ZIBALDONE
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
1] Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante.
Era la luna nel cortile, un lato
Tutto ne illuminava, e discendea
Sopra il contiguo lato obliquo un raggio...
Nella (dalla) maestra via s'udiva il carro
Del passegger, che stritolando i sassi,
Mandava un suon, cui precedea da lungi
Il tintinnìo de' mobili sonagli.
Onde Aviano raccontando una favoletta dice che una donna di contado piangendo
un suo bambolo, minacciogli se non taceva che l'avrebbe dato mangiare a un lupo.
E che un lupo che a caso di là passava, udendo dir questo alla donna
credettele che dicesse vero, e messosi innanzi all'uscio di casa così
stette quivi tutto quel giorno ad aspettare che la donna gli portasse quella
vivanda. Come poi vi stesse tutto quel tempo e la donna non se n'accorgesse
e non n'avesse paura e non gli facesse motto con sasso o altro, Aviano lo saprà
che lo dice. E aggiugne che il lupo non ebbe niente perchè il fanciullo
s'addormentò, e quando bene non l'avesse fatto non ci sarìa stato
pericolo. E fatto tardi, tornato alla moglie senza preda perchè s'era
baloccato ad aspettare fino a sera, disse quello che nell'autore puoi vedere.
(Luglio o Agosto 1817).
Una Dama vecchia avendo chiesto a un giovane di leggere alcuni suoi versi pieni
di parole antiche, e avutili, poco dopo rendendoglieli disse che non gl'intendeva
perchè quelle parole non s'usavano al tempo suo. Rispose il giovane:
Anzi credea che s'usassero perchè sono molto antiche.
Tutta la notte piove
E ritornan le feste a la dimane:
Fan del regno a metà Cesare e Giove.
Dal niente in letteratura si passa al mezzo e al vero, quindi al raffinamento:
da questo non c'è esempio che si sia tornato al vero. Greci e latini
italiani. Lo squisito gusto del volgo de' letterati non può essere se
non quando ei non è ancora corrotto. P.E. i cinquecentisti volgari non
peccavano d'altro che di poco, non di troppo, e però erano attissimi
a giudicar bene del molto, o sia del vero bello, come faceano.
Il trecento fu il principio della nostra letteratura, non già il colmo,
imperocchè non ebbe se non tre scrittori grandi: il quattrocento non
fu corruzione nè [2] raffinamento del trecento, ma un sonno della letteratura
(che avea dato luogo all'erudizione) la quale restava ancora incorrotta e peccava
ancora più tosto di poco. Poliziano, Pulci. Il cinquecento fu vera continuazione
del trecento e il colmo della nostra letteratura. Di poi venne il raffinamento
del seicento, che nel settecento s'è solamente mutato in corruzione d'altra
specie, ma il buon gusto nel volgo dei letterati non è tornato più,
nè tornerà secondo me, perchè dal niente si può
passare al buono, ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si possa.
Non il Bello ma il Vero o sia l'imitazione della Natura qualunque, si è
l'oggetto delle Belle arti. Se fosse il Bello, piacerebbe più quello
che fosse più bello e così si andrebbe alla perfezion metafisica,
la quale in vece di piacere fa stomaco nelle arti. Non vale il dire che è
il solo bello dentro i limiti della natura, perchè questo stesso mostra
che è l'imitazione della natura dunque che fa il diletto delle belle
arti, imperocchè se fosse il bello per se, vedesi che dovrebbe come ho
detto più piacere il maggior bello, e così più piacere
la descrizione di un bel mondo ideale che del nostro. E che non sia il solo
bello naturale lo scopo delle Belle Arti vedesi in tutti i poeti specialmente
in Omero, perchè se questo fosse, avrebbe dovuto ogni gran poeta cercare
il più gran bello naturale che si potesse, dove Omero ha fatto Achille
infinitamente men bello di quello che potea farlo, e così gli Dei ec.
e sarebbe maggior poeta Anacreonte che Omero ec. e noi proviamo che ci piace
più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio
sia maggior poema ec. Passioni morti tempeste ec. piacciono egregiamente benchè
sian brutte per questo solo che son bene imitate, e se è vero quel che
dice il Parini nella Oraz. della poesia, perchè l'uomo niente tanto odia
quanto la noia, e però gli piace di veder qualche novità ancorchè
brutta. Tragedia. Commedia. Satira han per oggetto il brutto ed è una
mera quistion di nome il contrastar se questa sia poesia. Basta che tutti la
intendono per poesia Aristotele e Orazio singolarmente e che io dicendo poesia
intendo anche questi generi. V. Dati Pittori ed. Siena 1795. p.57.66.
Il brutto come tutto il resto deve star nel suo luogo: e nell'Epica e lirica
avrà luogo più di raro ma spessissimo nella Commedia Tragedia
Satira ed è quistion di parole ec. come sopra. Il vile di raro si dee
descrivere perchè di raro può star nel suo luogo nella poesia
(eccetto nelle Satire Commedie e poesia bernesca) non perchè non possa
essere oggetto della poesia. Ancora potendo esser molti generi di una cosa e
questi qual più qual meno degno, [3] niente vieta che dei diversi generi
di poesia altro abbia per oggetto più particolarmente il bello altro
il doloroso altro anche il brutto e il vile, e però qual sia più
nobile e degno qual meno e non per tanto tutti sieno generi di poesia, nè
ci sia oggetto di veruno di essi che non possa essere oggetto della poesia e
delle arti imitative ec.
La perfezione di un'opera di Belle Arti non si misura dal più
Bello ma dalla più perfetta imitazione della natura. Ora se è
vero che la perfezione delle cose in sostanza consiste nel perfetto conseguimento
del loro oggetto, quale sarà l'oggetto delle Belle Arti?
L'utile non è il fine della poesia benchè questa possa giovare.
E può anche il poeta mirare espressamente all'utile o ottenerlo (come
forse avrà fatto Omero) senza che però l'utile sia il fine della
poesia, come può l'agricoltore servirsi della scure a segar biade o altro
senza che il segare sia il fine della scure. La poesia può esser utile
indirettamente, come la scure può segare, ma l'utile non è il
suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può
senza il dilettevole, imperocchè il dilettare è l'ufficio naturale
della poesia.
Sentìa del canto risuonar le valli
D'agricoltori ec.
Più ci diletterebbe una pianta o un animale veduto nel vero che dipinto
o in altro modo imitato, perchè non è possibile che nella imitazione
non resti niente a desiderare. Ma il contrario manifestamente avviene: da che
apparisce che il fonte del diletto nelle arti non è il bello, ma l'imitazione.
Il quattrocento restò dal fare, ma conservava l'idea del bello incorrotta;
però benchè non facesse, pure apprezzava il fatto anzi lo cercava:
quindi l'infinito studio de' Classici e l'erudizione dominante nel secolo. Il
cinquecento col capitale acquistato nel 400 e coll'istradamento del 300 tornò
a fare. Ma il seicento perchè era non debole ma corrotto, non solamente
non sapea far bene, ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la
dimenticanza di Dante del Petrarca ec. che non si stampavano più. Nel
principio del settecento ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l'amore
degli studi classici, e la prima metà di questo secolo somiglia però
al quattrocento, nè si fa molto conto di quest'epoca di risorgimento
perchè non produsse (come il 400) nessun lavoro d'arte fuorchè
la Merope, e durò tanto poco che un uomo stesso potè aver veduto
il tempo di corruzione il risorgimento e il ricadimento. Ricadute le nostre
lettere (nella imitazione e studio degli stranieri) son comparsi nella seconda
metà del 700 e principio dell'800 i nostri [4]ultimi lavori d'arte. Questi
sono di quegli scrittori che nella corruzione si conservano illesi, non possono
essere stimati da molti ec. Ma adesso l'arte è venuta in un incredibile
accrescimento, tutto è arte e poi arte, non c'è più quasi
niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere ma
con uno studio infinito senza il quale non si può avere, e senza il quale
a gran pezza l'aveano (spezialmente nella lingua) Dante il Petrarca l'Ariosto
ec. e tutti i bravi trecentisti e cinquecentisti. Questo avviene perchè
ora si viene da un tempo corrotto (oltrechè si sta pure tra' corrotti)
e bisogna porre il più grande studio per evitare la corruzione, principalmente
quella del tempo la quale prima che abbiamo pensato a guardarcene s'è
impadronita di noi, e poi quella dei tempi passati, perchè adesso conosciamo
tutti i vizi delle arti e ce ne vogliamo guardare, e non siamo più semplici
come erano i greci e i latini e i trecentisti e i cinquecentisti perchè
siamo passati pel tempo di corruzione e siamo divenuti astuti nell'arte, e schiviamo
i vizi con questa astuzia e coll'arte non colla natura come faceano gli antichi
i quali senza saperne più che tanto pure perchè l'arte era in
sul principio e non ancora corrotta non gli schivavano ma non ci cadevano. Erano
come fanciulli che non conoscono i vizi, noi siamo come vecchi che li conosciamo
ma pel senno e l'esperienza gli schiviamo. E però abbiamo moltissimo
più senno e arte che gli antichi, i quali per questo cadevano in infiniti
difetti (non conoscendoli) in cui adesso non cadrebbe uno scolaro. Vizi d'Omero
concetti del Petrarca, grossezze di Dante, seicentisterie dell'Ariosto del Tasso
del Caro traduzione dell'Eneide ec. E però adesso le nostre opere grandi
(pochissime perchè ancora siamo nella corruzione onde pochissimi emergono)
saranno tutte senza difetti, perfettissime, ma in somma non più originali,
non avremo più Omero Dante l'Ariosto. Esempio manifesto del Parini Alfieri
Monti ec. Onde apparisce quel che io disopra ho detto che dopo che le arti di
fanciulle e incorrotte si son fatte mature e corrotte, (come gli uomini di mezza
età viziosi) invecchiando e ravvedendosi, non potranno più ripigliare
il vigore della fanciullezza e giovinezza. Le arti presso i Greci e i latini
corrotte una volta non risorsero più presso noi van risorgendo: primo
esempio finora al mondo, dal quale solo si possono cavare le prove pratiche
della mia sentenza. Se non che i poeti e altri scrittori grandi d'oggi stanno
in certo modo agli antichi del 300 e 500 come i greci dei secoli d'Augusto e
degli imperatori, p.e. Dionigi Alicarnasseo, Dione, Arriano ad Erodoto Tucidide
Senofonte: ma questi eran passati per un'età e si trovavano ancora in
un'età più tosto di debolezza che di corruzione.
[5]Come i fanciulli e i giovinetti benchè di buona indole pure per la
malizia naturale, di quando in quando scappano in qualche difetto e non per
tanto sono differentissimi dagli uomini grandi e cattivi, così gli antichi
senza conoscere nè amare i vizi delle arti, per la naturale tendenza
dell'ingegno alla ricercatezza e cose tali di quando in quando vi cadeano non
riflettendo che fossero vizi, e non per tanto infinitamente differivano dagli
adulti artefici del 600 e 700 radicati nella corruzione. E adesso chiunque,
per pochissimo che abbia studiato a prima giunta vede che quelli sono errori
e che gli antichi hanno errato. P.E. chi non vede adesso che è cosa ridicola
e affettatissima il lamento d'Olimpia ec. nell'Ariosto, quello d'Erminia ec.
nel Tasso? E pure questi grandissimi poeti perchè l'arte era giovane
e senza esperienza in buona fede cascavano in questi errori, e noi perchè
siamo vecchi nell'arte col nostro senno e coll'esperienza de' tempi corrotti,
ce ne ridiamo e li fuggiamo. Ma questo senno e questa esperienza sono la morte
della poesia ec. Come però si dovrà dire che l'Ariosto per esempio
avesse somma arte se cadeva spessissimo in difetti che il più meschino
artefice d'oggidì conosce a prima vista? Non avea somma arte ma sommo
ingegno, pulitissimo, ma non corrotto, e meno poi ripulito.
Per guardarci dai vizi e dalla corruzione dello scrivere adesso è necessario
un infinito studio e una grandissima imitazione dei Classici, molto molto maggiore
di quella che agli antichi non bisognava, senza le quali cose non si può
essere insigne scrittore, e colle quali non si può diventar grande come
i grandi imitati. Come il cocchiere fa guidando i cavalli per la china, che
poco concede loro perchè troppo non gli rapiscano.
Padron, se con lamenti e con rammarichi
Si rimediasse a le nostre miserie,
Bisognerebbe comperar le lagrime
A peso d'or: ma queste tanto possono
Le disgrazie scemar, quanto le prefiche
Svegliare i morti con le loro istorie:
Ne' guai non ci vuol pianto ma consiglio.
[6] Messer tale domandato da alcuni che disputavano sopra una statua antica
di Giove in terra cotta che ne sentisse, rispose: Maravigliomi come non vi siate
accorti che questo è un Giove in Creta: volendo dire in terra cotta,
ma in sembianza, nell'isola di Creta, dove Giove fu allevato.
Sistema di Belle Arti.
Fine - il diletto; secondario alle volte, l'utile. - Oggetto o mezzo di ottenere
il fine - l'imitazione della natura, non del bello necessariamente. - Cagione
primaria del fine prodotto da questo oggetto o sia con questo mezzo - la maraviglia:
forza del mirabile e desiderio di esso innato nell'uomo: tendenza a credere
il mirabile: la maraviglia così è prodotta dalla imitazione del
bello come da quella di qualunque altra cosa reale o verisimile: quindi il diletto
delle tragedie ec. prodotto non dalla cosa imitata ma dall'imitazione che fa
maraviglia. - Cagioni secondarie e relative ai diversi oggetti imitati - la
bellezza, la rimembranza, l'attenzione che si pone a cose che tuttogiorno si
vedono senza badarci ec. - Cagione primitiva del diletto destato dalla maraviglia
ec. e però conseguentemente del diletto destato dalle belle arti - l'orrore
della noia naturale all'uomo, ricerche sopra le cagioni di quest'orrore ec.
- Cagioni dei difetti nelle belle arti - Sproporzione, sconvenevolezza, cose
poste fuor di luogo, al che solo (contro l'opinione di chi pensa che provenga
dall'avere le arti per oggetto il bello) si riducono i difetti della bassezza
della bruttezza deformità crudeltà sporchezza tristizia tutte
cose che rappresentate o impiegate nei loro luoghi non sono difetti giacchè
piacciono e per mezzo dell'imitazione producono la maraviglia, ma sono difetti
fuor di luogo p.e. in un'anacreontica l'imagine di un ciclopo, (per lo più)
in un'epopea per lo più la figura di un deforme ec. Altri difetti e vizi;
affettazione ec. quasi tutti si riducono alla sconvenevolezza e inverisimiglianza
che proviene dallo sconvenirsi tra loro in natura quegli attributi della cosa
inverisimile, onde la mente che comprende la [7] sconvenienza degli attributi
concepisce l'inverisimiglianza. - Diversi rami della imitazione che formano
i diversi oggetti delle belle arti e i diversi generi p.e. di poesia, i quali
tanto più son degni e nobili quanto più degni ec. sono gli oggetti,
onde un genere che abbia per oggetto il deforme, sarà un genere poco
stimabile e da non mettersi p.e. coll'epopea, benchè anch'esso sia un
genere di poesia destando la maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell'imitazione.
Del Bello
Del Sublime
Del terribile
Del ridicolo e vizioso ec.
Epopea Lirica ec.
Lirica Epopea ec.
Tragica ec.
Commedia satira poesia Bernesca ec.
Vari rami del bello.
Bello delicato - grazioso - ameno - elegante. V. Martignoni ec. Annali di scienze
e lettere n.8. p.252-54. Ci può essere il bello delicato e il non delicato.
Ercole, Apollo. Bello sublime. Giove.
[8] Provatevi a respirare artificialmente, e a fare pensatamente qualcuno di
quei moltissimi atti che si fanno per natura; non potrete, se non a grande stento
e men bene. Così la tropp'arte nuoce a noi: e quello che Omero diceva
ottimamente per natura, noi pensatamente e con infinito artifizio non possiamo
dirlo se non mediocremente, e in modo che lo stento più o meno quasi
sempre si scopra. V. p.461.
Difficoltà d'imitare: più facile il far più che quel medesimo:
quanto sia difficile l'essere uguale: quanto rara in natura l'uguaglianza perfetta:
quindi la maraviglia nata dall'imitazione e il diletto nato dalla maraviglia.
V. Quintiliano, l.10.c.11. quindi la maggior facilità di esprimere un
bello ideale che il proprio bello naturale anche minore dell'ideale.
Due gran dubbi mi stanno in mente circa le belle arti. Uno se il popolo sia
giudice ai tempi nostri dei lavori di belle arti. L'altro se il prototipo del
bello sia veramente in natura, e non dipenda dalle opinioni e dall'abito che
è una seconda natura. Della prima quistione se mi verrà in mente
qualche pensiero lo scriverò poi: della seconda, osservo che a noi par
conveniente a un soggetto (e la bellezza sta tutta si può dire nella
convenienza) quello che siamo assueffatti a vederci, e viceversa sconveniente
ec. e però ci par bello quello che ha queste tali cose e brutto o difettoso
quello che non le ha: benchè in natura non debba averle o viceversa.
P.e. ci par deforme una certa razza di cani quando ha l'orecchie non tagliate
ec. potenza della moda specialmente intorno alla bellezza delle donne ec. Mi
pare che in natura non ci siano quasi altro che i lineamenti del bello, come
sono l'armonia la proporzione e cose tali che secondo il solo lume naturale
debbono trovarsi in ogni cosa bella: e che l'ombreggiare gli oggetti belli dipenda
tutto dalle nostre opinioni. Per questo si possono addurre infiniti esempi.
E li distinguo in due classi: l'una di quelli che provano la diversità
di opinioni intorno agli oggetti in natura; l'altra ec. intorno agli oggetti
nell'imitazione ossia nelle belle arti.
Natura
Occhi azzurri belli tra' greci: neri tra noi. Capelli biondi belli in Italia nel cinquecento: neri al presente. Diversissime opinioni de' barbari intorno alla bellezza che pur mostrano che in natura non ce n'è idea fissa. V. Camper Diss. sur le beau physique. Cavalli scodati. Cani colle orecchie tagliate. Opinione e senso de' nostri contadini circa la bellezza, e vedi quelle descritte nella Beca e nella Nencia non già da scherzo, ma perchè di quella sorta piacciono ai villani. Bello ideale ch'esprimerebbe p.e. un pittore moro di qualunque genio ed entusiasmo si fosse. Il bello ideale non è [9]altro che l'idea della convenienza che un artista si forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della sua nazione. Barba, e capelli tagliati o no.Belle Arti
Pittura ec. de' cinesi. Musica de' turchi. V. Martignoni Annal. di Scienze
e lett. n.8. p.245. nota, ove anche della musica francese e italiana. Presso
noi non disdicono le fabbriche a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate
e colorite. Il contrario de' Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa
affatto greggia e rozza.
