cavallo potremmo traversare tutta la
pineta...
Poi anche mi ha detto: - Rileggete, tra le liriche dello Shelley a Jane, la
Recollection.
Dunque andremo a cavallo; verrà a cavallo anche Francesca. Gli altri,
compresa Delfina, verranno in mail-coach.
In che disposizion di spirito strana mi trovo io stasera! Ho come un'ira sorda
e acre in fondo al cuore, e non so perché; ho come una insofferenza
di me e della mia vita e di tutto. L'eccitazion nervosa è così forte
che mi prende di tratto in tratto un pazzo impeto di gridare, di ficcarmi le
unghie nella carne, di rompermi le dita contro la parete, di provocare un qualunque
spasimo materiale per sottrarmi a questo insopportabile malessere interiore,
a questo insopportabile affanno. Mi par d'avere un nodo di fuoco a sommo del
petto, la gola chiusa da un singhiozzo che non vuole uscire, la testa vacua,
ora fredda ora ardente; e di tratto in tratto mi sento attraversare da una
specie d'ansietà subitanea, da uno sbigottimento irragionevole che non
riesco a respingere mai né a reprimere. E, a volte, a traverso il mio
cervello guizzano imagini e pensieri involontarii che sorgono chi sa da quali
profondità dell'essere: imagini e pensieri indegni. E languo e vengo
meno, come una che sia immersa in un amore allacciante; e pur tuttavia non è un
piacere, non è un piacere!
3 ottobre. Com'è debole e misera l'anima nostra, senza difesa contro
i risvegli e gli assalti di quanto men nobile e men puro dorme nella oscurità della
nostra vita inconsciente, nell'abisso inesplorato ove i ciechi sogni nascono
dalle cieche sensazioni!
Un sogno può avvelenare un'anima; un sol pensiero involontario può corrompere
una volontà.
*
Andiamo a Vicomìle. Delfina è in letizia. La giornata è religiosa. Oggi è la festa di Maria Vergine del Rosario. Coraggio, anima mia!
4 ottobre. - Nessun coraggio.
La giornata di ieri fu per me così piena di piccoli episodii e di grandi
commozioni, così lieta e così triste, così stranamente
agitata che io mi smarrisco nel ricordarla. E già tutti tutti gli altri
ricordi impallidiscono e si dileguano innanzi ad un solo.
Dopo aver visitata la torre ed avere ammirato l'ostensorio, ci accingemmo a
ripartir da Vicomìle verso le cinque e mezzo. Francesca era stanca;
e le piacque, piuttosto che rimontare a cavallo, tornar col mail-coach. Noi
seguimmo per un tratto, cavalcando ora indietro ora ai lati. Di sul legno,
Delfina e Muriella agitavano verso noi lunghe canne fiorite e ridevano minacciandoci
con i bei pennacchi violacei.
Era una sera tranquillissima, senza vento. Il sole stava per cadere dietro
il colle di Rovigliano, in un cielo tutto rosato come un cielo dell'Estremo
Oriente. Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza
d'una nevata in un'aurora. Quando il sole scomparve, le rose si moltiplicarono,
si diffusero fin quasi all'orizzonte opposto, perdendosi, sciogliendosi in
un azzurro chiarissimo, in un azzurro argentino, indefinibile, simile a quello
che s'incurva su le cime delle montagne coperte di ghiacci.
Era egli che di tratto in tratto mi diceva: - Guardate la torre di Vicomìle.
Guardate la cupola di San Consalvo...
Quando la pineta fu in vista, egli mi chiese: - Attraversiamo?
La strada maestra costeggiava il bosco, descrivendo una larga curva e avvicinandosi
al mare, fin quasi sul lido, nella sommità dell'arco. Il bosco appariva
già tutto cupo, d'un verde tenebroso, come se l'ombra si fosse accumulata
su le chiome degli alberi lasciando ancor limpida l'aria superiore; ma, per
entro, gli stagni risplendevano d'una luce intensa e profonda, come frammenti
d'un cielo assai più puro di quello che si diffondeva sul nostro capo.
Senza aspettare la mia risposta, egli disse a Francesca:
- Noi attraversiamo la pineta. Ci ritroveremo su la strada, al ponte del Convito,
dall'altra parte.
E trattenne il cavallo.
Perché acconsentii? Perché entrai con lui? Io aveva negli occhi
una specie di abbagliamento; mi pareva d'essere sotto l'influenza d'una fascinazione
confusa; mi pareva che quel paesaggio, quella luce, quel fatto, tutta quella
combinazione di circostanze non fossero per me nuovi ma già un tempo
esistiti, quasi direi in una mia esistenza anteriore, ed ora riesistenti...
L'impressione è inesprimibile. Mi pareva dunque che quell'ora, che quei
momenti, essendo stati già da me vissuti, non si svolgessero, fuori
di me, indipendenti da me, ma mi appartenessero, ma avessero con la mia persona
un legame naturale e indissolubile così ch'io non potessi sottrarmi
a riviverli in quel dato modo ma dovessi anzi necessariamente riviverli. Io
aveva chiarissimo il sentimento di questa necessità. L'inerzia della
mia volontà era assoluta. Era come quando un fatto della vita ritorna
in un sogno con qualche cosa di più della verità, e di diverso
dalla verità. Non riesco nemmeno a rendere una minima parte di quel
fenomeno straordinario.
E una segreta rispondenza, un'affinità misteriosa era tra l'anima mia
e il paesaggio. L'imagine del bosco nelle acque degli stagni pareva infatti
l'imagine sognata della scena reale. Come nella poesia di Percy Shelley ciascuno
stagno pareva essere un breve cielo che s'ingolfasse in un mondo sotterraneo;
un firmamento di luce rosea, disteso su la terra oscura, più infinito
dell'infinita notte e più puro del giorno; dove gli alberi si sviluppavano
allo stesso modo che nell'aria superiore ma di forme e di tinte più perfetti
che qualunque altro di quelli in quel luogo ondeggianti. E vedute soavi, quali
non mai si videro nel nostro mondo di sopra, v'eran dipinte dall'amor dell'acque
per la bella foresta; e tutta la lor profondità era penetrata d'un chiarore
elisio, d'un'atmosfera senza mutamento, d'un vespro più dolce che quel
di sopra.
Da che lontananza del tempo era venuta a noi quell'ora?
Andavamo al passo, nel silenzio. I rari gridi delle gazze, l'andatura e il
respiro dei cavalli non turbavano la tranquillità che pareva di minuto
in minuto farsi più grande e più magica.
Perché volle egli rompere la magia da noi stessi generata?
Egli parlò; egli mi versò sul cuore un'onda di parole ardenti,
folli, quasi insensate, che in quel silenzio degli alberi mi sbigottivano poiché prendevano
qualche cosa di non umano, qualche cosa d'indefinibilmente strano e affascinante.
Non fu umile e sommesso come nel parco; non mi disse le sue speranze timide
e scorate, le sue aspirazioni quasi mistiche, le sue tristezze incurabili;
non pregò, non implorò. Egli aveva la voce della passione, audace
e forte; una voce ch'io non gli conosceva.
- Voi mi amate, voi mi amate; voi non potete non amarmi! Ditemi che mi amate!
Il suo cavallo camminava rasente al mio. Ed io mi sentivo da lui sfiorare;
e credevo anche di sentire su la guancia il suo alito, l'ardore delle sue parole;
e credevo di venir meno per il grande orgasmo e di cadergli fra le braccia.
- Ditemi che mi amate! - egli ripeteva, ostinatamente, senza pietà.
- Ditemi che mi amate!
Nella terribile esasperazione datami dalla sua voce incalzante, io credo che
dissi, non so se con un grido o con un singulto, fuori di me:
- Vi amo, vi amo, vi amo!
E spinsi il cavallo di carriera per la via appena tracciata nella densità de'
tronchi, non sapendo che facessi.
Egli mi seguiva gridandomi:
- Maria, Maria, fermatevi! Vi farete male...
Non mi fermai; non so come il mio cavallo evitò i tronchi; non so come
non caddi. Io non so ridire l'impressione che mi dava nella corsa la foresta
cupa interrotta dalle larghe macchie lucenti degli stagni. Quando infine uscii
su la strada, alla parte opposta, presso il ponte del Convito, mi sembrò escire
da un'allucinazione.
Egli mi disse, con un po' di violenza:
- Volevate uccidervi?
Udimmo il romore della carrozza avvicinarsi; e movemmo incontro. Egli voleva
ancóra parlarmi.
- Tacete, vi prego; per pietà! - implorai, poiché sentivo che
non avrei potuto regger più oltre.
Egli tacque. Poi, con una sicurezza che mi stupì, disse a Francesca:
- Peccato che tu non sia venuta! Era un incanto...
E seguitò a parlare, francamente, semplicemente, come se nulla fosse
accaduto; anzi con una certa gaiezza. E io gli ero grata della dissimulazione
che pareva mi salvasse, poiché certo, se avessi dovuto io parlare, mi
sarei tradita; e il silenzio d'ambedue sarebbe stato forse per Francesca sospetto.
Incominciò, dopo qualche tempo, la salita verso Schifanoja. Nella sera,
che immensa malinconia! Il primo quarto della luna brillava in un ciel delicato,
un po' verde, ove i miei occhi, forse i miei occhi soltanto, vedevano ancóra
una lieve apparenza di roseo, del roseo che illuminava gli stagni, là giù,
nella foresta.
5 ottobre. - Egli ora sa che io l'amo; lo sa dalla mia bocca. Io non ho più scampo
che nella fuga. Ecco, dove son giunta.
Quando mi guarda, ha in fondo agli occhi un luccicore singolare che prima non
aveva. Oggi, in un minuto in cui Francesca non era presente, mi ha presa la
mano facendo l'atto di baciarmela. Io son riuscita a ritrarla; ed ho visto
le sue labbra agitate da un piccolo tremito; ho sorpreso su le sue labbra,
in un attimo, quasi direi la figura del bacio non iscoccato, un'attitudine
che m'è rimasta nella memoria e non mi va più via, non mi va
più via!
6 ottobre. - Il 25 di settembre, sul sedile di marmo, nel bosco degli àlbatri, egli mi disse: - Io so che voi non mi amate e che non potete amarmi. - E il 3 di ottobre: - Voi mi amate, voi mi amate, voi non potete non amarmi.
*
In presenza di Francesca, m'ha chiesto se gli permettevo di fare uno studio
delle mie mani. Ho consentito. Incomincerà oggi.
E io sono trepidante e ansiosa, come se dovessi prestar le mie mani a una tortura
sconosciuta.
Notte. - E' incominciata la lenta, soave, indefinibile tortura.
Disegnava a matita nera e a matita sanguigna. La mia mano destra posava sopra
un pezzo di velluto. Sul tavolo era un vaso coreano, giallastro e maculato
come la pelle d'un pitone; e nel vaso era un mazzo d'orchidee, di quei fiori
grotteschi e multiformi che son la ricercata curiosità di Francesca.
Talune, verdi, di quel verde, dirò così, animale che hanno
certe locuste, pendevano in forma di piccole urne etrusche, con il coperchio
un po' sollevato. Altre portavano in cima a uno stelo d'argento un fiore
a cinque petali con in mezzo un calicetto, giallo di dentro e bianco di fuori.
Altre portavano una piccola ampolla violacea e ai lati dell'ampolla due lunghi
filamenti; e facevano pensare a un qualche minuscolo re delle favole, assai
gozzuto, con la barba divisa in due trecce alla foggia orientale. Altre infine
portavano una quantità di fiori gialli, simili ad angelette in veste
lunga librate a volo con le braccia alte e con l'aureola dietro il capo.
Io le guardava, quando mi pareva di non poter più sostenere il supplizio;
e le loro forme rare mi occupavano un istante, mi suscitavano un ricordo fuggevole
de' paesi originali, mi mettevano nello spirito non so che momentaneo smarrimento.
Egli disegnava, senza parlare; i suoi occhi andavano di continuo dalle carte
alle mie mani; poi, due o tre volte, si sono rivolti al vaso. A un certo punto,
levandosi egli ha detto:
- Perdonatemi.
E ha preso il vaso e l'ha portato lontano, sopra un altro tavolo; non so perché.
Allora s'è messo a disegnare con maggior franchezza, come liberato da
un fastidio.
Io non so dire quel che i suoi occhi mi facevano provare. Mi pareva di non
offrire alla sua indagine una mano nuda, sì bene una parte nuda dell'anima;
e ch'egli me la penetrasse con lo sguardo sino al fondo, scoprendone tutti
i più riposti segreti. Non mai io aveva avuto della mia mano un tal
sentimento; non mai m'era parsa così viva, così espressiva, così intimamente
legata al mio cuore, così dipendente dalla mia interna esistenza, così rivelatrice.
Me l'agitava una vibrazione impercettibile ma continua, sotto l'influenza dello
sguardo; e la vibrazione si propagava insino all'intimo del mio essere. Talvolta
il fremito diveniva più forte e visibile; e, s'egli guardava con troppa
intensità, mi prendeva un moto istintivo di ritrarla; e talvolta il
moto era di pudore.
Talvolta egli rimaneva lungamente fiso, senza disegnare; ed io avevo l'impressione
che egli bevesse per le pupille qualche cosa di me o che mi accarezzasse con
una carezza più molle del velluto sul quale si posava la mia mano. Di
tratto in tratto, mentre stava chino sul foglio ad infondere forse nella linea
quel ch'egli aveva da me bevuto, un sorriso lievissimo gli passava su la bocca,
ma così lieve che appena io poteva coglierlo. E quel sorriso, non so
perché, mi dava a sommo del petto un tremolio di piacere. Ancóra,
due o tre volte, ho veduto riapparire su la sua bocca la figura del bacio.
Di tratto in tratto, la curiosità mi vinceva; e io domandavo: - Ebbene?
Francesca stava seduta al pianoforte, con le spalle rivolte a noi; e toccava
i tasti cercando di ricordarsi la Gavotta di Luigi Rameau, la Gavotta delle
dame gialle, quella che ho tanto sonata e che rimarrà come la memoria
musicale della mia villeggiatura a Schifanoja. Smorzava le note col pedale;
e s'interrompeva spesso. E le interruzioni dell'aria a me familiare e delle
cadenze, che l'orecchio compiva precorrendo, erano per me un'altra inquietudine.
D'improvviso, ella ha battuto forte un tasto, ripetutamente, come sotto l'urto
di un'impazienza nervosa; e s'è levata, ed e andata a chinarsi sul disegno.
L'ho guardata. Ho compreso.
Mancava ancóra quest'amarezza. Dio mi riserbava all'ultimo la prova
più crudele. Sia fatta la sua volontà.
7 ottobre. - Io non ho che un solo pensiero, un solo desiderio, un solo proposito:
partire, partire, partire.
Sono all'estremo delle forze. Io languo, io muoio del mio amore; e l'inaspettata
rivelazione moltiplica le mie mortali tristezze. Che pensa ella di me? Che
crede? Ella dunque lo ama? E da quando? Ed egli lo sa? O non ne ha pure un
sospetto?...
Mio Dio, mio Dio! La ragione mi si smarrisce, le forze mi abbandonano; il senso
della realità mi sfugge. A intervalli il mio dolore ha una pausa, simile
alle pause degli uragani quando le furie degli elementi si equilibrano in una
terribile immobilità per irrompere poi con più violenza. Io rimango
in una specie di stupefazione, con la testa pesante, con le membra stanche
e rotte come se qualcuno mi avesse battuta; e mentre il dolore si raccoglie
per darmi un nuovo assalto, io non riesco a raccogliere la mia volontà.
Che pensa ella di me? Che pensa? Che crede?
Esser disconosciuta da lei, dalla mia amica migliore, da quella che m'è più cara,
da quella a cui il mio cuore fu sempre aperto! E' la suprema amarezza; è la
prova più crudele riserbata da Dio a chi ha fatto del sacrificio la
legge della sua vita.
Bisogna che io le parli, prima di partire. Bisogna ch'ella sappia tutto da
me, ch'io sappia tutto da lei. Questo è il dovere.
Notte. - Ella, verso le cinque, m'ha proposto una passeggiata in carrozza
per la via di Rovigliano. Siamo andate sole, in una carrozza scoperta. Io pensava,
tremando: - Ora le parlerò. - Ma il tremito interno mi toglieva ogni
coraggio. Aspettava ella forse che io parlassi? Non so.
Siamo rimaste a lungo taciturne, ascoltando il trotto eguale de' due cavalli,
guardando gli alberi e le siepi che limitavano la via. Di tratto in tratto,
con una frase breve o con un cenno, ella mi faceva notare una particolarità del
paese autunnale.
Tutto l'umano incanto dell'Autunno si diffondeva in quell'ora. I raggi obliqui
del vespro accendevano per la collina la sorda e armoniosa ricchezza dei fogliami
prossimi a morire. Pel soffio costante del greco nella nuova luna, un'agonia
precoce prende gli alberi delle terre litoranee. L'oro, l'ambra, il croco,
il giallo di solfo, l'ocra, l'arancio, il bistro, il rame, il verderame, l'amaranto,
il paonazzo, la porpora, le tinte più disfatte, le gradazioni più violente
e più delicate si mescolavano in un accordo profondo che nessuna melodia
di primavera passerà mai di dolcezza.
Indicandomi un gruppo di robinie, ella ha detto: - Guarda se non sembrano fiorite!
Già secche, biancheggiavano d'un bianco un po' roseo, come grandi mandorli
di marzo, contro il cielo turchino che già pendeva nel cinerino.
Dopo un intervallo di silenzio, ho detto io, per cominciare: - Manuel verrà,
certo, sabato. Aspetto per domani il suo telegramma. E domenica partiremo,
col treno della mattina. Tu sei stata tanto buona con me, in questi giorni;
io ti son tanto grata...
La voce mi tremava, un poco; una immensa tenerezza mi gonfiava il cuore. Ella
m'ha presa la mano e l'ha tenuta nella sua, senza parlarmi, senza guardarmi.
E siamo rimaste a lungo taciturne, tenendoci per mano.
Ella m'ha chiesto: - Quanto tempo ti tratterrai da tua madre?
Io le ho risposto: - Sino alla fin dell'anno, spero; e forse più.
- Tanto tempo?
Di nuovo, abbiamo taciuto. Sentivo già che non avrei avuto il coraggio
di affrontare la spiegazione; ed anche sentivo ch'era men necessaria, ora.
Mi pareva ch'ella ora mi si riavvicinasse, m'intendesse, mi riconoscesse, diventasse
la mia sorella buona. La mia tristezza attraeva la sua tristezza, come la luna
attrae le acque del mare.
- Ascolta - ella ha detto; poiché veniva un canto di donne del paese,
un canto largo, spiegato, religioso, come un canto gregoriano.
Più oltre abbiam visto le cantatrici. Escivano da un campo di girasoli
secchi, camminando in fila, come una teoria sacra. E i girasoli in cima ai
lunghi steli sulfurei senza foglie portavano i larghi dischi non coronati di
petali né carichi di semi, ma somiglianti nella lor nudità ad
emblemi liturgici, a pallidi ostensorii d'oro.
La mia commozione è cresciuta. Il canto dietro di noi si dileguava nella
sera. Abbiamo attraversato Rovigliano dove già i lumi si accendevano;
poi siam di nuovo uscite nella strada maestra. Dietro di noi si dileguava il
suono delle campane. Un vento umido correva nelle cime degli alberi che mettevano
su la strada bianca un'ombra azzurrognola e nell'aria un'ombra direi quasi
liquida come in un'acqua.
- Non hai freddo? - ella m'ha chiesto; e ha ordinato al lacché di spiegare
un plaid e al cocchiere di voltare i cavalli pel ritorno.
Nel campanile di Rovigliano una campana rintoccava ancóra, con larghi
rintocchi, come per una solennità religiosa; e pareva propagare nel
vento con l'onda del suono un'onda di gelo. Per un sentimento concorde, noi
ci siamo strette l'una contro l'altra, tirandoci la coperta su i ginocchi,
comunicandoci il brivido a vicenda. E la carrozza entrava nel borgo, al passo.
- Che sarà quella campana? - ella ha mormorato, con una voce che non
pareva più la sua.
Ho risposto: - Se non m'inganno, esce il Viatico...
Più oltre, infatti, abbiamo visto il prete entrare in una porta mentre
un chierico teneva sollevato l'ombrello e due altri tenevano le lanterne accese,
diritti contro gli stipiti, su la soglia. In quella casa una sola finestra
era illuminata, la finestra del cristiano che agonizzava aspettando l'Olio
Santo. Ombre tenui apparivano sul chiarore; si disegnava lievissimamente su
quel rettangolo di luce gialla tutto il dramma silenzioso che si muove intorno
a chi sta per entrare nella morte.
Uno de' due servi ha chiesto a bassa voce, chinandosi un poco dall'alto: -
Chi muore? - L'interrogato ha risposto un nome di donna, nel suo dialetto.
E io avrei voluto attenuare il romor delle ruote su i ciottoli, avrei voluto
rendere tacito il nostro passaggio in quel luogo ov'era per passare il soffio
d'uno spirito. Francesca, certo, aveva lo stesso sentimento.
La carrozza ha raggiunta la strada di Schifanoja, riprendendo il trotto. La
luna, cerchiata di aloni, splendeva come un opale in un latte diafano. Una
catena di nuvole sorgeva dal mare e si svolgeva a poco a poco in forma di globi,
come un fumo volubile. Il mare mosso copriva col suo rombo tutti gli altri
romori. Non mai, penso, una più grave tristezza strinse due anime.
Io ho sentito su le mie gote fredde un tepore, e mi son rivolta a Francesca
per vedere s'ella si fosse accorta che piangevo. Ho incontrati i suoi occhi
pieni di pianto. E siam rimaste mute, l'una accanto all'altra, con la bocca
serrata, stringendoci le mani, sapendo di piangere per lui; e le lacrime scendevano
a goccia a goccia, silenziosamente.
In vicinanza di Schifanoja, io ho asciugate le mie; ella, le sue. Ciascuna
nascondeva la propria debolezza.
Egli era, con Delfina, con Muriella e con Ferdinando, ad attenderci nell'atrio.
Perché ho provato in fondo al cuore, verso di lui, un senso vago di
diffidenza, come se un istinto mi avvertisse d'un oscuro danno? Quali dolori
mi riserba l'avvenire? Potrò io sottrarmi alla passione che m'attira
abbacinandomi?
Pure, quanto bene mi hanno fatto quelle poche lacrime! Mi sento meno oppressa,
meno riarsa, più fidente. E provo una tenerezza indicibile nel ripetere
da me sola l'Ultima Passeggiata, mentre Delfina dorme felice di tutti i folli
baci che le ho dati nella faccia e mentre sorridono su' vetri le malinconie
della luna che dianzi mi ha vista piangere.
8 ottobre. - Questa notte ho dormito? Ho vegliato? Io non so dirlo.
Oscuramente, a traverso il mio cervello, come ombre spesse, guizzavano terribili
pensieri, imagini di dolore insostenibili; e il mio cuore aveva urti e sussulti
improvvisi, e io mi ritrovava con gli occhi aperti nelle tenebre, senza sapere
se uscivo da un sogno o se fino allora ero stata desta a pensare e a imaginare.
E questa specie di dubbio dormiveglia, assai più torturante dell'insonnio,
durava, durava, durava.
Nondimeno, quando ho udita la voce matutina di mia figlia chiamarmi, non ho
risposto; ho finto di dormire profondamente, per non levarmi, per rimanere
ancóra là, per temporeggiare, per allontanare ancóra un
poco da me l'inesorabile certezza delle realità necessarie. Le torture
del pensiero e dell'imaginazione mi parevano pur sempre men crudeli delle torture
imprevedibili che in questi due ultimi giorni mi prepara la vita.
Dopo poco, Delfina è venuta in punta di piedi, trattenendo il respiro,
a guardarmi; e ha detto a Dorothy, con una voce mossa da un gentile tremito:
- Come dorme! Non la svegliamo.
Notte. - Mi pare di non aver più una goccia di sangue nelle vene.
Mentre salivo le scale mi pareva che, ad ogni sforzo per superare un gradino,
il sangue e la vita mi fuggissero da tutte le vene aperte. Sono debole come
una morente...
Coraggio, coraggio! ancóra poche ore rimangono; Manuel giungerà domattina;
partiremo domenica; lunedì saremo da mia madre.
Ho reso, dianzi, a lui due o tre libri che mi aveva prestati.
Nel libro di Percy Shelley, alla fine d'una strofa, ho inciso con l'unghia
due versi e ho messo un segnale visibile alla pagina. I versi dicono:
« And forget me, for I can never
Be thine! »
« E dimenticami, perché io non posso mai esser tua! »
9 ottobre, notte. - Tutto il giorno, tutto il giorno egli ha cercato un momento
per parlarmi. La sua sofferenza era manifesta. E tutto il giorno io ho cercato
di sfuggirgli, perché egli non mi gittasse nell'anima altri semi di
dolore, di desiderio, di rimpianto, di rimorso. Ho vinto; sono stata forte
ed eroica. Vi ringrazio, mio Dio!
Questa è l'ultima notte. Domattina partiremo. Tutto sarà finito.
Tutto sarà finito? Una voce mi parla, nel profondo; e io non comprendo,
ma so che mi parla di sciagure lontane, ignote eppure inevitabili, misteriose
eppure inesecrabili come la morte. L'avvenire è lugubre, come un campo
pieno di fosse già scavate e pronte per ricevere cadaveri; e sul campo
qua e là ardono pallidi fanali ch'io appena scorgo; e non so se ardano
per attrarmi nel pericolo o per mostrarmi una via di salvezza.
Ho riletto il Giornale, attentamente, lentamente, dal 15 di settembre, dal
giorno ch'io giunsi. Quanta differenza da quella prima notte a quest'ultima!
Io scriveva: « Mi sveglierò in una casa amica, nella cordiale
ospitalità di Francesca, in questa Schifanoja che ha rose così belle
e cipressi così grandi; e mi sveglierò avendo innanzi a me qualche
settimana di pace, venti giorni d'esistenza spirituale, forse più... » Ahimè,
dov'è andata la pace? E le rose, così belle, perché sono
state anche così perfide? Troppo, forse, ho aperto il cuore ai profumi,
incominciando da quella notte, su la loggia, mentre Delfina dormiva. Ora la
luna d'ottobre allaga il cielo; e io vedo a traverso i vetri le punte dei cipressi,
nere e immutabili, che in quella notte toccavano le stelle.
Una sola frase di quel preludio io posso ripetere in questa fine trista. « Tanti
capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel mio destino. » Le spighe
si moltiplicano, s'inalzano, ondeggiano come un mare; e non è anche
estratto dalle miniere il ferro per foggiar la falce.
Io parto. Che accadrà di lui, quando io sarò lontana? Che accadrà di
Francesca?
Il mutamento di Francesca è pur sempre incomprensibile, inesplicabile; è un
enigma che mi tortura e mi confonde. Ella lo ama! E da quando? Ed egli lo sa?
Anima mia, confessa la nuova miseria. Un'altra infezione ti avvelena. Tu sei
gelosa.
Ma io son preparata ad ogni più atroce sofferenza; io so il martirio
che mi aspetta; io so che i supplizi di questi giorni non son nulla al confronto
dei supplizi prossimi, della terribile croce a cui i miei pensieri legheranno
l'anima mia per divorarla. Io son preparata. Chiedo soltanto una tregua, o
Signore, una breve tregua per le ore che rimangono. Avrò bisogno di
tutta la mia forza, domani.
Come stranamente, nelle diverse vicende della vita, talvolta le circostanze
esterne si rassomigliano, si riscontrano! Stasera, nella sala del vestibolo,
mi pareva d'esser tornata alla sera del 16 settembre, quando cantai e sonai;
quando egli incominciò ad occuparmi. Anche stasera io sedeva al pianoforte;
e la stessa luce cupa illuminava la sala e nella stanza attigua Manuel e il
marchese giocavano; ed ho sonato la Gavotta delle dame gialle, quella che piace
tanto a Francesca, quella che il 16 settembre udii ripetere mentre vegliavo
nelle prime vaghe inquietudini notturne.
Certe dame biondette, non più giovini ma appena escite di giovinezza,
vestite d'una smorta seta color d'un crisantemo giallo, la danzano con cavalieri
adolescenti, vestiti di roseo, un po' svogliati; i quali portano nel cuore
l'imagine d'altre donne più belle, la fiamma d'un nuovo desio. E la
danzano in una sala troppo vasta, che ha tutte le pareti coperte di specchi;
la danzano sopra un pavimento intarsiato d'amaranto e di cedro, sotto un gran
lampadario di cristallo dove le candele stanno per consumarsi e non si consumano
mai. E le dame hanno nelle bocche un poco appassite un sorriso tenue ma inestinguibile;
e i cavalieri hanno negli occhi un tedio infinito. E un oriuolo a pendolo segna
sempre un'ora; e gli specchi ripetono ripetono ripetono sempre le stesse attitudini;
e la Gavotta continua, continua, continua, sempre dolce, sempre piana, sempre
eguale, eternamente, come una pena.
Quella malinconia m'attira.
Non so perché, la mia anima tende a quella forma di supplizio; è sedotta
dalla perpetuità d'un dolore unico, dalla uniformità, dalla monotonia.
Accetterebbe volentieri per tutta la vita una gravezza enorme, ma definita
e immutabile, invece della mutabilità, delle imprevedibili vicende,
delle imprevedibili alternative. Pur essendo abituata alla sofferenza, ha paura
dell'incerto, teme le sorprese, teme gli urti improvvisi. Senza esitare un
istante, in questa notte accetterebbe qualunque più grave condanna di
dolore a patto d'essere assicurata contro gli ignoti agguati dell'avvenire.
Mio Dio, mio Dio, da che mi viene una paura così cieca? Assicuratemi
voi! Metto la mia anima nelle vostre mani.
E ora basta questo tristo vaneggiare che pur troppo addensa l'angoscia invece
di alleviarla. Ma io so già che non potrò chiudere gli occhi
sebbene mi dolgano.
Egli, certo, non dorme. Quando io sono venuta su, egli, invitato, stava per
prendere il posto del marchese al tavolo del giuoco, di fronte a mio marito.
Giocano ancóra? Forse egli pensa e soffre, giocando. Quali saranno i
suoi pensieri? Quale sarà la sua sofferenza?
Non ho sonno, non ho sonno. Vado su la loggia. Voglio sapere se giocano ancóra;
o s'egli è tornato nelle sue stanze. Le sue finestre sono all'angolo,
nel secondo piano.
*
La notte è lucida e umida. La sala del giuoco è illuminata;
e io son rimasta là, su la loggia, lungamente, a guardare in giù verso
il chiarore che si rifletteva contro un cipresso mescendosi al chiarore della
luna. Tremo tutta. Io non so ridire l'impressione quasi tragica che mi fanno
quelle finestre illuminate, dietro le quali i due uomini giocano, l'uno di
fronte all'altro, nel gran silenzio della notte appena interrotto dai singhiozzi
spenti dal mare. E giocheranno forse fino all'alba, s'egli vorrà compiacere
la terribile passione di mio marito. Saremo in tre a vegliare fino all'alba,
senza requie, per la passione.
Ma che pensa egli? Qual è la sua tortura? Io non so che darei, in questo
momento, per poterlo vedere, per poter restare fino all'alba a guardarlo, anche
a traverso i vetri, nell'umidità della notte, tremando come tremo. I
pensieri più folli mi balenano dentro e mi abbagliano, rapidi, confusi;
ho come un principio di cattiva ebrezza; provo come una instigazione sorda
a far qualche cosa d'audace e d'irreparabile; sento come il fascino della perdizione.
Mi toglierei, sento, dal cuore questo peso enorme, mi toglierei dalla gola
questo nodo che mi soffoca, se ora, nella notte, nel silenzio, con tutte le
forze dell'anima io mi mettessi a gridare che l'amo, che l'amo, che l'amo."
Libro terzo
I
Alla partenza dei Ferres seguì dopo pochi giorni la partenza degli
Ateleta e dello Sperelli per Roma. Donna Francesca volle abbreviare la sua
villeggiatura a Schifanoja, contro il solito.
Andrea, dopo una breve sosta a Napoli, giunse a Roma il 24 ottobre, una domenica,
con la prima gran pioggia mattutina d'autunno. Rientrando nel suo appartamento
della casa Zuccari, nel prezioso e delizioso buen retiro, provò un piacere
straordinario. Gli parve di ritrovare in quelle stanze qualche parte di sé,
qualche cosa che gli mancava. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Tutto,
intorno, conservava ancóra, per lui, quella inesprimibile apparenza
di vita che acquistano gli oggetti materiali tra mezzo a cui l'uomo ha lungamente
amato, sognato, goduto e sofferto. La vecchia Jenny e Terenzio avevano preso
cura delle minime particolarità; Stephen aveva preparato con alta squisitezza
il comfort pel ritorno del signore.
Pioveva. Per qualche tempo, egli rimase con la fronte contro i vetri della
finestra a guardare la sua Roma, la grande città diletta, che appariva
in fondo cinerea e qua e là argentea tra le rapide alternative della
pioggia spinta e respinta dal capriccio del vento in un'atmosfera tutta egualmente
grigia, ove ad intervalli si diffondeva un chiarore, sùbito dopo spegnendosi,
come un sorridere fugace. La piazza della Trinità de' Monti era deserta,
contemplata dall'obelisco solitario. Gli alberi del viale lungo il muro che
congiunge la chiesa alla Villa Medici, si agitavano già seminudi, nerastri
e rossastri al vento e alla pioggia. II Pincio ancóra verdeggiava, come
un'isola in un lago nebbioso.
Egli, guardando, non aveva un pensiero determinato ma un confuso viluppo di
pensieri; e gli occupava l'anima un sentimento soverchiante ogni altro: il
pieno e vivace risveglio del suo vecchio amore per Roma, per la dolcissima
Roma, per l'immensa augusta unica Roma, per la città delle città,
per quella ch'è sempre giovine e sempre novella e sempre misteriosa,
come il mare.
Pioveva, pioveva. Sul Monte Mario il cielo si oscurava, le nuvole si addensavano,
diventavano d'un color ceruleo cupo d'acqua raccolta, si dilatavano verso il
Gianicolo, si abbassavano sul Vaticano. La cupola di San Pietro toccava con
la sommità quella enorme adunazione e pareva sostenerla, simile a una
gigantesca pila di piombo. Tra le innumerevoli righe oblique dell'acqua si
avanzava piano un vapore, a similitudine d'un velo tenuissimo che passasse
a traverso corde d'acciaio tese e continuamente vibranti. La monotonia del
croscio non era interrotta da alcun altro strepito più vivo.