I francesi hanno certe esagerazioni familiari così usitate che sono vere
frasi proprie della lingua e non di questo o di quello scrittore o parlatore;
le quali danno un'idea della sempiterna affettazione e del tuono esaltato quando
in uno quando in altro modo, con cui sono scritti si può dir tutti i
loro libri. Giammai persona non fu più fedele al suo re. Nessun altro
fu sì ricordevole del benefizio. (Aucun ne fut ec.) Non si vide mai tanto
amore nè tanta costanza. E nota che questo medesimo lo diranno a un bisogno
di due o tre persone o più in uno stesso libro. Troverai spessissimo
che parlando di qualche scrittore dozzinale ti diranno per esempio: egli ha
tutta la tenerezza di Racine e tutto lo spirito di Voltaire, egli è sublime
come Corneille e semplice come la Fontaine, egli stringe come Bourdaloue, commuove
come Massillon, trasporta come Bossuet: e ti maraviglierai come uno scrittore
in cui si trovano unite le qualità principali di più altri (secondo
loro) grandi, che ne hanno ciascheduno, una sola, non sia più grande
di questi, nè celebre presso tutta la nazione, e forse tu ne legga il
nome per la prima volta.
In molte opere di mano dove c'è qualche pericolo (o di fallare o di rompere
ec.) una delle cose più necessarie perchè riescano bene è
non pensare al pericolo e portarsi con franchezza. Così i poeti antichi
non solamente non pensavano al pericolo in cui erano di [10] errare, ma (specialmente
Omero) appena sapevano che ci fosse, e però franchissimamente si diportavano,
con quella bellissima negligenza che accusa l'opera della natura e non della
fatica. Ma noi timidissimi, non solamente sapendo che si può errare,
ma avendo sempre avanti gli occhi l'esempio di chi ha errato e di chi erra,
e però pensando sempre al pericolo (e con ragione perchè 1. vediamo
il gusto corrotto del secolo che facilissimamente ci trasporterebbe in sommi
errori, 2. osserviamo le cadute di molti che per certa libertà di pensare
e di comporre partoriscono mostri, come sono al presente p.e. i romantici) non
ci arrischiamo di scostarci non dirò dall'esempio degli antichi e dei
Classici, che molti pur sapranno abbandonare, ma da quelle regole (ottime e
Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in voli bassi,
nè mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non curante
e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme
opere dell'arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo
di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già mediocri
di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è insopportabile,
ma mediocri nel genere delle buone cioè lavorate, studiate, pulitissime,
armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici ottimamente imitati, belle
imagini, belle similitudini, somma proprietà di parole, (la quale soprattutto
tradisce l'arte) insomma tutto, ma che non son quelle, non sono quelle cose
secolari e mondiali, insomma non c'è più Omero Dante l'Ariosto,
insomma il Parini il Monti sono bellissimi ma non hanno nessun difetto. V. p.461.
In Plauto il sommo pregio è quello della forza comica che non è
altro se non quella certa vivacità dei personaggi ottenuta col mezzo
del ridicolo, che nel mentre che vivifica l'azione (a differenza delle Commedie
di Terenzio dove c'è gran serietà e però dice Cesare ch'egli
manca di forza comica, a ragione, perchè l'azione importando poco per
se e non avendo la importanza della tragedia, se non è continuamente
rallegrata e rinforzata dal ridicolo, resta debole, e come morta) ottiene il
fine della Commedia che è di distogliere [11] dal vizio il che principalmente
è operato dal ridicolo. Ma i costumi ??? presso Plauto sono poco insigni.
Ciascuno opera, è vero come dee (almeno per l'ordinario) ma 1. tutte
le fisonomie si rassomigliano: sempre appresso a poco è lo stesso parassito,
lo stesso padre, lo stesso servo traditore, lo stesso figlio scapestrato, la
stessa meretrice, ec.; 2. i tratti che qualche volta distinguono un volto dall'altro
sono grossolani: per esempio questa innamorata sarà leale, quest'altra
perfida; questo padre pieghevole, questo duro; questo figlio temperante quest'altro
lussurioso, ed ecco tutto; ec.; 3. c'è qualche volta molta naturalezza
ora in qualche scena bellissima che innamora, ora in qualche Commedia intera,
ma quivi le persone dicono quello che ogni uomo in quella situazione direbbe,
e benchè le parlate siano naturalissime, cavate dal vero, e ritratte
con grandissima finezza dalla natura, pure non sono modificate secondo il carattere
e il costume particolare della persona: insomma non si vede in Plauto una figura
tutta perfettamente delineata e ombreggiata, e i costumi che egli dipinge sono
del genere, p.e., del padre, o della specie, p.e., del padre buono o del padre
iracondo, e non dell'individuo, la qual cosa osservo anche in Terenzio, il quale
per altro è molto superiore a Plauto per li costumi e la naturalezza,
essendo penetrato più addentro nel cuore umano ec. Qualche volta anche
non è conservata in Plauto la naturalezza e la verisimiglianza, specialmente
nel fine delle Commedie, dove talvolta i personaggi si risolvono troppo d'improvviso
e a grado del poeta, essendo stati fin allora di animo diversissimo e anche
contrarissimo a quella tale risoluzione. Ma egli pare che Plauto talora non
volendo altro che far ridere e satireggiare, della verisimiglianza non si curasse,
anzi a bello studio cercasse l'inaspettato, non già l'inaspettato verisimile
che si raccomanda in poesia, ma l'inaspettato inverisimile e grossolano che
però appunto è più ridicolo, come nel fine delle Bacchidi
dove fa innamorare all'improvviso per istrazio quei due vecchi venuti all'opposto
per bravare quelle meretrici, e in quella scena del Canapo dove mette una tenzone
di licet licet e di altre tali risposte sempre ripetute, in un momento caldo
e importante, dov'è impossibile che i personaggi badassero a questi giuochi.
[12] L'arte di Ovidio di metter le cose sotto gli occhi, non
si chiama efficacia, ma pertinacia. ec.
I francesi colla loro pronunzia tolgono a infinite parole che han prese dai
latini italiani ec. quel suono espressivo che aveano in origine, e che è
uno dei più grandi pregi nelle lingue ec. ec. Per esempio nausea in latino
e in italiano con quell'au e con quel'ea imita a maraviglia quel gesto che l'uomo
fa e quella voce che manda scontorcendo la bocca e il naso quando è stomacato.
Ma noséé non imita niente, ed è come quelle cose che spogliate
degli spiriti e dei sali, umori, grasso ec. restano tanti capomorti. (capogatti
ec. non capigatti) V. questi pensieri p.95.
Un'osservazione importantissima intorno alle traduzioni, e che non so se altri
abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno che abbia profittato, è
questa. Molte volte noi troviamo nell'autore che traduciamo p.e. greco, un composto
una parola che ci pare ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una
che equivalga, e fatto questo siamo contenti. Ma spessissimo quel tal composto
o parola comechè sia, non solamente era ardita, ma l'autore la formava
allora a bella posta, e però nei lettori greci faceva quell'impressione
e risaltava nello scritto come fanno le parole nuove di zecca, e come in noi
italiani fanno quelle tante parole dell'Alfieri p.e. spiemontizzare ec. ec.
Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato una parola corrispondentissima
proprissima equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa parola
non è nuova e non fa in noi quell'impressione che facea ne' greci. E
qui è così comune l'inavvertenza che nulla più. Perchè
se traducendo trovi quella parola e non l'intendi, tu cerchi ne' Dizionari,
e per esser quella, parola di un classico, tu ce la trovi colla spiegazione
in parole ordinarie, e con parole ordinarie la rendi e non guardi, prima se
quell'autore che traduci è il solo che l'abbia usata; secondo se è
il primo; perchè potrebbe anche dopo lui esser passata in uso e nondimeno
non essere stato meno ardito nè nuovo nè esprimente il suo primo
usarla. Ecco un esempio. Luciano ne' Dial. de' morti; Ercole e Diogene; usa
la parola ?????????. Cerca ne' Lessici: spiegano: succedaneus ec. ma se tu volti:
sostituto, o che so io, non arrivi per niente all'efficacia burlesca e satirica
di quella nuova parola di Luciano che vuol dire: contrappersona, e colla sua
novità ha una vaghezza e una forza particolare specialmente di deridere.
(N.B. bene, io non so se questa voce di Luciano sia di lui solo: la trovo ne'
Dizionari senza esempio, onde potrebbe anche esser propria della lingua: e bisogna
cercare migliori dizionari che io per ora non ho; perchè cadrebbe a terra
quest'esempio, per altro sufficiente a dare ad intendere, vero o no che sia,
la mia proposizione e osservazione.) Quello che io ho detto delle parole va
inteso anche dei modi frasi, ec. ec. ec.
[13] Non credo che siano molto da ascoltare quelli che credono che certi passi
sublimi della Bibbia avanzino ogni altro passo sublime di qualsivoglia autore;
e lo provano colla grandezza materiale dell'imagine; p.e., dicono, il misurare
le acque colla mano e pesare i cieli colla palma, (Is.40.12.) è ben più
che scagliar la folgore dall'alto di Ato e di Rodope e riempier di spavento
i cuori de' mortali, crollar l'Olimpo coll'accennar del capo, ec. ec. Senza
dubbio non si può dir niente di Dio che non sia infinitamente al di sotto
del vero, e però la Bibbia (e la Bibbia molto meno che qualunque altro)
non dice mai cosa che appetto al vero non sia strapiccolissima, e pure io ardirò
di affermare che quelle tali espressioni della Bibbia, nella poesia umana sono
esagerazioni, e che in essa poesia vale assolutamente più in rigore di
pregio poetico, quel Giove accennante col capo e scuotente l'Olimpo; quel Nettuno
che in quattro passi traversa provincie; quel grido di Marte ferito che pareggia
il grido di diecimila combattenti e d'improvviso atterrisce ambedue gli eserciti,
Greco e troiano; (Il.5); quella caduta dello stesso Dio che disteso occupa sette
iugeri di terreno; (Il.21.407.) di quelle tante imagini sublimissime della Bibbia,
perchè nella poesia umana ci vuole il mezzo dappertutto, il mezzo, che
è il gran luogo di verità e di natura, e che nè anche col
vero si dee oltrepassare: e il sublime dee scuotere fortemente il lettore, ma
non subbissarlo con cose che oltrepassino la capacità nostra. E questo
della poesia umana. Ma la poesia divina come la Scrittura, dee veramente subbissare
e oltrepassare la capacità umana, e però quelle imagini (essendo
poi per se stesse lontanissime dall'essere esagerate) convengono ottimamente
a questa sorta di poesia tutta essenzialissimamente diversa dalla nostra; e
però da noi non imitanda senza colpa poetica. Del resto, io dico bene
che quelle imagini convengono a quella poesia, ma non già credo come
dicono alcuni, che esse più tosto che al gusto orientale, si debbano
al più vivamente sentire la maestà divina che faceano i lirici
Ebrei: (Borgno, Diss. sopra i Sepolcri del Foscolo Milano 1813.p.86. nota 1.)
che per esser subito persuasi del contrario basta osservare i luoghi della Bibbia
dove non si parla di Dio nè di cose affatto sublimi, come p.e. tutta
la Cantica dove anzi si parla di amore e cose delicate, e pure vi si vedono
le stesse metaforone e traslatoni e cose eccessive: però veramente e
assolutamente derivate dal gusto orientale, a cui tuttavia non negherò
che l'ispirazione così poetica come divina non accrescesse forza quanto
alle imagini e frasi dette di sopra ec.
L'efficacia dell'espressioni bene spesso è il medesimo che la novità.
Accadrà molte volte che l'espressione usitata sia più robusta
più vera più energica, e nondimeno l'esser ella usitata le tolga
la forza e la snervi; e il poeta sostituendo in suo luogo un'altra espressione
men robusta, forse anche men propria ma nuova, otterrà un buon effetto
sulla fantasia del lettore, ci sveglierà quell'immagine che l'altra espressione
non avrebbe potuto eccitare; e la sua frase sarà veramente più
efficace, non per se stessa, ma per la circostanza dell'esser nuova.
Nelle poesie del Monti (specialmente nelle Cantiche) sono osservabili la [14]
bellezza novità efficacia delle imagini, particolarmente sublimi, ma
anche di ogni altro genere, la mollezza e dirò così sveltezza,
agilità, disinvoltura dell'espressione; la gran felicità nell'esprimere
cose e imagini difficilissime, la disinvolta e spedita nobiltà dello
stile, e quella data colla scelta e collocamento delle parole (o coll'uno o
l'altra separatamente) a cose e imagini per se stesse ignobili o quasi; la sublimità
e grandezza delle imaginazioni fantastiche, la grazia e forza del dipingere,
la facilità e felicità di certe rime disparatissime, come di qualche
nome proprio, lontanissimo dell'argomento, condottovi con mirabile franchezza
e disinvoltura, (nella qual facilità ebbe il Monti gran precursore, oltre
a Dante il Menzini nelle Satire); l'efficacia di molte espressioni acquistata
colla novità ec. ec. le quali cose tutte fanno uno stile suo proprio,
elegante, (la quale eleganza, la qual nobiltà ec. è anche molto
spesso acquistata con acconce parole latine destrissimamente, disinvoltamente,
e morbidamente insinuate nella composizione) efficace, nobile, proprio, e un
genere di poesia che si può dire originale, avendo molte tinte che non
si vedono in quello di Dante sempre più feroce, e quanto allo stile,
di raro così molle e pieghevole e armonioso e disinvolto e grazioso e
anche delicato ec. ec.; la sicurezza e franchezza del tocco sia quanto all'espressione
sia quanto al concetto alle immagini ec.
Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d'ogni
grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande,
la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più
difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla
ragione: che pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno)
se non sono dominati dalle illusioni. Queste viene che quelle cose che noi chiamiamo
grandi per es. un'impresa, d'ordinario sono fuori dell'ordine, e consistono
in un certo disordine: ora questo disordine è condannato dalla ragione.
Esempio: l'impresa d'Alessandro: tutta illusione. Lo straordinario ci par grande:
se sia poi più grande dell'ordinario astrattamente parlando, non lo so:
forse anche qualche volta sarà più piccolo assai in riga astratta,
e quest'uomo strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un altro
ordinario ed oscuro si troverà minore: nondimeno, perchè è
straordinario si chiama grande: anche la piccolezza quando è straordinaria
si crede e si chiama grandezza. Tutto questo la ragione non lo comporta: e noi
siamo nel secolo della ragione: (non per altro se non perchè il mondo
più vecchio ha più sperienza e freddezza) e pochi ora possono
essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle arti. Anche chi è
veramente grande, sa pesare adesso e conoscere la sua grandezza, sa sviscerare
a sangue freddo il suo carattere, esaminare il merito delle sue azioni, pronosticare
sopra di se, scrivere minutamente colle più argute e profonde riflessioni
la sua vita: nemici grandissimi, ostacoli terribili alla grandezza: che anche
l'illusioni ora si conoscono chiarissimamente esser tali, e si fomentano con
una certa [15] compiacenza di se stesse, sapendo però benissimo quello
che sono. Ora come è possibile che sieno durevoli e forti quanto basta,
essendo così scoperte? e che muovano a grandi cose? e senza le illusioni
qual grandezza ci può essere o sperarsi? (Un esempio di quando la ragione
è in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato
e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo come
richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze:
essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne
avrà nessun vantaggio e forse anche danno perchè soffrirà
più tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l'alimenti.
Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo
non fai e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette
dalla parte della natura). La natura dunque è quella che spinge i grandi
uomini alle grandi azioni. Ma la ragione li ritira: e però la ragione
è nemica della natura; e la natura è grande, e la ragione è
piccola. Altra prova che la ragione è spesso nemica della natura, si
cava dall'utilità (così per la salute come per tutto il resto)
della fatica a cui la natura ripugna e così dalla ripugnanza della natura
a cento altre cose o necessarie o utilissime e però consigliate dalla
ragione, e per lo contrario dall'inclinazione della natura a moltissime altre
o dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate dalla ragione: e la natura
spesso tende con questi appetiti a danneggiare e a distrugger se stessa.
Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n.91, le Osservazioni di
Lodovico di Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo chiamare,
e perchè ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbrogliare
e inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le
cose credute indubitabili, però avendo nella mente le risposte che a
quei ragionamenti si possono e debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole
lo scrittore (come tutti i romantici) che la poesia moderna sia fondata sull'ideale
che egli chiama patetico e più comunemente si dice sentimentale, e distingue
con ragione il patetico dal malinconico, essendo il patetico, com'egli dice,
quella profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col
mezzo dell'impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p.e. la campana
del luogo natìo, (così dic'egli) e io aggiungo la vista di una
campagna, di una torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza
che egli vuol che sia tra la poesia moderna e l'antica, chè gli antichi
non provavano questi sentimenti, o molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo
in questo superiori agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste
veramente la poesia, però noi siamo più poeti infinitamente che
gli antichi. (E questa è la poesia dello Chateaubriand del Delille del
Saint-Pierre ec. ec. per non parlare dei romantici, che forse anche in qualche
cosa differiscono ec. E questo patetico è quello che i francesi chiamano
sensibilité e noi potremmo chiamare sensitività). Or dunque bisogna
eccitare questo patetico, questa profondità di sentimento nei cuori:
e qui, com'è naturale, consisterà la somma arte del poeta. E qui
è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec.
ec. scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli
uomini? La natura, purissima, tal qual'è, tal quale la vedevano gli antichi:
le circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente:
quell'albero, quell'uccello, quel canto, quell'edifizio, quella selva, quel
monte, [16] tutto da per se, senz'artifizio, e senza che questo monte sappia
in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, nè ch'altri
ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun'arte ec. ec. In somma questi
oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita in lei, e non
tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che faceano
gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli
oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti,
e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi
oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è
possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti,
anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto
più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume,
e coll'arte sua ci ha preparati a riceverne quell'impressione, dovechè
in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli
spessissimo non ci si bada, (qui cade la gran facoltà delle arti imitative
di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti comuni, vale
a dire così imitati, che si considerino nella poesia, dovechè
nella realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni
ec. ec. che nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec.
come il Gravina nella Ragion poet.) e bisogna poi perchè producano quei
tali sentimenti andarli a prendere pel loro verso: ed ecco ottenuto dagli antichi
il grand'effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono
e ci sublimano e c'immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e
tutti i secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro,
ne sono testimoni. Ma che? quando questi poeti, imitavano così la natura,
e preparavano questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano,
o non dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano
quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato
della poesia antica, per cui, non è più poesia, e i moderni vincono
a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se questi
sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per destarli bisogna imitare la nuda
natura, e quei semplici e innocenti oggetti, che per loro propria forza, inconsapevoli
producono nel nostro animo quegli effetti, bisogna trasportarli come sono nè
più nè meno nella poesia, e che così bene e divinamente
imitati, aggiuntaci la maraviglia e l'attenzione alle minute parti loro che
nella realtà non si notavano, e nella imitazione si notano, è
forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando,
questi sentimenti che costoro non ci sanno di grandissima lunga destare; e che
il poeta quanto più parla in persona propria e quanto più aggiunge
di suo, tanto meno imita, (cosa già notata da Aristotele, al quale volendo
o non volendo senz'avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è
prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura
qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una similitudine
d'Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un'ode d'Anacreonte,
vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone
più che cento mila versi sentimentali; perchè quivi parla la natura,
e qui parla il poeta: e non si [17] avvedono che appunto questo grand'ideale
dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo
analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti
affetti, quest'arte insomma psicologica, distrugge l'illusione senza cui non
ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell'animo e delle
azioni; (v. quel che ho detto in altro pensiero) e che mentre l'uomo (preso
in grande) si allontana da quella puerizia, in cui tutto è singolare
e maraviglioso, in cui l'immaginazione par che non abbia confini, da quella
puerizia che così era propria del mondo a tempo degli antichi, come è
propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la capacità di esser sedotto,
diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per una cosa che
conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche palpita (perchè
il cuor nostro non è cangiato ma la mente sola), questa benedetta mente
gli va a ricercare tutti i secreti di questo palpito, e svanisce ogn'ispirazione,
svanisce ogni poesia; e non si avvedono che s'è perduto il linguaggio
della natura, e che questo sentimentale non è altro che l'invecchiamento
dell'animo nostro, e non ci permette più di parlare se non con arte,
e che quella santa semplicità, che dalla natura non può sparire
perchè la natura coll'uomo non invecchia, e la qual sola ci può
destare quei veri e dolci sentimenti che andiamo cercando, non è più
propria di noi come era propria degli antichi, e che però per parlare
come questa semplicità parla, e come insegna la natura, e destare quei
sentimenti che la sola natura può destare, è forza in questo tristissimo
secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi stessi, e vediamo come parlavano
gli antichi che erano ancora fanciulli, e con occhi non maliziosi nè
curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa natura e la dipingevano:
e insomma non si avvedono che essi amici della natura sola, vengono in effetto
a predicar l'arte, e noi amici dell'arte veniamo verissimamente a predicar la
natura. Qui cadrebbe in acconcio il discorrere dell'affettazione che è
il vizio generale nelle arti belle e abbraccia quasi tutti i vizi, e come il
sentimentale sia facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo invece
di destare quei sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel tale
oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e come questi sentimenti
sieno d'infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che fa il Breme la poesia
moderna al solo patetico (distinguetelo pur quanto volete dal malinconico come
di sopra ho detto), quasi che il sublime, l'impetuoso, l'esultante, il giubilante
(so bene che anche la gioja può esser patetica, ma non nei casi ch'io
dico) il grazioso disinvolto e insomma quasi tutta la poesia degli antichi,
l'epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di trionfo,
le descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di Anacreonte ec.
ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non paresse più tale, o
almeno (non si sa poi perchè, quando non si ammettano le due cose precedenti)
dai moderni non dovesse più esser coltivata; come non deve parere una
pazzia difficile a credere che sia caduta in testa d'un uomo savio? Dunque Virgilio
non è poeta altro che nel quarto dell'Eneide, e nell'episodio di Niso
ed Eurialo, e che so io? dunque [18] non ci sarà più altro che
un solo genere di poesia? e in uno stesso componimento non si dovrà più
tenere altro che un tuono solo? (E dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia
delle favole antiche.) Ma che? abbiamo mutato natura affatto? non c'è
più gioia se non mezzo malinconica, non c'è più ira, non
c'è più grandezza e altezza di pensieri, senza quel condimento
di patetico ec. ec.? (E se la poesia è arte imitativa e il suo fine è
il dilettare, nè deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa
diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura
e del fine della poesia che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia
prodotta dall'imitazione ec.) Ma queste son follie, di cui è soverchio
parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti del Breme ci si scopre
una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale così del suo
sistema come del romantico. Da principio dice che gli antichi credevano tutto
e si persuadevano di mille pazzie, che l'ignoranza il timore i pregiudizi e
somministravano allora gran materia alla loro poesia, e non possono più
somministrarne ai tempi nostri; insomma evidentemente par che venga a conchiudere,
che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole, e in proporzione coi lumi
dell'età nostra, e in fatti dice che ce la debbono somministrare la religione,
la filosofia, le leggi di società ec. ec. E così dicono i romantici.
Ma se così è, ecco l'illusione sparita, e se il poeta non può
illudere non è più poeta, e una poesia ragionevole, è lo
stesso che dire una bestia ragionevole ec. ec. E i romantici, non che facciano
la poesia ragionevole, vanno in cerca di mille superstizioni e delle più
pazze cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l'immaginazione
anche al presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita
ec. e ANCHE sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose AL TUTTO arbitrarie
nè lontane da quel Vero ec. In queste parole e specialmente in quell'anche
e in quell'al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente l'angustia del metafisico,
che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e piegare, cerca di rimediarci
colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la nostra immaginazione
ha bisogno d'esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma il Breme senza nessuna
dubitazione in parecchi altri luoghi) il vostro ragionamento va tutto a terra:
chè quando uno di noi si mette a leggere una poesia sapendo di dover
esser sedotto e desiderando di esserlo, tanto crede al più falso quanto
al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto agli spettri del
Bürger quanto all'inferno dell'Odissea e dell'Eneide; e quel dire che le
finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie è una miseria, quasi
che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di tanto solo, e non
più, e l'intelletto nostro nel mezzo della lettura e dell'inganno della
fantasia non comprendesse egualmente la falsità delle invenzioni del
Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto sta se l'immaginazione
nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se sì tutti i vostri
ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta deve pensare a
sedurre come crede meglio, e s'egli non sa sedurre, la colpa è sua, e
non del genere che ha scelto. Un'altra svista del Breme (e probabilmente di
tutti i suoi settari) è dove parlando della mitologia greca, dice che
la natura è vita, che la fantasia umana e la poesia si compiace in immaginare
che tutto viva, cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare
[19] questa sorgente della poesia moderna che consiste in non guardare nessuna
cosa con noncuranza, in attribuir senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto
tutte le possibili forme, in avvivare insomma la natura col mezzo d'idee poeticamente
analoghe ec. ec. Dunque non solo concede che la natura si avvivi, ma essenzialmente
lo vuole, e dice di contrapporre questo sistema vitale al mitologico ec. e per
esempio di questo avvivamento diverso da quello che faceano i mitologi, si serve
di un passo di lord Byron dove attribuisce sospiri fragranti alla rosa innamorata.
Ma che? non vuole che si avvivi la natura così individualmente, diremo,
e mediatamente, come i mitologi faceano, personificando affetti e numi e piante
ec. ma la natura immediatamente, senza convertirla in individui, e riconoscendo
vita sotto tutte le forme e non esclusivamente sotto l'umana, in somma che tutto
sia animato e sensitivo, non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede
il Breme, non si avvedono i romantici che questi che debbono avvivare la natura,
questi poeti, son uomini, e non possono naturalmente e per intimo impulso concepir
vita nelle cose, se non umana, e che questo dare agli oggetti inanimati, agli
Dei, e fino ai propri affetti, pensieri e forme e affetti umani, è così
naturale all'uomo che per levargli questo vizio bisognerebbe rifarlo; non si
avvede che il suppor vita nelle cose, p.e. inanimate, diversa dalla nostra,
ripugna di maniera al nostro istinto e alla nostra natura, che appartiene appuntino
a quello che si chiama cattivo gusto, al gusto che si chiama gotico, che si
chiama cinese; che il poeta non deve seguir nè la ragione nè la
metafisica (posto pur che la ragione ami meglio nelle cose che non vivono, una
vita diversa dalla nostra che uguale, e così discorrete degli Dei ec.),
ma la natura e l'istinto, e che per quanto si può argomentare da questo
istinto, il cavallo p.e. se avesse ragione e immaginativa, attribuirebbe a Dio,
(il cavallo sarebbe allora ragionevole, onde nessuno si scandalizzi di quel
che dirò) e alle cose inanimate ec. ec. la figura e gli affetti e i pensieri
del cavallo, e così gli altri animali; (e questo pensiero non è
mio ma dell'antico Senofane, perchè molte cose son vecchie che si credono
nuove, e molta sapienza è antica alla quale si crede che quei cervelli
non arrivassero) non si avvede che se la rosa sospira ed è innamorata,
la rosa nella mente del poeta non è mica altro che una donna; e che voler
supporre che questa rosa viva, e non viva come noi, se è possibile al
metafisico, è impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che
non sono mica i metafisici ma il volgo; e non si avvede che lo stesso lord Byron
non ha saputo alla sua rosa e tutti i romantici non sapranno in eterno a nessunissima
cosa dare altri affetti o sensi che umani, perchè diversi affetti o sensi
appena ci sappiamo persuadere che ci possano essere, non che possiamo immaginarci
quali siano. ec. ec. Quanto all'arte di poetare e di scrivere che il Breme pare
che disprezzi per la maggior parte, mi sbrigo in due parole. Questo imitar la
natura questo destare i sentimenti che voi altri volete, è facile o difficile?
ognuno che li sente è sicuro purchè si metta a scrivere di comunicarli
subito agli altri, o no? Se sì, me ne rallegro, e avrò piacere
di vederne l'esperimento; se no, se questa cosa è tra le difficili difficilissima,
[20] se quand'uno ha concepito, non ha fatto appena metà del cammino,
se mille e centomila che provando affetti e sentendo vivamente, hanno scritto,
non sono riusciti a muovere negli altri gli stessi affetti, e non si leggono
da nessuno, se infiniti esempi e ragioni provano quanta sia la forza dello stile,
e come una stessa immagine esposta da un poeta di vaglia faccia grand'effetto,
e da un inferiore nessuno, se Virgilio senz'arte non sarebbe stato Virgilio,
se in poesia un bel corpo con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile
ordine scelta ec. non si soffrono e non si leggono e sono condannati non mica
dai pregiudizi ma dal tempo giudice incorrotto e inappellabile, se colla proprietà
eleganza nobiltà ec. ec. ec. delle parole e della lingua e delle idee,
colla scelta coll'ordine colla collocazione ec. ec. infinite necessarissime
doti si procacciano alla poesia; c'è bisogno dell'arte, e di grandissimo
studio dell'arte, in questo nostro tempo massimamente, per le ragioni che più
volte in questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i grandi scrittori quelli
che tutto il mondo venera, quelli così infinitamente superiori ai pregiudizi,
quelli finalmente i quali se non sono veramente ed eternamente grandi, non c'è
più cosa grande nè speranza di diventar grande, noi vediamo che
Cicerone (e l'eloquenza è cosa molto simile alla poesia) studiò
profondissimamente l'arte sua e la sua lingua e la gramatica e gli esemplari
greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto questo studio non diventò
già un uomo da nulla nè un pedante nè un imitatore e che
so io, ma diventò un Cicerone: e se Cicerone come scrittore e oratore,
o signor Breme, non vi quadra, come nè anche Pindaro nè Orazio,
vi do subito la buona notte, e mi dispiace di non averlo saputo prima. (E già
di sopra s'è osservato che il primitivo bisogna impararlo dagli antichi.)
Non si ricorda il Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia,
dico, che i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli
uomini trovano, così nelle arti e nei mestieri come nelle cose usuali
della vita, e così in tutto. E così chi sente e vuol esprimere
i moti del suo cuore ec. l'ultima cosa a cui arriva è la semplicità,
e la naturalezza, e la prima cosa è l'artifizio e l'affettazione, e chi
non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immune
dai pregiudizi dell'arte, è innocente ec. non iscrive mica con semplicità,
ma tutto all'opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si mettono
a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza, che se questo
fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per contrario non
ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze benchè
grossolane, e quella semplicità che v'è, non è semplicità
ma fanciullaggine: così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per
un certo verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con
quella di Anacreonte che pare il non plus ultra, e vedete se vi pare che si
possa pur chiamare semplicità. Onde il fine dell'arte che costoro riprovano,
non è mica l'arte, ma la natura, e il sommo dell'arte è la naturalezza
e il nasconder l'arte, che i principianti, o gl'ignoranti non sanno nascondere,
benchè n'hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e tanto
fa più stomaco quanto è più rozza: e i nove anni d'Orazio
dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli artifizi del
componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli accrescendoli, e insomma
per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine di tutti
quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si
burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre [21] bestemmiano
l'arte e predicano la natura, non s'accorgono che la minor arte è minor
natura.
Non solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a perfezione
la natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza, anzi non imita la
natura chi non la imita con naturalezza. Però Ovidio che senza naturalezza
la dipinge, cioè va tanto dietro a quegli oggetti, che finalmente ce
li presenta, e ce li fa anche vedere e toccare e sentire, ma dopo infinito stento
suo, (così che a lui bisogna una pagina per farci veder quello che Dante
ci fa vedere in una terzina) e con una più tosto pertinacia ch'efficacia;
presto sazia, e inoltre non è molto piacevole, perchè non sa nasconder
l'arte, e con quel tanto aggirarsi intorno agli oggetti (non solo per una pericolosa
intemperanza e incontentabilità, ma anche perchè egli senza molti
tratti non ci sa subito disegnar la figura, e se non fosse lungo non sarebbe
evidente) fa manifesta la diligenza, e la diligenza nei poeti è contraria
alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti
imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che vediamo
negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è
quella che vediamo nell'Ariosto, Petrarca ec. questa è quella che pur
troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni, questa è quella
che col sentimentale e col sistema del Breme, e nelle poesie moderne de' francesi,
non si ottiene, e poi non si ottiene; chè questo stesso sentimentale
scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il poeta che parla ec. In Ovidio
si vede in somma che vuol dipingere, e far quello che colle parole è
così difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante
nò: pare che voglia raccontare e far quello che colle parole è
facile ed è l'uso ordinario delle parole, e dipinge squisitamente, e
tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa circostanziola e quell'altra,
e alzava la mano e la stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno
i romantici descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi,
così anche prose ec. tanto in voga ultimamente) insomma in lui c'è
la negligenza, in Ovidio no.
Sì come dopo la procella oscura
Canticchiando gli augelli escon del loco
Dove cacciogli il vento (nembo) e la paura;
E il villanel che presso al patrio foco
Sta sospirando il sol, si riconforta (si rasserena)
Sentendo il dolce canto e il dolce gioco;
Grandissima parte dell'opere utili proccurano il piacere mediatamente, cioè
mostrando come ce lo possiamo proccurare: la poesia immediatamente, cioè
somministrandocelo.
Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perchè al suo tempo
ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine
delle repubbliche e della libertà, parte l'avarizia, la lussuria e l'ignavia.
Ora queste non sono madri ma sorelle di quell'effetto di cui parliamo. E questo
e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla
mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà
quasi mai grandezza di pensieri nè forza e impeto e ardore d'animo, nè
grandi azioni che per lo più sono pazzie. Quando ognuno è bene
illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come sono la gloria l'amor della
patria la libertà ec. ec. cerca i solidi cioè i piaceri carnali
osceni [22] ec. in somma terrestri, cerca l'utile suo proprio sia consistente
nel danaro o altro, diventa egoista necessariamente, nè si vuol sacrificare
per sostanze immaginarie nè comprometter se per gli altri nè mettere
a ripentaglio un bene maggiore come la vita le sostanze ec. per un minore, come
la lode ec. (lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili
gli uni agli altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo
i lumi e le qualità buone non accresce la massa, ma la sparte, sì
che ridotta in piccole porzioni fa piccoli effetti.) Quindi l'avarizia, la lussuria
e l'ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l'eccesso dell'incivilimento.
E però non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento
delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non
diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël
ec. ma barbaro; al che noi c'incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati.
La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura:
(seguìta però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando
sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e certo nessuno chiamerà
barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, nè i Greci alle Termopile,
quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico
presso ambedue i popoli. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del
mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l'uomo è snaturato; ogni popolo
snaturato è barbaro, non potendo più correre le cose come vuole
il sistema del mondo. La ragione è un lume; la Natura vuol essere illuminata
dalla ragione non incendiata. Come io dico accadde appresso i Greci e i Romani:
al tempo di Longino già erano quasi barbari, eppure non c'era stata nessuna
irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque la barbarie, da quelle civilissime
terre, perchè la civiltà era eccessiva. Cicerone era il predicatore
delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre
Orazioni sue politiche; sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente,
sempre l'esempio de' maggiori, la gloria, la libertà, la patria, meglio
la morte che il servizio; che vergogna è questa? Antonio un tiranno di
questa razza ancora vive ec. E intanto Antonio che sarebbe stato pugnalato nel
foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere
in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe
vinto, che fosse dichiarato nemico della patria: calcolavano cercavano ec. quello
che in altri tempi senza un istante di deliberazione sarebbe stato deciso a
pieni voti. Cicerone predicava indarno, non c'erano più le illusioni
d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria la gloria
il vantaggio degli altri dei posteri ec. eran fatti egoisti, pesavano il proprio
utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere, non più
ardore, non impeto, non grandezza d'animo, l'esempio de' maggiori era una frivolezza
[23] in quei tempi tanto diversi: così perderono la libertà, non
si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo
d'illusioni aveva fatto, vennero gl'imperatori, crebbe la lussuria e l'ignavia,
e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza esperienza storia,
erano barbari.
E la ragione facendo naturalmente amici dell'utile proprio, e togliendo le illusioni
che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società,
e inferocisce le persone.
Anche l'amore della maraviglia par che si debba ridurre all'amore dello straordinario
e all'odio della noia ch'è prodotta dall'uniformità.
Vedendo meco viaggiar la luna.
Non è favoloso ma ragionevole e vero il porre i tempi Eroici tra gli
antichissimi. L'eroismo e il sagrifizio di se stesso e la gloriosa morte ec.
di cui parla il Breme, Spettatore, p. 47, finiscono colle illusioni, e non è
un minchione che le voglia in se, in tempi di ragione e di filosofia, come sono
questi, ch'essendo tali, sono anche quello ch'io dico cioè privi affatto
di eroismo. ec.
Quell'affetto nella lirica che cagiona l'eloquenza, e abbagliando meno persuade
e muove più, e più dolcemente massime nel tenero, non si trova
in nessun lirico, nè antico nè moderno se non nel Petrarca, almeno
almeno in quel grado: e Orazio quantunque forse sia superiore nelle immagini
e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur
venire al paragone col Petrarca: il cui stile ha in oltre (io non parlo qui
solo delle canzoni amorose ma anche singolarmente e nominatamente delle tre
liriche: O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra
reggi, Italia mia ec.) ha una semplicità e candidezza sua propria, che
però si piega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magnificenza
del dire, (come in quel: Pon mente al temerario ardir di Serse ec.) così
in tutto il corpo e continuatamente, come nelle varie parti e in quelle dove
egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per l'ordinario:
si piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l'alte imprese
ec.) quantunque di quelle spiccate non n'abbia gran fatto in quelle tre canzoni:
si piega ottimamente alle immagini delle quali le tre canzoni abbondano e sono
innestate nello stile e formanti il sangue di esso ec. (come: Al qual come si
legge, Mario aperse sì 'l fianco ec. Di lor vene ove il nostro ferro
mise ec. Le man le avess'io avvolte entro i capegli ec.)
Il Testi ha dicitura competentemente poetica ed elegante, non manca d'immagini,
ha anche qualche immaginetta graziosa (come dove dice di Davidde: E allor che
in Oriente il dì nascea Usciva a pascer l'agne Su la costa del monte
o lungo il rio, nella Canzone Nelle squallide spiagge ove Acheronte) ha sufficiente
grandiosità ed anche qualche eloquenza, le sentenze non sono mal collocate
nè esposte, quantunque non nuove, riesce anche benino assai nelle Canzone
filosofiche all'Oraziana, imita spesso e qualche volta quasi traduce Orazio,
ma non ha l'animatezza la scolpitezza, e la concisa nervosità e muscolosità
ed energia e lo spirito del suo stile, nè molta originalità e
novità, nè proprio proprio sublimità di concetti e d'invenzioni.