- Che ora è? - chiese egli a Stephen, volgendosi.
Erano le nove, circa. Egli si sentiva un po' stanco. Pensò di mettersi
a dormire. Poi, anche, pensò di non veder nessuno, nella giornata, e
di passar la sera a casa in raccoglimento. Ricominciava per lui la vita di
città, la vita mondana. Egli voleva, prima di riprendere quel vecchio
esercizio, darsi a una piccola meditazione e a una piccola preparazione, stabilire
una regola, discutere seco medesimo qual dovesse essere la condotta futura.
Ordinò a Stephen:
- Se viene qualcuno a chiedere di me, ditegli che non sono ancóra tornato.
Avvisate il portiere. Avvisate James che non ho più bisogno di lui oggi
ma che venga a prendere gli ordini questa sera. Fatemi preparare la colazione
per le tre, leggerissima, e il pranzo per le nove. Niente altro.
S'addormentò quasi sùbito. Alle due, il domestico lo svegliò;
e gli annunzio che prima di mezzogiorno era venuto il duca di Grimiti, avendo
saputo dalla marchesa d'Ateleta il ritorno.
- Ebbene?
- Il signor duca ha lasciato detto che sarebbe tornato di sera.
- Piove ancóra? Aprite interamente gli scuri.
Non pioveva più. Il cielo s'era rischiarato. Una zona di sole pallido
entrò nella stanza, diffondendosi su l'arazzo della Vergine col bambino
Gesù e Stefano Sperelli, su l'antico arazzo che Giusto portò di
Fiandra nel 1508. E gli occhi di Andrea vagarono per le pareti, lentamente,
riguardando le tappezzerie fini, le tinte armoniose, le figure pie ch'erano
state testimoni di tanti piaceri e avevano sorriso ai lieti risvegli ed anche
avevan reso men tristi le vigilie del ferito. Tutte quelle cose note ed amate
parevano dargli un saluto. Egli le riguardava con un diletto singolare. L'imagine
di Donna Maria gli sorse nello spirito.
Si sollevò un poco su i guanciali, accese una sigaretta, e si mise a
seguire il corso dei pensieri, con una specie di voluttà. Un benessere
insolito gli occupava le membra, e lo spirito era in una felice disposizione.
Egli mesceva le sue fantasie alle onde del fumo, in quella luce temperata ove
i colori e le forme prendevano una vaghezza più blanda.
Spontaneamente, i suoi pensieri non risalivano verso i giorni scorsi ma andavano
all'avvenire. - Egli avrebbe riveduta Donna Maria, fra due, fra tre mesi, chi
sa? forse anche assai prima; ed avrebbe allora riallacciato quell'amore che
chiudeva per lui tante oscure promesse e tante segrete attrazioni. Sarebbe
stato il vero secondo amore, con la profondità e la dolcezza e la tristezza
d'un secondo amore. Donna Maria Ferres pareva essere, per un uomo d'intelletto,
l'Amante Ideale, l'Amie avec des hanches, secondo l'espressione di Carlo Baudelaire,
la Consolatrix unica, quella che conforta e perdona sapendo perdonare. Certo,
segnando nel libro dello Shelley i due versi dolenti, ella aveva dovuto in
cuor suo ripetere altre parole; e, leggendo tutto intero il poema, aveva dovuto
piangere come la Dama magnetica e pensar lungamente alla pietosa cura, alla
miracolosa guarigione. « I can never be thine! » Perché mai?
Con troppa angoscia di passione, quel giorno, nel bosco di Vicomìle,
ella aveva risposto: - Vi amo, vi amo, vi amo!
Egli ancóra udiva la voce di lei, l'indimenticabile voce. Ed Elena Muti
gli entrò ne' pensieri, si avvicinò all'altra, si confuse con
l'altra, evocata da quella voce; e a poco a poco gli volse i pensieri ad imagini
di voluttà. Il letto dov'egli riposava e tutte le cose intorno, testimoni
e complici delle ebrezze antiche, a poco a poco gli andavano suggerendo imagini
di voluttà. Curiosamente, nella sua imaginazione egli cominciò a
svestire la senese, ad involgerla del suo desiderio, a darle attitudini di
abbandono, a vedersela tra le braccia, a goderla. Il possesso materiale di
quella donna così casta e così pura gli parve il più alto,
il più nuovo, il più raro godimento a cui potesse egli giungere;
e quella stanza gli parve il luogo più degno ad accogliere quel godimento,
perché avrebbe reso più acuto il singolar sapore di profanazione
e di sacrilegio che il segreto atto, secondo lui, doveva avere.
La stanza era religiosa, come una cappella. V'erano riunite quasi tutte le
stoffe ecclesiastiche da lui possedute e quasi tutti gli arazzi di soggetto
sacro. Il letto sorgeva sopra un rialto di tre gradini, all'ombra d'un baldacchino
di velluto controtagliato, veneziano, del secolo XVI, con fondo di argento
dorato e con ornamenti d'un color rosso sbiadito a rilievi d'oro riccio; il
quale in antico doveva essere un paramento sacro, poiché il disegno
portava inscrizioni latine e i frutti del Sacrifizio: l'uva e le spiche. Un
piccolo arazzo fiammingo, finissimo, intessuto d'oro di Cipro, raffigurante
un'Annunciazione, copriva la testa del letto. Altri arazzi, con le armi gentilizie
di casa Sperelli nell'ornato, coprivano le pareti, limitati alla parte superiore
e alla parte inferiore da strisce in guisa di fregi su cui erano ricamate istorie
della vita di Maria Vergine e gesta di martiri, d'apostoli, di profeti. Un
paliotto, raffigurante la Parabola delle vergini sagge e delle vergini folli,
e due pezzi di pluviale componevano la tappezzeria del caminetto. Alcuni preziosi
mobili di sacrestia, in legno scolpito, del secolo XV, compivano il pio addobbo,
insieme con alcune maioliche di Luca della Robbia e con seggioloni ricoperti
nella spalliera e nel piano da pezzi di dalmatiche raffiguranti i fatti della
Creazione. Da per tutto poi, con un gusto pieno d'ingegnosità, erano
adoperate a uso di ornamento e di comodo altre stoffe liturgiche: borse da
calice, borse battesimali, copricàlici, pianete, manipoli, stole, stoloni,
conopei. Su la tavola del caminetto, come su la tavola di un altare, splendeva
un gran trittico di Hans Memling, una Adorazione dei Magi, mettendo nella stanza
la radiosità d'un capolavoro.
In certe iscrizioni tessute ricorreva il nome di Maria tra le parole della
Salutazione Angelica; e in più parti la gran sigla M era ripetuta; in
una, era anzi a ricamo di perle e di granati. - Entrando in questo luogo -
pensava il delicato addobbatore - non crederà ella d'entrare nella sua
Gloria? - E si compiacque a lungo nell'imaginar la istoria profana in mezzo
alle istorie sacre; e ancóra una volta il senso estetico e la raffinatezza
della sensualità soverchiarono e falsarono in lui il sentimento schietto
ed umano dell'amore.
Stephen batté all'uscio, dicendo:
- Mi permetto di avvertire il signor conte che son già le tre.
Andrea si levò; e passò nella camera ottagonale, per abbigliarsi.
Il sole entrava a traverso le tendine di merletto, facendo scintillare all'ingiro
le mattonelle arabo-ispane, gli innumerevoli oggetti d'argento e di cristallo,
i bassi rilievi del sarcofago antico. Quei luccicori varii mettevano nell'aria
una mobile gaiezza. Egli si sentiva allegro, perfettamente guarito, pieno di
vitalità. Il ritrovarsi nel suo home gli dava una letizia inesprimibile.
Tutto ciò ch'era in lui più fatuo, più vano, più mondano,
si risvegliava all'improvviso. Pareva che le cose circonstanti avessero virtù di
suscitare in lui l'uomo d'un tempo. La curiosità, l'elasticità,
l'ubiquità spirituali riapparivano. Egli già incominciava ad
aver bisogno di espandersi, di rivedere amici, di rivedere amiche, di godere.
S'accorse d'aver molto appetito; ordinò al domestico di servirgli la
colazione.
Egli pranzava di rado a casa; ma, per le occasioni straordinarie, per qualche
fino luncheon d'amore o per qualche piccola cena galante, aveva una camera
ornata delle tappezzerie napolitane d'alto liccio, del secolo XVIII, che Carlo
Sperelli ordinò al reale arazziere romano Pietro Duranti nel 1766, su
disegni di Girolamo Storace. I sette pezzi delle pareti rappresentavano, con
una certa copiosa magnificenza alla Rubens, episodii d'amore bacchici; e le
portiere, le sopraporte, le soprafinestre rappresentavano frutta e fiori. Gli
ori pallidi e fulvi, predominanti, e le carni perlate e i cinabri e gli azzurri
cupi facevano un accordo morbido e nudrito.
- Quando tornerà il duca di Grimiti - disse egli al domestico - lo farete
entrare.
Anche là il sole, declinante verso Monte Mario, mandava raggi. Si udiva
lo strepito delle carrozze su la piazza della Trinità de' Monti. Pareva
che, dopo la pioggia, si fosse diffusa su Roma tutta la luminosa biondezza
dell'ottobre romano.
- Aprite le imposte - disse al domestico.
E lo strepito divenne più forte; entrò l'aria tepida; le tende
ondeggiarono appena.
- Divina Roma! - egli pensò, guardando il cielo tra le alte tende. E
una curiosità irresistibile lo trasse alla finestra.
Roma appariva d'un color d'ardesia molto chiaro, con linee un po' indecise,
come in una pittura dilavata, sotto un cielo di Claudio Lorenese, umido e fresco,
sparso di nuvole diafane in gruppi nobilissimi, che davano ai liberi intervalli
una finezza indescrivibile, come i fiori dànno al verde una grazia nuova.
Nelle lontananze, nelle alture estreme l'ardesia andavasi cangiando in ametista.
Lunghe e sottili zone di vapori attraversavano i cipressi del Monte Mario,
come capigliature fluenti in un pettine di bronzo. Prossimi, i pini del Monte
Pincio alzavano gli ombrelli dorati. Su la piazza l'obelisco di Pio VI pareva
uno stelo d'àgata. Tutte le cose prendevano un'apparenza più ricca,
a quella ricca luce autunnale.
- Divina Roma!
Egli non sapeva saziarsi dello spettacolo. Guardò passare una torma
di chierici rossi, di sotto alla chiesa; poi, la carrozza d'un prelato, nera,
con due cavalli neri dalle code prolisse; poi, altre carrozze, scoperte, che
portavano signore e bimbi. Riconobbe la principessa di Ferentino con Barbarella
Viti; poi, la contessa di Lùcoli che guidava due poneys seguita dal
suo cane danese. Un soffio dell'antica vita gli passò su lo spirito
e lo turbò e gli diede un'agitazione di desiderii indeterminati.
Si ritrasse e si rimise a tavola. D'innanzi a lui il sole accendeva i cristalli
e accendeva su la parete una saltazione di satiri intorno a un Sileno.
Il domestico annunziò:
- Il signor duca con due altri signori.
Ed entrarono il duca di Grimiti, Ludovico Barbarisi e Giulio Musèllaro,
mentre Andrea si levava per farsi loro incontro. Tutt'e tre, l'un dopo l'altro,
lo abbracciarono.
- Giulio! - esciamò lo Sperelli, rivedendo l'amico dopo due anni e più.
- Da quanto sei a Roma?
- Da una settimana. Volevo scriverti da Schifanoja, ma poi ho preferito aspettare
che tu tornassi. Come stai? Ti trovo un po' dimagrato, ma bene. Soltanto qui
a Roma ho saputo del tuo caso; altrimenti mi sarei partito dall'India per venirti
ad assistere. Ai primi di maggio, mi trovavo in Padmavati, nel Bahar. Quante
cose t'ho da raccontare!
- E quante, anch'io!
Si strinsero di nuovo le mani, cordialmente. Andrea pareva lietissimo. Questo
Musèllaro gli era caro sopra tutti gli altri amici, per la sua nobile
intelligenza, per il suo spirito acuto, per la finezza della sua cultura.
- Ruggero, Ludovico, sedete. Giulio, siedi qui.
Egli offerse le sigarette, il tè, i liquori. La conversazione si fece
vivissima. Ruggero Grimiti e il Barbarisi davano le notizie di Roma, facevano
la piccola cronaca. Il fumo saliva nell'aria tingendosi ai raggi quasi orizzontali
del sole; le tappezzerie s'armonizzavano in un color caldo e pastoso; l'aroma
del tè si mesceva all'odor del tabacco.
- T'ho portato un sacco di tè - disse il Musèllaro allo Sperelli
- assai migliore di quello che beveva il tuo famoso Kien-Lung.
- Ah, ti ricordi, a Londra, quando componevamo il tè, secondo la teoria
poetica del grande Imperatore?
- Sai - disse il Grimiti. - E' a Roma Clara Green, la bionda. La vidi domenica
per Villa Borghese. Mi riconobbe, mi salutò, e fece fermare la carrozza.
Abita, per ora, all'Albergo d'Europa, in piazza di Spagna. E' ancóra
bella. Ti ricordi che passione ebbe per te e come ti perseguitò, quando
tu eri innamorato della Landbrooke? Sùbito, mi chiese le tue notizie
prima delle mie...
- La rivedrò volentieri. Ma si veste ancóra di verde e si mette
sul cappello i girasoli?
- No, no. Ha abbandonato l'esteticismo per sempre, a quanto pare. S'è gettata
alle piume. Domenica, portava un gran cappello alla Montpensier con una piuma
favolosa.
- Quest'anno - disse il Barbarisi - abbiamo una straordinaria abbondanza di
demi-mondaines. Ce ne sono tre o quattro a bastanza piacevoli. Giulia Arici
ha un bellissimo corpo e le estremità discretamente signorili. E' tornata
anche la Silva, che ier l'altro il nostro amico Musèllaro conquistò con
una pelle di pantera. E' tornata Maria Fortuna, ma in rotta con Carlo de Souza
che pel momento vien sostituito da Ruggero...
- La stagione è già dunque in fiore?
- Quest'anno, è precoce come non mai, per le peccatrici e per le impeccabili.
- Quali delle impeccabili sono già a Roma?
- Quasi tutte: la Moceto, la Viti, le due Daddi, la Micigliano, la Miano, la
Massa d'Albe, la Lùcoli...
- La Lùcoli, l'ho veduta dianzi, dalla finestra. Guidava. Ho veduta
anche tua cugina con la Viti.
- Mia cugina è qui fino a domani. Domani tornerà a Frascati.
Mercoledì darà una festa in villa, una specie di garden party,
alla maniera della principessa di Sagan. Non è prescritto il costume
rigoroso, ma tutte le dame porteranno cappelli Louis XV o Directoire. Andremo.
- Tu per ora non ti moverai da Roma; è vero? - chiese il Grimiti allo
Sperelli.
- Rimarrò sino ai primissimi di novembre. Poi andrò in Francia
per quindici giorni a rifornirmi di cavalli. E tornerò qui, verso la
fin del mese.
- A proposito, Leonetto Lanza vende Campomorto - disse Ludovico. - Tu lo conosci: è un
magnifico animale, e gran saltatore. Ti converrebbe.
- Per quanto?
- Per quindicimila, credo.
- Vedremo.
- Leonetto è prossimo alle nozze. Si è fidanzato, in questa estate,
a Aix-les-Bains, con la Ginosa.
- Mi dimenticavo di dirti - fece il Musèllaro - che Galeazzo Secìnaro
ti saluta. Siamo tornati insieme. Se ti raccontassi le gesta di Galeazzo, durante
il viaggio! Ora è a Palermo, ma verrà a Roma in gennaio.
- Ti saluta anche Gino Bommìnaco - aggiunse il Barbarisi.
- Ah, ah! - esclamò il duca, ridendo. - Andrea, bisogna che tu ti faccia
raccontare da Gino la sua avventura con Donna Giulia Moceto... Tu sei al caso,
io credo, di darci qualche spiegazione in proposito.
Anche Ludovico si mise a ridere.
- So - disse Giulio Musèllaro - che qui a Roma hai fatto stragi meravigliose.
Gratulor tibi!
- Ditemi, ditemi l'avventura - sollecitava Andrea, curiosamente.
- Bisogna sentirla da Gino, per ridere. Tu conosci la mimica di Gino. Bisogna
vedere la faccia ch'egli fa, quando arriva al punto culminante. E' un capolavoro!
- La sentirò anche da lui, - insisteva Andrea, punto dalla curiosità -
ma accennami qualche cosa; ti prego.
- Ecco, in due parole - consentì Ruggero Grimiti, posando sul tavolo
la tazza, e accingendosi a raccontar la storiella, senza scrupoli e senza reticenze,
con quella stupenda facilità con cui i giovini gentiluomini publicano
i peccati delle loro e delle altrui dame. - Nella primavera scorsa (non so
se tu l'abbia notato) Gino faceva a Donna Giulia una corte ardentissima, assai
visibile. Alle Capannelle, la corte si mutò in flirtation assai vivace.
Donna Giulia era sul punto di capitolare; e Gino, al solito, era tutto in fiamme.
L'occasione si presentò. Giovanni Moceto partì per Firenze, a
portare i suoi cavalli slombati sul turf delle Cascine. Una sera, una sera
dei soliti mercoledì, anzi dell'ultimo mercoledì, Gino pensò che
il gran momento era giunto; e aspettò che tutti a uno a uno se ne andassero
e che il salone rimanesse vuoto e ch'egli finalmente rimanesse solo, con lei...
- Qui - interruppe il Barbarisi - ci vorrebbe ora Bommìnaco. E' inimitabile.
Bisogna sentirgli fare, in napoletano, la descrizione dell'ambiente, e l'analisi
del suo stato, e poi la riproduzione del momento psicologico e del fisiologico,
com'egli dice, alla sua maniera. E' d'una comicità irresistibile.
- Dunque - seguitò Ruggero - dopo il preludio, che sentirai da lui,
nel languore e nell'eccitazione erotica d'una fin de soirée, egli s'inginocchiò d'innanzi
a Donna Giulia che stava seduta su una poltrona molto bassa, su una poltrona « imbottita
di complicità » . Donna Giulia già naufragava nella dolcezza,
difendendosi debolmente; e le mani di Gino divenivano sempre più temerarie,
mentre ella già esalava il sospiro della dedizione... Ahimè,
dall'estrema temerità le mani si ritrassero con un moto istintivo come
se avessero toccato la pelle d'una serpe, una cosa repugnante...
Andrea ruppe in uno scoppio di risa così schietto che l'ilarità si
propagò a tutti gli amici. Egli aveva compreso, perché sapeva.
Ma Giulio Musèllaro disse, con gran premura, al Grimiti:
- Spiegami! Spiegami!
- Spiega tu - disse il Grimiti allo Sperelli.
- Ecco, - spiegò Andrea, ancóra ridendo - conosci tu la più bella
poesia di Teofilo Gautier, il Musée secret?
- O douce barbe féminine! - recitò il Musellaro, ricordandosi.
- Ebbene?
- Ebbene, Giulia Moceto è una finissima bionda; ma se tu avessi la fortuna,
che ti auguro, di tirare le drap de la blonde qui dort, certo non troveresti,
come Filippo di Borgogna, il toson d'oro. Ella è, dicono, sans plume
et sans duvet come i marmi di Paro che canta il Gautier.
- Ah, una rarissima rarità che io apprezzo molto - disse il Musèllaro.
- Una rarità che noi sappiamo apprezzare - ripeté Andrea. Ma
Gino Bommìnaco è un ingenuo, un semplice.
Ascolta, ascolta il resto - fece il Barbarisi.
- Ah se ci fosse qui l'eroe! - esclamò il duca di Grimiti. - La storiella
in un'altra bocca perde tutto il sapore. Figurati dunque che la sorpresa fu
tanta e tanta la confusione, da spegnere ogni fuoco. Gino dovette ritirarsi
prudentemente, per l'impossibilità assoluta d'andar più oltre.
Te l'imagini? T'imagini tu la terribile mortificazione d'un uomo che, essendo
giunto ad ottener tutto, non può prender nulla? Donna Giulia era verde;
Gino fingeva di tender l'orecchio ai rumori, per temporeggiare, sperando...
Ah, il racconto della ritirata è una meraviglia. Altro che Anabasi!
Sentirai.
- E Donna Giulia è poi divenuta l'amante di Gino? - domandò Andrea.
- Mai! Il povero Gino non mangerà mai di quel frutto; e credo che ne
morrà di rammarico, di desiderio, di curiosità. Si sfoga a riderne,
con gli amici; ma tu osservalo bene, quando racconta. Sotto la buffoneria c'è la
passione.
- Bel soggetto per una novella - disse Andrea al Musèllaro. Non ti pare?
Una novella intitolata L'Ossesso... Si potrebbe fare una cosa assai fine e
intensa. L'uomo, continuamente occupato, incalzato, angustiato dalla visione
fantastica di quella rara forma ch'egli ha toccata e quindi imaginata ma non
goduta né con gli occhi vista, si consuma di passione a poco a poco
e diventa folle. Egli non può togliersi dalle dita l'impressione di
quel contatto; ma il primo ribrezzo istintivo gli si muta in un ardore inestinguibile...
Si potrebbe insomma, sul fondo reale, lavorar d'arte: ottener qualche cosa
come un racconto di un Hoffmann erotico, scritto con la precisione plastica
d'un Flaubert.
- Pròvati.
- Chi sa! Del resto, io compiango il povero Gino. La Moceto ha, dicono, il
più bel ventre della Cristianità...
- Mi piace quel « dicono » - interruppe Ruggero Grimiti.
- ...il ventre d'una Pandora infeconda, una coppa d'avorio, uno scudo raggiante,
speculum voluptatis; e il più perfetto ombelico che si conosca, un piccolo
ombelico circonflesso, come nelle terre cotte di Clodion, un puro suggello
di grazia, un occhio cieco ma più splendido di un astro, voluptatis
ocellus, da celebrarsi in un epigramma degno dell'Antologia greca.
Andrea si eccitava, in quei discorsi. Secondato dagli amici, entrò in
un dialogo delle bellezze delle donne assai men castigato di quello del Firenzuola.
Si risvegliavano in lui, dopo la lunga astinenza, le sensualità antiche;
ed egli parlava con un calore intimo e profondo, da gran conoscitor del nudo,
compiacendosi delle parole più colorite, sottilizzando come un artista
e come un libertino. E, in verità, il dialogo di quei quattro giovini
signori tra quelle dilettose tappezzerie bacchiche, se fosse stato raccolto,
avrebbe potuto ben essere il Breviarium arcanum della corruzione elegante in
questa fine del XIX secolo.
Il giorno moriva; ma l'aria era ancóra pregna di luce, ritenendo la
luce come una spugna ritiene l'acqua. Si vedeva, per la finestra, all'orizzonte
una striscia aranciata su cui i cipressi del Monte Mario si disegnavan netti
come i denti d'un gran rastrello d'ebano. Si udivano di tratto in tratto i
gridi delle cornacchie trasvolanti in gruppi a riunirsi su i tetti della Villa
Medici per discender poi nella Villa Borghese, nella piccola valle del sonno.
- Che fai tu stasera? - chiese ad Andrea il Barbarisi.
- Veramente, non so.
- Vieni allora con noi. Per le otto abbiamo un pranzo dai Doney, al Teatro
Nazionale. Inauguriamo il nuovo Restaurant, anzi i cabinets particuliers del
nuovo Restaurant, dove almeno non dovremo rassegnarci, dopo le ostriche, allo
scoprimento afrodisiaco della Giuditta e della Bagnante, come al Caffè di
Roma. Pepe academico su ostriche finte...
- Vieni con noi, vieni con noi - sollecitò Giulio Musèllaro.
- Siamo noi tre - aggiunse il duca - con Giulia Arici, con la Silva e con Maria
Fortuna. Ah, una bellissima idea! Vieni con Clara Green.
- Bellissima idea! - ripeté Ludovico.
- E dove trovo io Clara Green?
- All'Albergo d'Europa, qui accanto, in piazza di Spagna. Un tuo biglietto
la renderà felice. Sii certo che lascerà qualunque impegno.
Ad Andrea piacque la proposta.
- Sarà meglio - disse - ch'io vada a farle una visita. E' probabile
ch'ella sia rientrata. Non ti pare, Ruggero?
- Vèstiti, e usciamo sùbito.
Uscirono. Clara Green era rientrara da poco all'albergo. Accolse Andrea con
una gioia infantile. Ella, certo, avrebbe preferito di pranzar sola con lui;
ma accettò l'invito senza esitare; scrisse un biglietto per liberarsi
da un impegno anteriore; mandò a un'amica la chiave d'un palco. Ella
pareva felice. Si mise a raccontargli una quantità di sue storie sentimentali;
gli fece una quantità di domande sentimentali; gli giurò ch'ella
non aveva mai potuto dimenticarlo. Parlava, tenendo le mani di lui nelle sue.
- I love you more than any words can say, Andrew...
Ella era ancor giovine. Con quel suo profilo puro e diritto, coronato dai capelli
biondi, divisi su la fronte in un'acconciatura bassa, pareva una bellezza greca
in un keepsake. Aveva una certa incipriatura estetica, lasciatale dall'amor
del poeta pittore Adolphus Jeckyll; il quale seguiva in poesia John Keats e
in pittura l'Holman Hunt, componendo oscuri sonetti e dipingendo soggetti presi
alla Vita nuova. Ella aveva « posato » per una Sibylla palmifera
e per una Madonna del Giglio. Aveva anche « posato » , una volta,
innanzi ad Andrea, per uno studio di testa da servire all'acquaforte dell'Isabetta
nella novella del Boccaccio. Era dunque nobilitata dall'arte. Ma, in fondo,
non possedeva alcuna qualità spirituale; anzi, a lungo andare, la rendeva
un po' stucchevole quel certo sentimentalismo esaltato che non di rado s'incontra
nelle donne di piacere inglesi e che fa uno strano contrasto con le depravazioni
della loro lascivia.
- Who would have thought we should stand again together, Andrew!
Dopo un'ora, Andrea la lasciò e risalì al palazzo Zuccari, per
la scaletta che dalla piazza Mignanelli porta alla Trinità. Giungeva
alla scaletta solitaria il rumore della città nella sera mite di ottobre.
Le stelle riscintillavano in un cielo umido e terso. Di sotto alla casa dei
Casteldelfino, a traverso un piccolo cancello, le piante in un chiarore misterioso
agitavano ombre vaghe, senza un fruscìo, come piante marine fluttuanti
in fondo a un aquario. Dalla casa, da una finestra con le tendine rosse illuminate,
veniva il suono d'un pianoforte. Le campane della chiesa rintoccarono. Egli
si sentì d'improvviso pesare il cuore. Un ricordo di Donna Maria lo
riempì, d'improvviso; e gli suscitò in confuso un senso di rammarico
e quasi di pentimento. - Che faceva ella in quell'ora? Pensava? Soffriva? -
Con l'imagine della senese gli si affacciò alla memoria la vecchia città toscana:
il Duomo bianco e nero, la Loggia, la Fonte. Una grave tristezza l'occupò.
Gli parve che qualche cosa dal fondo del suo cuore si fosse involato; ed egli
non sapeva bene qual fosse, ma n'era afflitto come d'una perdita irrimediabile.
Ripensò al proposito suo della mattina. - Una sera in solitudine, nella
casa dove ella forse un giorno sarebbe venuta; una sera malinconica ma dolce,
in compagnia dei ricordi e dei sogni, in compagnia dello spirito di lei; una
sera di meditazione e di raccoglimento! - In verità, il proposito non
poteva meglio esser tenuto. Egli stava per recarsi a un pranzo di amici e di
donne; e, senza dubbio, avrebbe passata la notte con Clara Green.
Il pentimento gli fu così insoffribile, gli diede tale tortura, ch'egli
si abbigliò con insolita prontezza, saltò nel coupé e
si fece condurre all'albergo, prima dell'ora. Trovò Clara già pronta.
Le offerse un giro in coupé per le vie di Roma, durante il tempo che
mancava alle otto.
Passarono per la via del Babuino, intorno l'obelisco nella piazza del Popolo,
quindi su pel Corso e a destra per la via della Fontanella di Borghese; ritornarono
per Montecitorio al Corso fino alla piazza di Venezia e quindi su al Teatro
Nazionale. Clara cinguettava di continuo, e di tratto in tratto si chinava
verso il giovine per mettergli un mezzo bacio su l'angolo della bocca, coprendo
l'atto furtivo con un ventaglio di piume bianche d'onde esciva un profumo di
white-rose assai fine. Ma Andrea pareva non ascoltasse e all'atto di lei sorrideva
appena.
- Che pensi? - gli chiese ella, pronunciando le parole italiane con un poco
d'incertezza ch'era una grazia.
- Nulla - rispose Andrea, prendendole una mano non ancóra inguantata
e guardando gli anelli.
- Chi lo sa! - sospirò ella, dando un'espressione singolare a que' tre
monosillabi che le donne straniere imparano sùbito; ne' quali esse credono
sia racchiusa tutta la malinconia dell'amore italiano. - Chi lo sa!
Poi soggiunse, con un accento quasi supplichevole:
- Love me this evening, Andrew!
Andrea le baciò un orecchio, le passò un braccio intorno al busto,
le disse una quantità di cose sciocche, cambiò umore. Il Corso
era popoloso, le vetrine splendevano, i venditori di giornali strillavano,
vetture publiche e signorili s'incrociavano col coupé, dalla piazza
Colonna alla piazza di Venezia si spandeva tutta l'animazione serale della
vita di Roma.
Quando entrarono dai Doney, le otto erano passate di dieci minuti. Gli altri
sei commensali erano già presenti. Andrea Sperelli salutò la
compagnia e, portando per mano Clara Green, disse:
- Ecce Miss Clara Green, ancilla Domini, Sibylla palmifera, candida puella.
- Ora pro nobis - risposero in coro il Musèllaro, il Barbarisi e il
Grimiti. Le donne risero, ma senza capire. Clara sorrise; e, fuor del mantello,
appariva in abito bianco, semplice, corto, con una scollatura a punta sul petto
e su le spalle, con un nastro verdemare su l'omero sinistro, con due smeraldi
agli orecchi, disinvolta sotto il triplice esame di Giulia Arici, di Bébé Silva
e di Maria Fortuna.
Il Musèllaro e il Grimiti la conoscevano. Il Barbarisi le fu presentato.
Andrea diceva:
- Mercedes Silva, nominata Bébé, chica pero guapa.
- Maria Fortuna, la bella Talismano, che è una vera Fortuna publica...
per questa Roma che ha la fortuna di possederla.
Quindi, volgendosi al Barbarisi:
- Fateci voi l'onore di presentarci a quella dama, che, se non m'inganno, è la
divina Giulia Farnese.
- No: Arici - interruppe Giulia.
- Chiedo perdono, ma per crederlo ho bisogno di raccogliere tutta la mia buona
fede e di consultare il Pinturicchio nella Sala Quinta.
Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, dilettandosi ad empir di stupefazione
o d'irritazione la dolce ignoranza di quelle oche belle. Aveva, quando si trovava
nel demi-monde, una sua maniera e un suo stile particolari. Per non annoiarsi,
si metteva a compor frasi grottesche, a gittar paradossi enormi, atroci impertinenze
dissimulate con l'ambiguità delle parole, sottigliezze incomprensibili,
madrigali enigmatici, in una lingua originale, mista come un gergo, di mille
sapori come un'olla podrida rabelesiana, carica di spezie forti e di polpe
succulente. Nessuno meglio di lui sapeva raccontare una novelletta grassa,
un aneddoto scandaloso, una gesta da Casanova. Nessuno, nella descrizione d'una
cosa di voluttà, sapeva meglio di lui trovare la parola lubrica ma precisa
e possente, la vera parola di carne e d'ossa, la frase piena di midolla sostanziale,
la frase che vive e respira e palpita come la cosa di cui ritrae la forma,
comunicando all'uditor degno un piacere duplice, un godimento non pur dell'intelletto
ma dei sensi, una gioia simile in parte a quella che producono certe pitture
dei grandi maestri coloristi, impastate di porpora e di latte, bagnate come
nella transparenza d'un'ambra liquida, impregnate d'un oro caldo e inestinguibilmente
luminoso come un sangue immortale.
- Chi è il Pinturicchio? - domandò Giulia Arici al Barbarisi.
- Il Pinturicchio? - esclamò Andrea. - Un superficiale riquadratore
di stanze, che qualche tempo fa ebbe la fantasia di dipingervi sopra una porta,
nell'appartamento del papa. Non ci pensate più. E' morto.
- Ma come?...
- Oh, in una maniera spaventevole! La moglie era l'amante d'un soldato di Perugia,
che stava di guarnigione a Siena... Domandatene a Ludovico. Egli sa tutto;
ma non ve n'ha mai parlato, per tema d'affliggervi. Bébé, ti
avverto che il principe di Galles a tavola comincia a fumare tra il secondo
e il terzo piatto; non prima. Tu anticipi alquanto.
La Silva aveva accesa una sigaretta; e inghiottiva le ostriche mentre il fumo
le usciva dalle narici. Ella somigliava un collegiale senza sesso, un piccolo
ermafrodito vizioso: pallida, magra, con gli occhi avvivati dalla febbre e
dal carbon, con la bocca troppo rossa, con i capelli corti, lanosi, un po'
ricci, che le coprivano la testa a guisa d'un caschetto d'astrakan. Teneva
incastrata nell'occhiaia sinistra una lente rotonda; portava un alto solino
inamidato, la cravatta bianca, il panciotto aperto, una giacca nera di taglio
maschile, una gardenia all'occhiello, affettando le maniere d'un dandy, parlando
con una voce rauca. E attirava, tentava, per quella impronta di vizio, di depravazione,
di mostruosità, ch'era nel suo aspetto, nelle sue attitudini, nelle
sue parole. Sal y pimienta.
Maria Fortuna invece aveva il tipo un po' bovino, era una Madame de Parabère,
tendente alla pinguedine. Come la bella amante del Reggente possedeva una carne
bianca, d'una bianchezza opaca e profonda, una di quelle carni instancabili
e insaziabili su cui Ercole avrebbe potuto compiere la sua impresa d'amore,
la sua tredicesima fatica, senza sentirsi chieder tregua. E gli occhi le nuotavano,
molli viole, in un'ombra alla Cremona e la bocca sempre socchiusa mostrava
in un'ombra rosata un luccicor vago di madreperla, come una conchiglia socchiusa.
Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli, per quel suo color dorato, sul quale
s'aprivano due lunghi occhi di velluto, d'un morbido velluto castagno che talvolta
prendeva riflessi quasi fulvi. Il naso un po' carnoso e le labbra tumide, fresche,
sanguigne, dure, le formavano nel basso del viso un'espressione d'aperta lascivia,
resa ancor più vivace dall'irrequietudine della lingua. I canini, essendo
troppo forti, le sollevavano gli angoli della bocca; e, come gli angoli così sollevati
si facevano aridi o le davano forse un lieve fastidio, ella ad ogni tratto
con la punta della lingua li inumidiva. E si vedeva ad ogni tratto scorrere
per la chiostra dei denti quella punta, come la foglia bagnata d'una rosa grassa
per una fila di piccole mandorle nude.
- Julia, - disse Andrea Sperelli, guardandole la bocca - san Bernardino ha
per voi in un suo sermone un epiteto meraviglioso. E anche questo non sapete,
voi!
L'Arici si mise a ridere, d'un riso ebete ma bellissimo, che le scopriva un
poco le gengive; e nell'agitazione ilare usciva da lei un profumo più acuto
come quando viene scosso un cespuglio.
- Che mi date - soggiunse Andrea - che mi date in compenso se, estraendo dal
sermone del santo quella parola voluttuosa, come da un tesoro teologale una
pietra afrodisiaca, io ve la offro?
- Non so - rispose l'Arici, sempre ridendo e tenendo tra le dita a bastanza
fini e lunghette un bicchiere con vin di Chablis. - Quel che volete.
- Il sostantivo dell'adjettivo.
- Che dite?
- Ne discorreremo. La parola è: linguatica. Messer Ludovico, aggiugnete
alle vostre litanie questa appellazione: « Rosa linguatica, glube nos. »
- Peccato - disse il Musèllaro - che tu non sia alla mensa di un duca
del secolo XVI, tra una Violante e una Imperia, con Giulio Romano, con Pietro
Aretino e con Marc'Antonio!
La conversazione andavasi accendendo nei vini, nei vecchi vini di Francia,
fluidi e ardenti, che dànno ali e fiamme al verbo. Le maioliche non
eran durantine, istoriate dal cavalier Cipriano dei Piccolpasso, né le
argenterie eran quelle milanesi di Ludovico il Moro; ma neppure erano troppo
volgari. Nel mezzo della tavola un vaso di cristallo azzurro conteneva un gran
mazzo di crisantemi gialli, bianchi, violacei, su cui si posavano gli occhi
malinconici di Clara Green.
- Clara, - chiese Ruggero Grimiti - siete triste? A che pensate?
- A' ma chimère! - rispose l'antica amante di Adolphus Jeckyll, sorridendo;
e chiuse il sospiro nel cerchio d'un bicchiere colmo di Sciampagna.
Quel vino chiaro e brillante, che ha su le donne una virtù così pronta
e così strana, già incominciava ad eccitare variamente i cervelli
e le matrici di quelle quattro etàire ineguali, a risvegliare e a stimolare
in loro il piccolo dèmone isterico e a farlo correre per tutti i loro
nervi propagando la follia. Bébé Silva gittava motti orribili,
ridendo d'un riso soffocato e convulso e quasi singhiozzante come quel d'una
donna che sia per morir di solletico. Maria Fortuna schiacciava i fondants
col gomito nudo e li offeriva per niente, premendo poi su la bocca di Ruggero
il gomito dolcificato. Giulia Arici, oppressa dai madrigali dello Sperelli,
si turava gli orecchi con le belle mani, abbandonandosi alla spalliera; e la
sua bocca, in quell'atto, attirava i morsi come un frutto sugoso.
- Hai mangiato mai - diceva il Barbarisi allo Sperelli - certe confetture di
Costantinopoli, morbide come una pasta, fatte di bergamotto, di fiori d'arancio
e di rose, che profumano l'alito per tutta la vita? La bocca di Giulia è una
confettura orientale.
- Ti prego, Ludovico, - diceva lo Sperelli - lasciamela provare. Conquistami
Clara Green e cedimi Giulia per una settimana. Clara anche ha un sapore originale:
un giulebbe di violette di Parma tra due biscotti Peek-Frean alla vainiglia...
- Attenti, signori! - gridò Bébé Silva, prendendo un fondant.
Ella aveva vista la piacevolezza di Maria Fortuna e aveva fatta la scommessa
ginnica di mangiarsi un fondant sul suo proprio gomito tirandoselo fin presso
alle labbra. Per eseguire il giuoco, si scoprì il braccio: un braccio
magro e pallido, sparso di lanugine scura; appiccicò il fondant all'osso
acuto; e, stringendosi con la mano sinistra l'antibraccio destro e facendo
forza, riuscì a vincere la scommessa, con l'abilita d'un clown, tra
gli applausi.
- E questo è niente - disse ella ricoprendosi la nudità spetrale.
- Chica pero guapa; è vero, Musellaro?
Ed accese la decima sigaretta.
L'odor del tabacco era così delizioso che tutti vollero fumarne. L'astuccio
della Silva passò, di mano in mano. Maria Fortuna lesse ad alta voce
su l'argento smaltato dell'astuccio:
- « Quia nominor Bébé. »
Allora tutte desiderarono d'avere un motto, un'impresa da mettere su i fazzoletti,
su la carta da lettere, su le camicie. La cosa parve loro molto aristocratica,
sommamente elegante.
- Chi mi trova un motto? - esclamò l'antica amante di Carlo de Souza.
- Lo voglio latino.
- Io - disse Andrea Sperelli. - Eccolo: « Semper parata. »
- No.
- « Diu saepe fortiter. »
- Che vuol dire?
- E che t'importa di saperlo? Basta che sia latino. Eccone un altro, magnifico: « Non
timeo dona ferentes. »
- Mi piace poco. Non m'è nuovo...
- E allora, questo: « Rarae nates cum gurgite vasto. »
- E' troppo comune. Lo leggo tante volte nelle cronache dei giornali...
Ludovico, Giulio, Ruggero ridevano in coro, sonoramente. Il fumo delle sigarette
si spandeva su le teste formando leggeri nimbi azzurrognoli. A intervalli veniva
dall'orchestra del Teatro un'onda di suoni, nell'aria calda; e faceva cantarellare
Bébé. Clara Green sfogliava nel suo piatto i crisantemi, in silenzio,
poiché il vin bianco e leggiero le si era convertito nelle vene in un
languor triste. Per quelli che già la conoscevano, un tal sentimentalismo
bacchico non era nuovo; e il duca di Grimiti si divertiva a provocarne l'effusione.
Ella non rispondeva, seguitando a sfogliare nel piatto i crisantemi e stringendo
le labbra, quasi per trattenere il pianto. Come Andrea Sperelli si curava poco
di lei e si dava ad una pazza allegria di atti e di parole, meravigliando perfino
i suoi compagni di piacere, ella disse con una voce supplichevole, tra il coro
delle altre voci:
- Love me to-night, Andrew!
E da allora in poi, quasi ad intervalli misurati, levando di sul piatto lo
sguardo ceruleo, si mise a supplicare languidamente:
- Love me to-night, Andrew!
- O che lagno! - fece Maria Fortuna. - Ma che significa? Si sente male?
Bébé Silva fumava, beveva bicchierini di vieux cognac e diceva
cose enormi, con una vivacità artifiziale. Ma aveva, a quando a quando,
momenti di stanchezza, di prostrazione, stranissimi, ne' quali pareva che qualche
cosa le cadesse dal volto e che nella sua figura sfrontata e oscena entrasse
non so qual piccola figura triste, miserevole, malata, pensierosa, più vecchia,
della vecchiezza d'una bertuccia tisica che si ritragga in fondo alla sua gabbia
a tossire dopo aver fatto ridere la gente. Erano momenti fuggevoli. Ella si
riscoteva per bere un altro sorso o per dire un'altra enormità.
E Clara Green a ripetere:
- Love me to-night, Andrew!
II
Così, d'un balzo, Andrea Sperelli si rituffò nel Piacere.
Per quindici giorni lo occuparono Giulia Arici e Clara Green. Poi partì per
Parigi e per Londra, in compagnia del Musèllaro. Tornò a Roma
verso la metà di dicembre; trovò la vita invernale già molto
mossa; fu sùbito ripreso nel gran cerchio mondano.
Ma egli non s'era mai trovato in una disposizion di spirito più inquieta,
più incerta, più confusa; non aveva mai provato dentro di sè uno
scontento più molesto, un malessere più importuno; né mai
aveva provato contro di sé medesimo impeti d'ira e moti di disgusto
più crudeli. Talvolta, in qualche stanca ora di solitudine, egli si
sentiva salire dalle profonde viscere l'amarezza, come una nausea improvvisa;
e rimaneva là ad assaporarla, torpidamente, senza aver la forza di cacciarla
fuori, con una specie di rassegnazione cupa, come un malato che abbia perduta
ogni fiducia di guarire e sia disposto a vivere del suo proprio male, a raccogliersi
nella sua sofferenza, a profondarsi nella sua miseria mortale. Gli pareva che
di nuovo l'antica lebbra gli si dilatasse per l'anima e di nuovo il cuore gli
si vuotasse per non riempirsi più mai, come un otre forato, irreparabilmente.
Il senso di questa vacuità, la certezza di questa irreparabilità gli
movevano talvolta una specie di collera disperata e poi un disprezzo folle
di sé medesimo, del suo volere, delle ultime sue speranze, degli ultimi
suoi sogni. Egli era giunto a un terribile momento, incalzato dalla vita inesorabile,
dall'implacabile passione della vita; era giunto al momento supremo della salvezza
o della perdizione, al momento decisivo in cui i grandi cuori rivelano tutta
la loro forza e i piccoli cuori tutta la loro viltà. Egli si lasciò sopraffare;
non ebbe il coraggio di salvarsi con un atto volontario; pur essendo in balia
del dolore, ebbe paura d'un dolore più virile; pur essendo travagliato
dal disgusto, ebbe paura di rinunziare a ciò che lo disgustava; pur
avendo in sé vivo e spietato l'istinto del distacco dalle cose che più parevano
attrarlo, ebbe paura di allontanarsi da quelle cose. Egli si lasciò abbattere;
abdicò intieramente e per sempre alla sua volontà, alla sua energia,
alla sua dignità interiore; sacrificò per sempre quel che gli
rimaneva di fede e d'idealità; si gittò nella vita, come in una
grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell'occasione, dell'attimo
felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all'accozzo fortuito
delle cagioni. Ma, mentre egli credeva con questa specie di fatalismo cinico
mettere un argine alla sofferenza e conquistare se non la calma almeno l'ottusità in
lui di continuo la sensibilità al dolore diveniva più acuta,
le facoltà di soffrire si moltiplicavano, i bisogni e i disgusti aumentavano
senza fine. Egli esperimentava ora la profonda verità delle parole che
aveva dette un giorno a Maria Ferres, in un momento di confidenza e di malinconia
sentimentali: - Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia stato
al mondo uomo men felice di me. - Egli esperimentava ora la verità di
quelle parole dette in un momento assai dolce, quando gli illuminava l'anima
l'illusione di una seconda giovinezza, il presentimento d'una nuova vita.
Eppure, quel giorno, parlando a quella creatura, egli era stato sincero come
non mai; egli aveva espresso il suo pensiero con ingenuità e candore,
come non mai. Perché, in un soffio, tutto s'era dileguato, tutto era
svanito? Perché non aveva saputo egli nutrire quella fiamma nel suo
cuore? Perché non aveva saputo custodire quella memoria e tenere quella
fede? La sua legge era dunque la mutabilità; il suo spirito aveva l'inconsistenza
d'un fluido; tutto in lui si trasformava e si difformava, senza tregua; la
forza morale gli mancava intieramente; il suo essere morale si componeva di
contraddizioni; l'unità, la semplicità, la spontaneità gli
sfuggivano; a traverso il tumulto, la voce del dovere non gli giungeva più;
la voce del volere veniva soverchiata da quella degli istinti; la conscienza,
come un astro senza luce propria, ad ogni tratto si eclissava. Tale era stato
sempre; tale sarebbe stato sempre. Perché, dunque, combattere contro
sé medesimo? Cui bono?
Ma appunto codesta lotta era una necessità della sua vita; appunto codesta
irrequietudine era una condizione essenziale della sua esistenza; appunto codesta
sofferenza era una condanna a cui non avrebbe egli potuto sottrarsi giammai.
Qualunque tentativo di analisi su sé medesimo si risolveva in una maggiore
incertezza, in una maggiore oscurità. Essendo egli interamente sfornito
di forza sintetica, la sua analisi diveniva un crudele giuoco distruttore.
E da un'ora di riflessione su sé medesimo egli usciva confuso, disfatto,
disperato, perduto.
Quando, la mattina del 30 dicembre, nella via dei Condotti, inaspettatamente,
si rincontrò con Elena Muti, egli ebbe una commozione inesprimibile,
come d'innanzi al compiersi d'un fato meraviglioso, come se il riapparir di
quella donna in quel momento tristissimo della sua vita avvenisse per virtù d'una
predestinazione ed ella gli fosse inviata per soccorso ultimo o per ultimo
danno nel naufragio oscuro. Il primo moto dell'anima sua fu di ricongiungersi
a lei, di riprenderla, di riconquistarla, di ripossederla tutta quanta, come
un tempo, di rinnovare la passione antica con tutte le ebrezze e tutti gli
splendori. Il primo moto fu di giubilo e di speranza. Poi, senza indugio, risorsero
la diffidenza e il dubbio e la gelosia; senza indugio, l'occupò la certezza
che nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della
felicità morta, riprodurre sol un baleno dell'ebrezza spenta, sol un'ombra
dell'illusione sparita.
Ella era venuta, ella era venuta! Era rientrata nel luogo dove ogni cosa per
lei custodiva un ricordo e aveva detto: - Io non sono più tua, non potrò essere
tua più mai. - Aveva gridato, contro di lui: - Soffriresti tu di spartire
con altri il mio corpo? - Proprio, aveva osato gridar quelle parole, contro
di lui, in quel luogo, in conspetto di quelle cose!
Un dolore atroce, enorme, fatto di mille punture l'una dall'altra distinte
e l'una più dell'altra acute, lo tenne per qualche tempo e l'esasperò.
La passione lo riavvolse con mille fuochi, suscitandogli un inestinguibile
ardore carnale per quella donna non più sua, risvegliandogli nella memoria
tutte le più minute particolarità dei godimenti lontani, le imagini
di tutte le carezze, di tutte le attitudini di lei nel piacere, di tutte le
folli mescolanze che non saziavano né appagavano mai la loro brama di
continuo rinascente. E pur sempre, in ogni sua imaginazione, persisteva quella
strana difficoltà a ricongiungere l'Elena d'una volta all'Elena d'ora.
Mentre i ricordi del possesso lo accendevano e lo torturavano, la certezza
del possesso gli sfuggiva: l'Elena d'ora gli pareva una donna nuova, non mai
goduta, non mai stretta. Il desiderio gli diede tali spasimi ch'egli credé morirne.
L'impurità l'infettò come un tossico.
L'impurità, che allora la fiamma alata dell'anima velava d'un velo sacro
e circondava d'un mistero quasi divino, appariva ora senza il velo, senza il
mistero della fiamma, come una lascivia interamente carnale, come una libidine
bassa. Ed egli sentiva che quel suo ardore non era l'Amore e che non aveva
più nulla di comune con l'Amore. Non era l'Amore. Ella gli aveva gridato:
- Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo? - Ebbene, sì, egli
l'avrebbe sofferto!
Egli l'avrebbe presa, senza ripugnanza, così come veniva, contaminata
dall'abbraccio di un altro; avrebbe messa la sua carezza su la carezza di un
altro; avrebbe premuto il suo bacio sul bacio di un altro.
Nulla più, nulla più, dunque, in lui rimaneva intatto. Anche
il ricordo della grande passione si corrompeva miseramente, si bruttava, s'avviliva,
in lui. L'ultimo barlume di speranza era estinto. Infine, egli toccava il fondo,
per non rialzarsi mai più.
Ma una orribile smania l'invase, di atterrare l'idolo che rimanevagli pur sempre
alzato ed enigmatico d'innanzi. Con una cinica crudeltà egli si mise
a scalzarlo, ad oscurarlo, a corroderlo. L'analisi distruggitrice, ch'egli
già aveva esperimentata su se medesimo, gli servì contro di Elena.
A tutte le interrogazioni del dubbio, che un tempo egli aveva voluto sfuggire,
ora cercò una risposta; di tutti i sospetti, che un tempo apparivano
e si dileguavano senza lasciar traccia, ora studiò l'origine, ritrovò la
giustificazione, ottenne la conferma. Egli credeva di trovare un sollievo in
questa disgraziata opera d'abbattimento; e aumentava la sua sofferenza, irritava
il suo male, allargava le sue macchie.
Quale era stata la cagion vera della partenza di Elena, nel marzo del 1885?
- Molte dicerie eran corse in quel tempo e nel tempo del matrimonio di lei
con Humphrey Heathfield. La verità era una sola. Egli la seppe da Giulio
Musèllaro, per caso, in mezzo a chiacchiere inconcludenti, una sera,
uscendo da un teatro; e non ne dubitò. Donna Elena Muti era partita
per affari di finanza, per combinare « un'operazione » che doveva
trarla da gravissimi imbarazzi pecuniarii causati dalla sua eccessiva prodigalità.
Il matrimonio con Lord Heathfield l'aveva salvata da una rovina. Questo Heathfield,
marchese di Mount Edgcumbe e conte di Bradford, possedeva ricchezze considerevoli
ed era alleato con la più alta nobiltà britanna. Donna Elena
aveva saputo far le sue cose con molto accorgimento; aveva saputo escir dal
pericolo con un'abilità straordinaria. Certo, i suoi tre anni di vedovanza
non parevano essere stati un casto intermezzo preparatorio alle seconde nozze.
Non casto e neanche cauto. Ma, senza dubbio, Donna Elena era una gran donna...
- Ah, mio caro, una gran donna! - ripeté Giulio Musèllaro. -
tu lo sai bene.
Andrea tacque.
- Ma non ti consiglio di riavvicinarti - soggiunse l'amico, gittando via la
sigaretta che tra una chiacchiera e l'altra gli si era spenta. - Riaccendere
un amore è come riaccendere una sigaretta. Il tabacco s'invelenisce;
l'amore, anche. Andiamo a prendere da una tazza di tè dalla Moceto?
M'ha detto che si può andare lei dopo il teatro: non è mai tardi.
Erano sotto il palazzetto Borghese.
- Va tu - disse Andrea. - Io torno a casa, a dormire. La caccia d'oggi m'ha
un po' stancato. Salutami Donna Giulia. Comprends et prends.
Il Musèllaro salì. Andrea seguitò giù per la Fontanella
di Borghese e per i Condotti, verso la Trinità. Era una notte di gennaio
fredda e serena, una di quelle prodigiose notti iemali che fanno di Roma una
città d'argento chiusa in una sfera di diamante. La luna piena, a mezzo
del cielo, versava la triplice purezza della luce, del gelo e del silenzio.
Egli camminava, sotto la luna, come un sonnambulo, non avendo conscienza che
del suo dolore. L'ultimo colpo era dato; l'idolo crollava; nulla più rimaneva
su la gran rovina; tutto così finiva, per sempre. - Ella, dunque, veramente
non l'aveva mai amato. Senza esitare, aveva troncato l'amore per provvedere
a un dissesto. Senza esitare, aveva concluso un matrimonio utile. Ora, d'innanzi
a lui, prendeva un'attitudine di martire, si avvolgeva in un velo di sposa
inviolabile! - Un riso amaro gli saliva dal fondo; e poi una collera sorda
gli si mosse contro la donna e l'accecò. I ricordi della passione non
valsero. Tutte le cose di quel tempo gli apparvero come un solo inganno, enorme
e crudele, come una sola menzogna; e quest'uomo che dell'inganno e della menzogna
s'era fatto nella vita un abito, quest'uomo che aveva ingannato e mentito tante
volte, si sentì, al pensiero dell'altrui frode, offendere, sdegnare,
disgustare come da una colpa imperdonabile, come da una mostruosità inescusabile,
ed anche inesplicabile. Egli non giungeva infatti a spiegarsi come Elena avesse
potuto commettere un tal delitto; e, pur non giungendovi, non le concedeva
alcuna giustificazione, non accoglieva il dubbio che una qualche altra segreta
cagione l'avesse spinta alla fuga subitanea. Egli non sapeva vedere che l'azione
brutale, la bassezza, la volgarità: la volgarità, sopra tutto,
cruda, aperta, odiosa, non attenuata da nessuna contingenza. Insomma, si trattava
di questo: una passione, che pareva sincera ed era giurata altissima, inestinguibile,
veniva ad essere interrotta da un affar di denaro, da una utilità materiale,
da un negozio.
« Ingrato! Ingrato! Che sai tu di quel ch'è accaduto, di quel ch'io
ho sofferto? Che sai? » Le parole di Elena gli tornarono nella memoria,
precise; tutte le parole di lei, dal principio alla fine del colloquio tenuto
innanzi al caminetto, gli tornarono nella memoria: le parole di tenerezza, le
offerte di fraternità, tutte quelle frasi sentimentali. Ed egli ripensò anche
alla lacrima che le avea velato gli occhi, alle mutazioni del volto, al tremito,
alla voce soffocata dell'addio quando egli le aveva posato su le ginocchia il
fascio delle rose. - Perché mai aveva ella consentito a venir nella casa?
Perché aveva voluto recitar quella parte, provocar quella scena, ordire
quel nuovo dramma o quella nuova comedia? Perché?
Era giunto alla sommità della scala, nella piazza deserta. La bellezza
della notte gli diede, d'improvviso, un'aspirazione vaga ma affannosa verso
un Bene sconosciuto; l'imagine di Donna Maria gli attraversò lo spirito;
il cuore gli palpitò forte, come all'urto d'un desiderio; gli balenò il
pensiero di tener le mani di Donna Maria nelle sue, di piegare sul cuor di
lei la fronte e di sentirsi da lei consolare senza parole, pietosamente. Quel
bisogno di pietà, di rifugio, di compianto fu come l'ultimo tratto dell'anima
che non si rassegnava a perire. Egli chinò il capo e rientrò nella
casa, senza più volgersi a guardare la notte.
Terenzio l'aspettava, nell'anticamera, e lo seguì fin nella stanza da
letto, dove il fuoco era acceso. Domandò:
- Il signor conte va a letto sùbito?
- No, Terenzio. Portami il tè - rispose il signore, sedendosi innanzi
al camino e tendendo le palme verso la fiamma.
Egli tremava, d'un piccolo tremito nervoso. Aveva pronunziate quelle parole
con una strana dolcezza; aveva chiamato a nome il domestico; gli aveva dato
del tu.
- Ha freddo il signor conte? - domandò Terenzio, con una premura affettuosa,
incoraggiato dalla benevolenza del signore.
E si chinò su gli alari a ravvivare il fuoco, aggiungendo altre legne.
Egli era un vecchio servo di casa Sperelli; aveva servito il padre di Andrea
per molti anni; e la sua devozione pel giovine giungeva sino all'idolatria.
Nessuna creatura umana gli pareva più bella, più nobile, più sacra.
Egli apparteneva, in verità, a quella ideal razza che fornisce i servi
fedeli ai romanzi d'avventura o di sentimento. Ma, a differenza de' servi romanzeschi,
parlava di rado, non dava consigli, non d'altro s'occupava che d'obedire.
- Va bene così - disse Andrea, cercando di vincere il tremito convulso,
accostandosi al fuoco.
La presenza del vecchio, in quella cattiva ora, lo commoveva singolarmente.
Era una commozione simile in parte alla debolezza che, in presenza d'una persona
buona, prende gli uomini prima dei suicidio. Non mai, come in quell'ora, il
vecchio gli aveva suscitato il pensiero del padre, la memoria del caro estinto,
il rimpianto del grande amico perduto. Non mai, come in quell'ora, egli aveva
provato il bisogno d'un conforto familiare, della voce e della mano paterna.
Che avrebbe detto il padre se avesse veduto il figliuolo accasciato nell'orribile
miseria? Come l'avrebbe sollevato? Con quale forza?
Il suo pensiero andava al morto, con un immenso rammarico. Ma non era in lui
nemmen l'ombra del sospetto, che la causa remota della sua miseria fosse nel
primo insegnamento paterno.
Terenzio portò il tè. Quindi si mise a preparare il letto, con
lentezza, con una cura quasi feminile, emulando Jenny, non dimenticando nulla,
sembrando voler assicurare al signore, fino al mattino, un riposo perfettissimo,
un sonno imperturbabile. Andrea lo guardava, notandone ogni atto, con una commozione
crescente, in fondo a cui era anche non so qual vago senso di pudore. Gli faceva
male la bontà di quel vecchio intorno a quel letto per ove eran passati
tanti amori immondi; gli pareva quasi che quelle mani senili rimescolassero
tutte le impurità, inconsapevolmente.
- Va a dormire, Terenzio - egli disse. - Non ho bisogno d'altro.
Rimase solo, d'innanzi al fuoco, solo con l'anima sua, solo con la sua tristezza.
Si levò, agitato dal tormento interiore, e si mise a percorrere la stanza.
L'incalzava la visione della testa di Elena sul guanciale scoperto del letto.
Ad ogni tratto, quando giunto d'innanzi alla finestra si rivolgeva, credeva
di vederla; e n'aveva un sussulto. I suoi nervi erano così estenuati
che secondavano ogni disordine della fantasia. L'allucinazione diveniva più intensa.
Egli si fermò, nascose la faccia tra le palme, per contenere l'eccitamento.
Poi tirò sul guanciale la coperta, e andò a risedersi.
Gli sorse nello spirito un'altra imagine: Elena tra le braccia del marito:
ancóra una volta, con una esattezza implacabile.
Egli ora conosceva meglio questo marito. Proprio in quella sera, al teatro,
in un palco, egli era stato a lui presentato da Elena e l'aveva osservato attentamente,
minutamente, con acuta ricerca, come per averne qualche rivelazione, come per
strappargli un segreto. Udiva ancóra la voce di lui, una voce d'un timbro
singolare, un po' stridula, che dava ad ogni principio di frase una intonazione
interrogativa; e vedeva quegli occhi chiari chiari sotto la gran fronte convessa,
quegli occhi che prendevano talvolta i riflessi morti d'un vetro o s'animavano
d'un bagliore indefinibile, simile un poco allo sguardo d'un maniaco. E vedeva
anche quelle mani bianchicce, molli, sparse d'una peluria biondissima, che
avevano qualche cosa d'inverecondo in ogni loro moto, nel prendere il binocolo,
nello spiegare il fazzoletto, nel posarsi sul davanzale del palco, nello sfogliare
il libretto dell'opera, in ogni loro moto: mani improntate di vizio, mani sàdiche,
poiché tali forse dovevan esser quelle di certi personaggi del Sade.
Egli vedeva quelle mani toccare la nudità di Elena, contaminare il corpo
bellissimo, tentare una lascivia curiosa... Orrore!
Il supplizio era insostenibile. Egli si levò, di nuovo; andò alla
finestra, l'aprì, rabbrividì all'aria fredda, si scosse. La Trinità de'
Monti splendeva nell'azzurro, con lineamenti netti, come intagliata in un marmo
appena appena roseo. Roma, sotto, aveva un luccicor cristallino, come una città scavata
in un ghiacciaio.
Quella quiete gelida e precisa gli ricondusse lo spirito alla realità,
gli ridiede la conscienza vera del suo stato. Egli richiuse, e tornò a
sedersi. L'enigma di Elena lo attrasse ancóra; le interrogazioni gli
risorsero in tumulto, lo incalzarono. Ma ebbe la forza di ordinarle, di coordinarle,
di esaminarle a una a una, con una strana lucidità. Come più procedeva
nell'analisi, più acquistava di lucidità; e di quella sua crudele
psicologia godeva come d'una vendetta. Infine, gli pareva d'aver denudata un'anima,
d'aver penetrato un mistero. Gli pareva, infine, di possedere Elena assai più a
dentro che non al tempo dell'ebrezza.
Chi era ella mai?
Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di
tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere
morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale,
per dir così, era l'imaginazione: una imaginazione romantica, nudrita
di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice, continuamente stimolata
dall'isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel
lusso d'una casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di
storia, ella erasi velata d'una vaga incipriatura estetica, aveva acquistato
un gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere della sua bellezza,
ella cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne
la spiritualità, irraggiando una capziosa luce d'ideale.
Ella portava quindi, nella comedia umana, elementi pericolosissimi; ed era
occasion di ruina e di disordine più che s'ella facesse publica professione
d'impudicizia.
Sotto l'ardore della imaginazione, ogni suo capriccio prendeva un'apparenza
patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendii improvvisi.
Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici della sua carne e sapeva transformare
in alto sentimento un basso appetito...
Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna
un tempo adorata. Procedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi d'innanzi
ad alcun ricordo più vivo. In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione
dell'amor d'Elena trovava l'artifizio, lo studio, l'abilità, la mirabile
disinvoltura nell'eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte dramatica,
nel combinare una scena straordinaria. Egli non lasciò intatto alcuno
de' più memorabili episodii: né il primo incontro al pranzo di
casa Ateleta, né la vendita del cardinale Immenraet, né il ballo
del'Ambasciata di Francia, né la dedizione improvvisa nella stanza rossa
del palazzo Barberini, né il congedo su la via Nomentana nel tramonto
di marzo. Quel magico vino che prima lo aveva inebriato ora gli pareva una
mistura perfida.
Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se, penetrando
nell'anima della donna, egli penetrasse nell'anima sua propria e ritrovasse
la sua propria falsità nella falsità di lei; tanta era l'affinità delle
due nature. E a poco a poco il disprezzo gli si mutò in una indulgenza
ironica, poiché egli comprendeva. Comprendeva tutto ciò che ritrovava
in sé medesimo.
Allora, con fredda chiarezza, definì il suo intendimento.
Tutte le particolarità del colloquio avvenuto nel giorno di San Silvestro,
più d'una settimana innanzi, tutte gli tornarono alla memoria; ed egli
si piacque a riconstruir la scena, con una specie di cinico sorriso interiore,
senza più sdegno, senza concitazione alcuna, sorridendo di Elena, sorridendo
di sé medesimo. - Perché ella era venuta? Era venuta perché quel
convegno inaspettato, con un antico amante, in un luogo noto, dopo due anni,
le era parso strano, aveva tentato il suo spirito avido di commozioni rare,
aveva tentata la sua fantasia e la sua curiosità. Ella voleva ora vedere
a quali nuove situazioni e a quali nuove combinazioni di fatti l'avrebbe condotta
questo giuoco singolare. L'attirava forse la novità di un amor platonico
con la persona medesima ch'era già stata oggetto d'una passion sensuale.
Come sempre, ella erasi messa con un certo ardore all'imaginazione d'un tal
sentimento; e poteva anche darsi ch'ella credesse d'esser sincera e che da
questa imaginata sincerità avesse tratto gli accenti di profonda tenerezza
e le attitudini dolenti e le lacrime. Accadeva in lei un fenomeno a lui ben
noto. Ella giungeva a creder verace e grave un moto dell'anima fittizio e fuggevole;
ella aveva, per dir così, l'allucinazione sentimentale come altri ha
l'allucinazione fisica. Perdeva la conscienza della sua menzogna; e non sapeva
più se si trovasse nel vero o nel falso, nella finzione o nella sincerità.
Ora, a questo punto era lo stesso fenomeno morale che ripetevasi in lui di
continuo. Egli dunque non poteva con giustizia accusarla. Ma, naturalmente,
la scoperta toglieva a lui ogni speranza d'altro piacere che non fosse carnale.
Omai la diffidenza gli impediva qualunque dolcezza d'abbandono, qualunque ebrezza
dello spirito. Ingannare una donna sicura e fedele, riscaldarsi a una grande
fiamma suscitata con un baglior fallace, dominare un'anima con l'artifizio,
possederla tutta e farla vibrare come uno stromento, habere non haberi, può essere
un alto diletto. Ma ingannare sapendo d'essere ingannato è una sciocca
e sterile fatica, è un giuoco noioso e inutile.
Egli doveva dunque ottener che Elena rinunziasse all'idea di fraternizzare
e gli tornasse fra le braccia come un tempo. Egli doveva riprendere il possesso
materiale della bellissima donna, trarre dalla bellezza di lei il maggior possibile
godimento, e quindi esserne per sempre liberato dalla sazietà. Ma in
questa impresa conveniva usar prudenza e pazienza. Già nel primo colloquio
l'ardor violento aveva fatto cattiva prova. Appariva manifesto ch'ella fondava
il suo progetto di impeccabilità su la famosa frase: « Soffriresti
tu di spartire con altri il mio corpo? » La grande macchina platonica
era mossa da questo santo orrore delle mescolanze. Poteva anche darsi che,
in fondo in fondo, questo orrore fosse sincero. Quasi tutte le donne d'amorosa
vita, se giungono a concluder nozze, affettano ne' primi tempi del matrimonio
una feroce purità e si pongono a far professione di mogli caste con
leale proposito. Poteva quindi anche darsi che Elena fosse presa dal comune
scrupolo. Nulla di peggio, allora, che assalirla di fronte e apertamente urtare
la sua novella virtù. Invece, conveniva secondarla nelle aspirazioni
spirituali, accettarla come « la sorella più cara, l'amica più dolce » ,
inebriarla d'ideale, platonizzando con accortezza; e a poco a poco trarla dalla
candida fraternità a un'amicizia voluttuosa, e da un'amicizia voluttuosa
alla total resa del corpo. Probabilmente queste transizioni sarebbero state
rapidissime. Tutto dipendeva dalla circostanza....
Così ragionava Andrea Sperelli, d'innanzi al camino che aveva illuminata
l'amante Elena ignuda, avvolta nel drappo dello Zodiaco, ridente tra le rose
sparse. E l'occupava una stanchezza immensa, una stanchezza che non chiedeva
il sonno, una stanchezza così vacua e sconsolata che quasi pareva un
bisogno di morire; mentre il fuoco spegnevasi in su gli alari e la bevanda
freddavasi nella tazza.
Ne' giorni che seguirono, egli invano aspettò il biglietto promesso. « Vi
scriverò un biglietto per dirvi quando potrò vedervi. » Elena
dunque intendeva dargli un nuovo convegno. Ma dove? Ancóra nella casa
Zuccari? Avrebbe ella commessa la seconda imprudenza? L'incertezza gli dava
torture indicibili. Egli passava tutte le sue ore a ricercare un qualunque
mezzo per incontrarla, per vederla. Più d'una volta andò all'Albergo
del Quirinale, con la speranza d'esser ricevuto, ma non la trovò mai.