Ma tutti i pregi che ho detto, salvo solamente la grandiosità e l'eloquenza,
risplendono massimamente nelle Canzoni della prima parte, che sono per la più
parte filosofiche e Oraziane, dove lo stile è castigato e non manca leggiadria
di maniere e di concetti, perchè nelle altre parti, quantunque s'innalzi
maggiormente, e metta fuori più forza, e facondia, e più energiche
immagini e in somma sia più pindarico, è difficile trovar canzone
che non sia malamente e sporcamente e visibilmente e tenacemente imbrattata
della pece del suo secolo, che nella prima parte appena appena si scorge qua
e là come macchiuzze, e forse qualche canzona n'è libera affatto
e può parere d'un altro secolo. In oltre la dicitura [24] diventa meno
elegante e pulita e spesso le voci e le locuzioni le metafore i traslati sono
prosaici. In somma si vede molto il febbricitante e il mal lavorato e mal limato
del seicento.
Son proprio esclusivamente del Petrarca, in quanto all'affetto, non solo la
copia, ma anche quei movimenti pieni ???????????e quelle immagini affettuose
(come: E la povera gente sbigottita ec.) e tutto quello che forma la vera e
animata e calda eloquenza. E dall'influsso che ha il cuore nella poesia del
Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità come d'olio soavissimo delle
sue Canzoni, (anche nominatamente quelle sull'Italia) e che le odi degli altri
appetto alle sue paiano asciutte e dure e aride, non mancando a lui la sublimità
degli altri e di più avendo quella morbidezza e pastosità che
è cagionata dal cuore.
Il Filicaia va dietro al sublime e anche l'arriva, ma parlando sempre di cose
della nostra Religione ha tolto a imitare quel sommo sublime della scrittura,
e per questo sommo sublime si fa pregiare, che del resto, quando o non lo cerca
o non lo arriva, non ha quasi cosa ch'esca gran fatto dall'ordinario, non ha
punto di leggiadria mai, non ha in nessun modo la varietà del Testi ec.
ma anche dove ha quel sommo sublime di stile simile allo scritturale e profetico,
non è molto piacevole per cagione della monotonia delle sue Canzoni e
perchè le impressioni di quel sommo sublime essendo troppo veementi non
possono durar gran tempo e si spengono, e il lettore ci si assuefà, sì
che con quella monotonia, viene a rendersi il sublime inefficace, e le odi stucchevolucce.
Le migliori sono quelle per l'assedio e la liberazione di Vienna, e tra queste
a mio giudizio quella che incomincia Le corde d'oro elette. Sono anche queste
macchiate qua e là del seicentismo. Le parole, locuzioni, metafore prosaiche
non mancano, come quello: A tua Pietà m'appello della prima Canzone,
e nella seconda: E al tuo soldo arrolata è la vittoria.
Nuova strada per gl'italiani s'aperse il Chiabrera, solo veramente Pindarico,
non escluso punto Orazio, sublime alla greca Omerica e Pindarica, cioè
dentro grandi ma giusti limiti, e non all'orientale come il Filicaja, sublime,
colla conveniente e greca semplicità, per mezzo dell'accozzamento ?????????????,
come dice Longino, cioè di certe parti della cosa che unite tutte insieme
formano rapidamente il sublime, e un sublime come dico, rapido inaffettato e
in somma pindarico; robusto nelle immagini, sufficientemente fecondo nell'invenzione
e nelle novità, facile appunto come Pindaro a riscaldarsi infiammarsi,
sublimarsi anche per le cose tenui, e dar loro al primo tocco un'aria grande
ed eccelsa. Fu ardito caldo veemente urtantesi nelle cose, ardito nelle voci
(come instellarsi inarenare) nelle locuzioni nelle costruzioni, nel trarre dal
greco e latino le forme così de' sentimenti, (come: Canz. 70, Eroica:
Meco non vo' che vaglia sì sconsigliata voce, e altrove: A me non scenda
in cor sì ria parola: e nota ch'io dico le forme de' sentimenti e non
i sentimenti) come delle parole, nel che alle volte fu felice, come: Canz. Eroica
23: Qual non fe scempio sanguinoso acerbo L'aspro cor dell'Eacide superbo? Canz.
Eroica 71: Sol fe contrasto il gran sangue di Guisa ec. Imitò anche bene
i greci e Pindaro e Orazio nell'economia del comportamento. E certo alle volte
è nobilissimo tanto pel sentimento quanto per le parole: ma pochissimi
pezzi finiscono di piacere; non arriva quasi mai non ostante quello che s'è
detto del suo stile estrinseco alla felicità d'espressione, e alla bellezza
della composizione delle parole d'Orazio, è oscuro assai spesso per le
costruzioni gli equivoci (non già voluti, come i seicentisti, ma non
avvertiti o trascurati) la soppressione delle idee intermedie ne' passaggi (se
ben questa è naturale, perchè [25] il poeta fervido quantunque
non passi mai da un pensiero all'altro senza una qualche cagione e occasione
che è come il legame delle diverse idee, nondimeno questo legame essendo
sottilissimo lo salta facilmente, o anche non saltandolo affatto, il lettore
non lo arriva a vedere) e anche nel passare p.e. dalle premesse alla conseguenza
ec. insomma è sovente sconnesso, (ma questa potrebbe anche essere una
lode per la verità dell'imitazione dell'affetto e dell'estro, e tutto
questo difetto dell'oscurità lo ha comune con Pindaro) ha qualche macchia
di seicentisteria, che però è rara e non farebbe gran caso; ha
qualche metafora non seicentesca affatto, ma troppo ardita, alla pindarica sì,
ma soverchiamente ardita, come Canz. Eroica 14, dice dell'armi di Toscana: Elle
non tra i confin del patrio lito, Quasi belve in covili, Ma fero udir gentili
Per le strane foreste aspro ruggito: Canz. Eroica 41, chiama le vele: le tessute
penne; (se ben quella del ruggito si potrebbe difendere colla similitudine che
precede, delle belve, onde si riferisse a quella, cioè la metafora non
fosse più semplicemente delle armi ruggenti, ma cambiate in fiere o assomigliate
alle fiere e così ruggenti, per una enallage pindarica) fa forza alla
lingua nelle voci (come le composte alla greca: ondisonante ec. che la nostra
lingua non ama) nelle forme trasportate dal greco e latino infelicemente, (giacchè
non sempre anzi non sovente è felice come ho detto di qualche volta)
nelle locuzioni nelle costruzioni; e quel ch'è più e che l'uccide,
è disugualissimo ridondante di pezzi deboli pel sentimento anzi anche
di Canzoni o intere o quasi; di stile per l'ordinario infelice lingua incolta
(neglexit linguae cultum, dice il Gravina nella lettera latina al Maffei, e
così è) sì che non sono se non rarissimi quei pezzi dei
quali si possa dire tutto il bene, e in cui, quando anche l'immagini e i sentimenti
sieno perfetti il che non è tanto raro, l'esteriore dello stile non abbia
difetti che saltano grandissimamente all'occhio e disgustano. Che s'egli avesse
avuto scelta (delectum rerum et limam amisit, dice verissimamente il Gravina
l. c.) e lima (delle quali forse e massime della seconda non era capace) sarebbe
il più gran lirico pindarico che abbia qualunque nazione antica e moderna,
da non potersegli paragonare nè Orazio nè verun altro eccetto
lo stesso Pindaro. Questi difetti principalmente (di scelta e di lima tanto
per le cose che per le parole, giacchè gli altri accennati di sopra non
son tanto gravi, e già si sa che un gran poeta deve aver grandi difetti,
sì che se non fossero altro che quelli, io non dubiterei di tenerlo tuttavia
per un gran lirico) fecero che siccome era nato effettivamente il suo lirico
all'Italia, così anche le venne meno, giacchè non si può
dire che sieno buone poesie liriche i versi del Chiabrera, ma solamente che
questi fu vero poeta lirico.
Una considerazion fina intorno all'arte dello scrivere è questa che alle
volte, la collocazione, diremo, fortuita delle parole, quantunque il senso dell'autore
[26] sia chiaro tuttavia a prima vista produca ne' lettori un'altra idea, il
che, quando massime quest'idea non sia conveniente bisogna schivarlo, massime
in poesia dove il lettore è più sull'immaginare e più facile
a creder di vedere e che il poeta voglia fargli vedere quello ancora che il
poeta non pensa o anche non vorrebbe. Ecco un esempio Chiabrera Canz. lugubre
15. In morte di Orazio Zanchini che comincia: Benchè di Dirce al fonte,
strofe 3. verso della Canz. 38, della strofa duodecimo e penultimo: Ora il bel
crin si frange, E sul tuo sasso piange. Si frange qui vuol dire si percuote,
e intende il poeta, colle mani ec. Il senso è chiaro, e quel si frange
non ha che far niente con sul tuo sasso, e n'è distinto quanto meglio
si può dire. Ma la collocazione casuale delle parole è tale, ch'io
metto pegno che quanti leggono la Canz. del Chiabrera colla mente così
sull'aspettare immagini, a prima giunta si figurano Firenze personificata (che
di Firenze personificata parla il Chiabrera) che percuota la testa e si franga
il crine sul sasso del Zanchini, quantunque immediatamente poi venga a ravvedersi
e a comprendere senza fatica l'intenzione del poeta ch'è manifesta. Ora,
lasciando se l'immagine ch'io dico sia conveniente o no, certo è che
non è voluta dal poeta, e ch'egli perciò deve schivare questa
illusione quantunque momentanea (bastando che queste parole del Chiabrera servano
d'esempio senza bisogno che l'immagine sia sconveniente) eccetto s'ella non
gli piacesse come forse si potrebbe dare il caso, ma questo non dev'essere se
non quando l'immagine illusoria non nocia alla vera e non ci sia bisogno di
ravvedimento per veder questa seconda, giacchè due immagini in una volta
non si possono vedere, ma bensì una dopo l'altra il che quando fosse,
potrebbe anche il poeta lasciare e anche proccurare questa illusione, dove pure
non noccia al restante del contesto, perch'ella non fa danno, e d'altra parte
è bene che il lettore stia sempre tra le immagini. Quello che dico del
poeta s'intenda proporzionatamente anche degli altri scrittori. Anzi questa
sarebbe la sorgente di una grand'arte e di un grandissimo effetto proccurando
quel vago e quell'incerto ch'è tanto propriamente e sommamente poetico,
e destando immagini delle quali non sia evidente la ragione, ma quasi nascosta,
e tale ch'elle paiano accidentali, e non proccurate dal poeta in nessun modo,
ma quasi ispirate da cosa invisibile e incomprensibile e da quell'ineffabile
ondeggiamento del poeta che quando è veramente inspirato dalla natura
dalla campagna e da checchessia, non sa veramente com'esprimere quello che sente,
se non in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le
immagini che destano le sue parole appariscano accidentali.
Le più belle canzoni del Chiabrera non sono per la maggior parte altro
che bellissimi abbozzi.
Che il Filicaja seguisse lo stile profetico (così appunto dicevano quei
due che ora citerò) lo scrive anche il Redi nelle sue lettere, e similmente
del Guidi dice il Crescimbeni nella sua Vita che quantunque paia come il Chiabrera,
aver bevuto ai fonti greci, nondimeno molto sembra aver preso dall'Ebraico;
talchè la sua apparenza ha assai più del Profetico che del Pindarico,
[27] e soggiunge che in un certo libro si dice di lui che da alcune forme di
Dante, e del Chiabrera accoppiate con certi modi delle Orientali favelle ha
preso il suo stile. E aggiunge egli subito: E questa senza fallo è la
cagione, per la quale vien dato al carattere del Guidi il pregio di nuovo nel
nostro Idioma. E finalmente riferisce l'intenzione dello stesso Guidi, intesa
dalla di lui stessa bocca da esso Crescimbeni, e massime rispetto alla traduzione
delle sei Omelie che il Guidi fece per lasciare a' posteri almeno in ombra l'IMITAZIONE
totale del carattere profetico anche rispetto agli argomenti; cioè un
genere di Poesia sacra, che si vedesse trattata col gusto Davidico, e con l'entusiasmo
de' Profeti.
Emulo impotente di Pindaro il Guidi cercò la grandezza e per trovarla
si raccomandò anche agli Orientali e tolse più forme e immagini
dalla scrittura, ma gli mancò la forza sufficiente di fantasia, nè
in lui trovo nessuna novità se non per rispetto al suo secolo, avendo
sfuggito benchè non affatto le seicentisterie. Nudo intierissimamente
d'affetto, in verità non si può dire che abbia disuguaglianze
perchè tutte quante le sue canzoni sono coperte si può dire ugualmente
di uno strato di perfetta e formale mediocrità, e freddezza. Io non so
come si possa dire che abbia trasportato ne' suoi versi il fuoco e l'entusiasmo
di Pindaro, (così la Biblioteca Italiana num. 8. Bibliografia) quando
io, lette tutte le sue canzoni mi trovo come un marmo: e si vede bene ch'egli
cerca di grandeggiare e d'innalzarsi, ma la sua grandezza nè si communica
col lettore innalzandolo, nè lo percuote e stordisce, restando non dico
gonfia (perchè in verità il suo difetto non è la turgidezza)
ma vota e senza effetto e questo per due cagioni. L'una la debolezza della sua
fantasia, che non gli suggeriva spontaneamente e copiosamente cose grandi, l'altra
(che in parte o tutta si riferisce alla prima e solamente è più
speciale) che i suoi sublimi che sono sparsi a larghissima mano per tutte le
sue Canzoni non sono formati rapidamente dalla scelta ??????????????????, come
dice Longino, come fa Pindaro e Omero e il Chiabrera, con che vengono ad ????????????
il Lettore e te lo strascinano e sbalzano qua e là stordito e confuso
a voglia loro, ma è composto placidissimamente di lunghe enumerazioni
di cose di parti d'immagini accozzate e messe una dopo l'altra ordinatamente
e in simmetria senza rapidità di stile e freddamente sì che quantunque
le immagini metafore ec. stieno in regola e però non ci sia turgidezza,
contuttociò non fanno altro che un gran fresco perchè il sublime
non si può formare in quel modo. In somma ha bisogno di una pagina per
formare un quadro o pezzo qualunque sublime, dove Pindaro e il Chiabrera di
pochi versi, questi come Dante è nel dipingere, quello com'è Ovidio.
La dicitura non ha altro pregio che una purgatezza competente, senz'ombra di
proprietà nè d'efficacia; [28] nè anche ha quegli ardiri
spessissimo infelici, ma pure alle volte felici del Chiabrera, nè l'oscurità
nè veruno di quei difetti, che comunque tali pur paiono aver che fare
colla lirica ed esser quasi naturali a un vero lirico, sì come a Pindaro.
Lo stesso dico dell'intrinseco dello stile, tanto rispetto all'oscurità
quanto all'ardire che nel Guidi non si trova si può dire altro ardire
se non qualche cosa presa dalla Scrittura, come di sopra ho detto, e quanto
a queste cose prese dalla Scrittura io parlo delle canzoni, non della traduzione
delle sei Omelie, dove prese un po' più, tenendo dietro al testo di esse,
anzi le scelse apposta per tener dietro allo stile Davidico, (quantunque l'abbia
fatto senz'ombra di forza annacquatissimamente) che questa traduzione è
un vero mostro (per motivo dei pensieri del modo ec. mentre sono Omelie in versi,
con citazioni di Padri debolissime stiracchiate schifose) e non merita che se
ne dica altro: e pure son l'ultima e più studiata cosa ch'egli facesse.
Del resto il verso è sonante, e dico sonante perchè non posso
dire armonioso se per armonia vogliamo intendere la finezza dell'arte di verseggiare
trovata dagl'italiani dopo, il ritmo analogo ai sentimenti, la varietà
ec. ec.
Io solea dire ch'era una follia il credere e scrivere che ci fosse o in Italia
o altrove qualche poeta che somigliasse ad Anacreonte. Ma leggendo il Zappi
trovo in lui veramente i semi di un Anacreonte, e al tutto Anacreontica l'invenzione
e in parte anche lo stile dei Sonetti 24.34.41, e dello scherzo: il Museo d'Amore.
Anche le altre sue poesie sono lodevoli non poco per novità de' pensieri
(giacchè non c'è quasi componimento suo dove non si veda qualche
lampo di bella novità) con dignitoso garbo e composta vivacità
e certa leggiadria propria di lui (così anche il Rubbi) per la quale
si può chiamare originale, benchè di piccola originalità.
I Sonetti Amorosi ed hanno le doti sopraddette, e qual più qual meno
s'accostano all'Anacreontico.
Il Manfredi non ha altro che chiarezza e facilità e gentilezza ed eleganza,
senz'ombra ombra di forza in nessun luogo, sì che quando il soggetto
la richiede resta veramente compassionevole e misero e impotente come nelle
Quartine per Luigi XIV. Del resto la gentilezza sua, ch'io dico è diversa
dalla grazia e leggiadria e venustà, ch'è cosa più interiore
intima nel componimento e indefinibile. Nè ha il Manfredi punto che fare
coll'Anacreontico e la gentilezza sopraddetta l'ha in ogni sorta di soggetti,
gravi dolci leggiadri sublimi ec. Nei Canti del Paradiso c'è mirabile
chiarezza e facilità di esprimere e di spiegare e dare ad intendere in
versi lucidissimamente e senza dare nel prosaico o nel basso, cose intralciate
e difficili. Nelle Canzoni massimamente ha imitato il Petrarca e anche affettatamente
e servilmente come dove dice: Canzone O tra quante il sol mira altera e bella
Pel giorno natalizio di Ferdinando di Toscana: Rade volte addivien, ch'altrui
sublimi Fortuna ad alto onor senza contrasti, (Rade volte addivien ch'all'alte
imprese Fortuna ingiuriosa non contrasti: Petrarca Spirto gentil ec.) e altrove.
Dei quattro lirici ch'io ho mentovati di sopra oltre il Manfredi e il Zappi
che sono di un'altra classe, mentre questi appartengono a quella de' Pindarici
e Alcaici e Simonidei ed Oraziani, ossia Eroici e Morali principalmente, io
do il primo luogo al Chiabrera, il secondo al Testi de' quali se avessero avuto
più studio e più fino gusto, e giudizio più squisito quegli
avrebbe potuto essere effettivamente il Pindaro, e questi effettivamente l'Orazio
italiano. Tra il Filicaia e il Guidi non so a chi dare la preferenza; mi basta
che tutti e due sieno gli ultimi e a gran distanza degli altri due, mentre,
secondo me, quando anche fossero stati in tempi migliori, non aveano elementi
di lirici più che mediocri anzi forse non si sarebbero levati a quella
fama ch'ebbero e in parte hanno.
[29] Tutto è o può esser contento di se stesso, eccetto l'uomo,
il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella
dell'altre cose.
Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati.
(Decembre 1818.)
Fàcciate alla finestra, Luciola,
Decco che passa lo ragazzo tua,
E porta un canestrello pieno d'ova
Mantato colle pampane dell'uva.
I contadì fatica e mai non lenta
E 'l miglior pasto sua è la polenta.
È già venuta l'ora di partire
In santa pace vi voglio lasciare.
Nina, una goccia d'acqua se ce l'hai:
Se non me la vôi dà padrona sei.
(Aprile 1819.)
Io benedico chi t'ha fatto l'occhi
Che te l'ha fatti tanto 'nnamorati.
(Maggio 1819.)
Una volta mi voglio arrisicare
Nella camera tua voglio venire.
(Maggio 1820.)
Ottimamente il Paciaudi come riferisce e loda l'Alfieri nella sua propria Vita,
chiamava la prosa la nutrice del verso, giacchè uno che per far versi
si nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per
ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a formare
il nostro, e le cose più atte sono appunto le carni succose ma magre,
e la sostanza cavata dalle parti più secche, quale si può considerare
la prosa rispetto al verso.
Una giovane nubile educata parte in monastero parte in casa con massime da monastero,
esortava la sorella di un giovane parimente libero, a volergli bene, e le ripeteva
questo più volte, e con premura, cosa di ch'io informato credetti che
questo potesse essere un artifizio dell'amore che non potendo a cagione della
di lei educazione monastica operare direttamente, operava indirettamente facendole
consigliare altrui un amor lecito, verso quell'oggetto, ch'ella forse si sentiva
portata ad amare con amore ch'ella avrà stimato illecito.
Un villano del territorio di Recanati avendo portato un suo bue, già
venduto, al macellaio compratore per essere ammazzato, e questo sul punto dell'operazione,
da principio dimorò sospeso e incerto di partire o di restare, di guardare
o di torcere il viso, e finalmente avendo vinto la curiosità, e veduto
stramazzare il bue, si mise a piangere dirottamente. L'ho udito da un testimonio
di vista.
Chi mi chiedesse qual sia secondo me il più eloquente pezzo italiano,
direi le due canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi
qualche cosa al Tasso ch'era in verità eloquente, e principalmente parlando
di se stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente.
La sventura in gran parte lo fece tale, e l'occorrergli spessissimo di difendersi
ec. e in qualunque modo parlar di se, perch'io sosterrò sempre che gli
uomini grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i piccoli
diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l'interesse
e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all'affettazione e alla sofisticheria
cioè alla massima corrompitrice dell'eloquenza e della poesia, non potendosi
cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove necessariamente
detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di pienezza di cuore. Onde
quello che si dice della utilità derivante agli scrittori dal trattare
materie presenti, a miglior dritto si dee dire del parlare di se stesso comunque
paia a prima vista che il parlar di se non debba interessar gran fatto gli uditori,
[30] cosa falsissima: e si veda nel migliore e più celebre pezzo del
Bossuet, quello in fine all'Oraz. di Condé che effetto fa l'introduzione
di se stesso, al qual pezzo io paragono quello di Cicerone nella Miloniana (ch'è
forse la sua migliore Orazione come questo è forse il più gran
pezzo di essa) il quale si combina parimente ch'è nel fine, dove per
intenerire i giudici introduce menzione di se stesso, e mi par che faccia un
effetto incredibile, come e più di quello che fa il Bossuet, tanto può
l'introdurre se stesso nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si
crede.
La duttilità della lingua francese si riduce a potersi fare intendere,
la facilità di esprimersi nella lingua italiana ha di più il vantaggio
di scolpir le cose coll'efficacia dell'espressione, di maniera ch'il francese
può dir quello che vuole, e l'italiano può metterlo sotto gli
occhi, quegli ha gran facilità di farsi intendere, questi di far vedere.
Però quella lingua che purchè faccia intendere non cerca altro
nè cura la debolezza dell'espressione, la miseria di certi tours (per
li quali la lodano di duttilità) che esprimono la cosa ma freddissimamente
e slavatissimamente e annacquatamente è buona pel matematico e per le
scienze; nulla per l'immaginazione la quale è la vera provincia della
lingua italiana: dove però è chiaro che l'efficacia non toglie
la precisione anzi l'accresce, mettendo quasi sotto i sensi quello che i francesi
mettono solo sotto l'intelletto, ond'ella non è men buona per le scienze
che per l'eloquenza e la poesia, come si vede nella precisa efficacia e scolpitezza
evidente del Redi del Galilei ec.
Nella quistione se [si] debba dire be ce de ec. o bi ec. e però abbiccì
o abbeccè della quale v. il Manni Lez. di lingua toscana, io senza cercare
l'uso di qual città debba far legge ma quale sia più ragionevole
preferisco l'abbeccè ch'è anche nostro marchegiano, per ragioni
cavate dalla natura la quale pare che quel riposo vocale per la cui necessità
soltanto si dà il nome alle consonanti, lasciando le vocali sole come
sono, (quantunque gli antichi greci ebrei ec. nominassero anche le vocali) l'abbia
ristretto all'e onde provatevi a pronunziar sola una consonante p.e. l'f o l'n:
(metto queste sulle quali non cade la quistione nè l'uso di pronunziare
piuttosto in un modo che in un altro) vedrete che la pronunzia non potendo star
sospesa e finita nella pura consonante, e dovendo cascare in vocale vi casca
nell'e: così vediamo che i fanciulli nel leggere e chiunque strascina
la pronunzia delle parole, a quelle lettere che non hanno vocale dopo aggiunge
un mezzo e, come in aredenetemenete ine pace ec. Però gli ebrei (e credo
che così sia in tutte le lingue orientali) ponendo sempre un riposo dopo
ogni consonante o espresso o sottinteso, quando manca la vocale, ci mettono
o ci suppongono lo sceva tanto in mezzo che in fine delle parole, il quale talora
si pronunzia talora no, e in genere si può molto propriamente rassomigliare
all'e muta dei francesi, i quali non hanno altra vocale muta che l'e, nuova
prova di quel ch'io dico.
Io1 per esprimere l'effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte
non so trovare similitudine ed esempio più adattato di un [31] alito
passeggero di venticello fresco nell'estate odorifero e ricreante, che tutto
in un momento vi ristora in certo modo e v'apre come il respiro e il cuore con
una certa allegria, ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere,
ovvero analizzarne la qualità, e distinguere perchè vi sentiate
così refrigerato già quello spiro è passato, conforme appunto
avviene in Anacreonte, che e quella sensazione indefinibile è quasi istantanea,
e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate a leggere,
vi restano in mano le parole sole e secche, quell'arietta per così dire,
è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la sensazione che
v'hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi.
Questa sensazione mi è parso di sentirla, leggendo (oltre Anacreonte)
il solo Zappi.
Il gusto presente per la filosofia non si dee stimare passeggero nè casuale,
come fu varie volte anticamente p.e. appresso i Greci al tempo di Platone dopo
Socrate, e appresso i Romani in altri tempi ancora, ma fra i nobili e gli scioli
come presentemente al tempo di Luciano, quando mantenevano il filosofo come
ingrediente di corte e di famiglia illustre, e si trattenevano benchè
scioccamente con lui ec. V. Luciano fra le altre opere nel trattato De mercede
conductis. In questi tali tempi era effetto di moda, e non avendo il suo principio
radicale nello stato dei popoli poteva passare e passava come ogni altra moda,
sicch'era cosa accidentale che sopravvenisse questo gusto piuttosto che un altro.
Ma presentemente il commercio scambievole dei popoli, la stampa ec. e tutto
quello che ha tanto avanzato l'incivilimento cagiona questo amore dei lumi e
per conseguenza della filosofia, e questo gusto filosofico che si manifesta
nelle opere più alla moda e quello spirito senza il quale si può
dire che nessun'opera moderna incontra: onde questo gusto avendo la sua ferma
radice nella condizione presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale
nè passeggero e molto differente da una moda.
La prosa per esser veramente bella (conforme era quella degli antichi) e conservare
quella morbidezza e pastosità composta anche fra le altre cose di nobiltà
e dignità, che comparisce in tutte le prose antiche e in quasi nessuna
moderna, bisogna che abbia sempre qualche cosa del poetico, non già qualche
cosa particolare, ma una mezza tinta generale, onde ci sono certe espressioni
tecniche p.e. che essendo bassissime nella poesia sono basse nella prosa; (giacchè
qui non parlo di quelle che son basse e plebee assolutamente le quali anche
talvolta sconverranno meno alla buona prosa di quelle ch'io dico qui) come altre
che sono basse nella poesia, alla prosa non disconvengono affatto: p.e. quei
versi del Voltaire: Je chante le héros qui régna sur la France
Et par droit de conquête, et par droit de naissance. Quel tecnicismo pessimo
in questi versi, non disdice in prosa. Da questo ch'io ho detto si vede quanto
debba diventare come infatti diventa geometrica arida sparuta dura, asciutta
ossuta, e dirò così, somigliante a una persona magra che abbia
le punte dell'ossa tutte in fuori, quella prosa tutta sparsa d'espressioni metafore
frasi locuzioni modi tecnici che usa presentemente massime in Francia, e quanto
lontana da quella freschezza e carnosità morbida sana vermiglia vegeta
florida, e da quella pieghevolezza e da quella dignità che s'ammira in
tutte quelle prose che sanno d'antico.
[32] La tartaruga lunghissima nelle sue operazioni ha lunghissima vita. Così
tutto è proporzionato nella natura, e la pigrizia della tartaruga di
cui si potrebbe accusar la natura non è veramente pigrizia assoluta cioè
considerata nella tartaruga ma rispettiva. Da ciò si possono cavare molte
considerazioni.
Che il popolo latino non chiamasse testam il capo, come il nostro lo chiama
burlescamente la Coccia, e da questo non sia venuta la voce italiana testa e
la francese tête?
Quello che dice il Metastasio negli Estratti della poet. d'Aristot. il Gravina
nel Trattato della tragedia dove parla del numero cap.26. e ho detto io nel
Discorso sul Breme intorno alla materia dell'imitazione la quale può
esser ad arbitrio, come imitare in marmo in bronzo in verso in prosa ec. è
vero: e quello che ho detto io specialmente mi par che sia vero senza eccezione:
ma quanto al Metastasio poich'egli lo dice per difender l'Opera, bisogna notare
che gli elementi della materia non debbon esser discordanti, che allora la imitazione
è barbara: come forse si può dir dell'Opera dove da una parte
è l'uomo vero e reale per imitar l'uomo, cioè la persona rappresentata,
dall'altra è il canto in bocca dell'uomo, per imitare non il canto ma
il discorso della stessa persona. Questa osservazione (considerazione) si può
estendere a molte altre materie d'imitazione mal composte. Quanto al canto però
si osservi che anche gli antichi cantavano le tragedie come dice il loro nome,
se ben questo fu forse ne' primi tempi quando la tragedia era veramente in mano
di gentaglia sua sciocca inventrice e il costume o non durò, o se durò,
fu perchè avea cominciato così e non si ardì o non si volle
mutare, e questa forse fu la cagione ancora che fece fare la tragedia e la commedia
in verso, di maniera che da questa pratica venuta da vile origine non si dee
stimare il giudizio de' greci e degli antichi su questo particolare: i quali
forse avrebbero fatto ambedue in prosa se l'una o l'altra fosse stata invenzione
del gusto, e non parto stentato di diversissime circostanze e usanze vecchie
ec.
È osservabile che [in] Celso nel quale è singolarmente notata
(e lodata) la semplicità e facilità dello stile per le quali si
sarà discostato meno degli altri dal latino volgare, sono frequentissime
e moltissime frasi costruzioni, usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole
assolutamente o prette italiane o che si accostano alle italiane io dico di
quelle che comunemente non s'hanno per derivate dal latino nè per comuni
alle due lingue ma proprie della nostra, e che trovandole non presso Celso ma
presso qualche scrittore latino moderno, le stimeressimo poco meno che barbarismi,
anche presentemente, cioè non ostante che in effetto si trovino appresso
Celso eccetto se non ci ricordassimo espressamente, o ci fosse citata l'autorità
di lui. Per es. dice nel libro 1. capo 3. dopo il mezzo: interdum valetudinis
causa recte fieri, experimentisbcredo; CUM EO TAMEN NE quis qui valere et senescere
volet, hoc quotidianum habeat. (Con questo però che ec. cioè,
purchè locuzione pretta italiana.) E nel lib.2.c.8. circa il fine: quos
lienis male habet, si tormina prehenderunt, deinde versa sunt vel in aquam inter
cutem, vel in intestinorum laevitatem, vix ulla medicina periculo subtrahit.
Si trova però frase simile cioè prehendo in significato di cogliere,
ma presso i Comici latini. E parimente l.2. c.11. nel fine: huc potius confugiendum
est, cum eo tamen ut sciamus, hic ut nullum periculum, ita levius auxilium esse.
E c.17. alquanto sopra il mezzo: recte medicina ista tentatur, cum eo tamen
ne praecordia dura sint, neve etc. e lib.3. c.5. sul fine: scire
licet... satius esse consistente jam incremento febris aliquid offerre, quam
increscente... cum eo tamen ut nullo tempore is qui deficit non sit sustinendus.
Così c.22. mezzo e c.24. fine e l.4. c.6. E c.6. dopo il mezzo: in vicem
ejus dari potest vel intrita ex aqua ec. (in vece di questa), e così
altrove usa questa stessa frase; nota che qui non vuol dire alternativamente,
ma [33] assolutamente in vece, cioè escluso l'altro cibo ec. L'altro
luogo dove l'usa è lib.4. c.6. nello stesso modo assoluto. E lib.4. c.2.
fine: post quae vix fieri potest ut idem incommodum maneat. (semplicemente come
noi diciamo incomodo per piccola malattia.) E c.22. quod fere post longos morbos
vis pestifera huc se inclinat, quae ut alias partes liberat, sic hanc ipsam
(nimirum coxas) quoque affectam prehendit. E c.28. del lib.5. sect.17. nam et
rubet (impetiginis genus primum) et durior est, et exulcerata est, et rodit.
(come diciamo noi volgarmente talvolta neutro e spesso anche impersonale, per
prurire). E così ivi poco dopo: squamulae ex summa cute discedunt, rosio
major est. E poco dopo di un altro genere d'impetigine dice: in summa cute finditur,
et vehementius rodit. Dove s'ingannerebbe chi credesse che Celso volesse per
rodere intendere lo stesso che erodere, poichè 1. egli usa sempre questo
secondo quando si tratta di significare corrosione, 2. negli esempi che addurrò
dove si vede il passivo di rodere, l'accompagnamento delle altre parole, mostra
che non si tratta di corrosione ma di prurito; e dice dunque ib. Sect. seguente
di un altro male simigliante: in quo per minimas pustulas cutis exasperatur
et rubet leviterque roditur: e poco sotto di un altro genere del sopraddetto
male: in qua similiter quidem, sed magis cutis exasperaturque exulceraturque
ac vehementius et roditur et rubet et interdum etiam pilos remittit, 3. nella
sez. precedente la 17. dice della scabbia o rogna per tutta definizione queste
parole: Scabies vero est durior cutis, rubicunda; ex qua pustulae oriuntur,
quaedam humidiores, quaedam sicciores. Exit ex quibusdam sanies, fitque ex his
continuata exulceratio PRURIENS, serpitque in quibusdam cito. Atque in aliis
quidem ex toto desinit, in aliis vero certo tempore anni revertitur. Quo asperior
est, quoque PRURIT magis, eo difficilius tollitur. Itaque eam quae talis est,
???????, id est feram, Graeci appellant. Poi passa ai rimedi che sbriga in poche
righe senza far altro motto della natura del male. Ora nella sez. seguente dice
del primo genere d'impetigine, che similitudine scabiem repraesentat, nam et
rubet etc. come sopra; dove egli ha la mira a quello che ha detto di sopra della
scabbia com'è evidente: ma ch'ella sia rossa, dura, esulcerata l'ha detto
come io ho notato con lineette, che corroda non l'ha detto punto: ora come sarà
simile alla scabbia la impetigine nam rodit, perchè rode? Bensì
ha detto che la scabbia prurit, e questo segno sostanziale mancherebbe alla
impetigine se il rodit non si prendesse in questo senso, che d'altronde non
si può prendere per corrodere. Vedi se il Forcellini o l'Appendice ha
nulla di rodere in significato di prurire2. E lib.6. c.2. fine: Si parum per
haec proficitur, vehementioribus uti licet, cum eo ut sciamus, (senza il tamen)
utique in recenti vitio id inutile esse. E ib. c.18. sect.7. [34] Si quidquid
laesum est, extra est, neque intus reconditum, eodem medicamento tinctum linamentum
superdandum est, et quidquid ante adhibuimus cerato contegendum. In hoc autem
casu neque acribus cibis utendum neque asperis nec alvum comprimentibus. Così
altrove spesso, in primo casu, in eo casu ec. come noi diciamo: in questo caso,
nel primo caso ec. E lib.7. c.2. dopo il mezzo: Semper autem ubi scalpellus
admovetur, id agendum est ut et quam minimae et quam paucissimae plagae sint,
cum eo tamen ut necessitati succurramus et in modo et in numero. E c.7. sect.7.
At quibus id in angulo est, potest adhiberi curatio, cum eo ne (senza il tamen)
ignotum sit esse difficilem. E c.16. quia et rumpi facilius motu ventris potest,
et non aeque magnis inflammationibus pars ea (venter), exposita est. E c.22.
adurendus est tenuibus et acutis ferramentis quae ipsis venis infigantur, cum
eo ne amplius quam has urant (senza il tamen) E c.27. circa il mezzo: Sub quibus
perveniri ad sanitatem potest, cum eo tamen quod non (nota il quod non in vece
del ne ch'è anche più conforme alla frase italiana) ignoremus,
orto cancro saepe affici stomachum (l'ediz. di cui mi servo non ha la virgola
dopo orto cancro quantunque abbondantissima nell'interpunzione). E lib.8. c.10.
sect.7. ab init. Quibus periculis etiam magis id expositum quod juxta ipsos
articulos ictum est. In somma tutta la struttura della prosa di Celso è
tale che accostandosi infinitamente per la maniera il giro la costruzione la
frase i modi e le parole alla italiana, dà a conoscere più che
forse qualunque altra prosa latina dei buoni secoli, anche a chi non lo sapesse
per altra parte, che la lingua italiana deriva dalla latina. Onde non dubito
che questa prosa non si accostasse ancora e non fosse presa in grandissima parte
quanto al modo, e anche in qualche parte rispetto alle parole, dal volgare di
Roma, o latino.
Il Libellus de Arte dicendi pubblicato sotto il nome di Celso da Sisto a Popma
in Colonia nel 1569 e ristampato come rarissimo dal Fabricio in fondo alla Bibl.
Lat. Lo giudico un compendio o uno spoglio o un pezzo compendiato dell'opera
di Celso sull'Eloquenza ch'era parte della grand'opera sulle arti di cui c'è
rimasta la medicina. E raccolgo che sia di Celso dalla facile eleganza o piuttosto
facilità elegante tutta propria di Celso che si trova in vari luoghetti
sparsi per tutto il brevissimo libricciuolo misti a un rimanente confuso, o
inelegante, e anche barbaro e inintelligibile, il che dimostra l'altra parte
del mio giudizio, cioè che questa non sia l'opera intera di Celso, come
pare ch'abbia creduto il Fabricio l.4. c.8. fine p.506. fine, oltrechè
come vedo nel Tiraboschi qui non si trova [35] tutto quello che Quintiliano
cita dell'opera di Celso. Anche Curio Fortunaziano Retore nei Rettorici latini
del Pithou, p.69. cita Celso. Trovo poi anche parecchi modi e parole che mi
persuadono che il libretto sia cavato veramente da Celso, perchè sono
frequenti e familiari sue nei libri della Medicina, p.e. §.3. Oratoris
artibus nemo instrui potest, nisi cui ingenium et frequens studium est. Primum
animi sit (assoluto) oportet quaedam naturalis ad videndas ediscendasque res
potentia. Tum vox, (nota l'omissione del sit oportet, e la dipendenza di questo
periodo dal precedente familiarissimo a Celso) latus, decor, valetudo, frugalitas,
laboris patientia. E tutto il §. È di maniera affatto Celsiana.