La rivide una sera col marito, con Mumps, com'ella diceva, di nuovo al teatro.
Parlando di cose leggere, della musica, dei cantanti, delle dame, egli mise
nel suo sguardo una tristezza supplichevole. Ella si mostrò molto preoccupata
del suo appartamento: - rientrava nel palazzo Barberini, nel suo antico quartiere
ma ampliato; ed era sempre con i tappezzieri a dare ordini, a disporre.
- Rimarrete a Roma lungo tempo? - le chiese Andrea.
- Sì - ella rispose. - Roma sarà la nostra residenza invernale.
Poco dopo, soggiunse:
- Voi, veramente, potreste darci qualche consiglio per l'addobbo. Venite una
di queste mattine al palazzo. Io ci son sempre tra le dieci e mezzogiorno.
Egli profittò d'un momento in cui Lord Heathfield parlava con Giulio
Musèllaro, giunto allora nel palco; e chiese guardandola negli occhi:
- Domani?
Ella rispose, con semplicità, come se non avesse badato all'accento
di quella interrogazione:
- Tanto meglio.
La mattina dopo, egli andò, verso le undici, a piedi, lungo la via Sistina,
per la piazza Barberini e su per la salita. Era un cammino ben noto. Gli parve
di ritrovare le impressioni d'una volta; ebbe un'illusione momentanea: il cuore
gli si sollevò. La fontana del Bernini brillava singolarmente al sole,
come se i delfini, la conchiglia e il Tritone fosser divenuti d'una materia
più diafana, non pietra e non ancor cristallo, per una metamorfosi interrotta.
L'operosità della nuova Roma empiva di romore tutta la piazza e le vie
prossime. Tra i carri e i giumenti guizzavano i piccoli ciociari offrendo le
violette.
Quando egli oltrepassò il cancello ed entrò nel giardino, sentendosi
prendere da un tremito, pensò: « Ma l'amo io dunque ancóra?
Ancóra la sogno? » Gli pareva che il tremito fosse quel d'una
volta. Guardò il gran palazzo radiante e il suo spirito volò ai
tempi in cui quella dimora, in certe albe fredde e nebbiose, prendeva per lui
un aspetto d'incanto. Erano i primissimi tempi della felicità: egli
usciva caldo di baci, pieno della recente gioia; le campane della Trinità de'
Monti, di Sant'Isidoro, de' Cappuccini sonavano l'Angelus nel crepuscolo, confusamente,
come se fossero assai più lontane; all'angolo della via rosseggiavano
i fuochi intorno le caldaie dell'asfalto; un gruppo di capre stava lungo il
muro biancastro, sotto una casa addormentata; i gridi fiochi degli acquavitari
si perdevano nella nebbia...
Egli sentì risalir dal profondo quelle sensazioni obliate; per un momento,
si sentì passar su l'anima un'onda dell'antico amore; per un momento,
provò ad imaginare che Elena fosse la Elena d'una volta e che le cose
tristi non fossero vere e che la felicità seguitasse. Tutto l'ingannevole
fermento cadde, appena egli varcò la soglia e vide venire incontro il
marchese di Mount Edgcumbe sorridente di quel suo sorriso fine e un po' ambiguo.
Allora incominciò il supplizio.
Elena comparve, gli tese la mano con molta cordialità, innanzi al marito,
dicendo:
- Bravo Andrea! Aiutateci, aiutateci...
Ella era molto vivace, nelle parole, ne' gesti. Aveva un'aria molto giovenile.
Portava una giacca di panno azzurro cupo, guarnita d'astrakan nero su gli orli,
sul collo diritto e su le maniche; e un cordoncino di lana faceva nell'astrakan
un ricamo elegante, passandovi sopra intrecciato. Ella teneva una mano nella
tasca, in atto grazioso; e con l'altra indicava le opere di tappezzeria, i
mobili, i quadri. Domandava consiglio.
- Dove mettereste voi questi due cassoni? Vedete: li ha trovati Mumps a Lucca.
Le pitture sono del vostro Botticelli. Dove mettereste questi arazzi?
Andrea riconobbe i quattro arazzi della Storia di Narcisso ch'erano alla vendita
del cardinale Immenraet. Guardò Elena, ma non incontrò gli occhi
di lei. Una irritazione sorda lo prese, contro di lei, contro il marito, contro
quegli oggetti. Egli avrebbe voluto andarsene; ma gli convenne mettere in servigio
dei coniugi Heathfield il suo buon gusto; gli convenne anche sofferire l'erudizione
archeologica di Mumps, ch'era un collezionista ardente e che volle mostrargli
qualcuna delle sue raccolte. Egli riconobbe in una vetrina l'elmo del Pollajuolo,
e in un'altra la tazza di cristallo di ròcca appartenuta a Niccolò Niccoli.
La presenza di quella tazza in quel luogo lo turbò stranamente, gli
fece balenare allo spirito folli sospetti. Era dunque caduta in mano di Lord
Heathfield? Dopo la famosa contesa che non ebbe esito, nessuno più si
occupò del cimelio, nessuno tornò alla vendita, il giorno dopo;
l'eccitazione efimera languì, si spense, passò come tutto passa
nella vita mondana; e il cristallo rimase al contrasto di altri. La cosa era
naturalissima; ma in quel momento ad Andrea parve straordinaria.
Ad arte, egli si fermò d'innanzi alla vetrina e guardò molto
la coppa preziosa dove la storia d'Anchise e di Venere scintillava come intagliata
in un puro diamante.
- Niccolò Niccoli - disse Elena, pronunziando quel nome con accento
indefinibile in cui il giovine credé sentire un poco di malinconia
Il marito era passato nella stanza attigua per aprire un armario
- Ricordatevi! Ricordatevi! - mormorò Andrea, volgendosi.
- Mi ricordo.
- Quando dunque vi vedrò?
- Chi sa!
- Mi prometteste...
Ricomparve il Mount Edgcumbe. Passarono nell'altra stanza, seguitarono il giro.
Ovunque i tappezzieri attendevano a stendere parati, ad alzar tende, a trasportar
mobili. Andrea, ogni volta che l'amica gli chiedeva un consiglio, doveva fare
uno sforzo per rispondere, per vincere la mala voglia, per dominare l'impazienza.
In un momento che il marito parlava con uno di quegli uomini, egli le disse,
a bassa voce, mostrando chiaro il suo fastidio:
- Perché darmi questa tortura? Io sperava di trovarvi sola.
A una porta, il cappellino di Elena urtò una portiera mal messa e si
piegò tutto da un lato. Ella, ridendo, chiamò Mumps perché le
sciogliesse il nodo del velo. E Andrea vide quelle mani odiose sciogliere il
nodo su la nuca della desiderata, sfiorare i piccoli riccioli neri, quei riccioli
vivi che un tempo sotto i baci rendevano un profumo misterioso, non paragonabile
ad alcuno de' profumi conosciuti, ma più di tutti soave, più di
tutti inebriante.
Senza indugio, egli si congedò, affermando d'essere aspettato a colazione.
- Noi verremo a star qui definitivamente il primo di febbraio, martedì -
gli disse Elena. - Allora sarete, spero, un nostro assiduo.
Andrea s'inchinò.
Avrebbe dato qualunque cosa per non toccare la mano di Lord Heathfield. Se
ne andò pieno di rancore, di gelosia, di disgusto.
La sera medesima, sul tardi, essendo capitato per caso al Circolo, dove non
saliva da molto tempo, egli vide seduto a un tavolo di giuoco Don Manuel Ferres
y Capdevila, il ministro del Guatemala. Lo salutò con premura; gli chiese
notizie di Donna Maria, di Delfina.
- Sono ancóra a Siena? Quando verranno?
Il ministro, memore d'aver guadagnate alcune migliaia di lire giocando col
giovine conte nell'ultima notte di Schifanoja, rispose con grande cortesia
alla premura. Egli aveva conosciuto Andrea Sperelli giocatore ammirabile, d'alto
stile, perfetto.
- Sono qui tutt'e due, da qualche giorno. Arrivarono lunedì. Maria è molto
dispiacente di non aver trovata la marchesa d'Ateleta. Io credo che una vostra
visita le sarà molto gradita. Stiamo nella via Nazionale. Eccovi l'indirizzo
esatto.
Gli diede un suo biglietto. Quindi si rimise al giuoco. Andrea si sentì chiamare
dal duca di Beffi ch'era in un crocchio di altri gentiluomini.
- Perché non sei venuto stamani a Centocelle? - gli domandò il
duca.
- Avevo un altro appuntamento - rispose Andrea, senza pensarci, per una scusa
qualunque.
Il duca si mise a ridacchiare in coro con gli altri amici.
- Al palazzo Barberini?
- Potrebbe darsi.
- Potrebbe darsi? T'ha visto entrare Ludovico...
- E tu dov'eri? - chiese Andrea al Barbarisi.
- Da mia zia Saviano.
- Ah!
- Non so se tu abbia fatto miglior caccia, - seguitò il duca di Beffi
- ma noi abbiamo avuto un galoppo veloce di quarantadue minuti e due volpi.
Giovedì, alle Tre Fontane.
- Capisci? Non alle Quattro... - ammonì, con la sua solita gravità comica,
Gino Bommìnaco.
Gli amici risero, al motto; e il riso si propagò anche allo Sperelli.
Non gli dispiaceva quella malignità. Anzi, ora appunto che mancava il
fondamento, egli godeva che gli amici credessero riannodata la sua relazione
con Elena. Si volse a discorrere con Giulio Musèllaro sopravvenuto.
Da alcune parole giuntegli all'orecchio, s'accorse che nel crocchio si parlava
di Lord Heathfield.
- Io lo conobbi a Londra sei o sett'anni fa - diceva il duca di Beffi. - Era
Lord of the Bedchamber del principe di Galles, mi pare...
Poi la voce s'abbassò. Il duca doveva raccontare cose enormi. All'orecchio
d'Andrea giunse, tra frammenti di frasi erotiche, due o tre volte il titolo
d'un giornale famoso nella stagione degli scandali di Londra: Pall Mall Gazette.
Egli avrebbe voluto ascoltare: una terribile curiosità l'invadeva. Rivide
nell'imaginazione le mani di Lord Heathfield, quelle pallide mani, così espressive,
così significative, così rivelatrici, indimenticabili. Ma il
Musèllaro seguitava a discorrere. Il Musèllaro gli disse:
- Usciamo. Ti racconterò.
Giù per le scale incontrarono il conte Albónico che saliva. Era
vestito a lutto per la morte di Donna Ippolita. Andrea si fermò: gli
chiese qualche notizia del fatto doloroso. Egli aveva saputo la sventura, nel
novembre, a Parigi, da Giulio Montelatici, cugino di Donna Ippolita.
- Ma fu un tifo?
Il vedovo biondiccio e scolorito colse l'occasione per versar la sua pena.
Egli portava in giro il suo dolore come un tempo aveva portato la bellezza
della moglie. La balbuzie immiseriva le sue parole afflitte: e pareva che gli
occhi biancastri gli si dovessero sgonfiare, come due bolle di siero, da un
momento all'altro.
Giulio Musèllaro, vedendo che l'elegia del vedovo andava un po' per
le lunghe, sollecitò Andrea dicendogli:
- Bada, ci faremo aspettar troppo.
Andrea si licenziò, rimettendo a un prossimo incontro il seguito della
commemorazione funebre. Ed uscì con l'amico.
Le parole dell'Albónico gli avevano rinnovato quel sentimento singolare,
misto d'un tormentoso desiderio e poi d'una specie di compiacenza, che a Parigi
l'aveva per alcuni giorni occupato dopo la notizia della morte. In quei giorni
l'imagine di Donna Ippolita, quasi avvolta d'oblio, gli era apparsa, a traverso
il tempo della malattia e della convalescenza, a traverso tante altre vicende,
a traverso l'amore di Donna Maria Ferres, molto lontana ma avvolta di non so
che idealità. Egli aveva da lei ottenuto il consenso; e, pur non essendo
giunto a possederla, ne aveva tratto una delle più grandi ebrezze umane:
l'ebrezza della vittoria sopra un rivale, d'una vittoria clamorosa, in conspetto
della donna desiderata. In quei giorni, il desiderio non potuto appagare gli
era risorto; e sotto l'impero dell'imaginazione, l'impossibilità di
appagarlo gli aveva dato una inquietudine indicibile, qualche ora di vero supplizio.
Poi, tra il desiderio e il rimpianto era nato un altro sentimento, quasi di
compiacenza, direi quasi d'elevazione lirica. Gli piaceva che la sua avventura
terminasse così, per sempre. Quella donna non posseduta, pel cui acquisto
egli era stato sul punto di rimanere ucciso, quella donna quasi sconosciuta
gli si levava unica intatta su le cime dello spirito, nella divina idealità della
morte. Tibi, Hippolyta, semper!
- Dunque - raccontava Giulio Musèllaro - ella è venuta oggi,
verso le due.
Raccontava la resa di Giulia Moceto, con un certo entusiasmo, con molte particolarità intorno
la rara e segreta bellezza della Pandora infeconda.
- Hai ragione. E' una coppa d'avorio, uno scudo raggiante, speculum voluptatis...
In Andrea una certa lieve puntura provata alcuni giorni a dietro, nella notte
di luna, dopo il teatro, quando l'amico era salito solo al palazzetto Borghese,
facevasi ora di nuovo sentire; mutavasi in un rincrescimento non bene definito
ma in fondo a cui si movevano forse, confuse con le memorie, la gelosia, l'invidia
e quella suprema intolleranza egoistica e tirannica ch'era nella sua natura
e che lo spingeva talvolta a desiderare quasi la distruzione d'una donna già preferita
e goduta, affinché ella non fosse più goduta da altri. Nessuno
doveva bevere al bicchiere dove aveva egli bevuto una volta. Il ricordo del
suo passaggio doveva bastare a riempire una intera vita. Le amanti dovevano
rimaner fedeli in eterno alla sua infedeltà. Questo era il suo sogno
orgoglioso. E poi gli spiaceva la publicazione, la divulgazione d'un segreto
di bellezza. Certo, s'egli avesse posseduto il Discobolo di Mirone o il Doriforo
di Policleto o la Venere cnidia, la sua prima cura sarebbe stata di chiudere
il capolavoro in un luogo inaccessibile e di goderne da solo, perché il
godimento altrui non diminuisse il suo proprio. E allora perché egli
medesimo aveva concorso a publicare il segreto? Perché egli medesimo
aveva stimolato la curiosità dell'amico? Perché egli medesimo
gli aveva fatto un augurio? La facilità stessa con cui quella donna
s'era data gli metteva ira e disgusto, e anche un poco lo umiliava.
- Ma dove andiamo? - chiese Giulio Musèllaro, fermandosi nella piazza
di Venezia.
In fondo ai varii moti dell'animo e ai varii pensieri Andrea manteneva l'agitazione
in lui suscitata dall'incontro con Don Manuel Ferres, il pensiero di Donna
Maria, un'imagine balenante. E appunto, in mezzo a quei contrasti momentanei,
una sorta di ansietà lo traeva verso la casa di lei.
- Io torno a casa - rispose. - Passiamo per la via Nazionale. Accompagnami.
Da allora egli non ascoltò più le parole dell'amico. Il pensiero
di Donna Maria lo dominò tutto. Giunto d'innanzi al Teatro ebbe un momento
d'esitazione, non sapendo se scegliere il marciapiede di destra o quel di sinistra.
Egli voleva scoprire la casa leggendo i numeri delle porte.
- Ma che hai? - gli chiese il Musèllaro.
- Nulla. T'ascolto.
Guardò un numero e calcolò che la casa doveva essere a manca,
non molto lontana, forse in vicinanza della Villa Aldobrandini. I grandi pini
della villa apparvero leggeri nel cielo stellato, poiché la notte era
gelida ma serena; la Torre delle Milizie levava la sua mole quadrata, cupa
fra le stelle; le palme, che crescono su le mura di Servio, al chiaror de'
fanali dormivano immobili.
Pochi numeri mancavano a raggiunger quello segnato sul biglietto di Don Manuel.
Andrea trepidava come se Donna Maria fosse per venirgli incontro. La casa era,
infatti, vicina. Egli passò rasente il portone chiuso; non poté tenersi
dal guardare in su.
- Ma che guardi? - gli chiese il Musèllaro.
- Nulla. Dammi una sigaretta. Affrettiamo il passo, ché fa freddo.
Percorsero la via Nazionale fino alle Quattro Fontane, in silenzio. La preoccupazione
di Andrea era manifesta. L'amico gli disse:
- Tu certo hai qualche cosa che ti tormenta.
E Andrea si sentiva il cuore così gonfio che fu sul punto di abbandonarsi
alla confidenza. Ma si trattenne. Egli era ancóra sotto l'impressione
delle malignità udite al Circolo, del racconto di Giulio, di tutta quella
indiscreta leggerezza da lui stesso provocata, da lui stesso professata. L'assenza
completa di mistero nell'avventura, la compiacenza vanitosa degli amanti nell'accogliere
i motti e i sorrisi altrui, la cinica indifferenza con cui gli amanti d'un
tempo lodano le qualità della donna a coloro che già sono su
la via di goderle, e l'affettazione con cui quelli dànno a questi i
consigli per giunger meglio allo scopo, e la premura con cui questi dànno
a quelli i più minuti ragguagli su un primo convegno per sapere se la
maniera tenuta ora dalla dama nel concedersi si riconfronti con quella tenuta
altre volte, e le cessioni, e le concessioni, e le successioni, e insomma tutte
le piccole e grandi viltà che accompagnano i dolci adulterii mondani,
gli parvero ridur l'amore una mescolanza insipida e immonda, una volgarità ignobile,
una prostituzion senza nome. Le memorie di Schifanoja gli attraversavano l'anima,
come profumi cordiali. La figura di Donna Maria gli splendeva dentro con tal
vivezza ch'egli n'era quasi attonito; e un'attitudine egli vedeva sopra le
altre distinta, sopra le altre luminosa: l'attitudine di lei quando nel bosco
di Vicomìle aveva pronunziata la parola ardente. Avrebbe egli riudita
quella parola da quella bocca? Che aveva fatto ella, che aveva pensato, come
aveva vissuto nel tempo della lontananza? L'agitazione interiore gli cresceva
ad ogni passo. Come fantasmagorie mobili e fuggevoli gli passavano nello spirito
frammenti di visioni: un lembo di paesaggio, un lembo di mare, una scala tra
i rosai, l'interno d'una stanza, tutti i luoghi ov'era nato un sentimento,
ov'erasi effusa una dolcezza, ov'ella aveva sparso il fascino della sua persona.
Ed egli provava un tremore intimo e profondo a pensare che forse nel cuor di
lei ancóra viveva la passione, che forse ella aveva sofferto e pianto
e forse anche sognato e sperato. Chi sa!
- Ebbene? - disse Giulio Musèllaro. - Come vanno le cose con Lady Heathfield?
Scendevano giù per la via delle Quattro Fontane, erano d'innanzi al
palazzo Barberini. A traverso i cancelli, tra i colossi di pietra, appariva
il giardino oscuro animato da un mormorio fioco di acque, dominato dall'edifizio
biancheggiante ove il solo portico aveva ancóra un lume.
- Che dici? - domandò Andrea.
- Come vanno le cose con Donna Elena?
Andrea guardò il palazzo. Gli sembrò, in quel momento, di sentirsi
nel cuore una grande indifferenza, la morte vera del desiderio, la finale rinunzia;
e trovò, per rispondere, una frase qualunque.
- Seguo il consiglio. Non riaccendo la sigaretta...
- Eppure, vedi, questa volta forse varrebbe la pena. L'hai guardata bene? Mi
pare più bella; mi pare, non so, che abbia qualche cosa di nuovo, inesprimibile...
Forse dico male a dir nuovo. E' come divenuta più intensa, conservando
tutto il suo carattere di bellezza; è insomma, dirò così,
più Elena dell'Elena di due o tre anni fa: « essenzia quinta » .
Sarà, forse, effetto della seconda primavera; perché credo ch'ella
debba stare lì lì per toccar la trentina. Non ti sembra?
Andrea si sentì da queste parole pungere, di nuovo accendere. Nulla
vale a ravvivare e ad esasperare il desiderio d'un uomo quanto l'udire da altri
lodar la donna da lui troppo a lungo posseduta, o troppo a lungo vagheggiata
invano. Ci sono amori in agonia che si protraggono ancóra, per virtù dell'altrui
invidia, dell'altrui ammirazione; poiché l'amante disgustato o stanco
teme di rinunziare al suo possesso o al suo assedio in favore della felicità di
chi potrebbe succedergli.
- Non ti sembra? E poi, menelaizzare quell'Heathfield dovrebbe essere un gaudio
straordinario.
- Credo anch'io - disse Andrea, sforzandosi di prendere il tono frivolo dell'amico.
Vedremo.
III
- Maria, lasciate a questo minuto la sua dolcezza, lasciate ch'io esprima
tutto il mio pensiero!
Ella si levò. Disse piano, senza sdegno, senza severità, con
commozione palese nella voce:
- Perdonatemi. Io non posso ascoltarvi. Mi fate molto male.
- Tacerò. Rimanete, Maria; vi prego.
Di nuovo, ella sedette. Era come al tempo di Schifanoja. Nulla superava la
grazia della finissima testa che pareva esser travagliata dalla profonda massa
de' capelli, come da un divino castigo. Un'ombra morbida, tenera, simile alla
fusione di due tinte diafane, d'un violetto e d'un azzurro ideali, le circondava
gli occhi che volgevan l'iride lionata degli angeli bruni.
- Io non voleva - soggiunse Andrea, umilmente - non voleva che ricordarvi le
mie parole d'un tempo, quelle che ascoltaste una mattina nel parco, sul sedile
di marmo, sotto gli àlbatri, in un'ora indimenticabile per me e quasi
sacra nella memoria...
- Io le ricordo.
- Ebbene, Maria, da quel tempo la mia miseria è divenuta più trista,
più oscura, più crudele. Io non saprò mai dirvi tutte
le mie sofferenze, tutte le mie abiezioni; non saprò mai dirvi quante
volte la mia anima vi ha chiamata, credendo di morire; non saprò mai
dirvi il brivido di felicità, la sollevazione di tutto il mio essere
verso la speranza, se per un momento io osava pensare che il ricordo di me
forse ancóra viveva nel vostro cuore.
Egli parlava con l'accento medesimo di quella mattina lontana; pareva ripreso
da quella medesima ebrezza sentimentale. Tutte le malinconie gli risalivano
alle labbra. Ed ella ascoltava, a capo chino, immobile, quasi nell'attitudine
di quella volta; e la sua bocca, l'espression della sua bocca, invano serrata
con violenza, come quella volta, tradiva una sorta di dolorosa voluttà.
- Vi ricordate di Vicomìle? Vi ricordate del bosco, in quella sera d'ottobre,
quando traversammo soli?
Donna Maria accennò lievemente col capo, come in atto d'assenso.
- E della parola che mi diceste? - soggiunse il giovine, più sommesso,
ma con nella voce un'espressione intensa di passion contenuta, piegandosi verso
di lei molto, come per giungere a guardarla negli occhi ch'ella teneva ancóra
chini.
Ella li alzò, que' buoni pietosi dolenti occhi, su lui.
- Di tutto io mi ricordo, - rispose - di tutto, di tutto. Perché dovrei
nascondervi l'anima mia? Voi siete uno spirito nobile e grande; ed io ho fede
nella vostra generosità. Perché dovrei condurmi verso di voi
come una donna volgare? Quella sera, non vi dissi che vi amavo? Io intendo
nella vostra domanda un'altra domanda. Voi mi chiedete se ancóra io
vi ami.
Ella esitò, un attimo. Le labbra le tremarono.
- Vi amo.
- Maria!
- Ma voi dovete rinunziar per sempre al mio amore, voi dovete allontanarvi
da me; dovete essere nobile e grande, e generoso, risparmiandomi una lotta
che mi fa paura. Io ho molto sofferto, Andrea, e saputo soffrire; ma il pensiero
di dover combattere contro di voi, di dovermi difendere contro di voi, mi dà un
terrore folle. Voi non sapete a costo di quali sacrifizi ero giunta ad ottenere
la calma del cuore; non sapete a quali alti e carissimi ideali ho rinunziato...
Poveri ideali! Sono diventata un'altra donna, perché era necessario
che io diventassi un'altra; sono diventata una donna comune, perché così chiedeva
il dovere.
Ella aveva nella voce una malinconia grave e soave.
- Incontrandovi, sentii d'un tratto risorgere in me i vecchi sogni, sentii
rivivere l'anima antica; e ne' primi giorni mi abbandonai alla dolcezza, chiudendo
gli occhi sul pericolo lontano. Pensavo: « Egli non saprà nulla
dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua. » Ero quasi senza
rimorso, senza quasi paura. Ma voi parlaste; voi mi diceste parole che io non
aveva udite mai; voi mi strappaste una confessione... il pericolo m'apparve,
certo, aperto, manifesto. E ancóra m'abbandonai a un sogno. Le vostre
angosce mi stringevano, mi facevano una pena profonda. Pensavo: « L'impuro
l'ha macchiato; s'io bastassi a purificarlo! Sarei felice d'esser l'olocausto
della sua rinnovazione. » La vostra tristezza attirava la mia tristezza.
Mi pareva che forse io non avrei saputo consolarvi ma che forse avreste provato
un sollievo sentendo un'anima rispondere eternamente amen alle volontà del
vostro dolore.
Ella proferì queste ultime parole con tale elevazion spirituale in tutta
la figura, che Andrea fu invaso da un'onda di gaudio quasi mistico; e il suo
unico desiderio, in quel momento, era di prenderle ambo le mani e d'esalare
l'ineffabile ebrezza su quelle care delicate immacolate mani.
- Non è possibile! Non è possibile! - ella seguitò, scotendo
la testa in atto di rammarico. - Noi dobbiamo rinunziar per sempre a qualunque
speranza. La vita è implacabile. Senza volere, voi distruggereste un'intera
esistenza e forse non una sola...
- Maria, Maria, non dite queste cose! - interruppe il giovine, piegandosi ancóra
verso di lei, prendendole una mano, senza impeto, ma con una specie di trepidazione
supplichevole come se prima di compier l'atto egli aspettasse un segno di consenso.
- Io farò quel che vorrete; io sarò umile e obediente; la mia
unica aspirazione è d'obedirvi; il mio unico desiderio è di morire
nel vostro nome. Rinunziare a voi è rinunziare alla salvezza, ricader
per sempre nella rovina, non rialzarsi mai più. Io vi amo come nessuna
parola umana potrà mai esprimere. Ho bisogno di voi. Voi soltanto siete
vera; voi siete la Verità che il mio spirito cerca. Il resto è vano;
il resto è nulla. Rinunziare a voi è come entrar nella morte.
Ma se il sacrifizio di me vale a conservarvi la pace, io vi debbo il sacrifizio.
Non temete, Maria. Io non vi farò alcun male.
Egli teneva la mano di lei nella sua, ma senza premerla. La sua parola non
aveva ardore ma era sommessa, scorata, accorante, piena d'una immensa prostrazione.
E la pietà illudeva Maria così ch'ella non ritrasse la mano e
s'abbandonò per qualche minuto alla pura voluttà di quel contatto
leggero. Era in lei una voluttà tanto sottile che quasi pareva non aver
ripercussione organica; era come se un fluido essenziale le si partisse dall'intimo
cuore e pel braccio le affluisse alle dita e le si dilatasse oltre le dita
con un'onda indefinitamente armoniosa. Quando Andrea tacque, certe parole proferite
nel parco, nella mattina indimenticabile, le tornarono alla memoria rianimate
dal suon recente della voce di lui, mosse dalla nuova commozione: « La
sola presenza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza. Io la sentiva fluire
nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento
sovrumano... »
Successe un intervallo di silenzio. Si udiva di tratto in tratto il vento scuotere
i vetri delle finestre. Giungeva col vento un clamore lontano, misto al rombo
delle vetture. Entrava una luce fredda e limpida come un'acqua sorgiva; negli
angoli si raccoglieva l'ombra, e fra le tende composte di tessuti dell'Estremo
Oriente; luccicavano qua e là su i mobili le incrostazioni di giada,
di avorio, di madreperla; un gran Buddha dorato appariva in fondo, sotto una
musa paradisiaca. Quelle forme esotiche davano alla stanza un po' del loro
mistero.
- Ora, che pensate? - chiese Andrea. - Non pensate alla mia fine?
Ella pareva assorta in un pensier dubitoso. Era, in vista, irresoluta come
se ascoltasse due voci interiori.
- Io non so dirvi - ella rispose, passandosi la mano su la fronte con un gesto
lieve - non so dirvi che strano presentimento mi opprima, da lungo tempo. Non
so; ma io temo.
Ella soggiunse, dopo una pausa:
- Pensare che voi soffrite, che voi siete malato, povero amico, e che io non
potrò alleviarvi la pena, che io vi mancherò nella vostra ora
d'angoscia, che io non saprò se voi mi chiamerete... Mio Dio!
Ella aveva nella voce un tremito e una fievolezza quasi di pianto, come se
le si fosse chiusa la gola. Andrea teneva il capo chino, tacendo.
- Pensare che la mia anima sempre vi seguirà, sempre, e che non potrà mai
mai confondersi con la vostra, non potrà mai da voi essere compresa...
Povero amore!
Ella aveva la voce piena di lacrime, la bocca atteggiata di dolore.
- Non mi abbandonate! Non mi abbandonate! - proruppe il giovine, prendendole
ambo le mani, quasi inginocchiandosi, in preda a una grande esaltazione. -
Io non vi chiederò nulla; non voglio da voi che la pietà. La
pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione
di qualunque altra: voi lo sapete. Le vostre sole mani mi potranno guarire;
mi potranno ricondurre alla vita, sollevare dalla bassezza, ridonare la fede,
liberare da tutte le cattive cose che m'infettano e mi empiono d'orrore. Care,
care mani...
Egli si chinò a baciarle, vi tenne premuta la bocca. Socchiuse gli occhi,
in atto di somma dolcezza, mentre diceva piano, con un accento indefinibile:
- Vi sento tremare.
Ella si levò, tremante, smarrita, più pallida di quando, nella
mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Il vento scoteva i vetri; giungeva
un clamore come d'una moltitudine ammutinata. Quelle grida nel vento, che venivano
dal Quirinale, le aumentarono l'agitazione.
- Addio. Vi prego, Andrea; non rimanete più qui, mi vedrete un'altra
volta, quando vorrete. Ma ora, addio. Vi prego!
- Dove vi vedrò?
- Al concerto, domani. Addio.
Ella era tutta sconvolta, come se avesse commessa una colpa. Lo accompagnò fino
alla porta della stanza. Rimasta sola, esitò, non sapendo che fare,
ancor tenuta dallo sbigottimento. Si sentiva ardere le guance e le tempie,
intorno agli occhi, d'un ardore intenso, mentre pel resto del corpo rabbrividiva;
su le mani l'impressione della bocca amata persisteva come un suggello, ed
era un'impressione deliziosa, ed ella avrebbe voluto che fosse indelebile come
un suggello divino.
Guardò in giro. Nella stanza la luce diminuiva, le forme si perdevano
nella mezz'ombra, il gran Buddha raccoglieva nella sua doratura un chiaror
singolare. Or sì or no giungevano le grida. Ella andò verso una
finestra, l'aprì, si sporse. Un vento gelido soffiava su la strada,
ove già verso la piazza di Termini cominciavano ad accendersi i fanali.
Incontro, gli alberi della Villa Aldobrandini svettavano, appena tinti d'un
riflesso rossastro. Su la Torre delle Milizie pendeva una enorme nuvola paonazza,
solitaria nel cielo.
La sera le parve lugubre. Ella si ritrasse; andò a sedersi nel luogo
medesimo del colloquio recente. - Perché Delfina non tornava ancóra?
- Avrebbe voluto evitare ogni riflessione, ogni meditazione; eppure non so
che debolezza la tratteneva in quel luogo ove, pochi minuti innanzi, Andrea
aveva respirato, aveva parlato, aveva esalato il suo amore e il suo dolore.
Gli sforzi, i propositi, le contrizioni, le preghiere, le penitenze di quattro
mesi si disperdevano, si disfacevano, diventavano inutili, in un attimo. Ella
ricadeva, sentendosi forse più stanca, più vinta, senza volontà e
senza potere contro i fenomeni morali che la sorprendevano, contro le sensazioni
che la sconvolgevano; e, mentre s'abbandonava all'angoscia e al languore d'una
conscienza in cui ogni coraggio veniva meno, le pareva che qualche cosa di
lui fluttuasse nell'ombra della stanza e le avvolgesse tutta la persona, d'una
carezza infinitamente soave.
E, il giorno dopo, ella salì al Palazzo dei Sabini, con il cuor palpitante
sotto un mazzo di violette.
Andrea già era ad attenderla su la porta della sala. Stringendole la
mano, le disse:
- Grazie.
La condusse a una sedia, le si mise accanto. Le disse:
- Credevo di morire aspettandovi. Temevo che non veniste. Come vi son grato!
Le disse:
Iersera, tardi, io passai dalla vostra Casa. Vidi un lume a una finestra, alla
terza finestra verso il Quirinale. Non so che avrei dato per conoscere se voi
eravate là...
Anche, le chiese:
- Da chi avete avute quelle violette?
- Da Delfina - ella rispose.
- Vi ha raccontato Delfina il nostro incontro di stamani su la piazza di Spagna?
- Sì; tutto.
Il concerto incominciò con un Quartetto del Mendelssohn. La sala era
già quasi interamente occupata. L'uditorio componevasi, in massima parte,
di dame straniere; ed era un uditorio biondo, pieno di modestia negli abiti,
pieno di raccoglimento nelle attitudini, silenzioso e religioso come in un
luogo pio. L'onda della musica passava su teste immobili, coperte di cappelli
scuri, dilatandosi in una luce aurea, in una luce che fluiva dall'alto, temperata
dalle tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e nude. E la vecchia sala
dei Filarmonici, disadorna, dove appena rimaneva su l'egual candore qualche
traccia d'un fregio e dove le misere portiere azzurre stavan per cadere, offriva
imagine d'un luogo che fosse rimasto chiuso per un secolo e fosse stato riaperto
proprio in quel giorno. Ma quel color di vecchiezza, quell'aria di povertà,
quella nudità delle pareti aggiungevano non so che strano sapore allo
squisito diletto dell'udizione; e il diletto pareva più segreto, più alto,
più puro là dentro, per ragion d'un contrasto. Era il 2 di febbraio,
un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento disputava per il fatto
di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati.