E §.4. Super hoc, per oltre a ciò, usitato da Celso, e la particella
ubi per quando, allorchè, se, familiarissimo a Celso, e usata spesso
qui pure, cioè §.9. e 10. tre volte, 11. Due volte, e 17. due volte.
E §.10. Neque alienum est, ubi longior fuerit expositio vel narratio, extrema
ita finire, ut admoneas quaecumque dixeris. E ivi poco dopo: Nec semper debet
orator veterum se praeceptis addicere, sed scire debet incidere novam materiam
quae novi aliquid postulet. E quanto all'incidere, si trova anche in simile
maniera §.11. Evenit ut ante sit respondendum quam sit ponenda narratio,
ut pro Milone: Incidit caussae genus quod summam habet quaestionis. E ib. più
sopra: Alterum genus est in quo utique (modo familiarissimo a Celso) aeque supervacua
narratio est e così §.12. haec enim verisimilia sunt, non utique
vera. E §.13. Cum autem diu dicere volet, omne argumentum ornatius exequetur.
E ivi: Si unum argumentum validum est et unum frivolum, a valido incipies, frivolum
persequeris, rursum validum repetes. E ivi: Cum aliquibus partibus causa laborat,
utilius ordinem quaestionum confundimus, quas ex toto tractare non expedit.
Modo totalmente celsiano, al quale è familiarissimo quando appo gli altri
è se non altro, raro, a mio parere, e che quasi solo basterebbe appresso
me per farmi credere che il libretto sia cavato veramente da Celso. Modo del
resto levato di peso dal greco ??????????, alla qual lingua s'accosta anche
moltissimo e la maniera di Celso in generale, e molti modi frasi locuzioni ec.
in particolare (e la semplicità e la forma della costruzione tanto del
tutto, quanto dei periodi, del collegamento loro ec.), come a lingua madre,
nel modo che alla italiana s'accosta come a lingua figlia. Si trova anche nel
§.3. l'avverbio in totum per totalmente, che se ben mi ricorda, [36] si
trova anche frequentemente appresso Celso.
Sento dal mio letto suonare (battere) l'orologio della torre. Rimembranze di
quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera
oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere
un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della
notte, o al mattino: ancora silenzioso, e all'età consistente.
Nel Monti è pregiabilissima e si può dire originale e sua propria
la volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa,
o dignitosa grazia del verso, e tutte queste proprietà parimente nelle
immagini, alle quali aggiungete scelta felice, evidenza, scolpitezza ec. E dico
tutte giacchè anche le sue immagini hanno un certo che di volubile molle
pieghevole facile ec. Ma tutto quello che spetta all'anima al fuoco all'affetto
all'impeto vero e profondo sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto.
Egli è un poeta veramente dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore
in nessun modo, e ogni volta che o per iscelta come nel Bardo, o per necessità
ed incidenza come nella Basvilliana è portato ad esprimer cose affettuose,
è così manifesta la freddezza del suo cuore che non vale punto
a celarla l'elaboratezza del suo stile e della sua composizione anche nei luoghi
ch'io dico, nei quali pure egli va bene spesso anzi per l'ordinario con ributtante
freddezza e aridità in traccia di luoghi di classici greci e latini,
di espressioni di concetti di movimenti classici per esprimerli elegantemente
lasciando con ciò freddissimo l'uditore, che non trova ancor quivi se
non quella coltura (la quale in questi casi più quasi nuoce di quello
giovi) che trova per tutto il resto della composizione sparso anch'esso di traduzioni
di pezzi de' Classici. Giacchè questo è il costume del Monti e
nella Basvilliana e per tutto di tradurre (ottimamente bensì, ma quasi
formalmente tradurre) frequenti luoghi, modi frasi pensieri immagini similitudini
metafore [37] ec. ec. d'autori classici: e la Musogonia segnatamente si può
dire che sia un vero centone di pezzi (nota bene) di Omero Esiodo Callimaco
Virgilio Orazio Ovidio, i cui nomi (con forse quello di qualcun altro antico
o italiano classico) se ve li scrivessero in margine a modo delle Catenae patrum,
non credo che ci sarebbe non dico pag. ma appena stanza che non fosse compresa
sotto quei nomi, di maniera ch'io non mi fiderei di trovare in tutto il canto
una diecina di ottave intieramente originali. Lascio poi che il poemetto non
ha nessun fine soddisfacente, non è se non stiracchiatamente adattato
alle circostanze d'allora, e un centone di pezzi antichi per cantare quello
che cantarono quegli stessi antichi è una cosa ben miserabile.
La natura, come ho detto è grande, la ragione è piccola e nemica
di quelle grandi azioni che la natura ispira. Questa nimicizia di queste due
gran madri delle cose non è stata accordata se non dalla Religione la
qual sola proponendo l'amore delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza
di premio nella vita futura ha conciliato con mirabile armonia la grandezza
generosità sublimità, apparente pazzia delle azioni (come son
quelle dei martiri, il distacco dai beni terreni da' parenti dalla patria ec.
il disprezzo della morte, il sacrifizio de' piaceri e di tutto all'amor di Dio
al dovere ec.) colla ragione: armonia che fuor della religione non si può
trovare se non a parole, perchè tolta la speranza della vita futura,
l'immortalità dell'anima, l'esistenza della virtù della sapienza
della verità della beltà personificata in Dio, la cura di questo
essere intorno ai portamenti nostri ec. l'amor di lui ec. non ci sarà
mai si può dire, azione eroica e generosa e sublime, e concetti e sentimenti
alti, che non sieno vere e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo
quanto più cresce l'impero della ragione, come già vediamo e che
sono illusioni quelle grandezze anche presenti nelle quali la religione non
ha parte, e che collo indebolirsi la forza della fede negli animi, scemano presentemente
quelle azioni sublimi delle quali erano molto più fecondi i secoli passati
ignoranti che il nostro illuminato. Similmente si può dire della dolcezza
e amabilità di tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere,
e colla religione sono verità, e alle quali la ragione per se ripugnerebbe,
la quale com'è nemica della grandezza così è nemica della
profonda e vera bellezza, e con lei, come tutto è piccolo così
tutto è brutto e arido in questo mondo.
Uno dei casi nei quali il seguir la ragione è barbaro, e il seguir la
natura è irragionevole, ma religioso però, è di un padre
p.e. che veda il figlio così affetto da dover essere assolutamente infelice
vivendo, da dover penare sempre e senza riparo, tra dolori acuti, tra la mancanza
di tutti i piaceri, tra una noia perenne, tra una vergogna cocente per le imperfezioni
fisiche ec. Desiderar la morte a questo figlio, poniamo caso anche malato, anche
disperato da' medici, anche moribondo, o vero non solo desiderarla ma non dolersene
consolarsene non piangerne amaramente, è ragionevole e barbaro, e come
barbaro e snaturato, così anche contrario ai principi della religione.
[38] Non so se si possa far cosa più dispiacevole altrui quanto ad uno
che v'abbia fatto un dono splendido, offrirne goffamente un altro molto inferiore,
col che si viene a mostrare di stimar poco quel dono comparandolo con quello
che si presenta quasi fosse atto a compensarlo, e di credere che il dono ricevuto
si sia già compensato sgravandosi dell'obbligo della gratitudine, e il
donatore che nel donarvi si compiaceva in se stesso aspettandosi da voi e la
cognizione del benefizio, e la gratitudine (quantunque dovesse essere anche
necessariamente e prevedutamente infruttuosa) si vede nell'atto della sua maggior
compiacenza privo del premio del suo sacrifizio, e di più senza potersene
lagnare se non altro fra se così altamente e generosamente come possono
quelli che trovano ingratitudine. La qual frustrazione di speranza dopo un sacrifizio
e forse anche uno sforzo fatto per conseguirla effettivamente, produce nell'uomo
un senso disgustosissimo.
Uomini singolari che si siano distinti o data opera, o per sola natura, o, com'è
infatti, se non altro, più comune, per l'una e per l'altra maniera, dall'universale
dei loro contemporanei nelle operazioni, vita, istituto ec. metodo ec. ci furono
anticamente e ci sono stati ultimamente, e ci saranno stati in tutte le età,
ma è una cosa curiosa l'osservare la differenza dei tempi nella misura
della differenza tra i costumi di questi uomini singolari e quelli de' contemporanei.
Giacchè Rousseau p.e. e l'Alfieri sono passati in questi ultimi tempi
per uomini singolari quanto passarono un tempo in Grecia, Democrito Diogene
ec. e gli altri tanti filosofi che durarono anche in Roma sino a M. Aurelio
e dopo. E questa uguaglianza d'effetto è assoluta. Ma se misureremo la
cagion sua, cioè la differenza tra i costumi dell'Alfieri e i presenti,
messa in paragone con quella tra i costumi di Diogene e de' greci suoi contemporanei
troveremo una disparità infinita tra la misura dell'una differenza e
dell'altra essendo senza paragone maggiore quella di Diogene, dal che avviene
che queste due differenze assolutamente parlando siano diversissime di peso
quantunque rispettivamente considerate abbiano un'intensità e misura
e valore uguale. Il che mostra che i costumi presenti non solo variano dagli
antichi nella qualità in maniera che i costumi formali di Diogene passerebbero
oggi per pazzie, ma ancora in questo che a segnalarsi fra essi ci bisogna una
molto minore quantità di stravaganza (prendendo questo termine in buona
parte e per singolarità, stranezza ec.) che non bisognava una volta,
sicchè se qualcuno differisse ne' suoi costumi dai presenti tanto, assolutamente
parlando, quanto Diogene differiva dai greci, passerebbe anche così,
non per singolare, come passava Diogene, ma per matto, quantunque relativamente
alla qualità, la differenza fosse consentanea e proporzionale ai costumi
presenti. Bisognava più dose anticamente per fare un effetto che ora
si ottiene con molto meno, e la successiva e proporzionale diminuzione o accrescimento
di questa dose si può calcolare anche nei tempi che sono di mezzo fra
questi due estremi gli antichi e i moderni, che sono veramente estremi, non
solo cronologicamente ma anche filosoficamente parlando, e questa dose calcolata
può servire di termometro ai costumi [39]anche trasportandolo dai tempi
alle nazioni, giacchè non è dubbio che la dose non sia presentemente
molto minore in Francia che in qualunque altro paese ec. e così anticamente
e in ciascuna età differente presso questo o quel popolo.
Dice Bacone da Verulamio che tutte le facoltà ridotte
ad arte steriliscono. Della quale verissima sentenza farò un breve commento
applicandolo in particolare alla poesia. Steriliscono le facoltà ridotte
ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che le amplifichi, come trovavano
quando ell'erano ancora informi e senza nome e senza leggi proprie ec. e di
ciò mi sovvengono (verbo usato in questo significato dal Tasso) 4. ragioni.
La 1. che quasi nessuno pensa più ad accrescere una facoltà già
stabilita ordinata composta e che si ha per perfetta, perchè ognuno si
contenta e si acquieta stimando la cosa già compita il che non accadeva
prima della sua riduzione ad arte, ma ciascuno che capitava a coltivare questa
facoltà, si lambiccava il cervello per ampliarla perchè non avea
nome d'esser arte; quando l'ha avuto quando anche in fatti non sia più
ricca di prima, par ch'ell'abbia già il tutto. La 2. (e questa è
relativa particolarmente alla poesia) perchè moltissimi anzi quasi tutto
il volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente
delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite
di mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo
pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle leggi,
insomma la seconda ragione è la pedanteria. La 3. più comune alle
persone di senno e giudiziose e capaci, e anche esimie, è il costume
e l'abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se, parte
agli altri. A se, perchè coll'abito preso di leggere di sentire di scrivere
quella tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti quantunque
non siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri, perchè non ardiscono
di abbandonare la consuetudine corrente, e quantunque non sieno schiavi dei
pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche poesia non si risolvono a parere
stravaganti ideando cose non più sentite, dovendo pubblicare un'azione
drammatica ed esporla agli occhi del popolo, se la facessero di capriccio e
senz'adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi le risa o il biasimo
universale, se componessero un poema epico di forma differente da quella che
si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo con ragione che dovrebbero
essere ripresi d'aver barattati i nomi, non ricevendosi per poema epico se non
quello che è in questa forma consueta. E così è in fatti
che se uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta quello che
si suole intendere per
tragedia, e trovando cosa tutta differente se ne ride. Nè senza ragione
perchè il danno dell'età nostra è che la poesia si sia
già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna
rompere violare disprezzare lasciare da parte intieramente i costumi e le abitudini
e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti, cosa difficile a fare,
e dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perchè le consuetudini
vanno rispettate massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono le poesie,
nè va ingannato il pubblico con nomi falsi. [40] E dare una nuova poesia
senza nome affatto e che non possa averne dai generi conosciuti è ragionevole
bensì, ma di un ardire difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti
ostacoli reali, e non solamente immaginari nè pedanteschi. La 4. e la
più forte, e la più considerabile, che quando anche un bravo poeta
voglia effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta da ogni forma da ogni consuetudine,
e si metta a immaginare una poesia tutta sua propria, senza nessun rispetto,
difficilissimamente riesce ad essere veramente originale, o almeno ad esserlo
come gli antichi, perchè a ogni momento anche senz'avvedersene, senza
volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle forme, in quegli usi, in
quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in quelle immagini, in quei
generi ec. ec. come un riozzolo d'acqua che corra per un luogo dov'è
passata altr'acqua: avete bel distornarlo, sempre tenderà e ricadrà
nella strada ch'è restata bagnata dall'acqua precedente. Giacchè
la natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre nuove, e se
un poeta non fosse stato conosciuto dall'altro appena si sarebbero trovati due
poeti che avessero fatti poemi somiglianti perchè questo non sarebbe
stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili combinazioni
che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere. Perciò quando gli esempi
erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora una ora un'altra tragedia
senza forme senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente
a ogni composizione. Così Omero scrivendo i suoi poemi, vagava liberamente
per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli pareva giacchè
tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi anteriori che glieli
circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo modo i poeti antichi
difficilmente s'imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre
originali, e s'erano simili era caso. Ma ora con tanti usi con tanti esempi,
con tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante letture ec. per quanto
un poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a ogni poco ci ritorna,
mentre la natura non opera più da se, sempre naturalmente e necessariamente
influiscono sulla mente del poeta le idee acquistate che circoscrivono l'efficacia
della natura e scemano la facoltà inventiva, la quale se ciò non
fosse, malgrado i tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar
naturalmente e senza sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero
poeta) cose sempre nuove, e non tocche da altri, almeno non in quella maniera
ec.
Una delle grandi prove dell'immortalità dell'anima è la infelicità
dell'uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici, quando la previdenza
de' mali (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente,
l'impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti
d'infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura
nostra che lo porta, nè si può mutare. Cosa la quale dimostra
che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come
quella dei bruti, perchè ripugna alle leggi che si osservano seguite
costantemente in tutte le opere della natura, che vi sia un animale, e questo
il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo
intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità, e
una specie di contraddizione colla sua esistenza al compimento della quale non
è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all'essere
di quella tale sostanza (che per l'uomo è impossibile di conseguire)
e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come
in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacchè
un uomo disperato della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente,
se n'annoia, ne patisce (cosa snaturata) e s'uccide come vediamo che fa (impossibile
ne' bruti). L'uccidersi dell'uomo è una gran prova della sua immortalità.
Verri Notte Romana 5. colloquio 6.
[41] La prima donna (del teatro, attempata) non vuol recedere dagli antichi
suoi diritti.
Quello che ho detto qui sopra della difficoltà d'astenersi dall'imitare
è confermato e dall'esempio del Metastasio che se è vero quello
che dice il Calsabigi nella lettera all'Alfieri non volle mai leggere tragedie
francesi, e da quello che scrive l'Alfieri di se nella sua Vita, e tra l'altro
del Caluso che gli negò una tragedia del Voltaire ch'egli volea leggere
mentre stava per comporne un'altra sullo stesso argomento.
C'è una differenza grandissima tra il ridicolo degli antichi comici greci
e latini di Luciano ec. e quello de' moderni massimamente francesi. La differenza
si conosce benissimo e dà negli occhi immediatamente. Ma quanto all'analizzarla
e diffinire in che consista, a me pare che sia questo, che quello degli antichi
consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole (e quando dico
moderno intendo principalmente le più moderne commedie satire e altri
scritti ridicoli giacchè il Goldoni p.e. ne aveva di quel ridicolo antico
e attico e così le più antiche nostre commedie e il Berni ec.
a differenza credo dei francesi anche antichi come il Boileau ec.). Quello degli
antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi
per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito
un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare
e sorridere, quello era solido, questo fugace, quello durevole materia di riso
inestinguibile, questo al contrario. Quello consisteva in immagini, similitudini
paragoni, racconti insomma cose ridicole, questo in parole, generalmente e sommariamente
parlando, e nasce da quella tal composizione di voci da quell'equivoco, da quella
tale allusione di parole, da quel giucolino di parole, da quella tal parola
appunto, di maniera che togliete quella allusione, scomponete e ordinate diversamente
quelle parole, levate quell'equivoco, sostituite una parola in cambio d'un'altra,
svanisce il ridicolo. Ma quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo,
consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel ??????????????????paragona
gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore.
Ed erano i greci e latini inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini,
di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel
tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel
frammento di Filemone Comico appo il Vettori Var. Lect. l.18. c.17. E la novità
era cosa ordinarissima nel ridicolo degli antichi comici secondo la forza comica
di ciascheduno. E quando anche non ci fossero immagini similitudini ec. sempre
quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più
cose che non il moderno. Ma forse e senza forse presentemente, e massime ai
francesi par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque
ai greci, popolo il più civile dell'antichità, e a' latini. E
può essere che anche Orazio avesse una simile opinione quando disse male
de' sali di Plauto (esemplare di quel ridicolo ch'io dico tra' latini) e [42]
infatti le Satire e l'Epistole d'Orazio non sono di così solido ridicolo
come l'antico comico greco e latino, ma nè anche di gran lunga, così
sottile come il moderno. Ora a forza di motti s'è renduto spirituale
anche il ridicolo, assottigliato tanto che omai non è più nè
pur liquore ma un etere un vapore, e questo solo si stima ridicolo degno delle
persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono, e degno del bel mondo
e della civile conversazione. Il ridicolo nelle antiche commedie nasceva anche
molto dalle operazioni stesse ch'erano introdotti a fare i personaggi sulla
scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, nella pura azione, come
nelle Cerimonie del Maffei commedia piena di vero e antico ridicolo, quel salire
di Orazio per la finestra a fine d'evitare i complimenti alle porte. Un'altra
gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era
preso da cose popolari o domestiche o almeno non della più fina conversazione,
la quale poi non esisteva allora per lo meno così raffinata; ma il moderno
massime il francese versa principalmente intorno al più squisito mondo,
alle cose dei nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie
più mondane ec. ec. (come anche proporzionatamente era il ridicolo d'Orazio)
sicchè quello era un ridicolo che avea corpo, e come il filo d'un'arma
che non sia troppo aguzzo, dura lungo tempo, dove quello come ha una punta sottilissima,
(più o meno, secondo i tempi e le nazioni) così anche in un batter
d'occhio si logora e si consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio
del rasoio a prima giunta.
Un'altra prova dell'esser la nostra lingua italiana derivata dal volgare di
Roma del buon tempo si trae dalle parole antichissime Latine poi andate in disuso
presso gli scrittori, che ora si trovano nell'italiano, le quali è manifesto
che con una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi
sino a noi, perchè nessuno certo l'è andato a pescare negli scrittori
antichissimi latini perduti poi ancora prima del nascere della nostra lingua,
come Lucilio Ennio Nevio ec. Di maniera che tra questi antichi che le usavano
e noi che le usiamo non bisogna lasciare nessun intervallo voto, perchè
non sarebbero più rinate, se non vogliamo dire che sia un caso, il che
non si lascerà credere appena agli Epicurei. Dunque non essendoci altra
catena tra quegli scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè gli
scrittori le aveano dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore
e propagatore all'italiano di quelle voci. Come pausa usata dagli antichi scrittori
latini, poi disusata, poi tornata in uso a' tempi bassi e quindi nell'italiano,
(v. il Du Cange) certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così
per miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino barbari
non la trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a
loro o ignoti, o tutt'altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata
la quale non può esser altro che il popolare latino. E questo credo che
si possa parimente dire di moltissime altre voci.
[43] Diceva un marito geloso alla moglie: Non t'accorgi, Diavolo che sei, che
tu sei bella come un Angelo?
Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d'averne
che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n'avanzi.
Non vorrei parer di detrarre al valore delle lodi colle quali V.S. s'è
compiaciuta d'ornarmi pubblicamente, se dirò che più dell'onore
che me ne viene, mi rallegra la benevolenza di V.S. che mi dimostrano, e questa
tanto maggiore quanto essendo più scarso il merito mio, conviene che
abbondi quello che ha supplito al suo difetto.
Proprietà, efficacia, ricchezza, varietà, disinvoltura, eleganza
ancora e morbidezza e facilità, e soavità e mollezza e fluidità
ec. sono cose diverse e possono stare senza la ?????????????, lepos atticum,
quella grazia che non si potrà mai trarre se non da un dialetto popolare
(capace di somministrarla) che gli antichi greci traevano dall'Attico i latini
massimamente antichi come Plauto Terenzio ec. dal puro e volgare e nativo Romano,
e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato giudiziosamente.
Non si trova in verun Dizionario italiano ch'io abbia potuto consultare ma è
comune fra noi la parola blitri o blittri o blitteri che significa, un niente,
cosa da nulla ec. Questa casa è un blitri; questa città è
un blitri a misurarla con Roma ec. ec. Ora questa parola è totalmente
e interamente greca: ??????, che anche si diceva ????????????????????????????(come
anche noi) e forse anche ???????, e non significava nulla. V. Laerz. l.7. segm.57.
e quivi le note del Casaub. e del Menag. e il Du Fresne Glossar. Graec. in ???????,
e nell'appendice 1. in ???????? parimente. Tutti gli altri libri immaginabili
che poteano fare al caso sono stati da me consultati scrupolosamente, senza
trovarci ombra di questa voce, e nominatamente i Dizionari Greci tutti quanti
n'ho, dove manca affatto, in tutte le sue maniere.
Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia
da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci puramente, ma
(come trovo incidentemente e finissimamente notato anche nella seconda lettera
del Magalotti contro gli Atei) per mostrare e dare ad intendere a noi stessi
di non temere. La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose,
e dare origine a parecchi pensieri. E già è manifesto che all'aspetto
del male noi cerchiamo d'ingannarci e di credere che non sia tale, o minore
che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso,
e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d'esserne già
persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello
che accade nel caso detto di sopra. E già è costume di moltissimi
il detrarre quanto più possono colle parole e colla fantasia a' mali
che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e fortificano, mendicando
il coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua immaginata falsità
o piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di rarissimo perchè
quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima non lo credono affatto,
(cioè si nascondono o impiccoliscono tutti i motivi di credere) e così
se il male non ha luogo effettivamente essi non han temuto, e gli altri sì,
e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto possono, e così non
temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un male così evidente
e reale e che li tocchi in modo che non possano ingannarsi, giacchè anche
sopraggiunto che sia, molte volte non lo credono affatto male, cioè non
lo voglion credere. E questi che [44] forse spesso passano per coraggiosi, sono
i più vigliacchi che mai, giacchè non sanno sostenere non solo
la realtà ma neppur l'idea dell'avversità, e quando hanno sentore
di qualche disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta, subito corrono col pensiero,
ad arroccarsi e trincerarsi e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in
dire fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti
disgrazie, come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da
femminucce con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente
da me in uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale
per l'altra parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello
che ho detto di sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l'uomo
inclina a dissimularsi il male, e a nasconderlo a se stesso come può
meglio, onde è nota l'??????? degli antichi greci che nominavano le cose
dispiacevoli ?? ????? con nomi atti a nascondere o dissimulare questo dispiacevole,
(del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non faceano solamente
per cagione del mal augurio. E anche in italiano si dice, se Dio facesse altro
di me, per dire, s'io morissi, (v. la Crusca in Altro) e in latino in questo
istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret etc. e così in
cento altri casi.
Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il latino così
assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano
il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e
Longino dove parla di Cicerone quando i latini scrittori senza nessunissima
esitazione nata dall'esser di diversa lingua, parlavano e giudicavano degli
scrittori greci.
Anche in nostra lingua le mutazioni della pronunzia latina ec. hanno guasto
parecchie parole, come da raucus espressivissima del suono che significa, roco
che perde quasi tutta l'espressione.
L'infelicità nostra è una prova della nostra immortalità,
considerandola per questo verso che i bruti e in certo modo tutti gli esseri
della natura possono esser felici e sono, noi soli non siamo nè possiamo.
Ora è cosa evidente che in tutto il nostro globo la cosa più nobile,
e che è padrona del resto, anzi quello a cui servizio pare a mille segni
incontrastabili che sia fatto non dico il mondo ma certo la terra è l'uomo.
E quindi è contro le leggi costanti che possiamo notare osservate dalla
natura che l'essere principale non possa godere la perfezione del suo essere
ch'è la felicità, senza la quale anzi è grave l'istesso
essere cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio
possono tutto ciò, e lo conseguono, il che è chiaro a mille segni
e per le ragioni ancora indicate in un altro pensiero.
La costanza dei 300. alle Termopile e in particolare di quei due che Leonida
voleva salvare, e non consentirono ma vollero evidentemente morire, come anche
la solita gioia delle madri o padri Spartani (ma è più notabile
delle madri) in sentire i loro figliuoli morti per la patria, è similissima
anzi egualissima a quella dei martiri e in particolare di quelli che potendo
fuggire il martirio non vollero assolutamente desiderandolo come gli spartani
desideravan di cuore di morire per la patria. E un esempio recente di un martire
che potendo fuggir la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missione
al gran Mogol. E la stessa applicazione [45] fo pure di quelle madri e padri
cristiani che godevano sentendo de' loro figli martiri, e ancora esortandoli
vedendoli portandoli accompagnandoli offrendoli al martirio e nel supplizio
confortandoli a non cedere, come le spartane che esortavano ec. e quella che
disse presentando lo scudo al figlio, o con questo o su questo, e quelle che
abbominavano i figli macchiati di qualche viltà come parimente le cristiane
ec. Da questo confronto risulta una conformità non solita a considerarsi
fra questi due generi di eroismi, ed apparisce quello che ho detto altrove in
questi pensieri che la religione è la sola che abbia riunito l'eroismo
e la grandezza delle azioni e il valore e il coraggio e la forza d'animo ec.
colla ragione ec. e che abbia anzi risuscitato l'eroismo già quasi svanito
allo scemare delle illusioni: e quanto sia simile alle cose nostre quello che
non si crede che abbia esempio fuor delle circostanze della libertà,
amor patrio ec. de' greci de' Romani, in somma degli antichi e principalmente
degli antichissimi, quando come ho detto noi ne abbiamo anche esempi recenti
ne' nostri ultimi martiri, non solo ne' primi e antichi.
Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi
del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con
intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati trattati
così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento
naturale, giacch'io giunto appena per l'età a svilupparmi dai legami
di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa
paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch'egli non fosse
nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec. siccome non per altro
(giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se non perch'era
mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch'egli partecipava
non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi
che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci
e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed
ardito di noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente
una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora,
e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere
ch'ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è
la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente
e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi
queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei
beni ch'io aveva qualunque fossero, perch'io li comunicava con lui, forse parendomi
che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano
niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di
me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli
minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione
che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel
bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio
di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano
quegl'incomodi ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[46] Quando colla lettura col tratto col discorso coi trattenimenti o letterari
o di qualunque genere (ma massime coi libri in quanto al gusto dello scrivere,
e colla conversazione degli uomini in quanto al costume) ci siamo formati un
abito cattivo, crediamo che quello sia natura, giacchè non c'è
cosa tanto simile e facile ad esser confuso colla natura anche da' più
oculati e da' filosofi, quanto l'abito; e pretendiamo di dover seguire quell'abito
p.e. nello scrivere, (giacchè di questo io voglio qui parlare specialmente
come quelli a cui pare che lo scrivere in un italiano francese sia natura, e
così la corruzione del gusto in ogni genere e parte di scrittura e di
stile) dicendo ch'è natura, e che così vi viene spontaneamente
e che la poesia deve fluire dalla natura e cose tali. Ma non è natura,
è abito, e abitaccio pessimo, e volete vederlo? se siete veramente di
buona indole per le Belle Arti leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente
i greci, e vedrete subito che quella è natura, e vi maraviglierete (come
infatti succede, che quasi paiano due naturalezze e non si sappia capir come,
e dall'altra parte questa duplicità ci faccia stupire) come sia tanto
differente da quella che voi credete che sia natura, eppur non potete negare
che questa non sia perch'è troppo evidente. Ed ecco se volete esser poeta
e servirvi di quello che vi somministra la natura, naturalmente, e rettamente,
cominciate, se siete uomo di giudizio, a conoscer la necessità assolutissima
dello studio, (oh bestemmia! necessario lo studio per iscrivere e poetar bene)
e della lezione dei classici e delle arti poetiche e dei trattati ec. ec. e
vedete appoco appoco la somma difficoltà d'imitare e seguir quella natura
che prima confondendola coll'abito giudicavate così facile a esprimere,
perchè infatti non c'è cosa più facile a seguire che l'abito,
nè più difficile a contrariare, il che appunto fa la somma difficoltà
del seguir la natura vera, e ciò non si ottiene senza un contrabito tanto
più difficile del primo quanto bisogna erigerlo dai fondamenti, (del
che in quell'altro essendo venuto su appoco appoco, nell'età fresca,
e da se, senza nostra fatica, non ci eravamo accorti) erigerlo sbarbando prima
l'altro, e questa è la gran fatica che in quell'altro non ci fu punto,
e finalmente erigerlo continuarlo e finito conservarlo in mezzo a infinite cose
(come letture necessarie, discorsi, commercio usuale per negozi ec. trattenimenti
conversazioni corrotte secondo il solito, corrispondenze ascoltazione di discorsi
altrui ec. ec.) che lo contrastano, tanto più pericolose quanto vi richiamano
a quell'altro abito prima già fatto, onde il luogo resta sempre lubrico,
ed è facile lo scivolare nel cattivo. E così è necessarissimo
lo studio per ben servirsi di quella natura, senza la quale bensì non
si fa niente, ma colla quale sola avreste ben forse potuto quasi tutto, ma non
potete più nulla, anzi meno del nulla, giacchè non potete non
far male, a cagione dell'abito inevitabile fatto contro di lei.
La grazia non può venire altro che dalla natura, e la natura non istà
mai secondo il compasso della gramatica della geometria dell'analisi della matematica
ec. Quindi la scarsezza di grazia nella lingua francese tutta analitica e tecnica
e regolare, e diremo angolare, massima scarsezza nell'esteriore dello stile,
e poi anche nell'interiore ec. se bene se ne compensano col nominar la grazia
20. Volte per pagina, e [47] non c'è un libro francese dove non troviate
a ogni occhiata grace, grace massime parlando dei libri della loro nazione,
encomiandoli ec. Grace grace, mi viene allora in bocca, et non erat grace (pax
pax et non erat pax, ma non so se così veramente dica S. Paolo, o qual
altro Scrittor sacro). V. questi pensieri p.92-94.
Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.
Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di compire, e condurre
a fine quello che si è tentato. Ora io soggiungo che spessissimo se io
senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici
e venti. E questo spesso di assoluta e determinata volontà, non già
per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata maggiore del
bisognevole per la resistenza incontrata, e non contrappesata diligentemente
alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all'altro,
provo che non cede alla prima spinta, accresco la forza, e questa me la caccia
più lontano ch'io non voleva. Ma dico per deliberata volontà:
p.e. do una spinta e non giova, un'altra e non fa, la terza parimente, alla
fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani, e la strascino molto
più in là ch'io non voleva prima ch'ella andasse, e volendo ch'ella
stia dove dee, bisogna che la riporti indietro al luogo conveniente, e così
fo. E la distanza alla quale l'ho portata è spesso più che doppia
ed anche tripla di quella a cui la voleva spingere. Questo accade perch'io allora
non considero più e non ho per fine della mia azione, di farla andare
in quel tal luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza,
e mostrare la superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo
volere e la sua forza, la quale tanto più si dimostra, e la vendetta
e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto più lontano,
e insomma volti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che così
si conseguisce, e perciò non c'importa che veniamo a nuocere a quel primo
fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora questo
caso fisico ai morali.
Perciò si vuole che le parole che si hanno da aggiungere alla nostra
lingua o per arricchirla, o per necessità ec. si prendano dal latino
e non dal francese nè dal tedesco ec. chiamando quelle buone e approvandole,
e queste barbare, perchè quelle ordinariamente o almeno assai più
spesso e facilmente consentono coll'indole della lingua nostra, e le lasciano
la sua forma e sembianza nativa e la sua grazia ec. ma queste dissuonano manifestissimamente
e sconvengono, e sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme
native, e la venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa
sconvenienza si scorge anche nelle semplici parole, com'è chiaro, vedendosi
subito che vengono da un'altra fonte, laddove le latine non possono venire da
un'altra fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta
intera la lingua italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese,
non però la italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto
la sorgente sia la stessa, nel corso si può bene il rivo essere, anzi
s'è mutato, e alterato, ed ha acquistato proprietà tali, che non
ha più nessun diritto di dare ad un altro rivo nato dalla stessa sorgente,
le sue acque, come [48] a lui convenienti. Laddove la fonte non essendo alterata,
restiamo sempre in diritto d'attingerne, e anche quivi con giudizio, e quanto
è permesso dalle alterazioni che ha sofferte il nostro proprio rivo,
per cagione delle quali alcune acque della stessa sorgente non ci si potrebbero
mescolare senza sconvenienza. Ed ecco la cagione del diverso diritto, e delle
diverse conseguenze che si devono dedurre dalla fratellanza delle lingue e dalla
figliolanza. Quello poi che ho detto delle parole va inteso e molto più
intensamente delle frasi che corrompono più e sconvengono più,
avendo faccia più manifestamente straniera e dissimile. E che questa
non sia pedanteria e cieca venerazione dell'antichità si vede chiaro
da questo che non solo non amiamo ma detestiamo le parole greche, quantunque
la lingua latina ne prendesse in tanta copia, e appunto per uso d'arricchirsi,
e per le diverse necessità d'esprimer questa o quella cosa mancante di
parola latina dove senza crearla di nuovo la levavano di peso dal greco ed è
costume usitatissimo dei latini come di Cicerone di Celso ec. quantunque principalmente
di chi scriveva di scienze come Plinio ec. ma anche Orazio com'è notissimo
ec. Ora perchè queste hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore,
ed anche gran parte delle frasi strettamente prese, giacchè dei modi
più largamente, infiniti ne convengono a maraviglia alla nostra lingua.
Al contrario però di noi la lingua francese non fa una difficoltà
al mondo di spogliare la lingua greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi
tempi se n'è empiuta e satollata strabocchevolmente, onde già
fanno dizionari delle parole francesi derivate dal greco cosa per altro scellerata
che guasta quella lingua orrendamente (come guasta indegnamente la nostra la
barbarie comunissima di usar queste stesse parole greche massime le moderne
pigliandole non dal greco ma dal francese colla stessa barbarie però,
quantunque i più neppur sappiano che siano interamente greche ma le abbiano
per pure francesi, come despota, demagogo, anarchia, aristocrazia, democrazia,
colle terminazioni greche sole p.e. civismo, filosofismo ec. ec. che in gran
parte son politiche messe fuori dalla repubblica francese ma ce ne ha di tutti
i generi) e in principal modo perch'essendo adottata da tutti gli scrittori
di scienze la nomenclatura tratta dal greco onde non c'è scienza, anzi
neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec. che non sia piena di greco,
e perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non sia intieramente greca,
le parole greche essendo necessariamente di quel sembiante che tutti siamo soliti
di vedere nelle usate dagli scienziati, danno alla lingua francese (e darebbero
a qualunque lingua e daranno all'italiana se dalla francese saranno trasportate
stabilmente nella nostra) un'aria indegna di tecnicismo (per usare una di queste
belle parole) e di geometrico e di matematico e di scientifico che ischeletrisce
la lingua, riducendola in certo modo ad angoli e perchè non c'è
cosa più nemica della natura che l'arida geometria, le toglie tutta la
naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde nasce la
bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed anche la forza
e robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al linguaggio
tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta dalle parole
cioè col significato loro e coll'argomento e ragione, o col concetto
spiegato freddamente con esse.
[49] La favola del pavone vergognoso delle sue zampe pecca d'inverisimile anzi
d'impossibile, giacchè non ci può esser parte naturale e comune
in verun genere d'animale, che a quello stesso genere non paia conveniente,
e quando sia nel suo genere ben conformata non paia bella: giacchè la
bellezza è convenienza, e questa è idea ingenita nella natura;
quali cose però si convengano, questo è quello che varia nelle
idee non solo dei diversi generi di animali, ma eziandio degl'individui di uno
stesso genere, come negli uomini, agli Etiopi (per non uscire dalla bellezza
del corpo) par bello il color nero, il naso camoscio, le labbra tumide, e brutti
i contrari che a noi paion belli, e tra i bianchi questa e quella nazione si
diversifica assaissimo nel valutar come bella questa o quella forma che all'altra
nazione dispiacerà. Ma che la natura abbia fatto parte stabile ed essenziale
di verun genere animalesco che a quello stesso genere paia brutta è impossibile,
giacchè non è possibile che un genere non abbia nessuno cui stimi
bello, e questo vediamo parimente nella specie, e le stesse differenze ch'io
ho notate nei giudizi degli uomini provengono dalla differente forma loro come
negli Etiopi, Lapponi, Selvaggi, isolani di cento figure ec. E le altre differenze,
come nello stimar più l'occhio ceruleo che il nero, ec. versano non intorno
a cose stabili e immutabili, ma, com'è chiaro da questo esempio, mutabili,
e differenti in una stessa specie secondo gl'individui, giacchè altrimenti
la natura avrebbe fatto una specie di bruttezza assoluta, se parendo bruttezza
a noi, paresse anche a quel tal genere o specie. Ma la bruttezza assoluta ben
noi ce la figuriamo che vedendo le zampacce del pavone, e parendoci sconvenienti
al resto del suo corpo, non crediamo che possano parer belle a nessuno animale,
ma il fatto non istà così, anzi al pavone parebbono brutte nel
proprio genere quelle zampe più grosse carnose morbide ornate vestite
ec. che a noi parrebbono più belle, e giudica brutto quello del suo genere
(o specie che la vogliamo dire) che non ha le zampe perfettamente secche asciutte
ec.