I ricordi musicali di Schifanoja sorsero nello spirito de' due amanti; un riflesso
di quell'autunno illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto mendelssohniano
si svolgeva la visione della villa maritima, della sala profumata dai giardini
sottoposti, dove negli intercolunnii del vestibolo si levavano le cime dei
cipressi, si scorgevano le vele di fiamma su un lembo di mare sereno.
Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva
piano:
- Che pensate?
Ella rispondeva con un sorriso così tenue ch'egli appena giungeva a
coglierlo.
- Vi ricordate del 23 settembre? - ella disse.
Andrea non aveva ben distinto nella memoria quel ricordo, ma assentì col
capo.
L'Andante calmo e solenne, dominato da un'alta melodia patetica, dopo estesi
sviluppi aveva uno scoppio di dolore. Il Finale insisteva in una certa monotonia
ritmica, piena di stanchezza.
Ella disse:
- Ora viene il vostro Bach.
E ambedue, quando la musica ricominciò, provarono un bisogno istintivo
di riavvicinarsi. I loro gomiti si sfioravano. Alla fine d'ogni tempo, Andrea
si chinava verso di lei per legger nel programma ch'ella teneva spiegato fra
le mani; e, nell'atto, le premeva il braccio, sentiva l'odore delle viole,
le comunicava un brivido di delizia. L'Adagio aveva una elevazion di canto
così possente, saliva con tal volo alle sommità dell'estasi,
con tal piena sicurezza allargavasi nell'Infinito, che parve la voce d'una
creatura sopraumana la quale effondesse nel ritmo il giubilo d'una sua conquista
immortale. Tutti gli spiriti erano trascinati dall'onda irresistibile. Quando
la musica cessò, lo stesso fremito degli strumenti durò qualche
minuto nell'uditorio. Un susurro corse da un capo all'altro della sala. L'applauso
irruppe, dopo l'indugio, più vivo.
I due si guardarono, con gli occhi alterati, come se si distaccassero dopo
un amplesso d'insostenibile piacere. La musica continuava; la luce della sala
diveniva più discreta; un tepor dilettoso addolciva l'aria; intiepidite,
le violette di Donna Maria esalavano un profumo più forte. Andrea aveva
quasi l'illusione d'essere solo con lei, poiché non vedeva d'innanzi
a sé persone ch'egli conoscesse.
Ma s'ingannava. In un intervallo, volgendosi, vide Elena Muti diritta in fondo
alla sala, accompagnata dalla principessa di Ferentino. Sùbito, il suo
sguardo incontrò quel di lei. Da lontano, egli salutò. Gli parve
di scorgere su le labbra di Elena un sorriso singolare.
- Chi salutate? - chiese Donna Maria, anche volgendosi. - Chi sono quelle signore?
- Lady Heathfield e la principessa di Ferentino.
Ella credé sentire nella voce di lui un turbamento.
- Qual è la Ferentino?
- La bionda.
- L'altra è molto bella.
Andrea tacque.
- Ma è una inglese? - ella soggiunse.
- No; è una romana; è la vedova del duca di Scerni, passata a
Lord Heathfield in seconde nozze.
- E' molto bella.
Andrea domandò, con premura.
- Ora, che soneranno?
- Il Quartetto del Brahms, in do minore.
- Lo conoscete?
- No.
- Il secondo tempo è meraviglioso.
Per celare la sua inquietudine, egli parlava.
- Quando vi vedrò, ancóra?
- Non so.
- Domani?
Ella titubò. Pareva che le fosse discesa pel volto una lieve ombra.
Rispose:
- Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina su la piazza di
Spagna, verso mezzogiorno.
- E se il sole mancasse?
- Sabato sera, andrò dalla contessa Starnina...
La musica ricominciava. Il primo tempo esprimeva un lottar cupo e virile, pieno
di vigore. La Romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi
un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un'alba assai lontana. Una chiara
frase melodica si svolgeva con profonde modulazioni. Era un sentimento assai
diverso da quel che animava l'Adagio del Bach: era più umano, più terreno,
più elegiaco. Passava in quella musica un soffio di Ludovico Beethoven.
Andrea fu invaso da una così terribile ansia che temé di tradirsi.
Tutta la dolcezza di prima gli si convertì in amarezza. Egli non aveva
la conscienza esatta di questo suo nuovo sofferire; non sapeva raccogliersi
né dominarsi; ondeggiava perduto fra la duplice attrazion feminile e
il fascino della musica, da nessuna delle tre forze penetrato; provava, dentro,
un'impressione indefinibile, come d'un vuoto in cui risonassero di continuo
grandi urti con un'eco dolorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille frammenti,
si sconnetteva, si disfaceva; e le due imagini feminili si sovrapponevano,
si confondevano, si distruggevano a vicenda, senza ch'egli potesse giungere
a separarle, senza ch'egli potesse giungere a definire il suo sentimento verso
l'una, il suo sentimento verso l'altra. E a fior di questa torbida sofferenza
interiore si moveva l'inquietudine prodotta dalla immediata realità,
dalle preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli sfuggiva un
leggero cambiamento nell'attitudine di Donna Maria verso di lui; e credeva
sentire lo sguardo di Elena assiduo e fisso; e non giungeva a trovare un modo
di contenersi, non sapeva se dovesse accompagnar Donna Maria nell'uscir dalla
sala o se dovesse avvicinarsi a Elena, né sapeva se quel caso gli avrebbe
giovato o nociuto presso l'una e l'altra.
- Io vado - disse Donna Maria levandosi, dopo la Romanza.
- Non aspettate la fine?
- No; debbo essere a casa per le cinque.
- Ricordatevi, domattina...
Ella gli tese la mano. Forse pel calore dell'aria chiusa, una lieve Fiamma
le avvivava la pallidezza. Un mantello di velluto, d'un color cupo di piombo,
orlato d'una larga zona di chinchilla, le copriva tutta la persona: e tra la
pelliccia cinerea le violette morivano squisitamente. Nell'uscire, ella camminava
con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi a guardarla.
E per la prima volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale, nella pura
madonna senese, la dama di mondo.
Il Quartetto entrava nel terzo tempo. Poiché la luce diurna diminuiva,
furono alzate le tendine gialle, come in una chiesa. Altre signore abbandonarono
la sala. Sorgeva qua e là qualche bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio
la stanchezza e la disattenzione, che son proprie della fine d'ogni concerto.
Per uno di que' singolari fenomeni d'elasticità e di volubilità repentini,
Andrea provò un senso di sollievo, quasi gaio. Egli perse ogni preoccupazion
sentimentale e passionale, d'un tratto; e l'avventura di piacere apparve sola
alla sua vanità, alla sua viziosità, lucidamente. Egli pensò che
Donna Maria, concedendogli quei convegni innocui, già aveva messo il
piede su la dolce china in fondo a cui è il peccato inevitabile anche
per le anime più vigili; pensò che forse un po' di gelosia avrebbe
potuto spingere Elena a ricadergli nelle braccia, e che quindi forse l'una
avventura avrebbe aiutata l'altra; pensò che forse appunto un vago timore,
un presentimento geloso avevano affrettato l'assenso di Donna Maria al prossimo
convegno. Egli era dunque su la via di una duplice conquista; e sorrise notando
che in ambedue le imprese la difficoltà si presentava sotto un medesimo
aspetto. Egli doveva convertire in amanti due sorelle, cioè due che
volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre simiglianze fra i due
casi egli notò, sorridendo. - Quella voce! Com'erano strani nella voce
di Donna Maria gli accenti d'Elena! - Gli balenò un pensiero folle.
- Quella voce poteva esser per lui l'elemento d'un'opera d'imaginazione: in
virtù d'una tale affinità egli poteva fondere le due bellezze
per possederne una terza imaginaria, più complessa, più perfetta,
più vera perché ideale...
Il terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, finiva tra gli applausi. Andrea
si levò; si avvicinò a Elena.
- Oh, Ugenta, dove siete stato fino ad ora? - gli disse la principessa di Ferentino.
- Au pays du Tendre?
- E quell'incognita? - gli disse Elena, con un'aria leggera, odorando un mazzo
di viole tirato fuori dal manicotto di martora.
- E' una grande amica di mia cugina: Donna Maria Ferres y Capdevila, moglie
del nuovo ministro di Guatemala - rispose Andrea, senza turbarsi. - Una bella
creatura, assai fine. Era da Francesca, a Schifanoja, in settembre.
- E Francesca? - interruppe Elena. - Non sapete quando tornerà?
- Ho notizie sue, da San Remo, recenti. Ferdinando migliora. Ma temo ch'ella
dovrà trattenersi là qualche altro mese, forse più.
- Che peccato!
Il Quartetto entrava nell'ultimo tempo, molto breve. Elena e la Ferentino avevano
occupato due sedie, in fondo, lungo la parete, sotto il pallido specchio dove
si rifletteva la sala malinconica. Elena ascoltava, con la testa china, facendo
scorrere tra le sue mani le estremità d'un lucido boa di martora.
- Accompagnateci - ella disse, quando il concerto fu finito, allo Sperelli.
Montando in carrozza, dopo la Ferentino, ella disse:
- Montate anche voi. Lasciamo Eva al palazzo Fiano. Vi poso poi dove volete.
- Grazie.
Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere
con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla
piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano
come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli
squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea
e fredda; l'orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa,
agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori
il nome d'Africa.
- Per quattrocento bruti, morti brutalmente! mormorò Andrea, ritirandosi
dopo aver osservato allo sportello.
- Ma che dite? - esclamò la Ferentino.
Su l'angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu
costretta a fermarsi. Elena si chinò per guardare; e il suo volto fuor
dell'ombra illuminandosi al riflesso del fanale e alla luce del crepuscolo
apparve d'una bianchezza quasi funeraria, d'una bianchezza gelida e un po'
livida, che risvegliò in Andrea il ricordo vago d'una testa veduta -
non sapeva più quando, non sapeva più dove - in una galleria,
in una cappella.
- Eccoci - disse la principessa, poiché la carrozza era giunta finalmente
al palazzo Fiano. - Addio dunque. Ci ritroveremo stasera dall'Angelieri. Addio,
Ugenta. Venite domani a colazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti e
mio cugino.
- L'ora?
- Mezz'ora dopo mezzogiorno.
- Va bene. Grazie.
La principessa discese. Il servo aspettava un ordine.
- Dove volete ch'io vi porti? - domandò Elena allo Sperelli che le si
era già seduto accanto, nel posto dell'amica.
- Far, far away...
- Su via, dite: a casa vostra?
E senza aspettare altra risposta, ella ordinò:
- Trinità de' Monti, palazzo Zuccari.
Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per
la via Frattina, lasciando dietro di sé la folla, le grida, i romori.
- Oh, Elena, dopo tanto... - proruppe Andrea, chinandosi a guardare la desiderata
che s'era raccolta nell'ombra, in fondo, come schiva d'un contatto.
Il chiaror d'una vetrina, al passaggio, traversò l'ombra; ed egli vide
che Elena sorrideva, bianca, d'un sorriso attirante.
Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il
lungo boa di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d'un
laccio. Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del
profumo medesimo che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il
giovine; gli offerse le labbra, senza parlare.
Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni
terribili e soavi che duravano fino all'ambascia e davano al cuore la sensazione
illusoria come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per prolungare
il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli sali
per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al
palazzo Zuccari.
Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli disse, con la voce un po' velata:
- Discendi. Addio.
- Quando verrai?
- Chi sa!
Il servo aprì lo sportello. Andrea discese. La carrozza voltò di
nuovo, per riprendere la via Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con gli
occhi ancor fluttuanti in una nebbia torbida, guardava se apparisse dietro
il vetro il volto di Elena; ma non vide nulla. La carrozza si allontanò.
Risalendo le scale, egli pensava: - Alfine, ella si converte! Gli rimaneva
nel capo quasi un vapore d'ebrezza, gli rimaneva nella bocca il gusto del bacio,
gli rimaneva nella pupilla il balen del sorriso con cui Elena gli aveva gittato
al collo quella specie di serpe rilucente e aulente. - E Donna Maria? - Egli,
certo, doveva alla senese l'inaspettata voluttà. Senz'alcun dubbio,
in fondo all'atto strano e fantastico di Elena era un principio di gelosia.
Temendo forse ch'egli le sfuggisse, ella aveva voluto legarlo, adescarlo, accendergli
di nuovo la sete. - Mi ama? Non mi ama? - E che importava a lui saperlo? Che
gli giovava? Omai l'incanto era rotto. Nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare
sol una minima parte della felicità morta. Conveniva a lui occuparsi
della carne che era ancóra divina.
Si compiacque a lungo nel considerar l'avventura. Si compiacque, in ispecie,
della maniera elegante e singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio.
E l'imagine del boa suscitò l'imagine della treccia di Donna Maria,
suscitò in confuso tutti gli amorosi sogni da lui sognati intorno a
quella vasta capellatura vergine che un tempo faceva languir d'amore le educande
nel monastero fiorentino. Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la
duplicità del godimento; travide la terza Amante ideale.
Entrava in una disposizion di spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo,
ripensava: - Ieri, una grande scena di passione, quasi con lacrime; oggi una
piccola scena muta di sensualità. E a me pareva ieri d'essere sincero
nel sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi
stesso, un'ora prima del bacio d'Elena, io avevo avuto un alto momento lirico
accanto a Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani, certo, ricomincerò.
Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo
verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni.
La mia legge è in una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della
legge.
Rise di sé medesimo. E da quell'ora ebbe principio la nuova fase della
sua miseria morale.
Senza alcun riguardo, senza alcun ritegno, senza alcun rimorso, egli si diede
tutto a porre in opera le sue imaginazioni malsane. Per trarre Maria Ferres
a cedergli, usò i più sottili artifizii, i più delicati
intrichi, illudendola appunto nelle cose dell'anima, nella spiritualità,
nell'idealità, nell'intima vita del cuore. Per proseguire con egual
prestezza nell'acquisto della nuova amante e nel riacquisto dell'antica, per
profittar d'ogni circostanza nell'una e nell'altra impresa, egli andò incontro
a una quantità di contrattempi, d'impacci, di bizzarri casi; e ricorse,
per uscirne, a una quantità di menzogne, di trovati, di ripieghi meschini,
di sotterfugi degradanti, di bassi raggiri. La bontà, la fede, il candore
di Donna Maria non lo soggiogavano. Egli aveva messo a fondamento della sua
seduzione il versetto d'un salmo: « Asperges me hyssopo et mundabor:
lavabis me, et super nivem dealbabor. » La povera creatura credeva di
salvare un'anima, di redimere un'intelligenza, di purificare con la sua purità un
uomo macchiato; credeva ancor profondamente alle parole indimenticabili udite
nel parco, in quella Epifania dell'Amore, al conspetto del mare, sotto gli
alberi floridi. E questa fede appunto la ristorava e la sollevava in mezzo
alle lotte cristiane che di continuo si combattevano nella sua conscienza,
la liberava dal sospetto, la inebriava d'una specie di misticismo voluttuoso
in cui ella effondeva tesori di tenerezza, tutta l'onda raccolta de' suoi languori,
il fior più dolce della sua vita.
Per la prima volta, forse, Andrea Sperelli si trovava innanzi a una vera passione;
per la prima volta si trovava innanzi a uno di quei grandi sentimenti feminili,
rarissimi, che illuminano d'un bello e terribile baleno il ciel grigio e mutevole
degli amori umani. Egli non se ne curò. Divenne lo spietato carnefice
di sé stesso e della povera creatura.
Ogni giorno un inganno, una viltà.
Il giovedì, il 3 febbraio, su la piazza di Spagna, secondo la parola
corsa al concerto, egli la incontrò davanti alla mostra d'un orafo antiquario,
con Delfina. Appena udì il saluto di lui, ella si volse; e una fiamma
le tinse il pallore. Guardarono insieme i gioielli del Settecento, le fibbie
e i diademi di stras, gli spilli e gli orologi di smalto, le tabacchiere d'oro,
d'avorio, di tartaruga, tutte quelle minuterie d'un secolo morto, che in quella
chiara luce mattinale formavano una ricchezza armoniosa. D'intorno, i fiorai
andavano offerendo in canestri le giunchiglie gialle e bianche, le violette
doppie, lunghi rami di mandorlo. Un fiato di primavera passava nell'aria. La
colonna della Concezione saliva agile al sole, come uno stelo, con la Rosa
mystica in sommo; la Barcaccia era carica di diamanti; la scala della Trinità slargava
in letizia i suoi bracci verso la chiesa di Carlo VIII erta con le due torri
in un azzurro annobilito da' nuvoli, in un cielo antico del Piranesi.
- Che meraviglia!- esclamò Donna Maria. - Avete ragione d'esser tanto
innamorato di Roma.
- Oh, voi non la conoscete ancóra! - le disse Andrea. - Io vorrei essere
il vostro duca...
Ella sorrise.
- ... compiere presso di voi, in questa primavera, un vergiliato sentimentale.
Ella sorrideva, con in tutta la persona un'apparenza men triste, men grave.
Il suo abbigliamento di mattina aveva un'eleganza sobria ma rivelava la finissima
ricerca d'un gusto educato alle cose dell'arte, alle delicatezze del colore.
La sua giacca incrociata in forma di scialle, era d'un panno grigio pendente
un poco nel verde; e una striscia di lontra ne ornava gli orli e su la lontra
correva un ricamo fatto d'un cordoncino di seta. E la giacca si apriva su una
sottoveste anche di lontra. E come il taglio era d'eletto stile così l'accordo
de' due toni, di quell'indescrivibile grigio e di quel fulvo opulento, era
una delizia degli occhi.
Ella domandò:
- Dove foste ier sera?
- Uscii dal concerto pochi minuti dopo di voi. Tornai a casa; restai là,
perché mi parve che il vostro spirito fosse presente. Pensai molto.
Non sentiste il mio pensiero?
- No, non lo sentii. La mia sera fu cupa, non so perché. Mi parve d'essere
tanto sola!
Passò la contessa di Lùcoli in un dog-cart guidando un roano.
Passò, a piedi, Giulia Moceto accompagnata da Giulio Musèllaro.
Passò Donna Isotta Cellesi.
Andrea salutava. Donna Maria gli chiedeva i nomi delle signore: quello della
Moceto non le fu nuovo. Si rammentò del giorno in cui venne pronunziato
da Francesca, innanzi all'arcangelo Michele del Perugino, quando Andrea sfogliava
i suoi disegni nella stanza di Schifanoja; e seguì con lo sguardo l'antica
amante dell'amato. Un'inquietudine la strinse. Tutto ciò che legava
Andrea alla vita anteriore le dava ombra. Ella avrebbe voluto che quella vita,
a lei ignota, non fosse mai stata; avrebbe voluto interamente cancellarla dalla
memoria di chi vi s'era immerso con tanta avidità e n'era emerso con
tanta stanchezza, con tanta perdita, con tanti mali. « Vivere unicamente
in voi e per voi, senza domani, senza ieri, senza alcun altro legame, senza
alcuna altra preferenza, fuor del mondo... » Erano le parole di lui.
Oh sogno!
E stringeva Andrea una diversa inquietudine. S'avvicinava l'ora della colazione
offerta dalla principessa di Ferentino.
- Per dove siete diretta? - domandò.
- Io e Delfina abbiamo preso tè e sandwiches dal Nazzarri, con l'intenzione
di godere il sole. Saliremo al Pincio e visiteremo forse la Villa Medici. Se
volete farci compagnia...
Egli ondeggiò, dentro, penosamente. - Il Pincio, Villa Medici, in un
pomeriggio di febbraio, con lei! - Ma non poteva mancare all'invito; e lo tormentava
anche la curiosità d'incontrare Elena dopo la scena della sera, poiché,
sebbene egli fosse andato in casa Angelieri, ella non vi era apparsa. Disse,
con un'aria desolata:
- Che sfortuna! Devo trovarmi a una colazione, fra un quarto d'ora. Accettai
l'invito, la settimana scorsa. Ma se avessi saputo, avrei potuto liberarmi
da qualunque impegno. Che sfortuna!
- Andate; non perdete tempo. Vi fareste aspettare....
Egli guardò l'oriolo.
- Posso ancóra accompagnarvi per un tratto.
- Mamma, - pregò Delfina - andiamo su per la scala. Andai su, ieri,
con Miss Dorothy. Se tu vedessi!
Come erano in vicinanza del Babuino, voltarono per attraversare la piazza.
Un fanciullo li seguiva pertinace nell'offrire un gran ramo di mandorlo che
Andrea comprò e donò a Delfina. Dagli alberghi uscivano signore
bionde con in mano il libro rosso del Baedeker; le pesanti vetture a due cavalli
s'incrociavano, con un luccichio metallico nei guarnimenti di vecchia foggia;
i fiorai sollevavano verso le straniere i canestri colmi, vociferando, a gara.
- Promettetemi - disse Andrea a Donna Maria, ponendo il piede sul primo gradino
- promettetemi che non entrerete nella Villa Medici senza di me. Oggi, rinunziate;
vi prego.
Ella pareva occupata da un pensiero triste. Disse:
- Rinunzierò.
- Grazie.
La scala d'innanzi a loro levavasi in trionfo, emanando dalla pietra riscaldata
un tepore mitissimo; e la pietra aveva un colore d'antica argenteria, simile
a quel delle fontane di Schifanoja. E Delfina precedeva correndo, col ramo
fiorito, mentre nel vento della corsa qualche fragile foglia rosea s'involava
come una farfalla.
Un acuto rammarico punse il cuore del giovine. Gli apparvero tutte le dolcezze
d'una passeggiata sentimentale pei sentieri medìcei, sotto i bossoli
muti, in quella prima ora del pomeriggio.
- Da chi andate? - gli domandò Donna Maria, dopo un intervallo di silenzio.
- Dalla vecchia principessa Alberoni - rispose Andrea. - Tavola cattolica.
Mentì anche una volta, poiché un istinto l'avvertiva che forse
il nome della Ferentino avrebbe suscitato in Donna Maria qualche sospetto.
- Dunque, addio - ella soggiunse, porgendogli la mano.
- No; vengo fin su la piazza. Ho il mio legno che m'attende là. Guardate:
quella è la mia casa.
E le indicò il palazzo Zuccari, il buen retiro, inondato dal sole, che
dava imagine d'una strana serra diventata opaca e bruna pel tempo.
- Ora che la conoscete, non verrete qualche volta... in ispirito?
- In ispirito, sempre.
- Prima di sabato sera non vi rivedrò?
- Difficilmente.
Si salutarono. Ella, con Delfina, si mise pel viale arborato. Egli montò nel
suo legno e s'allontanò per la via Gregoriana.
Giunse dalla Ferentino con qualche minuto di ritardo. Si scusò. Elena
era là col marito.
La colazione fu servita in un'allegra sala tappezzata d'arazzi della fabbrica
barberina rappresentanti Bambocciate su lo stile di Pietro Loar. Fra quel bel
Seicento grottesco incominciò a scintillare e a scoppiettare un fuoco
di maldicenza meraviglioso. Tutt'e tre le dame avevano lo spirito gaio e pronto.
Barbarella Viti rideva del suo forte riso maschile, arrovesciando un po' indietro
la bella testa efebica; e i suoi occhi neri s'incontravano e si mescevano troppe
volte con i verdi occhi della principessa. Elena motteggiava con una straordinaria
vivacità; e sembrava ad Andrea così discosta, così estranea,
così incurante ch'egli quasi dubitò - Ma iersera fu un sogno?
- Ludovico Barbarisi e il principe di Ferentino secondavano le dame. Il marchese
di Mount Edgcumbe si prendeva cura d'annoiare il suo giovine amico chiedendogli
notizie intorno le prossime vendite e parlandogli d'una rarissima edizione
del romanzo d'Apulejo Metamorphoseon da lui acquistata pochi giorni innanzi,
per mille cinquecento venti lire: - ROMA, 1469, in folio. - Di tratto in tratto
egli s'interrompeva per seguire un gesto di Barbarella; e passava ne' suoi
occhi lo sguardo del maniaco e nelle sue mani odiose un tremito singolare.
L'irritazione, il fastidio, l'insofferenza in Andrea arrivarono a tal punto
ch'egli non riusciva più a dissimularli.
- Ugenta, siete di malumore? - gli chiese la Ferentino.
- Un poco. E' malato Miching Mallecho.
E allora il Barbarisi lo annoiò con molte domande su la malattia del
cavallo. E poi il Mount Edgcumbe ricominciò col Metamorphoseon. E la
Ferentino, ridendo:
- Sai, Ludovico, ieri, al concerto del Quintetto, lo sorprendemmo in flirtation
con una Incognita.
- Già - fece Elena.
- Una Incognita?- esclamò Ludovico.
- Sì; ma forse tu ci potrai dare informazioni. E' la moglie del nuovo
ministro di Guatemala.
- Ah, ho capito.
- Dunque?
- Io, per ora, non conosco che il ministro. Lo vedo giocare al Circolo tutte
le notti.
- Dite, Ugenta: è già stata ricevuta dalla Regina?
- Non so, principessa - rispose Andrea, con un po' d'impazienza nella voce.
Quel cicaleccio gli diveniva insopportabile; e la gaiezza di Elena gli dava
una orribile tortura, e la vicinanza del marito lo disgustava come non mai.
Più che contro questi, egli aveva ira contro sé medesimo. In
fondo alla sua irritazione, movevasi un senso di rimpianto verso la felicità dianzi
ricusata. Il suo cuore, deluso e offeso dall'attitudine crudele di Elena, si
rivolgeva all'altra con un acuto pentimento; ed egli la vedeva pensosa, in
un viale solitario, bella e nobile come non mai.
La principessa si levò, tutti si levarono, per passare nel salone attiguo.
Barbarella corse ad aprire il pianoforte che spariva sotto una vasta sciablacca
di velluto rosso trapunta d'un oro opaco; e si mise a cantarellare la Tarentelle
di Giorgio Bizet dedicata a Cristina Nilsson. Elena ed Eva si chinavano su
di lei per leggere la pagina della musica. Ludovico stava in piedi, dietro
a loro, fumando una sigaretta. Il principe era scomparso.
Ma Lord Heathfield non lasciava Andrea. L'aveva tratto nel vano d'una finestra
e gli parlava di certe coppette amatorie urbaniesi da lui acquistate nella
vendita del cavalier Dàvila; e quella voce stridula, con quella stucchevole
intonazione interrogativa, e que' gesti che indicavano le dimensioni delle
coppette, e quello sguardo ora morto ora tagliente sotto la enorme fronte convessa,
e tutte insomma quelle sembianze esose erano per Andrea un supplizio così fiero
ch'egli stringeva i denti convulso come un uomo sotto i ferri d'un chirurgo.
Un solo desiderio l'occupava omai: quel d'andarsene. Egli pensava di correre
al Pincio, sperava di ritrovare la Donna Maria, di condurla nella Villa Medici.
Potevan esser le due. Egli vedeva dalla finestra il cornicione della casa incontro
splendido di sole nel cielo azzurro. Volgendosi, vedeva al pianoforte il gruppo
delle dame nel bagliore vermiglio che un fascio di raggi suscitava dalla sciablacca.
Al bagliore mescevasi il fumo leggero della sigaretta; e le ciarle e le risa
si mescevano a qualche accordo che le dita di Barbarella cercavano a caso su
i tasti. Ludovico parlò piano nell'orecchio di sua cugina; e la cugina
comunicò forse la cosa alle amiche, poiché di nuovo fu uno scroscio
chiaro e brillante come d'una collana disfilata su una guantiera d'argento.
E Barbarella riprese l'Allegretto del Bizet, sotto voce.
- Tra la la... Le papillon s'est envolé... Tra la la...
Andrea aspettava di cogliere il momento opportuno per interrompere il discorso
del Mount Edgcumbe e per quindi prender congedo. Ma il collezionista metteva
fuori un seguito di periodi legati l'uno con l'altro, senza intervalli, senza
pause. Una pausa avrebbe salvato il martire, e non veniva ancóra; e
l'ansietà cresceva ad ogni attimo.
- Oui! Le papillon s'est envolé... Oui!... Ah! ah! ah! ah! ah!...
Andrea guardò l'oriolo.
- Sono già le due! Perdonatemi, marchese. Bisogna ch'io vada.
E accostandosi al gruppo:
- Perdonatemi, principessa. Alle due ho un consulto in scuderia coi veterinarii.
Salutò in gran fretta. Elena gli diede a stringere la punta delle dita.
Barbarella gli diede un fondant, dicendogli:
- Portatelo al povero Miching da parte mia.
Ludovico voleva accompagnarlo.
- No; resta.
S'inchinò e uscì. Fece le scale in un baleno. Saltò nel
suo legno, gridando al cocchiere:
- Di corsa, al Pincio!
Egli era invaso da un desiderio folle di ritrovare Maria Ferres, di ricuperare
la felicità a cui dianzi aveva rinunziato. Il trotto fitto de' suoi
cavalli non gli sembrava a bastanza veloce. Guardava ansioso, per veder finalmente
apparire la Trinità de' Monti, lo stradone arborato, i cancelli.
La carrozza oltrepassò i cancelli. Egli ordinò al cocchiere di
moderare il trotto e di girare per tutti i viali. Il cuore gli dava un balzo
ogni volta che di lungi, tra gli alberi, appariva una figura di donna; ma invano.
Su la spianata egli discese; prese i piccoli viali chiusi alle vetture, esplorando
ogni angolo: invano. Le persone dai sedili lo seguivano con gli occhi, per
curiosità, poiché la sua inquietudine era manifesta.
Essendo la Villa Borghese aperta, il Pincio riposava tranquillo sotto quel
sorriso languido di febbraio. Rare carrozze e rari pedoni interrompevano la
pace del monte. Gli alberi ancor nudi, biancastri, taluni un po' violetti,
ergevano le braccia in un cielo delicato, sparso di ragnateli finissimi che
il vento strappava e distruggeva col suo soffio. I pini, i cipressi, le altre
piante sempre verdi assumevano un po' del comun pallore, sfumavano, si scolorivano,
si fondevano nel comune accordo. La varietà de' tronchi, il frastaglio
de' rami rendevano più solenne l'uniformità delle erme.
Non fluttuava forse ancóra in quell'aria qualche cosa della tristezza
di Donna Maria? Appoggiato al cancello della Villa Medici, Andrea rimase per
alcuni minuti come oppresso da un peso enorme.
E la vicenda continuò, ne' giorni vegnenti, con le medesime torture,
con torture peggiori, con più crudeli menzogne. Per un fenomeno non
raro nell'abiezion morale degli uomini d'intelletto, egli aveva ora una terribile
lucidità di conscienza, una lucidità continua, senza più oscurazioni,
senza più eclissi. Egli sapeva quel che faceva, e giudicava poi quel
che aveva fatto. E in lui il disprezzo di sé stesso era pari all'ignavia
della volontà.
Ma le sue ineguaglianze appunto e le sue incertezze e i suoi strani silenzii
e le sue strane effusioni e tutte insomma le singolarità di espressione,
che portava un tale stato d'animo, accrescevano, incitavano la passionata misericordia
di Donna Maria. Ella lo vedeva soffrire e ne provava dolore e tenerezza; e
pensava: - A poco a poco, io lo guarirò. - E a poco a poco, senza accorgersene,
ella andava perdendo la forza e piegando verso il desiderio dell'infermo.
Ella piegava dolcemente.
Nel salone della contessa Starnina, ebbe un indefinibile brivido quando sentì su
le sue spalle e su le sue braccia scoperte lo sguardo di Andrea. Per la prima
volta Andrea la vedeva in abito da sera. Egli di lei conosceva soltanto il
volto e le mani: ora, le spalle gli parvero di squisita forma ed anche le braccia,
sebbene forse un po' magre.
Era ella vestita d'un broccato color d'avorio, misto di zibellino. Una sottile
striscia di zibellino correva intorno la scollatura, dando alla carne una indescrivibile
finezza; e la linea delle spalle dall'appiccatura del collo agli omeri cadeva
giù alquanto, aveva quella cadente grazia che è un segno d'aristocrazia
fisica divenuto omai rarissimo. Su i capelli copiosi, disposti in quella foggia
che predilesse pe' suoi busti il Verrocchio, non splendeva né una gemma
né un fiore.
In due o tre momenti opportuni, Andrea le mormorò parole d'ammirazione
e di passione.
- E' la prima volta che noi ci vediamo « nel mondo » - le disse.
- Mi date un guanto, per memoria?
- No.
- Perché, Maria?
- No, no; tacete.
- Oh le vostre mani! Vi ricordate quando, a Schifanoja, le disegnai? Mi pare
che mi appartengano di diritto; mi pare che voi dobbiate concedermene il possesso,
e che, di tutto il vostro corpo, sieno le cose più intimamente animate
dall'anima vostra, le più spiritualizzate, quasi direi le più pure...
Mani di bontà, mani di perdono... Come sarei felice di possedere almeno
un guanto: una larva, una parvenza della loro forma, una spoglia profumata
dal loro profumo!... Mi date un guanto, prima d'andarvene?
Ella non rispose più. Il colloquio fu interrotto. Dopo qualche tempo,
pregata, ella sedé al pianoforte; si tolse i guanti, li posò sul
leggìo. Le sue dita, fuor di quelle sottili guaine, apparvero bianchissime,
lunghette, inanellate. Brillava di vivi fuochi su l'anulare sinistro un grande
opale.
Sonò le due Sonate-Fantasie del Beethoven (op. 27). L'una, dedicata
a Giulietta Guicciardi, esprimeva una rinunzia senza speranza, narrava il risveglio
dopo un sogno troppo a lungo sognato. L'altra fin dalle prime battute dell'Andante,
in un ritmo soave e piano, accennava a un riposo dopo la tempesta; quindi,
passando per le irrequietudini del secondo tempo, allargavasi in un Adagio
di luminosa serenità e finiva con un Allegro vivace in cui era una sollevazion
di coraggio e quasi un ardore.
Andrea sentì che, in mezzo a quell'uditorio intento, ella sonava sol
per lui. Di tratto in tratto, i suoi occhi dalle dita della sonatrice andavano
ai lunghi guanti che pendevano di sul leggìo conservando l'impronta
di quelle dita, conservando una inesprimibile grazia nella piccola apertura
del polso ove dianzi appariva appena appena un po' della cute feminile.
Donna Maria si levò, circondata d'elogi. Non riprese i guanti; s'allontanò.
Invase allora Andrea la tentazion d'involarli. - Li aveva ella forse lasciati
là per lui? i Ma egli ne voleva uno solo. Come diceva finamente un fino
amatore, un par di guanti è tutt'altro che un guanto solo.
Condotta di nuovo al pianoforte dall'insistenza della contessa Starnina, Donna
Maria tolse dal leggìo i guanti e li posò all'estremità della
tastiera, nell'ombra dell'angolo. Quindi sonò la Gavotta di Luigi Rameau,
la Gavotta delle dame gialle, l'indimenticabile danza antica del Tedio e dell'Amore. « Certe
dame biondette, non più giovini... »
Andrea la guardava fiso, con un po' di trepidazione. Quando ella si levò,
prese un guanto solo. Lasciò l'altro nell'ombra, su la tastiera, per
lui.
Tre giorni dopo, essendo Roma attonita sotto la neve, Andrea trovò a
casa questo biglietto: « Martedì, ore 2 pom. - Stasera, dalle
undici a mezzanotte, mi aspetterete in una carrozza, d'innanzi al palazzo Barberini,
fuori del cancello. Se a mezzanotte non sarò ancóra apparsa,
potrete andarvene. - A stranger ». Il biglietto aveva un tono romanzesco
e misterioso. In verità la marchesa di Mount Edgcumbe faceva troppo
abuso di carrozza nell'esercizio dell'amore. Era forse per un ricordo del 25
marzo 1885? Voleva forse ella riprender l'avventura nel momento medesimo con
cui l'aveva interrotta? E perché quello stranger? Andrea ne sorrise.
Egli tornava allora allora da una visita a Donna Maria, da un'assai dolce visita;
e il suo spirito inchinava più verso la senese che verso l'altra. Gli
indugiavan nell'orecchio le vaghe e gentili parole che la senese aveva dette
guardando insieme con lui a traverso i vetri cader la neve mite come il fior
del pesco o il fior del melo in su gli alberi della Villa Aldobrandini già illusi
da un presentimento di stagion novella. Ma, prima d'uscir pel pranzo, diede
ordini molto accurati a Stephen.
Alle undici egli era d'innanzi al palazzo; e l'ansia e l'impazienza lo divoravano.
La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero, l'incertezza
gli accendevano l'imaginazione, lo sollevavano dalla realità.
Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbraio, un plenilunio favoloso,
di non mai veduto lume. L'aria pareva impregnata come d'un latte immateriale;
tutte le cose parevano esistere d'una esistenza di sogno, parevano imagini
impalpabili come quelle d'una meteora, parevan esser visibili di lungi per
un irradiamento chimerico delle loro forme. La neve copriva tutte le verghe
dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un'opera di ricamo più leggera
e più gracile d'una filigrana, che i colossi ammantati di bianco sostenevano
come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine
d'una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto
da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne,
profonda, la casa dei Barberini occupava l'aria: tutti i rilievi grandeggiavano
candidissimi gittando un'ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori
e quelle ombre sovrapponevano alla vera architettura dell'edifizio il fantasma
d'una prodigiosa architettura ariostèa.
Chino a riguardare, l'aspettante sentiva sotto il fascino di quel miracolo
che i fantasmi vagheggianti dell'amore si risollevavano e le sommità liriche
del sentimento riscintillavano come le lance ghiacce dei cancelli alla luna.
Ma egli non sapeva quale delle due donne avrebbe preferita in quello scenario
fantastico: se Elena Heathfield vestita di porpora o Maria Ferres vestita d'ermellino.
E, come il suo spirito piacevasi d'indugiare nell'incertezza della preferenza,
accadeva che nell'ansia dell'attesa si mescessero e confondessero stranamente
due ansie, la reale per Elena, l'imaginaria per Maria.
Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante;
e pareva come se qualche cosa di vitreo nell'aria s'incrinasse a ognun de'
tocchi. L'orologio della Trinità de' Monti rispose all'appello; rispose
l'orologio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. Erano le
undici e un quarto.
Andrea guardò, aguzzando la vista, verso il portico. - Avrebbe ella
osato attraversare a piedi il giardino? - Pensò la figura di Elena tra
il gran candore. Quella della senese risorse spontanea, oscurò l'altra,
vinse il candore, candida super nivem. La notte di luna e di neve era dunque
sotto il dominio di Maria Ferres, come sotto una invincibile influenza astrale.
Dalla sovrana purità delle cose nasceva l'imagine dell'amante pura,
simbolicamente. La forza del Simbolo soggiogava lo spirito del poeta.
Allora, sempre guardando se l'altra venisse, egli si abbandonò al sogno
che gli suggerivano le apparenze delle cose.
Era un sogno poetico, quasi mistico. Egli aspettava Maria. Maria aveva eletta
quella notte di soprannaturale bianchezza per immolar la sua propria bianchezza
al desiderio di lui. Tutte le cose bianche intorno, consapevoli della grande
immolazione, aspettavano per dire ave ed amen al passaggio della sorella. Il
silenzio viveva.
« Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem. E' avvolta nell'ermellino;
porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è più leggero
della sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave.
« Un'ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l'accompagna.
I gigli enormi e difformi non s'inchinano, poiché il gelo li ha irrigiditi,
poiché il gelo li ha fatti simili agli asfodilli che illuminavano i sentieri
dell'Ade. Ben però, come quelli de' paradisi cristiani, hanno una voce;
dicono: - Amen.
« Così sia. L'adorata va ad immolarsi. Così sia. Ella è già presso
l'aspettante; fredda e muta, ma con occhi ardenti ed eloquenti. Ed egli prima
le mani, le care mani che chiudono le piaghe e schiudono i sogni, bacia. Così sia.
« Di qua, di là, si dileguano le Chiese alte su colonne a cui la
neve illustra di volute e d'acanti magici il fastigio. Si dileguano i Fòri
profondi, sepolti sotto la neve, immersi in un chiarore azzurro, onde sorgono
gli avanzi dei portici e degli archi verso la luna più inconsistenti delle
lor medesime ombre. Si dileguano le fontane, scolpite in rocce di cristallo,
che versano non acqua ma luce.
« Ed egli poi le labbra, le care labbra che non sanno le false parole,
bacia. Così sia. Fuor della fascia discinta si effondono i capelli come
un gran flutto oscuro, ove tutte sembran raccolte le tenebre notturne fugate
dalla neve e dalla luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit. Amen. »
E l'altra non veniva! Nel silenzio e nella poesia cadevano di nuovo le ore
degli uomini scoccate dalle torri e dai campanili di Roma. Qualche vettura,
senza alcuno strepito, discendeva per le Quattro Fontane verso la piazza o
saliva a Santa Maria Maggiore faticosamente; e i fanali erano gialli come topazii
nella chiarità. Pareva che, salendo la notte al colmo, la chiarità crescesse
e diventasse più limpida. Le filigrane dei cancelli riscintillavano
come se i ricami d'argento vi s'ingemmassero. Nel palazzo, grandi cerchi di
luce abbagliante splendevano su le vetrate, a simiglianza di scudi adamantini.
Andrea pensò: - Se ella non venisse?
Quella strana onda di lirismo passàtagli su lo spirito, nel nome di
Maria, aveva coperta l'ansietà dell'attesa, aveva placata l'impazienza,
aveva ingannato il desiderio. Per un attimo, il pensiero ch'ella non venisse
gli sorrise. Poi di nuovo, più forte, lo punse il tormento dell'incertezza
e lo turbò l'imagine della voluttà ch'egli avrebbe forse goduta
là dentro, in quella specie di piccola alcova tiepida dove le rose esalavano
un profumo tanto molle. E, come nel giorno di San Silvestro, il suo sofferire
era acuito da una vanità; poiché, sopra tutto, egli si rammaricava
che uno squisito apparato d'amore andasse perduto senza effetto alcuno.
Là dentro, il freddo era temperato del calore continuo che esalavano
i tubi di metallo pieni d'acqua bollente. Un fascio di rose bianche, nivee,
lunari, posava su la tavoletta d'innanzi al sedile. Una pelle d'orso bianco
teneva calde le ginocchia. La ricerca d'una specie di Symphonie en blanc majeur
era manifesta in molte altre particolarità. Come il re Francesco I sul
vetro della finestra, il conte d'Ugenta aveva inciso di sua mano sul vetro
dello sportello un galante motto che, nell'appannatura fatta dall'alito, pareva
brillare su una lastra di opale:
Pro amore curriculum
Pro amore cubiculum.
E per la terza volta le ore sonarono. Mancavano a mezzanotte quindici minuti.
L'aspettazione durava da troppo tempo: Andrea si stancava e s'irritava. Nell'appartamento
abitato da Elena, nelle finestre dell'ala sinistra non vedevasi altro lume
che quello esterno della luna. - Sarebbe dunque venuta? E in che modo? Di nascosto?
O con qual pretesto? Lord Heathfield era, certo, a Roma. Come avrebbe ella
giustificata la sua assenza notturna? - Di nuovo, insorsero nell'animo dell'antico
amante le acri curiosità intorno le relazioni che correvano tra Elena
e il marito, intorno i loro legami coniugali, intorno il loro modo di vivere
in comune, nella medesima casa. Di nuovo, la gelosia lo morse e la bramosia
lo accese. Egli si ricordava delle allegre parole dette da Giulio Musèllaro,
una sera, a proposito del marito; e si proponeva di prendere Elena ad ogni
costo, per il diletto e per il dispetto. - Oh, s'ella fosse venuta!
Una carrozza sopraggiunse ed entrò nel giardino. Egli si chinò a
guardare; riconobbe i cavalli d'Elena; intravide nell'interno una figura di
dama. La carrozza disparve sotto il portico. Egli restò dubitoso. -
Tornava dunque di fuori? Sola? - Acuì lo sguardo verso il portico, intensamente.
La carrozza usciva, per il giardino, nella strada, imboccando la via Rasella:
era vuota.
Mancavano due o tre minuti all'ora estrema; ed ella non veniva! L'ora sonò.
Una terribile angoscia strinse il deluso. Ella non veniva!
Non comprendendo egli le cause della impuntualità di lei, le si rivolse
contro; ebbe un moto di collera subitaneo; e gli balenò anche il pensiero
ch'ella avesse voluto infliggergli una umiliazione, un castigo, o ch'ella avesse
voluto togliersi un capriccio, esasperare un desiderio. Ordinò al cocchiere,
pel portavoce:
- Piazza del Quirinale.
Egli si lasciava attrarre da Maria Ferres; si abbandonava di nuovo al vago
sentimento di tenerezza che, dopo la visita pomeridiana, gli aveva lasciato
nell'anima un profumo e gli aveva suggerito pensieri e imagini di poesia. La
delusione recente, ch'era per lui una prova del disamore e della malvagità di
Elena, lo spingeva forte verso l'amore e la bontà della senese. Il rammarico
per la bellissima notte perduta gli aumentava, ma sotto il riflesso del sogno
dianzi sognato. Ed era, in verità, una delle notti più belle
che sien trascorse nel cielo di Roma; era uno di quegli spettacoli che opprimono
d'una immensa tristezza lo spirito umano perché soverchiano ogni potenza
ammirativa e sfuggono alla piena comprension dell'intelletto.
La piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria,
raggiante come un'acropoli olimpica su l'Urbe silenziosa. Gli edifizii, intorno,
grandeggiavano nel cielo aperto: l'alta porta papale del Bernini, nel palazzo
del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura,
avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando imagine d'un
mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel
palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati
dalle strane adunazioni della neve. Divini, a mezzo dell'egual campo bianco,
i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e
dei cavalli s'allargavano nella luce; le groppe ampie brillavano come ornate
di gualdrappe gemmanti; brillavano gli omeri e l'un braccio levato di ciascun
semidio. E, sopra, di tra i cavalli, slanciavasi l'obelisco; e, sotto, aprivasi
la tazza della fontana; e lo zampillo e l'aguglia salivano alla luna come uno
stelo di diamante e uno stelo di granito.
Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, d'innanzi, si profondava
in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata
da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse
e miste dell'architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola
unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in
un vapore argentino, lontanissimi, d'una immaterialità inesprimibile,
simili forse ad orizzonti d'un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito
la visione d'un qualche astro semispento abitato dai Mani. La Cupola di S.
Pietro, luminosa d'un singolare azzurro metallico nell'azzurro dell'aria, giganteggiava
prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini
Eroi cignìgeni, bellissimi in quell'immenso candore come in un'apoteosi
della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno
della città sacra.
La carrozza rimase ferma d'innanzi alla reggia, lungo tempo. Di nuovo, il poeta
seguiva il suo sogno inarrivabile. E Maria Ferres era vicina; forse anche vegliava,
sognando; forse anche sentiva gravare sul cuore tutta la grandezza della notte
e ne moriva d'angoscia; inutilmente.
La carrozza passò, piano, d'innanzi alla porta di Maria Ferres, ch'era
chiusa, mentre in alto i vetri delle finestre rispecchiavano il plenilunio
guardando gli orti pènsili aldobrandini ove gli alberi sorgevano, aerei
prodigi. E il poeta gittò il fascio delle rose bianche su la neve, come
un omaggio, d'innanzi alla porta di Maria Ferres.
IV
Io vidi: indovinai... Ero dietro i vetri, da tanto tempo. Non sapevo risolvermi
ad andarmene. Tutto quel bianco m'attirava... Vidi la carrozza passare lentamente,
nella neve. Sentii che eravate voi, prima di vedervi gittar le rose. Nessuna
parola mai potrà dirvi la tenerezza delle mie lacrime. Piansi per voi,
d'amore; e piansi per le rose, di pietà. Povere rose! Mi pareva che
dovessero vivere e soffrire e agonizzare, su la neve. Mi pareva, non so, che
mi chiamassero, che si lamentassero, come creature abbandonate. Quando la vostra
carrozza si allontanò, io mi affacciai per guardarle. Fui sul punto
di scendere, giù nella strada, a prenderle. Ma qualcuno era ancóra
fuori di casa; e il domestico era di là, nell'anticamera, che aspettava.
Pensai mille modi, ma non riuscii a trovarne uno attuabile. Mi disperai...
Sorridete? Proprio, io non so che follia mi prese. Stavo tutta attenta a spiare
i passanti, con gli occhi pieni di lacrime. Se avessero calpestato le rose,
mi avrebbero calpestato il cuore. Ed ero felice in quel supplizio; ero felice
del vostro amore, del vostro atto delicato e appassionato, della vostra gentilezza,
della vostra bontà... Ero triste e felice, quando mi addormentai; e
le rose dovevan esser già moribonde. Dopo qualche ora di sonno, mi svegliò il
rumore delle pale sul lastrico. Spazzavano la neve, proprio d'innanzi alla
nostra porta. Io rimasi in ascolto; e il rumore e le voci continuarono fin
oltre l'alba, e mi facevano tanta malinconia... Povere rose! Ma saranno sempre
vive nella mia memoria. Certi ricordi bastano a profumare un'anima per sempre...
Mi amate molto, Andrea?
E, dopo un'esitazione:
- Amate me sola? Avete dimenticato il resto, interamente? Sono miei tutti i
vostri pensieri?
Ella palpitava e tremava.
- Io soffro... della vostra vita anteriore, di quella ch'io non conosco; soffro
dei vostri ricordi, di tutte le tracce che forse vi rimangono ancóra
nello spirito, di tutto ciò che in voi non potrò mai comprendere
e mai possedere. Oh, s'io potessi darvi l'oblio d'ogni cosa! Odo continuamente
le vostre parole, Andrea, le prime prime parole. Credo che le udrò nell'istante
della morte...
Ella palpitava e tremava, sotto l'urto della passione soverchiatrice.
- Io vi amo ogni giorno più, ogni giorno più!
Andrea la inebriò di parole soavi e profonde, la vinse d'ardore, le
narrò il sogno della notte nivale e il suo desiderio disperato e tutta
la utile favola delle rose e molte altre imaginazioni liriche. Gli pareva ch'ella
fosse prossima ad abbandonarsi; vedeva gli occhi di lei nuotare in qualche
onda di languore più lunga; vedeva su la bocca dolente apparire quella
inesprimibile contrattura che è come la dissimulazione d'una tendenza
fisica istintiva al bacio; e vedeva le mani, quelle mani gracili e forti, mani
d'arcangelo, fremere come le corde d'uno strumento, esprimere tutto l'orgasmo
interno. - Se oggi potrò rapirle anche un solo bacio fuggevole - pensava
- avrò di molto affrettato il termine ch'io sospiro.
Ma ella, consapevole del pericolo, si levò d'improvviso, chiedendo licenza;
sonò il campanello, ordinò al domestico il tè e che pregasse
Miss Dorothy di condur Delfina nel salone. Poi, volgendosi ad Andrea, un po'
convulsa:
- E meglio così. Perdonatemi.
E da quel giorno evitò di riceverlo in giorni che non fossero, come
il martedì e il sabato, di ricevimento comune.
Ella però si lasciò guidare da lui in varie peregrinazioni a
traverso la Roma degli Imperatori e la Roma dei Papi. Il vergiliato quaresimale
si svolse nelle ville, nelle gallerie, nelle chiese, nelle ruine. Dov'era passata
Elena Muti passò Maria Ferres. Non di rado, le cose suggerivano al poeta
le medesime effusioni di parole che Elena aveva già udite. Non di rado,
un ricordo lo allontanava dalla realtà presente, lo turbava d'improvviso.
- A che pensate, ora? - gli chiedeva Maria, guardandolo in fondo alle pupille,
con un'ombra di sospetto.
Ed egli rispondeva:
- A voi, sempre a voi. Mi prende come una curiosità di guardarmi dentro
per vedere se ancóra mi rimanga qualche minima parte dell'anima che
non sia in possesso dell'anima vostra, qualche minima piega che non sia penetrata
dalla vostra luce. E' come una esplorazione interiore, che io faccio per voi,
già che voi non potete farla. Ebbene, Maria, non ho più nulla
omai da offerirvi. Siete nell'assoluto dominio di tutto il mio essere. Non
mai, penso, una creatura umana è stata più intimamente posseduta
da una creatura umana, in ispirito. Se la mia bocca si congiungesse alla vostra,
avverrebbe la transfusione della mia vita nella vostra vita. Penso che morirei.
Ella gli credeva, poiché la voce di lui dava alle parole la fiamma della
verità.
Un giorno erano sul Belvedere della Villa Medici: guardavano ne' larghi e cupi
tetti di busso l'orlo del sole morire a poco a poco e la Villa Borghese ancor
nuda sommergersi a poco a poco in un vapore violaceo. Maria disse, invasa da
una subitanea tristezza:
- Chi sa quante volte siete venuto qui, a sentirvi amare!
Andrea rispose, con l'accento d'un uom trasognato:
- Non so; non ricordo. Che dite mai?
Ella tacque. Poi si levò, per leggere le inscrizioni su i pilastri del
tempietto. Erano, per lo più, inscrizioni d'amanti, di novelli sposi,
di contemplatori solitarii.
Una portava, sotto una data e un nome di donna, un frammento del Pausias:
SIE
Immer allein sind Liebende sich in der grössten Versammlung;
Aber sind sie zu Zweien, stellt auch der Dritte sich ein.
ER
Amor, ja!
Un'altra era la glorificazione di un nome alato:
A solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Helles.
Un'altra era una sospirevole quartina del Petrarca:
Io amai sempre ed amo forte ancóra,
E son per amar più di giorno in giorno,
Quel dolce loco ove piangendo torno
Spesse fiate quando Amor m'accora.
Un'altra pareva essere una leal dichiarazione, firmata da due leali amanti:
Ahora y no siempre.
Tutte esprimevano un sentimento erotico, o triste o giocondo; cantavano le
lodi d'una bella o rimpiangevano un bene remoto; narravano d'un bacio ardente
o d'una estasi languida; ringraziavano i vecchi bussi cortesi, indicavano ai
felici venturi una latebra, notavano la singolarità d'un tramonto contemplato.
Chiunque, sposo o amante, sotto il fascino feminino, era stato preso da un
entusiasmo lirico sul piccolo Belvedere solitario a cui conduce una scala di
pietra coperta di velluto. Le mura parlavano. Una indefinibile malinconia emanava
da quelle voci ignote d'amori morti, una malinconia quasi sepolcrale, come
dagli epitaffi d'una cappella.
D'un tratto, Maria si volse ad Andrea, dicendo:
- Ci siete anche voi.
Egli rispose, guardandola, con l'accento medesimo di dianzi:
- Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo.
Ella lesse. Ed era, scritto di mano d'Andrea, un epigramma del Goethe, un distico,
quello che incomincia: « Sage, wie lebst du? » - Rispondi, come
vivi tu? - « Ich lebe! » - Io vivo! E, se pur cento e cento secoli
mi fosser dati, io m'augurerei soltanto che domani fosse come oggi. - Sotto
era una data: Die ultima februarii 1885; e un nome: Helena Amyclaea.
Ella disse:
- Andiamo.
Il tetto di busso pioveva tenebre su la scala di pietra coperta di velluto.
Egli chiese:
- Volete appoggiarvi?
Ella rispose:
- No; grazie.
Discesero in silenzio, pianamente. Ad ambedue pesava il cuore.
Dopo un intervallo, ella disse:
Eravate felice, due anni fa.
Ed egli, con una ostinazione meditata:
- Non so; non ricordo.
Il bosco era misterioso, in un crepuscolo verde. I tronchi e i rami sorgevano
con intrichi e viluppi serpentini. Qualche foglia luccicava come un occhio
di smeraldo, nell'ombra.
Dopo un intervallo, ella soggiunse:
- Chi era quella Elena?
- Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo. Amo voi sola.
Penso per voi sola. Vivo per voi sola. Non so più nulla; non ricordo
più nulla; non desidero più nulla, oltre il vostro amore. Nessun
filo più mi lega alla vita d'un tempo. Sono ora fuor del mondo, interamente
perduto nel vostro essere. Io sono nel vostro sangue e nella vostra anima;
io mi sento in ogni palpito delle vostre arterie; io non vi tocco eppure mi
mescolo con voi come se vi tenessi di continuo tra le mie braccia, su la mia
bocca, sul mio cuore. Io vi amo e voi mi amate; e questo dura da secoli, durerà nei
secoli, per sempre. Accanto a voi, pensando a voi, vivendo di voi, ho il sentimento
dell'infinito, il sentimento dell'eterno. Io vi amo e voi mi amate. Non so
altro; non ricordo altro...
Egli le versava su la tristezza e sul sospetto un'onda di eloquenza infiammata
e dolce. Ella ascoltava, diritta innanzi ai balaustri dell'ampia terrazza che
si apre sul limite del bosco.
- Ed è vero? Ed è vero? - ripeteva ella con una voce spenta ch'era
come l'eco affievolita d'un grido dell'anima interno. - Ed è vero?
- E' vero, Maria; e questo soltanto è vero. Tutto il resto è un
sogno. Io vi amo e voi mi amate. E voi mi possedete come io vi posseggo. Io
vi so così profondamente mia che non vi chiedo carezze, non vi chiedo
alcuna prova d'amore. Aspetto. Mi è caro, sopra ogni cosa, obedirvi.
Io non vi chiedo carezze; ma le sento nella vostra voce, nel vostro sguardo,
nelle vostre attitudini, ne' vostri minimi gesti. Tutto ciò che parte
da voi è per me inebriante come un bacio; e io non so, sfiorandovi la
mano, se sia più forte la voluttà de' miei sensi o la sollevazione
del mio spirito.
Egli posò la sua mano su la mano di lei, lievemente. Ella tremò,
sedotta, provando un desiderio folle di piegarsi verso di lui, di offrirgli
infine le labbra, il bacio, tutta sé stessa. Le parve (poiché ella
dava fede alle parole di Andrea) le parve che per tale atto ella lo avrebbe
legato a sé con l'ultimo nodo, con un nodo indissolubile. Ella credeva
di venir meno, di struggersi, di morire. Era come se tutti i tumulti della
passione già sofferta le gonfiassero il cuore, aumentassero il tumulto
della passione presente. Era come se rivivessero in quell'attimo tutte le commozioni
trascorse da che ella aveva conosciuto quell'uomo. Le rose di Schifanoja rifiorivano
tra i lauri e i bussi della Villa Medici.
- Io aspetto, Maria. Non vi chiedo nulla. Mantengo le mie promesse. Io aspetto
l'ora suprema. Sento che verrà, poiché la forza dell'amore è invincibile.
E sparirà in voi ogni timore, ogni terrore; e la comunione dei corpi
vi sembrerà pura come la comunione delle anime, poiché sono egualmente
pure tutte le fiamme...
Egli le premeva, con la mano senza guanto, la mano inguantata. Il giardino
pareva deserto. Dal palazzo dell'Academia non giungeva alcun romore, alcuna
voce. Si udiva chiaro nel silenzio il chioccolìo della fontana a mezzo
dello spiazzo; i viali si prolungavano verso il Pincio diritti, come chiusi
fra due pareti di bronzo su cui non anche moriva la doratura del vespro; l'immobilità di
tutte le forme dava imagine d'un labirinto impietrato: le cime delle canne
acquatiche intorno la vasca erano immobili nell'aria come le statue.
- Mi sembra - disse la senese, socchiudendo i cigli - di trovarmi su una terrazza
di Schifanoja, lontana lontana da Roma, sola... con te. Chiudo gli occhi, veggo
il mare.
Ella vedeva dal suo amore e dal silenzio nascere un gran sogno e dilatarsi
nel tramonto. Ella tacque, sotto lo sguardo di Andrea; e un poco sorrise. Ella
aveva detto: con te! Pronunziando quelle due sillabe, ella aveva chiuso gli
occhi: e la bocca era parsa più luminosa, quasi che vi si fosse raccolto
anche lo splendor celato dalle palpebre e dai cigli.
- Mi sembra che tutte queste cose non sieno fuori di me, ma che tu le abbia
create nell'anima mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, profonda,
ogni volta che io sono innanzi a uno spettacolo di bellezza e che tu mi sei
vicino.
Ella parlava lentamente, con qualche pausa, come se la sua voce fosse l'eco
tarda di un'altra voce inaudibile. Perciò le sue parole avevano un singolare
accento, acquistavano un suono misterioso, parevano venire dalle più segrete
profondità dell'essere; non erano il comun simbolo imperfetto, erano
un'espressione intensa più viva, trascendente, d'un significato più vasto.
« Dalle sue labbra, come da un giacinto pieno d'una rugiada di miele, cade
a goccia a goccia un murmure liquido, che fa morir di passione i sensi, dolce
come le pause della musica planetaria udita nell'estasi. » Il poeta ricordava
i versi di Percy Shelley. Egli li ripeté a Maria, sentendosi conquistare
dalla commozione di lei, penetrare dal fascino dell'ora, esaltare dall'apparenza
delle cose. Un tremito lo prese, quando egli era per rivolgerle il tu mistico.
- Io non era mai giunto, in nessun più alto sogno del mio spirito, a
ideare quest'altezza. Tu ti levi sopra tutte le mie idealità, tu splendi
sopra tutti gli splendori del mio pensiero, tu m'illumini d'una luce che è quasi
per me insostenibile...
Ella stava diritta, innanzi ai balaustri, con le mani posate su la pietra,
con la testa alzata, più pallida di quando, nella mattina memorabile,
camminava sotto i fiori. Le lacrime le empivano gli occhi socchiusi, le rilucevano
tra i cigli; e sogguardando innanzi a sé, ella vedeva il cielo farsi
roseo, a traverso il velo del pianto.
Era, nel cielo, una pioggia di rose, come quando nella sera d'ottobre il sole
moriva dietro il colle di Rovigliano accendendo gli stagni per la pineta di
Vicomìle. « Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse,
molli, a simiglianza d'una nevata in un'aurora. » La Villa Medici, eternamente
verde e senza fiori, riceveva su le cime delle sue rigide mura arboree i molli
petali innumerevoli caduti dai giardini celesti.
Ella si volse, per discendere. Andrea la seguì. Camminarono in silenzio
verso la scala; guardarono il bosco che si stendeva fra la terrazza e il Belvedere.
Pareva che il chiarore si fermasse sul limite, dove sorgono le due erme custodi,
e non potesse rompere la tenebra; pareva che quegli alberi rameggiassero in
un'altra atmosfera o in un'acqua cupa, in un fondo marino, simili a vegetazioni
oceaniche.
Ella fu invasa da una sùbita paura; si affrettò verso la scala,
discese cinque o sei gradini; si arrestò, smarrita, palpitante, udendo
nel silenzio il battito delle sue arterie dilatarsi come uno strepito enorme.
La villa era scomparsa; la scala era serrata fra due pareti, umida, grigia,
rotta dall'erbe, triste come quella d'una carcere sotterranea. Ella vide Andrea
piegarsi verso di lei, con un atto improvviso, per baciarla in bocca.
- No, no, Andrea... No!
Egli tendeva le mani per trattenerla, per costringerla.
- No!
Perdutamente, ella gli prese una mano, se la trasse alle labbra; la baciò due,
tre volte, perdutamente. Poi si mise a correre giù per la scala, verso
la porta, come folle.
- Maria! Maria! fermatevi!
Si ritrovarono l'una di fronte all'altro, innanzi alla porta chiusa, pallidi,
ansanti, scossi da un terribile tremito, guardandosi negli occhi mutati, avendo
negli orecchi il rombo del loro sangue, credendo di soffocare. E nel tempo
medesimo, con un impeto concorde, si strinsero, si baciarono.
Ella disse, temendo di venir meno, appoggiandosi alla porta, con un gesto di
suprema preghiera:
- Non più... Io muoio.
Rimasero un minuto, l'una di fronte all'altro, senza toccarsi. Pareva che tutto
il silenzio della villa gravasse su loro, in quel luogo angusto cinto d'alti
muri, simile a una tomba scoperta. Si udiva distinto il gracchiare basso e
interrotto dei corvi che si raccoglievano su i tetti del palazzo o traversavano
il cielo. Di nuovo, un senso strano di paura occupò il cuore della donna.
Ella gittò in alto, alla sommità dei muri, uno sguardo sbigottito.
Facendosi forza, disse:
- Ora, possiamo uscire... Potete aprire.
E la sua mano s'incontrò con quella di Andrea sul saliscendi, nella
furia incalzante.
E, come ella passò rasente le due colonne di granito, sotto il gelsomino
senza fiori, Andrea disse:
- Guarda! Il gelsomino fiorisce.
Ella non si volse, ma sorrise; e il sorriso era assai triste, pieno dell'ombre
che metteva in quell'anima il riapparir subitaneo del nome inscritto sul Belvedere.
E, mentre ella camminava per il viale misterioso sentendo tutto il suo sangue
alterato dal bacio, un'implacabile angoscia le incideva nel cuore quel nome,
quel nome!
Libro quarto
I
Il marchese di Mount Edgcumbe, aprendo il grande armario segreto, la biblioteca
arcana, diceva allo Sperelli:
- Voi dovreste disegnarmi i fermagli. Il volume è in-4, datato da Lampsaco
come Les Aphrodites del Nerciat: 1734. Gli intagli mi paiono finissimi. Giudicatene.
Egli porse allo Sperelli il libro raro. Era intitolato GERVETII - De Concubitu
- libri tres, ornato di vignette voluttuose.
- Questa figura è molto importante - soggiunse, indicando col dito una
delle vignette, che rappresentava un congiungimento di corpi indescrivibile.
- E' una cosa nuova che io non conosceva ancóra. Nessuno dei miei scrittori
erotici ne fa menzione...
Seguitava a parlare, discutendo alcune particolarità, seguendo le linee
del disegno con quel dito bianchiccio sparso di peli su la prima falange e
terminato da un'unghia acuta, lucida, un po' livida come l'unghia dei quadrumani.
Le sue parole penetravano nell'orecchio dello Sperelli con uno stridore atroce.
- Questa edizione olandese di Petronio è magnifica. E questo è l'Erotopaegnion
stampato a Parigi nel 1798. Conoscete il poema attribuito a John Wilkes, An
essay on woman? Eccone una edizione del 1763.
La raccolta era ricchissima. Comprendeva tutta la letteratura pantagruelica
e rococò di Francia: le priapèe, le fantasie scatologiche, le
monacologie, gli elogi burleschi, i catechismi, gli idillii, i romanzi, i poemi
dalla Pipe cassée del Vadé alle Liaisons dangereuses, dall'Arétin
d'Augustin Carrache alle Tourterelles de Zelmis, dalla Descouverture du style
impudique al Faublas. Comprendeva quanto di più raffinato e di più infame
l'ingegno umano ha prodotto nei secoli per comento dell'antico inno sacro al
dio di Lampsaco: Salve, sancte pater.
II collezionista prendeva i libri dalle file dell'armario, e li mostrava al
giovine amico, parlando di continuo. Le sue mani oscene si facevano carezzevoli
intorno i libri osceni rilegati in cuoi ed in tessuti di pregio. Ad ogni tratto
sorrideva sottilmente. E gli passava negli occhi grigi il baleno della follia,
sotto la enorme fronte convessa.
- Posseggo anche la edizione principe degli Epigrammi di Marziale, quella di
Venezia, fatta da Vindelino di Spira, in-folio. Eccola. Ed ecco il Beau, il
traduttore di Marziale, il comentatore delle famose trecento ottanta due oscenità.
Come vi sembrano le rilegature? I fermagli sono d'un maestro. Questa composizione
di priapi è di grande stile.
Lo Sperelli ascoltava e guardava, con una specie di stupore che a poco a poco
andavasi mutando in orrore e in dolore. I suoi occhi ad ogni momento erano
attirati da un ritratto d'Elena, che pendeva alla parere, sul damasco rosso.
- E' il ritratto di Elena, dipinto da Sir Frederick Leiyhton. Ma guardate qui,
tutto il Sade! Le roman philosophique, La philosophie dans le boudoir, Les
crimes de l'amour, Les malheurs de la vertu... Voi, certo, non conoscete questa
edizione. E' fatta per conto mio da Hérissey, con caratteri elzeviriani
del XVIII secolo, su carta delle Manifatture imperiali del Giappone, in soli
cento venti cinque esemplari. Il divino marchese meritava questa gloria. I
frontespizii, i titoli, le iniziali, tutti i fregi raccolgono quanto di più squisito
noi conosciamo in materia d'iconografia erotica. Guardate i fermagli!
Le rilegature dei volumi erano mirabili. Una pelle di pescecane, rugosa ed
aspra come quella che avvolge l'elsa delle sciabole giapponesi, copriva le
due facce e il dorso; i fermagli e le borchie erano d'un bronzo assai ricco
d'argento, opere di cesello elegantissime, che ricordavano i più bei
lavori in ferro del secolo XVI.
- L'autore, Francis Redgrave, è morto in un manicomio. Era un giovine
di genio. Io posseggo tutti i suoi studii. Ve li mostrerò.
Il collezionista s'accendeva. Egli uscì per andare a prendere l'albo
dei disegni di Francis Redgrave, nella stanza contigua. Il suo passo era un
po' saltellante e malsicuro, come d'un uomo che abbia in sé un principio
di paralisi, una malattia spinale incipiente; il suo busto rimaneva rigido,
non assecondando il moto delle gambe, simile al busto d'un automa.
Andrea Sperelli lo seguì con lo sguardo, fin su la soglia, inquieto.
Rimasto solo, fu preso da una terribile angoscia. La stanza, tappezzata di
damasco rosso cupo, come la stanza dove Elena due anni innanzi erasi data a
lui, gli parve allora tragica e lugubre. Forse quelle erano le tappezzerie
medesime che avevano udite le parole di Elena: - Mi piaci! - L'armario aperto
lasciava vedere le file dei libri osceni, le rilegature bizzarre impresse di
simboli fallici. Alla parete pendeva il ritratto di Lady Heathfield accanto
a una copia della Nelly O'Brien di Joshua Reynolds. Ambedue le creature, dal
fondo della tela, guardavano con la stessa intensità penetrante, con
lo stesso ardor di passione, con la stessa fiamma di desiderio sensuale, con
la stessa prodigiosa eloquenza; ambedue avevano la bocca ambigua, enigmatica,
sibillina, la bocca delle infaticabili ed inesorabili bevitrici d'anime; e
avevano ambedue la fronte marmorea, immacolata, lucente d'una perpetua purità.
- Povero Redgrave! - disse Lord Heathfield, rientrando con la custodia dei
disegni tra le mani. - Senza dubbio, egli era un genio. Nessuna fantasia erotica
supera la sua. Guardate!... Guardate!... Che stile! Nessuno artista, io penso,
nello studio della fisionomia umana si avvicina alla profondità e all'acutezza
a cui è giunto questo Redgrave nello studio del phallus. Guardate!
Egli si allontanò un istante per andare a richiudere l'uscio. Poi tornò verso
il tavolo, presso la finestra; e si mise a sfogliare la raccolta, sotto gli
occhi dello Sperelli, parlando di continuo, indicando con l'unghia scimiesca,
affilata come un'arma, le particolarità di ciascuna figura.
Egli parlava nella sua lingua, dando ad ogni principio di frase una intonazione
interrogativa e ad ogni fine una cadenza eguale, stucchevole. Certe parole
laceravano l'orecchio di Andrea come un suono aspro di ferri raschiati, come
lo stridore d'una lama d'acciaio a contrasto d'una lastra di cristallo.
E i disegni del defunto Francis Redgrave passavano.
Erano spaventevoli; parevano il sogno d'un becchino torturato dalla satiriasi;
si svolgevano come una paurosa danza macabra e priapica; rappresentavano cento
variazioni d'un sol motivo, cento episodii d'un solo dramma. E le dramatis
personae erano due: un priapo e uno scheletro, un phallus e un rictus.
- Questa è la pagina « superiore » - esclamò il marchese
di Mount Edgcumbe, indicando l'ultimo disegno, su cui in quel punto scendeva
a traverso i vetri della finestra un sorriso tenue di sole.
Era, infatti, una composizione di straordinaria potenza fantastica: una danza
di scheletri muliebri, in un ciel notturno, guidata da una Morte flagellatrice.
Su la faccia impudica della luna correva una nuvola nera, mostruosa, disegnata
con un vigore e un'abilità degni della matita d'O-kou-sai; l'attitudine
della tetra corifea, l'espression del suo teschio dalle orbite vacue erano
improntate d'una vitalità mirabile, d'una spirante realità non
mai raggiunta da alcun altro artefice nella figurazione della Morte; e tutta
quella sicinnide grottesca di scheletri slogati in gonne discinte, sotto le
minacce della sferza, rivelava la tremenda febbre che aveva preso la mano del
disegnatore, la tremenda follia che aveva preso il suo cervello.
- Ecco il libro che ha inspirato questo capolavoro a Francis Redgrave. Un gran
libro!... Il più raro tra i rarissimi... Non conoscete voi Daniel Maclisius?
Lord Heathfield porse allo Sperelli il trattato De verberatione amatoria. Si
accendeva sempre più, ragionando di piaceri crudeli. Le tempie calve
gli s'invermigliavano e le vene della fronte gli si gonfiavano e la bocca gli
s'increspava, un po' convulsa, ad ogni tratto. E le mani, le mani odiose, gestivano
con gesti brevi ma concitati, mentre i gomiti rimanevano rigidi, d'una rigidezza
paralitica. La bestia immonda, laida, feroce appariva in lui, senza più veli.
Nell'imaginazione dello Sperelli sorgevano tutti gli orrori del libertinaggio
inglese: le gesta dell'Armata Nera, della black army, su pe' marciapiedi di
Londra; la caccia implacabile alle « vergini verdi »; i lupanari
di West-End, della Halfousn Street; le case eleganti di Anna Rosemberg, della
Jefferies; le camere segrete, ermetiche, imbottite dal pavimento al soffitto,
ove si smorzano i gridi acuti che la tortura strappa alle vittime...
- Mumps! Mumps! Siete solo?
Era la voce di Elena. Ella batteva piano a un degli usci.
- Mumps !
Andrea trasalì: tutto il sangue gli fece velo agli occhi, gli accese
la fronte, gli mise negli orecchi un rombo, come se una vertigine improvvisa
stesse per coglierlo. Un'insurrezione di brutalità lo sconvolse; gli
attraversò lo spirito, nella luce d'un lampo, una visione oscena; gli
passò nel cervello oscuramente un pensier criminoso; l'agitò per
un attimo non so che smania sanguinaria. In mezzo al turbamento portato in
lui da quei libri, da quelle figure, dalle parole di quell'uomo, risaliva su
dalle cieche profondità dell'essere lo stesso impeto istintivo che già egli
aveva provato un giorno, sul campo delle corse, dopo la vittoria contro il
Rùtolo, tra le esalazioni acri del cavallo fumante. Il fantasma d'un
delitto d'amore lo tentò e si dileguò, rapidissimo, nella luce
d'un lampo: uccidere quell'uomo, prendere quella donna per violenza, appagare
così la terribile cupidigia carnale, poi uccidersi.
- Non sono solo - disse il marito, senza aprire l'uscio. - Fra qualche minuto
potrò condurvi nel salone il conte Sperelli che è qui con me.
Egli ripose nell'armario il trattato di Daniel Maclisius; chiuse la custodia
dei disegni di Francis Redgrave e la portò nella stanza contigua.
Andrea avrebbe dato qualunque prezzo per sottrarsi al supplizio che l'aspettava
ed era attratto da quel supplizio, nel tempo medesimo. Il suo sguardo, anche
una volta, si levò alla parete rossa, verso il cupo quadro ove brillava
la faccia esangue di Elena dagli occhi seguaci, dalla bocca di sibilla. Un
fascino acuto e continuo emanava da quella immobilità imperiosa. Quel
pallore unico dominava tragicamente tutta la rossa ombra della stanza. Ed egli
sentì, anche una volta, che la sua trista passione era immedicabile.
Un'angoscia disperata l'assalse. - Non avrebbe egli dunque mai più posseduta
quella carne? Era ella dunque risoluta a non concedergli? Ed egli avrebbe per
sempre nutrita in sé la fiamma del desiderio insoddisfatto? - L'eccitazion
prodotta in lui dai libri di Lord Heathfield inaspriva la sofferenza, rinfocolava
la febbre. Era nel suo spirito un confuso tumulto d'imagini erotiche; la nudità di
Elena entrava nei gruppi infami delle vignette incise dal Coiny, prendeva attitudini
di piacere già note al passato amore, si piegava ad attitudini nuove,
si offeriva alla lascivia bestiale del marito. Orrore! Orrore!
- Volete che andiamo di là? - chiese il marito, ricomparendo su la soglia,
ben ricomposto e tranquillo. - Mi disegnerete dunque i fermagli pel mio Gervetius?
Andrea rispose:
- Mi proverò.
Egli non poteva reprimere il tremito interno. Nel salone, Elena lo guardò curiosamente,
con un sorriso irritante.
- Che facevate, di là? - ella gli chiese, pur sempre sorridendo al modo
medesimo.
- Vostro marito mi mostrava cimelii.
- Ah!
Ella aveva la bocca sardonica, una cert'aria beffarda, un'irrision palese nella
voce. Si adagiò, sopra un largo divano coperto d'un tappeto di Bouckara
amaranto su cui languivano i cuscini pallidi e su' cuscini le palme d'oro smorto.
Si adagiò in un'attitudine molle, guardando Andrea di tra i lusinghevoli
cigli, con quegli occhi che parevano come suffusi d'un qualche olio purissimo
e sottilissimo. E si mise a parlare di cose mondane, ma con una voce che penetrava
fin nell'intime vene del giovine, come un fuoco invisibile.
Due o tre volte Andrea sorprese lo sguardo scintillante di Lord Heathfield
fisso su la moglie: uno sguardo che gli parve carico di tutte le impurità e
le infamie dianzi rimescolate. Quasi ad ogni frase, Elena rideva, d'un riso
irridente, con una strana facilità, non turbata dalla brama di que'
due uomini che s'erano accesi insieme su le figure dei libri osceni. Ancóra,
il pensier criminoso attraversò lo spirito di Andrea, nella luce d'un
lampo. Tutte le fibre gli tremarono.
Quando Lord Heathfield si levò ed uscì, egli proruppe, con la
voce roca, afferrandole un polso, avvicinandosi a lei così da sfiorarla
con l'alito veemente:
- Io perdo la ragione... Io divento folle... Ho bisogno di te, Elena... Ti
voglio...
Ella liberò il polso, con un gesto superbo. Poi disse, con una terribile
freddezza:
- Vi farò dare da mio marito venti franchi. Uscendo di qui, potrete
sodisfarvi.
Lo Sperelli balzò in piedi, livido.
Lord Heathfield rientrando chiese:
- Ve ne andate già? Che avete mai?
E sorrise del giovine amico, poiché egli conosceva gli effetti de' suoi
libri.
Lo Sperelli s'inchinò. Elena gli offerse la mano, senza scomporsi. Il
marchese lo accompagno fin su la soglia, dicendogli piano:
- Vi raccomando il mio Gervetius.
Come fu sotto il portico, Andrea vide avanzarsi pel viale una carrozza. Un
signore dalla gran barba bionda s'affacciò allo sportello, salutando.
Era Galeazzo Secìnaro.
Subitamente, gli sorse nello spirito il ricordo della Fiera di maggio con l'episodio
della somma offerta da Galeazzo per ottenere che Elena Muti asciugasse alla
barba le belle dita bagnate di Sciampagna. Affrettò il passo, uscì nella
strada: aveva la sensazione ottusa e confusa come d'un romore assordante che
sfuggisse dall'intimo del suo cervello.
Era un pomeriggio della fine d'aprile, caldo e umido. Il sole appariva e spariva
tra i nuvoli fioccosi e pigri. L'accidia dello scirocco teneva Roma.
Sul marciapiede della via Sistina, egli scorse d'innanzi a sé una signora
che camminava lentamente verso la Trinità. Riconobbe Donna Maria Ferres.
Guardò l'orologio: erano, infatti, circa le cinque; mancavano pochi
minuti all'ora abituale del ritrovo. Maria, certo, andava al palazzo Zuccari.
Egli affrettò il passo per raggiungerla. Quando fu da presso la chiamò per
nome:
- Maria!
Ella ebbe un sussulto:
- Come qui? Io salivo da te. Sono le cinque.
- Manca qualche minuto. Io correvo ad aspettarti. Perdonami.
- Che hai? Sei molto pallido, tutto alterato... Di dove vieni? Ella corrugò i
sopraccigli, fissandolo, a traverso il velo.
- Dalla scuderia - rispose Andrea, sostenendo lo sguardo, senza arrossire,
come s'egli non avesse più sangue. - Un cavallo, che m'era assai caro,
s'è rovinato un ginocchio per colpa del jockey. Domenica non potrà quindi
prender parte al Derby. La cosa mi fa pena ed ira. Perdonami. Ho indugiato
senza accorgermene. Ma alle cinque manca qualche minuto...
- Bene. Addio. Me ne vado.
Erano su la piazza della Trinità. Ella si soffermò per congedarsi,
tendendogli la mano. Le durava ancóra tra i sopraccigli una piega. In
mezzo alla sua gran dolcezza, talvolta ella aveva insofferenze quasi aspre
e movimenti altieri che la trasfiguravano.
- No, Maria. Vieni. Sii dolce. Io vado su, ad aspettarti. Tu arriva fino ai
cancelli del Pincio e torna indietro. Vuoi?
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le cinque.
- Senti? - soggiunse Andrea.
Ella disse, dopo una leggera esitazione:
- Verrò.
- Grazie. Ti amo.
- Ti amo.
Si separarono.
Donna Maria seguitò il suo cammino; traversò la piazza, entrò nel
viale arborato. Sul suo capo, a intervalli, lungo la muraglia, il soffio languido
dello scirocco suscitava negli alberi verdi un murmure. Nel tepore umido dell'aria
fluivano rare onde di profumo e svanivano. Le nuvole parevano più basse;
certi stormi di rondini quasi radevano il suolo. Eppure, in quella snervante
gravezza era qualche cosa di molle che ammolliva il cuor passionato della senese.
Da che ella aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si agitava in
una felicità solcata d'inquietudini profonde; tutto il suo sangue cristiano
s'accendeva alle voluttà della passione non mai provate e s'agghiacciava
agli sbigottimenti della colpa. La sua passione era altissima, soverchiante,
immensa; così fiera che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria
della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed
aveva poi subitanei ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui
ella copriva di baci e di lacrime la testa della figlia attonita, singhiozzando
con un dolor disperato, come sopra la testa d'una morta.
Tutto il suo essere s'affinava alla fiamma, si assottigliava, si acuiva, acquistava
una sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità oltraveggente,
una facoltà divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad ogni inganno
di Andrea, ella si sentiva passare un'ombra su l'anima, provava una inquietudine
indefinita che talvolta addensandosi prendeva forma d'un sospetto. E il sospetto
la mordeva, le rendeva amari i baci, acre ogni carezza, finché non si
dileguava sotto gli impeti e gli ardori dell' incomprensibile amante.
Ella era gelosa. La gelosia era il suo spasimo implacabile, la gelosia, non
pur del presente, ma del passato. Per quella crudeltà che le persone
gelose hanno contro sé stesse, ella avrebbe voluto leggere nella memoria
di Andrea, scoprirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce segnate dalle
antiche amanti, sapere, sapere. La domanda che più spesso le correva
alle labbra, quando Andrea taceva, era questa: - A che pensi? - E mentre ella
profferiva le tre parole, inevitabilmente l'ombra le passava negli occhi e
su l'anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si levava dal cuore.
Anche quel giorno, all'improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva ella
avuto in fondo a sé un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido
erale balenato nello spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di
Lady Heathfield, dal palazzo Barberini.
Ella sapeva che Andrea era stato l'amante di quella donna, sapeva che quella
donna si chiamava Elena, sapeva infine che quella era la Elena dell'inscrizione. « Ich
lebe!... » Il distico del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel grido
lirico le dava la misura dell'amor d'Andrea per la bellissima donna. Egli doveva
averla immensamente amata!
Camminando sotto gli alberi, ella ricordava l'apparizione di Elena nella sala
del concerto, al Palazzo de' Sabini, e il turbamento mal dissimulato dell'antico
amante. Ricordava la terribile commozione che l'aveva presa una sera, a una
festa dell'Ambasciata d'Austria, quando la contessa Starnina le aveva detto,
al passaggio di Elena: - Ti piace la Heathfield? E' stata una gran fiamma del
nostro amico Sperelli, e credo che sia ancóra.
« Credo che sia ancóra. » Quante torture per quella frase!
Ella aveva seguita con gli occhi la gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla
elegante; e più d'una volta il suo sguardo erasi incontrato con quel di
lei, ed ella ne aveva avuto un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima,
presentate l'una all'altra dalla baronessa di Boeckhorst, in mezzo alla folla,
avevano scambiato un semplice inchino della testa. E il tacito inchino erasi
ripetuto in seguito nelle assai rare volte che Donna Maria Ferres y Capdevila
aveva attraversato un salone mondano.
Perché i dubbii, sopiti o spenti sotto l'onda delle ebrezze, risorgevano
con tanta veemenza? Perché ella non riusciva a reprimerli, ad allontanarli?
Perché in fondo a lei si agitavano, ad ogni piccolo urto dell'imaginazione,
tutte quelle sconosciute inquietudini?
Camminando sotto gli alberi, ella sentiva crescere l'affanno. Il suo cuore
non era pago; il sogno levatosi dal suo cuore - nella mattina mistica, sotto
gli alberi floridi, in conspetto del mare - non s'era avverato. La parte più pura
e più bella di quell'amore era rimasta là, nel bosco solitario,
nella selva simbolica che fiorisce e fruttifica perpetuamente contemplando
l'Infinito.
Ella si soffermò, d'innanzi al parapetto che guarda San Sebastianello.
I vecchissimi elci, d'una verdura così cupa che quasi pareva nera, protendevano
su la fontana un tetto arteficiato, senza vita. I tronchi portavano ampie ferite,
ricolmate con la calce e col mattone, come le aperture d'una muraglia. - Oh
giovini àlbatri raggianti e spiranti nella luce! - L'acqua grondando
dalla superior tazza di granito nel bacino sottoposto metteva uno scoppio di
gemiti, a intervalli, come un cuore che si riempia d'angoscia e poi trabocchi
in pianto. - Oh melodia delle Cento Fontane, pel viale de' lauri! - La città giaceva
estinta, come sepolta dalla cenere d'un vulcano invisibile, silenziosa e funerea
come una città disfatta da una pestilenza, enorme, informe, dominata
dalla Cupola che le sorgeva dal grembo come una nube.
- Oh mare! Oh mare sereno!
Ella sentiva crescere l'affanno. Un'oscura minaccia veniva a lei dalle cose.
La occupò quel medesimo senso di timore che già ella aveva provato
più d'una volta. Sul suo spirito cristiano balenò il pensiero
del castigo.
E tuttavia ella rabbrividì nel più profondo del suo essere al
pensiero che l'amante l'aspettava; al pensiero dei baci, delle carezze, delle
folli parole, ella sentì il suo sangue infiammarsi, la sua anima languire.
Il brivido della passione vinse il brivido del timor divino. Ed ella si mosse
verso la casa dell'amante, trepida, sconvolta, come se andasse a un primo ritrovo.
- Oh, finalmente! - esclamò Andrea, accogliendola fra le sue braccia,
bevendole l'alito dalla bocca affannata.
Poi, prendendole una mano e premendosela al petto:
- Sentimi il cuore. Se tu indugiavi ancor un minuto, mi si rompeva.
Ella mise la guancia nel luogo della mano. Egli le baciò la nuca.
- Senti?
- Sì; mi parla.
- Che ti dice?
- Che non mi ami.
- Che ti dice? - ripeté il giovine, mordendola alla nuca, impedendole
di sollevarsi.
Ella rise.
- Che mi ami.
Ella si tolse il mantello, il cappello, i guanti. Andò a odorare i fiori
di lilla bianchi che empivano le alte coppe fiorentine, quelle del tondo borghesiano.
Aveva su i tappeti un passo di straordinaria leggerezza; e nulla era più soave
dell'atto con cui ella affondava il viso tra le ciocche delicate.
- Prendi - ella disse, recidendo coi denti una cima e tenendola in bocca, fuor
delle labbra.
- No; io prenderò dalla tua bocca un altro fiore, men bianco ma più saporoso...
Si baciarono, a lungo, a lungo, in mezzo al profumo.
Egli disse, con la voce un po' mutata, traendola:
- Vieni, di là.
- No, Andrea; è tardi. Oggi, no. Restiamo qui. Io ti farò il
tè; tu mi farai tante carezze buone.
Ella gli prese le mani, intrecciò le sue dita a quelle di lui.
- Non so che ho. Mi sento il cuore così gonfio di tenerezza che quasi
piangerei.
Le sue parole tremavano; i suoi occhi s'inumidivano.
- Se potessi non lasciarti, restare qui tutta la sera!
Un'accorazione profonda le suggeriva accenti d'indefinibile malinconia.
- Pensare che tu non saprai mai tutto tutto il mio amore! Pensare che io non
saprò mai il tuo! Mi ami tu? Dimmelo, dimmelo sempre, cento volte, mille
volte, senza stancarti. Mi ami?
- Non lo sai forse?
- Non lo so.
Ella profferì queste parole con una voce tanto sommessa che Andrea le
udì appena.
- Maria!
Ella piegò il capo sul petto di lui, in silenzio; appoggiò la
fronte, quasi aspettando ch'egli parlasse, per ascoltarlo.
Egli guardò quel povero capo reclinato sotto il peso del presentimento;
sentì il premer leggero di quella fronte nobile e triste sul suo petto
indurito dalla menzogna, fasciato di falsità. Una commozione angosciosa
lo strinse; una misericordia umana di quella sofferenza umana gli chiuse la
gola. E quel buon moto dell'anima si risolse in parole che mentivano, diede
il tremito della sincerità a parole che mentivano.
- Tu non lo sai!... Hai parlato piano; il soffio ti si è spento su le
labbra; qualche cosa in fondo a te s'è levata contro quel che dicevi;
tutti tutti i ricordi del nostro amore si son levati contro quel che dicevi.
Tu non sai che io ti amo!...
Ella rimaneva china, ascoltando, palpitando forte, riconoscendo, credendo riconoscere
nella voce commossa del giovine il suono vero della passione, l'inebriante
suono ch'ella credeva inimitabile. Ed egli le parlava quasi all'orecchio, nel
silenzio della stanza, mettendole sul collo un soffio caldo, con pause più dolci
delle parole.
- Avere un pensiero unico, assiduo, di tutte l'ore, di tutti gli attimi;...
non concepire altra felicità che quella, sovrumana, irraggiata dalla
sola tua presenza su l'esser mio;... vivere tutto il giorno nell'aspettazione
inquieta, furiosa, terribile, del momento in cui ti rivedrò;... nutrire
l'imagine delle tue carezze, quando sei partita, e di nuovo possederti in un'ombra
quasi creata;... sentirti, quando io dormo, sentirti, sul mio cuore, viva,
reale, palpabile, mescolata al mio sangue, mescolata alla mia vita;... e credere
in te soltanto, giurare in te soltanto, riporre in te soltanto la mia fede,
la mia forza, il mio orgoglio, tutto il mio mondo, tutto quel che sogno, e
tutto quel che spero...
Ella alzò la faccia rigata di lacrime. Egli tacque, arrestandole con
le labbra le stille tiepide su le gote. Ella lacrimava e sorrideva, mettendogli
le dita tremule ne' capelli, smarritamente, singhiozzando:
- Anima, anima mia!
Egli la fece sedere; le si inginocchiò ai piedi, non lasciando di baciarla
su le palpebre. A un tratto, ebbe un sussulto. Aveva sentito su le labbra palpitare
rapidamente i lunghi cigli di lei, a similitudine di un'ala irrequieta. Era
una carezza strana che dava un piacere insostenibile; era una carezza che Elena
un tempo soleva fare ridendo, più volte di seguito, costringendo l'amante
al piccolo spasimo nervoso della vellicazione; e Maria l'aveva appresa da lui,
e spesso egli sotto una tal carezza aveva potuto evocare l'imagine dell'altra.
Al sussulto, Maria sorrise. E, come le indugiava ancóra una lacrima
lucida tra i cigli, ella disse:
- Bevi anche questa!
E, come egli bevve, ella rise, inconsapevole.
Ella esciva dal pianto quasi lieta, rassicurata, piena di grazie!
- Ti farò il tè - disse.
- No; rimani qui, seduta.
Egli s'accendeva, vedendola sul divano, tra i cuscini. Avvenne, nel suo spirito,
una subita sovrapposizione dell'imagine d'Elena.
- Lasciami alzare! - pregò Maria, liberando il busto da un stretta.
- Voglio che tu beva il mio tè. Sentirai. Il profumo t'arriverà all'anima.
Parlava d'un tè prezioso, giuntole da Calcutta, ch'ella aveva donato
ad Andrea il giorno innanzi.
Si alzò e andò a sedersi su la seggiola di cuoio dalle Chimere,
dove ancóra moriva squisitamente il color « rosa di gruogo » dell'antica
dalmatica. Su la piccola tavola ancóra brillavano le maioliche fini
di Castel Durante.
Nel compier l'opera, ella diceva tante cose gentili; espandeva la sua bontà e
la sua tenerezza con un pieno abbandono; godeva ingenuamente di quella cara
intimità segreta, in quella stanza tranquilla, in mezzo a quel lusso
raffinato. Dietro di lei, come dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli,
sorgevano le coppe di cristallo coronate dalle ciocche di lilla bianche; e
le sue mani d'arcangelo si movevano tra le istoriette mitologiche di Luzio
Dolci e gli esametri d'Ovidio.
- A che pensi? - chiese ella ad Andrea che le stava vicino, seduto sul tappeto,
con la testa appoggiata contro un bracciuolo della seggiola.
- Ti ascolto. Parla ancóra!
- Non più.
- Parla! Dimmi tante cose, tante cose...
- Quali cose?
- Quelle che sai tu sola.
Egli faceva cullare dalla voce di lei l'angoscia che gli veniva dall'altra;
faceva animare dalla voce di lei la figura dell'altra.
- Senti? - esclamò Maria, versando su le foglie aromatiche l'acqua bollente.
Un profumo acuto si spandeva nell'aria, col vapore. Andrea l'aspirò.
Poi disse, chiudendo gli occhi, rovesciando indietro il capo:
- Baciami.
E, appena ebbe il contatto delle labbra, trasalì tanto forte che Maria
ne fu sorpresa.
Ella versò, in una tazza la bevanda e glie la offerse, con un sorriso
misterioso.
- Bada. C'è un filtro.
Egli rifiutò l'offerta.
- Non voglio bere a quella tazza.
- Perché?
- Dammi tu... da bere.
- Ma come?
- Così. Prendi un sorso e non inghiottire.
- Scotta troppo ancóra.
Ella rideva, a quel capriccio dell'amante. Egli era un po' convulso, pallidissimo,
con lo sguardo alterato. Aspettarono che il tè si freddasse. Ad ogni
momento, Maria accostava le labbra all'orlo della tazza per provare; poi rideva,
d'un piccolo riso fresco che non pareva suo.
- Ora, si può bere - annunziò.
- Ora, prendi un bel sorso. Così.
Ella teneva le labbra serrate, per contenere il sorso; ma le ridevano i grandi
occhi a cui le lacrime recenti avevan dato maggior fulgore.
- Ora, versa, a poco a poco.
Egli trasse nel bacio, suggendo, tutto il sorso. Come sentiva mancarsi il respiro,
ella sollecitava il lento bevitore stringendogli le tempie.
- Dio mio! Tu mi volevi soffocare.
S'abbandonò sul cuscino, quasi per riposarsi, languida, felice.
- Che sapore aveva? Tu m'hai bevuta anche l'anima. Sono tutta vuota.
Egli era rimasto pensoso, con lo sguardo fisso.
- A che pensi? - gli chiese Maria, di nuovo, sollevandosi a un tratto, posandogli
un dito nel mezzo della fronte, quasi per fermare il pensiero invisibile.
- A nulla - rispose. - Non pensavo. Seguivo dentro di me gli effetti del filtro...
Allora ella anche volle provare. Bevve da lui con delizia. Poi esclamò,
premendosi una mano sul cuore e mettendo un lungo respiro:
- Quanto mi piace!
Andrea tremò. Non era quello lo stesso accento di Elena nella sera della
dedizione? Non erano le stesse parole? Egli le guardava la bocca.
- Ripeti.
- Che cosa?
- Quello che hai detto.
- Perché?
- E una parola tanto dolce, quando tu la pronunzii... Tu non puoi intendere...
Ripeti.
Ella sorrideva, inconsapevole, un po' turbata dallo sguardo singolare dell'amante,
quasi timida.
- Ebbene... mi piace!
- Ed io?
- Come?
- Ed io... a te...?
Ella, perplessa, guardava l'amante che le si torceva ai piedi, convulso, nell'aspettazione
della parola ch'egli voleva strapparle.
- Ed io?
- Ah! Tu... mi piaci.
- Così, così... Ripeti. Ancóra!
Ella consentiva, inconsapevole. Egli provava uno spasimo ed una voluttà indefinibili.
- Perché chiudi gli occhi? - chiese ella, non in sospetto, ma affinché egli
le esprimesse la sua sensazione.
- Per morire.
Egli posò la testa su le ginocchia di lei, rimanendo qualche minuto
in quell'attitudine, silenzioso, oscuro. Ella gli accarezzava piano i capelli,
le tempie, la fronte ove, sotto la carezza, si moveva un pensiero infame. D'intorno
a loro, la stanza immergevasi nell'ombra, a poco a poco; fluttuava il profumo
commisto dei fiori e della bevanda; le forme si confondevano in una sola apparenza
armonica e ricca, senza realità.
Dopo un intervallo, Maria disse:
- Lèvati, amore. Bisogna che io ti lasci. E' tardi.
Egli si levò, pregando:
- Resta con me un altro momento, fino all'Ave Maria.
E la trasse di nuovo a sedere sul divano, dove i cuscini luccicavano nell'ombra.
Nell'ombra egli la distese con un moto repentino, le strinse il capo, coprendole
di baci la faccia. II suo ardore era quasi iroso. Egli imaginava di stringere
il capo dell'altra, e imaginava quel capo macchiato dalle labbra del marito;
e non ne aveva ribrezzo ma ne aveva anzi un desiderio più selvaggio.
Dai fondi più bassi dell'istinto gli risalivano nella conscienza tutte
le torbide sensazioni avute in cospetto di quell'uomo; gli risalivano al cuore
tutte le oscenità e le brutture, come un'onda di fango rimescolata;
e tutte quelle vili cose passavano nei baci su le guance, su la fronte, su
i capelli, sul collo, su la bocca di Maria.
- No; lasciami! - ella gridò liberandosi dalla stretta con uno sforzo.
E corse, verso la tavola del tè, ad accendere le candele.
- Siate savio - ella soggiunse, un poco affannata, ravviandosi, con una gentile
aria di cruccio.
Egli era rimasto sul divano e la guardava, muto.
Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva il piccolo
specchio di Mona Amorrosisca. Si mise il cappello e il velo, innanzi a quella
lastra offuscata che aveva apparenza d'un'acqua torba, un poco verdastra.
- Come mi dispiace di lasciarti, stasera!... Stasera più delle altre
volte... - mormorò, oppressa dalla malinconia dell'ora.
Nella stanza il lume violaceo del crepuscolo pugnava col lume delle candele.
La tazza di tè era su l'orlo della tavola, fredda, diminuita dei due
sorsi. In sommo delle alte coppe di cristallo i fiori di lilla parevano più bianchi.
Il cuscino della poltrona conservava ancóra l'impronta del corpo ch'eravisi
affondato.
La campana della Trinità de' Monti cominciò a sonare.
- Dio mio, com'è tardi! Aiutami a mettermi il mantello - fece la povera
creatura, tornando verso Andrea.
Egli la strinse di nuovo fra le braccia, la stese, la coprì di baci
furiosi, ciecamente, perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare,
soffocandole il gemito su la bocca, soffocando su la bocca di lei un impeto
che gli veniva, quasi invincibile, di gridare il nome di Elena. E sul corpo
della inconsapevole consumò l'orribile sacrilegio.
Rimasero qualche minuto avvinti. Ella disse, con la voce spenta ed ebra:
- Tu ti prendi la mia vita!
Ella era felice di quell'appassionata veemenza.
Ella disse:
- Anima, anima mia, tutta tutta mia!
Disse, felice:
- Ti sento battere il cuore... tanto forte, tanto forte!
Poi disse, con un sospiro:
- Lasciami alzare. Bisogna ch'io vada.
Andrea era bianco e stravolto come un omicida.
- Che hai? - gli chiese ella teneramente.
Egli volle sorriderle. Rispose:
- Non avevo mai provata una commozione così profonda. Credevo di morire.
Si volse a una delle coppe, tolse il fascio dei fiori, e l'offerse a Maria,
accompagnandola verso la porta, quasi sollecitandola a partirsi, poiché ogni
gesto, ogni sguardo, ogni parola di lei gli dava uno strazio insostenibile.
- Addio, amore. Sognami! - disse la povera creatura, dalla soglia, con la sua
tenerezza suprema.
II
La mattina del 20 maggio, Andrea Sperelli risaliva il Corso inondato dal
sole, quando si sentì chiamare, innanzi al portone del Circolo.
Stava sul marciapiede un crocchio di gentiluomini amici, godendo il passaggio
delle signore e malignando. C'era Giulio Musèllaro, con Ludovico Barbarisi,
con il duca di Grimiti, con Galeazzo Secìnaro; c'era Gino Bommìnaco;
c'era qualche altro.
- Non sai il fatto di stanotte? - gli domandò il Barbarisi.
- No. Quale fatto?
- Don Manuel Ferres, il ministro del Guatemala...
- Ebbene?
- E' stato sorpreso, in pieno giuoco, mentre barava.
Lo Sperelli si dominò, quantunque alcuno de' gentiluomini lo guardasse
con una certa curiosità maliziosa.
- E come?
- Galeazzo era presente, anzi giocava allo stesso tavolo.
Il principe Secìnaro si mise a raccontare le particolarità.
Andrea Sperelli non affettò l'indifferenza. Ascoltava anzi con un'aria
attenta e grave. Disse, infine:
- Mi dispiace molto.
Rimase pochi altri minuti nel crocchio; salutò quindi gli amici, per
andarsene.
- Che via fai? - gli domandò il Secìnaro.
- Torno a casa.
- Ti accompagno per un tratto.
S'incamminarono in giù, verso la via de' Condotti. Il Corso era un lietissimo
fiume di sole, dalla piazza di Venezia alla piazza del Popolo. Le signore,
in chiari abbigliamenti primaverili, passavano lungo le vetrine scintillanti.
Passò la principessa di Ferentino con Barbarella Viti, sotto una cupola
di merletto. Passò Bianca Dolcebuono. Passò la giovine sposa
di Leonetto Lanza.
- Lo conoscevi tu, quel Ferres? - domandò Galeazzo allo Sperelli ch'era
taciturno.
- Sì; lo conobbi l'anno scorso, di settembre, a Schifanoja, da mia cugina
Ateleta. La moglie è una grande amica di Francesca. Perciò il
fatto mi dispiace molto. Bisognerebbe cercare di dargli la minor possibile
publicità. Tu mi renderesti un servigio, aiutandomi...
Galeazzo si profferse con premura cordiale.
- Credo - egli disse - che lo scandalo in parte sarebbe evitato se il ministro
presentasse le dimissioni al suo Governo, ma senza indugio, come gli è stato
ingiunto dal presidente del Circolo. Il ministro invece si rifiuta. Stanotte
aveva un'attitudine di persona offesa; alzava la voce. E le prove erano là!
Bisognerebbe persuaderlo...
Seguitarono a parlare del fatto, camminando. Lo Sperelli era grato al Secìnaro,
della premura cordiale. Il Secìnaro era predisposto, da quella intimità,
alle confidenze amichevoli.
Su l'angolo della via de' Condotti, scorsero la signora di Mount Edgcumbe che
seguiva il marciapiede sinistro, lungo le vetrine giapponesi, con quella sua
andatura molle e ritmica e affascinante.
- Donna Elena - disse Galeazzo.
Ambedue la guardarono; ambedue sentirono il fascino di quell'incesso. Ma lo
sguardo di Andrea penetrò le vesti, vide le forme note, il dorso divino.
Quando la raggiunsero, la salutarono insieme; e passarono oltre. Ora essi non
potevano guardarla ed erano guardati. E fu per Andrea un supplizio nuovissimo
quel camminare a fianco d'un rivale, sotto gli occhi della donna agognata,
pensando che i terribili occhi si dilettavano forse d'un confronto. Egli medesimo
si paragonò, mentalmente, al Secìnaro.
Costui aveva il tipo bovino d'un Lucio Vero biondo e cerulo; e gli rosseggiava
tra la copia magnifica dell'oro una bocca di nessuna significazione spirituale,
ma bella. Era alto, quadrato, vigoroso, d'una eleganza non fine ma disinvolta.
- Ebbene? - gli domandò Andrea, spinto all'audacia da una invincibile
smania. - E' a buon punto l'avventura?
Egli sapeva di poter parlare in quel modo a quell'uomo.
Galeazzo gli si volse con un'aria tra attonita e indagatrice; poiché non
s'aspettava da lui una simile domanda e tanto meno in un tono così frivolo,
così perfettamente calmo. Andrea sorrideva.
- Ah, da quanto tempo dura il mio assedio! - rispose il principe barbato. -
Da tempo immemorabile, a varie riprese, e sempre senza fortuna. Arrivavo sempre
troppo tardi: qualcuno m'aveva già preceduto nell'espugnazione. Ma non
mi son mai perduto d'animo. Ero convinto che, o prima o poi, sarebbe venuto
il mio turno. Attendre pour atteindre. Infatti...
- Dunque?
- Lady Heathfield m'è più benigna della duchessa di Scerni. Avrò,
io spero, l'ambitissimo onore d'essere inscritto dopo te, nella lista...
Egli ruppe in un riso un po' grosso, mostrando la dentatura candida.
- Credo che le mie gesta indiane, divulgate da Giulio Musèllaro, abbiano
aggiunto alla mia barba qualche filo eroico d'irresistibile virtù.
- Oh, ma la tua barba in questi giorni deve fremere di ricordi...
- Di quali ricordi?
- Di ricordi bacchici.
- Non capisco.
- Come! Tu dimentichi la famosa Fiera di maggio dell'ottantaquattro?
- Oh, guarda! Mi ci fai pensare. Cadrebbe in questi giorni il terzo anniversario...
Tu però non c'eri. E chi t'ha raccontato?...
- Vuoi saper troppo, mio caro.
- Dimmelo; ti prego.
- Pensa piuttosto a valerti dell'anniversario con abilità; e dammi presto
notizie.
- Quando ci vedremo?
- Quando ti piace.
- Pranza con me stasera, al Circolo, verso le otto. Così potremo poi
occuparci insieme dell'altra faccenda.
- Va bene. Addio, Barbadoro. Corri!
Si separarono nella piazza di Spagna, a piè della scala; e, come Elena
attraversava la piazza dirigendosi verso la via de' Due Macelli per salire
alle Quattro Fontane, il Secìnaro la raggiunse e l'accompagnò.
Andrea, dopo lo sforzo della dissimulazione, si sentiva pesare il cuore su
per la scala, orribilmente. Credeva di non poterlo trascinare alla sommità.
Ma egli era sicuro omai che, in seguito, il Secìnaro gli avrebbe tutto
confidato; e quasi gli pareva d'aver ottenuto un vantaggio! Per una specie
di ubriachezza, per una specie di follia datagli dall'eccesso della sofferenza,
egli andava ciecamente incontro a torture nuove e sempre più crudeli
e sempre più insensate, aggravando e complicando in mille modi le condizioni
del suo spirito, passando di pervertimento in pervertimento, di aberrazione
in aberrazione, di atrocità in atrocità, senza potersi più arrestare,
senza avere un attimo di sosta nella caduta vertiginosa. Egli era divorato
come da una febbre inestinguibile che facesse schiudere col suo calore negli
oscuri abissi dell'essere tutti i germi delle abiezioni umane. Ogni pensiero,
ogni sentimento portava la macchia. Egli era tutto una piaga.
Eppure, l'inganno medesimo lo legava forte alla donna ingannata. Il suo spirito
erasi così stranamente adattato alla mostruosa comedia, che quasi non
concepiva più altro modo di piacere, altro modo di dolore. Quella incarnazione
di una donna in un'altra non era più un atto di passione esasperata
ma era un'abitudine di vizio e quindi un bisogno imperioso, una necessità.
E l'istrumento inconsapevole di quel vizio era divenuto quindi per lui necessario
come il vizio medesimo. Per un fenomeno di depravazion sensuale, egli era quasi
giunto a credere che il real possesso di Elena non gli avrebbe dato il godimento
acuto e raro datogli da quel possesso imaginario. Egli era quasi giunto a non
poter più separare, nell'idea di voluttà, le due donne. E come
pensava diminuita la voluttà nel possesso reale dell'una, così anche
sentiva tutti i suoi nervi ottusi quando, per una stanchezza dell'imaginazione,
egli trovavasi innanzi alla forma reale immediata dell'altra.
Perciò egli non resse al pensiero che Maria dalla ruina di Don Manuel
Ferres gli fosse tolta.
Quando verso sera Maria venne, egli sùbito s'accorse che la povera creatura
ignorava ancóra la sua disgrazia. Ma, il giorno dopo, ella venne ansante,
sconvolta, pallida come una morta; e gli singhiozzò tra le braccia,
nascondendo il viso:
- Tu sai?
La notizia s'era sparsa. Lo scandalo era inevitabile; la ruina era irrimediabile.
Seguirono giorni di supplizio disperati; in cui Maria, rimasta sola dopo la
partenza precipitosa del baro, abbandonata dalle poche amiche, assaltata dai
creditori innumerevoli di suo marito, perduta in mezzo alle formalità legali
dei sequestri, in mezzo agli uscieri e agli usurai e ad altra gente vile, diede
prova di una eroica fierezza, ma senza riuscire a salvarsi dal crollo finale
che schiacciò ogni speranza.
Ed ella non volle dall'amante alcun aiuto, ella non parlò mai del suo
martirio all'amante che le rimproverava la brevità delle visite d'amore;
non si lamentò mai; seppe ancóra trovare per lui un sorriso men
triste; seppe ancóra obedire ai capricci, concedere appassionatamente
il suo corpo alle contaminazioni, effondere sul capo del carnefice le più calde
tenerezze dell'anima sua.
Tutto, intorno a lei, cadeva. Il castigo era piombato improvviso. I presentimenti
dicevano il vero!
Ed ella non si rammaricò di aver ceduto all'amante, non si pentì d'essersi
data a lui con tanto abbandono, non rimpianse la sua purità perduta.
Ella ebbe un solo dolore, più forte d'ogni rimorso e d'ogni paura, più forte
d'ogni altro dolore; e fu al pensiero di doversi allontanare, di dover partire,
di doversi dividere dall'uomo ch'era per lei la vita della vita.
- Io morirò, amico mio. Vado a morire lontana da te, sola sola. Tu non
mi chiuderai gli occhi...
Ella gli parlava della sua fine con un sorriso profondo, pieno di certezza
rassegnata. Andrea le faceva balenare ancóra un'illusion di speranza,
le gettava nel cuore il seme d'un sogno, il seme d'una sofferenza futura!
- Io non ti lascerò morire. Tu sarai ancóra mia, per lungo tempo.
Il nostro amore avrà ancóra giorni felici...
Egli le parlava d'un prossimo avvenire. - Si sarebbe stabilito a Firenze; di
là sarebbe andato spesso a Siena, sotto pretesto di studii; si sarebbe
trattenuto a Siena mesi intieri, copiando qualche antica pittura, ricercando
qualche antica cronaca. Il loro amore misterioso avrebbe avuto un nido nascosto,
in una via deserta, o fuori delle mura, nella campagna, in una villa ornata
di maioliche robbiesche, circondata d'un verziere. Ella avrebbe saputo trovare
un'ora per lui. Qualche volta anche sarebbe venuta a Firenze per una settimana,
per una gran settimana di felicità. Avrebbero portato il loro idillio
su la collina di Fiesole, in un settembre mite come un aprile; e i cipressi
di Montughi sarebbero stati clementi come i cipressi di Schifanoja.
- Fosse vero! Fosse vero! - sospirava Maria.
- Non mi credi?
- Sì, ti credo; ma il cuore mi dice che tutte queste cose, troppo dolci,
non esciranno dal sogno.
Ella voleva che Andrea la reggesse a lungo su le braccia; e rimaneva appoggiata
contro il petto di lui, senza parlare, raccogliendosi tutta, come per nascondersi,
col movimento e col brivido d'una persona malata o d'una persona minacciata
che abbia bisogno di protezione. Chiedeva ad Andrea carezze spirituali, quelle
che nel suo linguaggio intimo ella chiamava « carezze buone »,
quelle che la intenerivano e le davano lacrime di struggimento più soavi
di qualunque piacere. Non sapeva comprendere come in quei momenti di suprema
spiritualità, in quelle ultime ore dolorose della passione, in quelle
ore di addio, l'amante non fosse pago di baciarle le mani.
Ella pregava, quasi ferita dal crudo desiderio di Andrea:
- No, amore! Mi sembra che tu sia più vicino a me, più stretto
a me, più confuso con il mio essere, quando mi ti siedi accanto, quando
mi prendi le mani, quando mi guardi in fondo agli occhi, quando mi dici le
cose che tu solo sai dire. Mi sembra che le altre carezze ci allontanino, che
mettano tra me e te non so quale ombra... Non so veramente rendere il mio pensiero...
Le altre carezze mi lasciano poi tanto triste, tanto tanto triste... non so...
e stanca, d'una stanchezza tanto cattiva!
Ella pregava, umile, sommessa, temendo di dispiacergli. Ella non faceva che
evocare memorie, memorie, memorie, passate, recenti, con le particolarità più minute,
ricordandosi dei gesti più lievi, delle parole più fuggevoli,
di tutti i piccoli fatti più insignificanti, che per lei avevano avuto
un significato. Il suo cuore tornava con maggior frequenza ai primissimi giorni
di Schifanoja.
- Ti ricordi? Ti ricordi?
E le lacrime d'improvviso le empivano gli occhi abbattuti.
Una sera, Andrea le domandò, pensando al marito:
- Da che io ti conosco, tu sei stata sempre tutta mia?
- Sempre.
- Non ti chiedo dell'anima...
- Taci! Sempre tutta tua.
Ed egli, che in questo non aveva creduto a nessuna delle sue amanti adultere,
le credette; non ebbe neppur l'ombra d'un dubbio su la verità ch'ella
affermava.
Le credette; perché, pur contaminandola e ingannandola senza ritegno,
egli sapeva d'essere amato da un alto e nobile spirito, egli sapeva omai di
trovarsi innanzi a una grande e terribile passione, egli aveva omai conscienza
di quella grandezza come della propria viltà. Egli sapeva, egli sapeva
d'essere immensamente amato; e talvolta, nelle furie delle sue imaginazioni,
giungeva perfino a mordere la bocca della dolce creatura per non gridare un
nome che gli risaliva con invincibile impeto alla gola; e la buona e dolente
bocca sanguinava in un sorriso inconscio, dicendo:
- Anche così, tu non mi fai male.
Mancavano all'addio pochissimi giorni. Miss Dorothy aveva condotto Delfina
a Siena ed era tornata per aiutare la signora negli ultimi più gravi
fastidii e per accompagnarla nel viaggio. A Siena, in casa della madre, la
verità non era nota. Anche Delfina non conosceva nulla. Maria s'era
limitata a mandar la notizia d'un richiamo improvviso che Manuel aveva avuto
dal suo Governo. E s'apparecchiava a partire; s'apparecchiava a lasciare le
stanze, piene di cose dilette, in mano dei periti publici che già avevano
scritto l'inventario e avevano stabilita la data dell'incanto: - 20 giugno,
lunedì, alle dieci del mattino.
La sera del 9 giugno, sul punto di separarsi da Andrea, ella cercava un suo
guanto smarrito. Nel cercare, ella vide sopra un tavolo il libro di Percy Bysshe
Shelley, il medesimo volume che Andrea le aveva prestato al tempo di Schifanoja,
il volume in cui ella aveva letto la Recollection prima della gita a Vicomìle,
il caro e triste volume in cui ella aveva segnato con l'unghia i due versi:
« And forget me, for I can never
Be thine! »
Ella lo prese, con una commozione visibile; lo sfogliò; trovò la
pagina, i segni dell'unghia, i due versi.
- Never! - mormorò, scotendo il capo. - Ti ricordi? E son passati otto
mesi appena!
Restò un poco pensosa; sfogliò ancóra il libro; lesse
qualche altro verso.
- E' il nostro poeta - soggiunse. - Quante volte m'hai promesso di condurmi
al cimitero inglese! Ti ricordi? Dovevamo portare i fiori al sepolcro... Vuoi
che andiamo? Conducimi prima ch'io parta. Sarà l'ultima passeggiata.
Egli disse:
- Andiamo domani.
Andarono, quando il sole era già sul declinare. Nella carrozza coperta,
ella teneva su le ginocchia un fascio di rose. Passarono di sotto all'Aventino
arborato. Intravidero i navigli carichi di vin siciliano ancorati nel porto
di Ripa grande.
In vicinanza del cimitero, discesero; percorsero un tratto a piedi, fino al
cancello, taciturni. Maria sentiva in fondo all'anima ch'ella non andava soltanto
a portar fiori sul sepolcro d'un poeta ma che andava a piangere, in quel luogo
di morte, qualche cosa di sè, irreparabilmente perduta. Il frammento
di Percy, letto nella notte, nell'insonnio, le risonava in fondo all'anima,
mentre guardava i cipressi alti nel cielo, oltre la muraglia imbiancata.
« La Morte è qui, e la Morte è là; da per tutto la
Morte è all'opera; intorno a noi, in noi, sopra di noi, sotto di noi è la
Morte; e noi non siamo che Morte.
« La Morte ha messo la sua impronta e il suo suggello su tutto ciò che
noi siamo, e su tutto ciò che sentiamo e su tutto ciò che conosciamo
e temiamo.
« Da prima muoiono i nostri piaceri, e quindi le nostre speranze, e quindi
i nostri timori; e quando tutto ciò è morto, la polvere chiama
la polvere e noi anche moriamo.
« Tutte le cose che noi amiamo ed abbiam care come noi stessi devono dileguarsi
e perire. Tale è il nostro crudele destino. L'amore, l'amore medesimo
morirebbe, se tutto il resto non morisse... »
Varcando la soglia, ella mise il suo braccio sotto quello di Andrea, presa
da un piccolo brivido.
Il cimitero era solitario. Alcuni giardinieri davano acqua alle piante, lungo
la muraglia, facendo oscillare l'inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale,
in silenzio. I cipressi funebri s'inalzavano diritti ed immobili nell'aria:
soltanto le loro cime, fatte d'oro dal sole, avevano un leggero tremito. Tra
i fusti rigidi e verdastri, come di pietra tiburtina, sorgevano le tombe bianche,
le lapidi quadrate, le colonne spezzate, le urne, le arche. Dalla cupa mole
dei cipressi scendevano un'ombra misteriosa e una pace religiosa e quasi una
dolcezza umana, come dal duro sasso scende un'acqua limpida e benefica. Quella
regolarità costante delle forme arboree e quel candor modesto del marmo
sepolcrale davano all'anima un senso di riposo grave e soave. Ma in mezzo ai
tronchi allineati come le canne sonore d'un organo e in mezzo alle lapidi,
gli oleandri ondeggiavano con grazia, tutti invermigliati di fresche ciocche
fiorite; i rosai si sfogliavano ad ogni fiato di vento, spargendo su l'erba
la loro neve odorante; gli eucalipti inchinavano le pallide capellature che
or sì or no parevano argentee; i salici versavano su le croci e su le
corone il loro pianto molle; i cacti qua e là mostravano i magnifici
grappoli bianchi simili a sciami dormienti di farfalle o a manipoli di rare
piume. E il silenzio era interrotto a quando a quando dal grido di qualche
uccello disperso.
Andrea disse, indicando il sommo dell'altura:
- Il sepolcro del poeta è lassù, in vicinanza di quella rovina,
a sinistra, sotto l'ultimo torrione.
Maria si sciolse da lui, per salire su pei sentieri angusti, tra le siepi basse
di mirto. Ella andava innanzi, e l'amante la seguiva. Ella aveva il passo un
poco stanco; si soffermava ad ogni tratto; ad ogni tratto si volgeva indietro
per sorridere all'amante. Era vestita di nero; portava un velo nero sul viso,
che le giungeva fino al labbro superiore; e il suo sorriso tenue tremolava
sotto l'orlo nero, si ombrava come d'un'ombra di lutto. Il suo mento ovale
era più bianco e più puro delle rose ch'ella portava in mano.
Accadde che, mentre ella si volgeva, una rosa si sfogliò. Andrea si
chinò a raccogliere le foglie sul sentiero, innanzi a' piedi di lei.
Ella lo guardava. Egli posò i ginocchi a terra, dicendo:
- Adorata!
Un ricordo sorse a lei nello spirito, evidente come una visione.
- Ti ricordi - ella disse - quella mattina, a Schifanoja, quando io ti gettai
un pugno di foglie, dalla penultima terrazza? Tu t'inginocchiasti sul gradino,
mentre io discendevo... Quei giorni, non so, mi paiono tanto vicini e tanto
lontani! Mi pare d'averli vissuti ieri, d'averli vissuti un secolo fa. Ma forse
li ho sognati?
Giunsero, tra le siepi basse di mirto, fino all'ultimo torrione a sinistra
dov'è il sepolcro del poeta e del Trelawny. Il gelsomino, che s'arrampica
per l'antica rovina, era fiorito; ma delle viole non rimaneva che la folta
verdura. Le cime dei cipressi giungevano alla linea dello sguardo e tremolavano
illuminate più vivamente dall'estremo rossor del sole che tramontava
dietro la nera croce del Monte Testaccio. Una nuvola violacea, orlata d'oro
ardente, navigava in alto verso l'Aventino.
« Qui sono due amici, le cui vite furono legate. Che anche la loro memoria
viva insieme, ora ch'essi giacciono sotto la tomba; e che l'ossa loro non sieno
divise, poiché i loro due cuori nella vita facevano un cuor solo: for
their two hearts in life were single hearted! »
Maria ripetè l'ultimo verso. Poi disse ad Andrea, mossa da un pensier
delicato:
- Scioglimi il velo.
E gli si appressò arrovesciando un poco il capo perché egli le
sciogliesse il nodo su la nuca. Le dita di lui le toccavano i capelli, i meravigliosi
capelli che, quando erano sparsi, parevano vivere come una foresta, di una
vita profonda e dolce; all'ombra de' quali egli aveva tante volte assaporata
la voluttà de' suoi inganni e tante volte evocata un'imagine perfida.
Ella disse:
- Grazie.
E si tolse il velo di su la faccia, guardando Andrea con occhi un poco abbagliati.
Ella appariva molto bella. Il cerchio intorno le occhiaie era più cupo
e più cavo, ma le pupille brillavano d'un fuoco più penetrante.
Le ciocche dense de' capelli aderivano alle tempie, come ciocche di giacinti
bruni, un po' violetti. Il mezzo della fronte, scoperto, libero, splendeva
nel contrasto, d'un candor quasi lunare. Tutti i lineamenti s'erano affinati,
avevano perduto qualche parte della loro materialità, alla fiamma assidua
dell'amore e del dolore.
Ella avvolse al velo nero gli steli delle rose, annodò le estremità con
molta cura; poi aspirò il profumo, quasi affondando il viso nel fascio.
E poi depose il fascio su la semplice pietra ov'era inciso il nome del poeta.
E il suo gesto ebbe una indefinibile espressione, che Andrea non poté comprendere.
Seguitarono innanzi per cercare la tomba di John Keats, del poeta d'Endymion.
Andrea le domandò, soffermandosi a riguardare indietro, verso il torrione:
- Come le hai avute, quelle rose?
Ella gli sorrise ancóra, ma con gli occhi umidi.
- Sono le tue, quelle della notte di neve, rifiorite stanotte. Non ci credi?
Si levava il vento della sera; e il cielo, dietro la collina, era tutto d'un
color diffuso d'oro in mezzo a cui la nuvola discioglievasi come consunta da
un rogo. I cipressi in ordine, su quel campo di luce, erano più grandiosi
e più mistici, tutti penetrati di raggi e vibranti nei culmini acuti.
La statua di Psiche in cima al viale medio aveva assunto un pallore di carne.
Gli oleandri sorgevano in fondo come mobili cupole di porpora. Su la piramide
di Cestio saliva la luna crescente, per un ciel glauco e profondo come l'acqua
d'un golfo in quiete.
Essi discesero, lungo il viale medio, fino al cancello. I giardinieri ancóra
davan acqua alle piante, sotto la muraglia, facendo oscillare l'inaffiatoio
con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. Due altri uomini, tenendo
per i lembi una coltre mortuaria di velluto e d'argento, la sbattevano forte;
e la polvere metteva un luccichio spandendosi. Giungeva dall'Aventino un suono
di campane.
Maria si strinse al braccio dell'amante, non reggendo più all'angoscia,
sentendosi ad ogni passo mancare il suolo, credendo di lasciare su la via tutto
il suo sangue. E, appena fu nella carrozza, ruppe in lacrime disperate, singhiozzando
su la spalla dell'amante:
- Io muoio.
Ma ella non moriva. E sarebbe stato meglio, per lei, s'ella fosse morta.
Due giorni dopo, Andrea faceva colazione in compagnia di Galeazzo Secìnaro,
a un tavolo del Caffè di Roma. Era una mattinata calda. Il Caffè era
quasi deserto, immerso nell'ombra e nel tedio. I servi sonnecchiavano, tra
il ronzio delle mosche.
- Dunque - raccontava il principe barbato - sapendo che a lei piace di darsi
in circostanze straordinarie e bizzarre, osai...
Raccontava, crudamente, il modo audacissimo con cui aveva potuto prendere Lady
Heathfield; raccontava senza scrupoli e senza reticenze, non tralasciando alcuna
particolarità, lodando la bontà dell'acquisto al conoscitore.
Egli s'interrompeva, di tratto in tratto, per mettere il coltello in un pezzo
di carne succulenta e sanguinante, che fumigava, o per vuotare un bicchiere
di vin rosso. La sanità e la forza emanavano da ogni sua attitudine.
Andrea Sperelli accese una sigaretta. Ad onta de' conati, egli non riesciva
a inghiottire il cibo, a vincere la ripugnanza dello stomaco agitato in sommo
da un orribile tremolio. Quando il Secìnaro gli versava il vino, egli
beveva insieme il vino e il tossico.
A un certo punto, il principe, sebbene fosse assai poco sottile, ebbe un dubbio;
guardò l'antico amante di Elena. Questi non dava, oltre la disappetenza,
altro segno esteriore di turbamento; gittava all'aria, con pacatezza, i nuvoli
di fumo e sorrideva del solito suo sorriso un po' ironico al narratore giocondo.
Il principe disse:
- Oggi ella verrà da me, per la prima volta.
- Oggi? A casa tua?
- Sì.
- E' un mese eccellente questo, a Roma, per l'amore. Dalle tre alle sei pomeridiane
ogni buen retiro nasconde una coppia...
- Infatti - interruppe Galeazzo - ella verrà alle tre.
Ambedue guardaron l'orologio. Andrea chiese:
- Vogliamo andarcene?
- Andiamo - rispose Galeazzo, levandosi. - Faremo la via Condotti insieme.
Io vado per fiori al Babuino. Dimmi tu, che sai: quali fiori preferisce?
Andrea si mise a ridere; e gli venne alle labbra un motto atroce. Ma disse,
incurantemente:
- Le rose, una volta.
D'innanzi alla Barcaccia, si separarono.
La piazza di Spagna, in quell'ora, aveva già una deserta apparenza estiva.
Alcuni operai restauravano un condotto; e un cumulo di terra, disseccato dal
sole, levavasi in turbini di polvere ai soffii caldi del vento. La scala della
Trinità splendeva bianca e deserta.
Andrea salì, piano piano, soffermandosi ad ogni due o tre gradini, come
se trascinasse un peso enorme. Rientrò nella sua casa; restò nella
sua stanza, sul letto, fino alle due e tre quarti. Alle due e tre quarti uscì.
Prese la via Sistina, seguitò per le Quattro Fontane, oltrepassò il
palazzo Barberini; si arrestò poco discosto, innanzi agli scaffali d'un
venditore di libri vecchi, aspettando le tre. Il venditore, un omuncolo tutto
rugoso e pelloso come una testuggine decrepita, gli offerse i libri. Sceglieva
i suoi migliori volumi, a uno a uno, e glie li metteva sotto gli occhi, parlando
con una voce nasale d'insopportabile monotonia. Mancavano pochi minuti alle
tre. Andrea guardava i titoli dei libri e vigilava i cancelli del palazzo e
udiva la voce del libraio confusamente, in mezzo al fragore delle sue vene.
Una donna uscì dai cancelli, discese pel marciapiede verso la piazza,
montò in una vettura publica, si allontanò per la via del Tritone.
Andrea discese dietro di lei; prese di nuovo la via Sistina; rientrò nella
sua casa. Aspettò che venisse Maria. Gittato sul letto, si mantenne
così immobile che pareva non soffrisse più.
Alle cinque, giunse Maria.
Ella disse, ansante:
- Sai? Io posso rimanere con te, tutta la sera, tutta la notte, fino a domattina.
Ella disse:
- Questa sarà la prima e l'ultima notte d'amore! Io parto martedì.
Ella gli singhiozzò su la bocca, tremando forte, stringendoglisi forte
contro la persona:
- Fa che io non veda domani! Fammi morire!
Guardandolo nella faccia disfatta, gli domandò:
- Tu soffri? Anche tu... pensi che non ci rivedremo più mai?
Egli provava una difficoltà immensa a parlarle, a risponderle. Aveva
la lingua torpida, gli mancavano le parole. Provava un bisogno istintivo di
nascondere la faccia, di sottrarsi allo sguardo, di sfuggire alle domande.
Non seppe consolarla, non seppe illuderla. Rispose, con una voce soffocata,
irriconoscibile:
- Taci.
Le si raccolse ai piedi; restò lungo tempo con la testa sul grembo di
lei, senza parlare. Ella gli teneva le mani su le tempie, sentendogli la pulsazione
delle arterie ineguale e veemente, sentendolo soffrire. Ed ella stessa non
soffriva più del suo proprio dolore, ma soffriva ora del dolore di lui,
soltanto del dolore di lui.
Egli si levò; le prese le mani; la trasse nell'altra stanza. Ella obedì.
Nel letto, smarrita, sbigottita, innanzi al cupo ardore del forsennato, ella
gridava:
- Ma Che hai? Ma che hai?
Ella voleva guardarlo negli occhi, conoscere quella follia; ed egli nascondeva
il viso, perdutamente, nel seno, nel collo, ne' capelli di lei, ne' guanciali.
A un tratto, ella gli si svincolò dalle braccia, con una terribile espressione
d'orrore in tutte quante le membra, più bianca de' guanciali, sfigurata
più che s'ella fosse allora allora balzata di tra le braccia della Morte.
Quel nome! Quel nome! Ella aveva udito quel nome!
Un gran silenzio le vuotò l'anima. Le si aprì, dentro, un di
quegli abissi in cui tutto il mondo sembra scomparire all'urto d'un pensiero
unico. Ella non udiva più altro; ella non udiva più nulla. Andrea
gridava, supplicava, si disperava invano.
Ella non udiva. Una specie d'istinto la guidò negli atti. Ella trovò gli
abiti; si vestì.
Andrea singhiozzava sul letto, demente. S'accorse ch'ella usciva dalla stanza.
- Maria! Maria!
Ascoltò.
- Maria!
Gli giunse il romore della porta che si richiuse.
III
La mattina del 20 giugno, lunedì, alle dieci, incominciò la
publica vendita delle tappezzerie e dei mobili appartenuti a S. E. il Ministro
plenipotenziario del Guatemala.
Era una mattina ardente. Già l'estate fiammeggiava su Roma. Per la via
Nazionale correvano su e giù, di continuo, i tramways, tirati da cavalli
che portavano certi strani cappucci bianchi contro il sole. Lunghe file di
carri carichi ingombravano la linea delle rotaie. Nella luce cruda, tra le
mura coperte d'avvisi multicolori come d'una lebbra, gli squilli delle cornette
si mescevano allo schiocco delle fruste, agli urli dei carrettieri.
Andrea, prima di risolversi a varcare la soglia di quella casa, vagò pe'
marciapiedi, alla ventura, lungo tempo, provando una orribile stanchezza, una
stanchezza così vacua e disperata che quasi pareva un bisogno fisico
di morire.
Quando vide uscir dalla porta su la strada un facchino con un mobile su le
spalle, si risolse. Entrò, salì le scale rapidamente; udì,
dal pianerottolo, la voce del perito.
- Si delibera!
Il banco dell'incanto era nella stanza più ampia, nella stanza del Buddha.
Intorno, s'affollavano i compratori. Erano, per la maggior parte, negozianti,
rivenditori di mobili usati, rigattieri: gente bassa. Poichè d'estate
mancavano gli amatori, i rigattieri accorrevano, sicuri d'ottenere oggetti
preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore si spandeva nell'aria calda, emanato
da quegli uomini impuri.
- Si delibera!
Andrea soffocava. Girò per le altre stanze, ove restavano soltanto le
tappezzerie su le pareti e le tende e le portiere, essendo quasi tutte le suppellettili
radunate nel luogo dell'asta. Sebbene premesse un denso tappeto, egli udiva
risonare il suo passo, distintamente, come se le volte fossero piene di echi.
Trovò una camera semicircolare. Le mura erano d'un rosso profondo, nel
quale brillavano disseminati alcuni guizzi d'oro; e davano imagine d'un tempio
e d'un sepolcro; davano imagine d'un rifugio triste e mistico, fatto per pregare
e per morire. Dalle finestre aperte entrava la luce cruda, come una violazione;
apparivano gli alberi della Villa Aldobrandini.
Egli ritornò nella sala del perito. Sentì di nuovo il lezzo.
Volgendosi, vide in un angolo la principessa di Ferentino con Barbarella Viti.
Le salutò, avvicinandosi.
- Ebbene, Ugenta, che avete comprato?
- Nulla.
- Nulla? Io credevo, invece, che voi aveste comprato tutto.
- Perché mai?
- Era una mia idea... romantica.
La principessa si mise a ridere. Barbarella la imitò.
- Noi ce ne andiamo. Non e possibile rimaner qui, con questo profumo. Addio,
Ugenta. Consolatevi.
Andrea s'accostò al banco. Il perito lo riconobbe.
- Desidera qualche cosa il signor conte?
Egli rispose:
- Vedrò.
La vendita procedeva rapidamente. Egli guardava intorno a sé le facce
dei rigattieri, si sentiva toccare da quei gomiti, da quei piedi; si sentiva
sfiorare da quegli aliti. La nausea gli chiuse la gola.
- Uno! Due! Tre!
Il colpo di martello gli sonava sul cuore, gli dava un urto doloroso alle tempie.
Egli comprò il Buddha, un grande armario, qualche maiolica, qualche
stoffa. A un certo punto udì come un suono di voci e di risa feminili,
un fruscio di vesti feminili, verso l'uscio. Si volse. Vide entrare Galeazzo
Secìnaro con la marchesa di Mount Edgcumbe, e poi la contessa di Lùcoli,
Gino Bommìnaco, Giovanella Daddi. Quei gentiluomini e quelle dame parlavano
e ridevano forte.
Egli cercò di nascondersi, di rimpicciolirsi, tra la folla che assediava
il banco. Tremava, al pensiero d'essere scoperto. Le voci, le risa gli giungevano
di sopra le fronti sudate della folla, nel calor soffocante. Per ventura, dopo
alcuni minuti, i gai visitatori se ne andarono.
Egli si aprì un varco tra i corpi agglomerati, vincendo il ribrezzo,
facendo uno sforzo enorme per non venir meno. Aveva la sensazione, in bocca,
come d'un sapore indicibilmente amaro e nauseoso che gli montasse su dal dissolvimento
del suo cuore. Gli pareva d'escire, dai contatti di tutti quegli sconosciuti,
come infetto di mali oscuri e immedicabili. La tortura fisica e l'angoscia
morale si mescolavano.
Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, ebbe un po' di vertigine. Con
un passo malsicuro, si mise in cerca d'una carrozza. La trovò su la
piazza del Quirinale; si fece condurre al palazzo Zuccari.
Ma, verso sera, una invincibile smania l'invase, di rivedere le stanze disabitate.
Salì, di nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chiedere
se gli avevano i facchini portato i mobili al palazzo.
Un uomo rispose:
- Li portano proprio in questo momento. Ella dovrebbe averli incontrati, signor
conte.
Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende
entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della
via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancóra qualche tappezzeria
dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano
visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti
e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne' raggi. Un
di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle
pipe si levava sino al soffitto.
Andrea fuggì.
Nella piazza del Quirinale, d'innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe
onde di quella musica metallica si propagavano per l'incendio dell'aria. L'obelisco,
la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano
come penetrati d'una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia
di nuvoli, pareva illuminare il cielo.
Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le
Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava
dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari.
I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro
portavano già l'armario su per la scala, faticosamente.
Egli entrò. Come l'armario occupava tutta la larghezza, egli non poté passare
oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.
Francavilla al Mare: luglio-dicembre 1888.