Quello che ho detto nel principio di questo pensiero me ne porge un altro, cioè
che infatti quella favola non pecca d'inverisimile non essendo scritta per li
pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati a credere che quelle zampe
bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni. E quantunque
il filosofo facilmente conosca il contrario, tuttavia scrive il poeta pel volgo,
al quale non è inverisimile il dir p.e. che le stelle cadano, anzi lo
dice Virgilio e si dice da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a
qualunque non ignorante sia cosa impossibile.
[50] A quello che ho detto nel 3. pensiero avanti al presente si aggiunga che
le parole nuove si devono anche cavare dalle radici che sono nella propria lingua,
e questa è una fonte principalissima e dalla quale Dante che passa pel
creatore della lingua derivò una grandissima, e forse la massima parte
delle voci ch'egli introdusse. E i derivati da questa fonte serbando com'è
naturale il colore nativo della lingua più che qualunque altro, se son
fatti con giudizio, vengono a formare il miglior genere di voci nuove che si
possano creare ec. ec. Ma questa fonte è tanto più scarsa quanto
meno sono le radici cioè quanto la lingua è meno ricca, onde la
lingua francese cedendo in questo senza paragone all'italiana non è dubbio
che di voci nuove secondo il bisogno, che non alterino la fisonomia della lingua
ma consuonino ec. dev'essere molto più atta a produrne la lingua italiana
che la francese. E infatti questa che passa per ricchissima in vocaboli delle
arti e scienze ec. è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli
non li piglia dal suo fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca
onde disdicono e stuonano manifestamente col resto della lingua e l'alterano
e imbastardiscono, e ciò perchè non sono lingue di uno stesso
genere ma diversissime, il cui genio anche nelle pure voci non ha che fare con
quello della francese, all'opposto della latina rispetto all'italiana principalmente.
Ora questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è
chiaro che non trattandosi di ricchezza ???????? ma di roba presa altrove, tutti
possono prenderla egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai
quali non è niente più difficile da ??????????? di fare stereotipia,
di quello che ai francesi stéréotypie ec. ec. e di formar nuovi
composti greci com'è questo ec. sì che è ricchezza fittizia,
non propria, ascita, misera, comune a tutti, e dannosa. Oltracciò i derivati
dalle proprie radici sono subito di noto significato, e intesi da tutti, così
in massima parte dalla lingua latina (dalla quale già non si dee prendere
quello che non sarebbe comunemente inteso) ma questi altri non si capiscono
da nessuno se non ci mettete la spiegazione etimologica ec. ovvero se non li
mettete nel vocabolario col loro significato, quando non sieno appoco appoco
passati in uso, ma ciò non può esser successo senza il detto massimo
inconveniente nel principio.
Anche la stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e la stessa inaffettazione
può essere affettata, risaltare ec. Anche la semplicità la naturalezza
la spontaneità. V. p.160.
Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto
notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in
mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti
avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete
e silenzio della notte, a [51] farmi avvedere del quale giovava il risalto di
quella voce o canto villanesco.
Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch'elle sono
ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a
tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come
sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla natura, e senza
cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono
necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà
della noia è un rimedio o un alleviamento di essa, come vediamo tutto
giorno nelle persone di mondo. All'opposto la continuità è così
amica della noia che anche la continuità della stessa varietà
annoia sommamente, come nelle dette persone, e in chicchessia, e, per portare
un esempio, ne' viaggiatori avvezzi a mutar sempre luogo e oggetti e compagni
e alla continua novità, i quali non è dubbio che dopo un certo
non lungo tempo, non desiderino una vita uniforme, appunto per variare, colla
uniformità dopo la continua varietà. V. Montesquieu Essai sur
le Goût. De la variété. Amsterd. 1781. p.378. lin. ult.
et des Contrastes. p.384-385.
Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso.
V. p.276.
Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere
che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza una vita futura.
Non mi maraviglio nè che gli antichi Ebrei e, credo, gran parte o tutti
gli orientali (v. le lettere premesse aux principes discutés de la société
Hébreo-Capucine etc.) e così i greci mancassero p.e. del v. nè
che avessero alcune lettere che noi non abbiamo, come gli Ebrei p.e. il u i
greci il ? il ? ec. Le lettere che noi crediamo comunemente essere proprio tante
e non più quanto le nostre, o almeno in genere, sono in effetto moltissime
giacchè non vengono dalla natura ma dall'assuefazione io dico in particolare,
cioè la facoltà del parlare e articolare e formare diversi suoni
viene dalla natura, ma la qualità e differenza di questi suoni ossia
delle lettere viene dall'assuefazione. E infatti sono infiniti i modi [52] di
collocare ec. la lingua i denti le labbra ec. quelle parti che formano i detti
suoni, e noi vediamo come piccole differenze di collocazione formino suoni diversissimi
come il p. e il b. per esempio. Ora perchè noi da fanciulli non abbiamo
sentito altro che i suoni del nostro alfabeto abbiamo solo imparato quelle tali
collocazioni, e a quelle assuefatti e incapaci d'ogni altra crediamo 1. che
altre non ve ne siano in natura, 2. che tutte sieno appresso a poco comuni per
natura a tutti. Ma la prima cosa è mostrata falsa dalle tante lettere
degli alfabeti antichi o stranieri che noi non sappiamo pronunziare o ignorandone
il suono, come spesso negli antichi (quantunque più spesso crediamo di
saperlo), o il mezzo, come negli stranieri; e da molte altre prove. L'altra
cosa da quello che ho detto di sopra e dall'esperienza continua di tanti che
per minime circostanze piuttosto accidentali ed estrinseche che organiche restan
privi di certe lettere. Ora non è dunque maraviglia che gli alfabeti
dei popoli siano differenti secondo la differente assuefazione tradizionale,
da cui si dee rimontare alla origine d'essi alfabeti. E se ne deduce che in
natura o non c'è alfabeto, o molto più ricco che non si crede
volgarmente.
Un esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali illusioni
la mitologia greca, è la personificazione dell'eco.
Non ogni proposito deve nascondere il poeta, come p.e. non dee nascondere il
proposito d'istruire nel poema didascalico ec. in somma i propositi manifesti
e che si espongono p.e. nello stesso principio del poema. Canto l'armi pietose
ec. Ma sì bene quelli che non vanno naturalmente col proposito manifesto,
come col narrare il dipingere, coll'istruire il dilettare, cose che il poeta
si propone, ma non dee mostrare di proporselo quantunque debba mostrare quegli
altri propositi manifesti, i quali servono più che altro di pretesto
e manto ai propositi occulti. E questo perchè questi ultimi non sono
naturali come è naturale che uno narri ec. ma deve parer che quel diletto,
quella viva rappresentazione ec. venga spontanea e senza ch'il poeta l'abbia
cercata, il che mostrerebbe l'arte e lo studio e la diligenza, e in somma non
sarebbe naturale, giacchè figurandoci il poeta nello stato naturale è
un uomo che preso il suo tema, e questo è il proposito manifesto, venga
giù dicendo quello che gli si somministra spontaneamente come fanno tutti
quelli che parlano, e quantunque egli qui metta un'immagine, qui un affetto,
qui un suono espressivo, qui ec. e tutto a bella posta e pensatamente, non deve
parer ch'egli lo faccia così, ma solo naturalmente, e così portando
il filo del suo discorso, e l'accaloramento [53] della sua fantasia e il suo
cuore ec. Altrimenti la natura non è imitata naturalmente e questi sono
i propositi diremo così secondari, quantunque spessissimo in realtà
sieno primari, (come ne' poemi didascalici dove il fine primario par l'istruire,
e deve parere, quando in verità è solo un mezzo essendo il vero
fine il dilettare) i quali bisogna nascondere. E oltre il poeta s'intenda l'oratore
lo storico, ed ogni qualunque scrittore. Affettazione in latino viene a dir
lo stesso che proposito, e presso noi lo stesso che proposito manifesto, anzi
questa può esserne la definizione
Spesso ho notato negli scritti de' moderni psicologi che in molti effetti e
fenomeni del cuore ec. umano, nell'analizzarli che fanno e mostrarne le cagioni,
si fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone
certe ragioni particolari solamente, e questo perchè vogliono farli parere
maravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi della natura lo Chateaubriand
ec., e non vanno alla prima o quasi prima cagione che troverebbero semplice
e in piena corrispondenza col resto del sistema di nostra natura. Questo ridurre
i diversi fenomeni dell'animo umano a principii semplici scema la maraviglia,
e anche la varietà perchè moltissimi si vedrebbero derivati da
un solo principio modificato leggermente. Costoro parlano sempre enfaticamente,
notano con molta acutezza il fenomeno, ma datane (se la danno, perchè
spesso credono e fanno credere ch'il fenomeno sia inesplicabile, vale a dire
senza rapporto conosciuto al resto del sistema giacchè da ciò
solo nasce la maraviglia in qualunque cosa del mondo) una ragione immediata
e secondaria ed egualmente maravigliosa, non rimontano come sarebbe pur facile
alla sorgente che ridurrebbe il fenomeno e le sue ragioni secondarie alle classi
consuete. Io credo che chi istituisse quest'analisi ultima farebbe cosa nuova
(sia per la mala fede, o la minore acutezza degli antecessori) e semplificherebbe
d'assai la scienza dell'animo umano, rapportando gl'infiniti fenomeni che sembrano
anomalie (perchè infatti la scienza non è ancora stabile nè
ordinata e ridotta in corpo) a principii universali o poco lontani da essi.
Opera principale e formatrice di tutte le scienze e scopo ordinario di chi ricerca
le cagioni delle cose. P.e. il desiderio naturale degli uomini di supporre animate
le cose inanimate tanto manifesto ne' fanciulli deriva dal desiderio e propensione
nostra verso i nostri simili, principio capitale, e primitivo, e fecondissimo.
V. il mio discorso sui romantici.
[54] Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta entrò nel Lazio e in
Roma, che magnifico e immenso campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi!
Essa stessa già padrona del mondo, le sue infinite vicende passate, le
speranze, ec. ec. ec. Argomenti d'infinito entusiasmo e da accendere la fantasia
e 'l cuore di qualunque poeta anche straniero e postero, quanto più romano
o latino, e contemporaneo o vicino proporzionatamente ai tempi di quelle gesta?
Eppure non ci fu epopea latina che avesse per soggetto le cose latine così
eccessivamente grandi e poetiche, eccetto quella d'Ennio che dovette essere
una misera cosa. La prima voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò
di filosofia. In somma l'imitazione dei greci fu per questa parte mortifera
alla poesia latina, come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero
principio, cioè nel 500. l'imitazione servile de' greci e latini. Onde
con tanto immensa copia di fatti nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti
greci, nè io credo che si trovi indicata tragedia d'Ennio o d'Accio ec.
d'argomento latino e non greco. Cosa tanto dannosa, massime in quella somma
abbondanza di gran cose nazionali, quanto ognuno può vedere. E lo vide
ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la schivò affatto
anzi l'argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le Buccoliche
e le Georgiche di titolo e derivazione greca) oltre le tante imitazioni d'Omero
ec. ma proccurò quanto più potè di tirarlo al nazionale,
e spesso prese occasione di cantare ex professo i fatti di Roma. Similmente
Orazio uomo però di poco valore in quanto poeta, fra tanti argomenti
delle sue odi derivate dal greco, prese parecchie volte a celebrare le gesta
romane. Ovidio nel suo gran poema cioè le Metamorfosi prese argomento
tutto greco. Scrisse però i fasti di Roma ma era opera piuttosto da versificatore
che da poeta, trattandosi di narrare le origini, s'io non erro, di quelle cerimonie
feste ec. in somma non prese quei fatti a cantare, ma così, come a trastullarcisi.
Del resto la letteratura latina si risentì bene dello stato di Roma colla
magniloquenza che, si può dire, aggiunse alle altre proprietà
dell'orazione ricevute da' greci, e a qualcune sostituì, qualità
tutta propria de' latini, come nota l'Algarotti, colla nobiltà e la coltura
dell'orazione del periodo ec. molto maggiore che non appresso gli antichi greci
classici, eccetto, e forse neppure, Isocrate.
Una prova di quello che ho detto di sopra intorno alle lettere, o piuttosto
un esempio, è l'u gallico (fino una vocale) sconosciuto a noi italiani
[55] settentrionali, e non so se ai latini, e a quali altri stranieri presentemente.
Il quale fu proprio interamente dell'alfabeto greco (e non so se dicano lo stesso
del vau ebreo) come ora è proprio del francese, e come l'u nostro appresso
questi è formato dall'ou, così appuntino fra i greci (eccetto
che questi l'hanno anche ne' dittonghi ?? ?? ?? ?? dove i francesi in nessun
altro). Il che, se non c'è altra ragione in contrario credo che i francesi
(dico tanto quest'u detto gallico quanto esso dittongo ou) l'abbiano avuto dalla
Grecia nelle spedizioni che fecero colà quando fondarono la gallogrecia
ec. (e credo da S. Ireneo gallo che scrisse in greco, e Favorino parimente ec.
che la lingua greca fosse veramente comune nella Gallia, v. gli Storici) onde
reso ?????????, sia poi rimasto in Francia e anche nella Gallia transalpina
cioè in Lombardia, malgrado delle mutazioni d'abitatori di queste provincie
ec. E il c e il g schiacciato non sono evidentemente due lettere diverse dagli
aperti ch e gh? E non mancarono e mancano ai greci? (ai latini non so che dicano
gli eruditi) ed ora ai francesi, e credo agli spagnuoli agl'inglesi ec.?
Se tu domanderai piacere ad uno che non possa fartisi senza ch'egli s'acquisti
l'odio d'un altro, difficilissimamente (in parità di condizione) l'otterrai
non ostante che ti sia amicissimo. E pure per quell'odio si guadagnerebbe o
si crescerebbe il vostro amore e forse grandissimo, sì che le partite
par che sarebbero uguali. Ma infatti pesa molto più l'odio che l'amore
degli uomini, essendo quello molto più operoso. Qui si fermerebbero gli
psicologi moderni lasciando di cercare il principio di questa differenza, ch'è
manifestissimo, cioè l'amor proprio. Giacchè chi segue il suo
odio fa per se, chi l'amore per altrui, chi si vendica giova a se, chi benefica,
giova altrui, nè alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui
quanto a se.
Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec.
dove il corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende,
operazioni, morte, successione di generazioni ec. perchè nessun uomo
ne sia spettatore o disturbatore nè sanno nulla de' casi del mondo perchè
quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini.
A. S'io fossi ricco ti vorrei donar tesori. B. Oibò, non vorrei ch'ella
se ne privasse per me. Prego Dio che non la faccia mai ricca.
Linguaggio mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste
di ciascuna potrebbe essere una cosa originale e poetica introdotta così
in qualche poesia, come, ma poi scioccamente se ne serve, il Sanazzaro nell'Arcadia
prosa 9. ad imitazione di quella favola, s'io non erro, circa Esiodo.
Voce e canto dell'erbe rugiadose in sul mattino ringrazianti e lodanti Iddio,
e così delle piante ec. Sanazzaro ib. e mi pare immagine notabile e simile
a quella dei rabbini dell'inno mattutino del sole ec. come anche l'altra immagine
del Sanazzaro ivi, di un [56]paese molto strano, dove nascon le genti tutte
nere, come matura oliva, e correvi sì basso il Sole, che si potrebbe
di leggiero, se non cuocesse, con la mano toccare.
Com'è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura
di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi
il compimento di questa non sia l'esserne contento, e l'odiarla o non soddisfarsene
non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura
e molto meno in quell'essere il quale senza entrare nella teologia, è
chiaro ch'essendo l'ordine animale il primo in questo globo e probabilmente
in tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente
il sommo grado di quest'ordine, viene a essere il primo di tutti gli esseri
nel nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta la scontentezza dell'esistenza,
che non solo si oppone all'istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla
volontariamente, cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri
esseri, e che non può stare in natura se non corrotta totalmente. Ma
pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di qualche ingegno
deve necessariamente dopo poco tempo cadere in preda a questa scontentezza.
Io credo che nell'ordine naturale l'uomo possa anche in questo mondo esser felice,
vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi nè singolari
e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più
o meno, uguale e temperata (eccetto gl'infortuni che possono essere nella sua
vita, come gli aborti le tempeste e tanti altri disordini (accidentali, ma non
sostanziali) in natura) insomma come sono felici le bestie quando non hanno
sventure accidentali ec. Ma non già credo che noi siamo più capaci
di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le
illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo
neppur sospettare: tout homme qui pense est un être corrompu, dice il
Rousseau, e noi siamo già tali. E pure vediamo che questi piccoli diletti
non ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque
altro come dice Verter ec. e vediamo il minore scontento dei contadini, ignoranti
ec. (quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti,
e dei fanciulli massimamente, che dei grandi. E l'esser l'uomo buono per natura,
e guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova
a questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società
che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l'una all'altra,
e che l'istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata
dall'arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini
fatti, ma ciò non prova che l'uomo sia fatto per l'arte ec. giacchè
la natura gli aveva dato quegl'istinti ch'egli perde poi ec. Sì che si
potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l'uomo sia nata da
circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più
atta alla società ec.
[57] S'è osservato che è proprietà degli antichi poeti
ed artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore.
Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma
per un effetto semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui
nel descrivere imitare ec. lasciano le minuzie e l'enumerazione delle parti
tanto familiare ai moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come
chi narra non come chi vuole manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa
maniera Ovidio il cui modo di dipingere è l'enumerare (come i moderni
descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi niente a fare al lettore, laddove
Dante che con due parole desta un'immagine lascia molto a fare alla fantasia,
ma dico fare non già faticare, giacchè ella spontaneamente concepisce
quell'immagine e aggiunge quello che manca ai tratti del poeta che son tali
da richiamar quasi necessariamente l'idea del tutto. E così presso gli
antichi in ogni genere d'imitazione della natura.
I nostri veri idilli teocritei non sono nè le egloghe del Sanazzaro nè
ec. ec. ma le poesie rusticali come la Nencia, Cecco da Varlungo ec. bellissimi
e similissimi a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità,
se non in quanto sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno
molto spesso una tinta.
Circa le immaginazioni de' fanciulli comparate alla poesia degli antichi vedi
la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente
degli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
Il principio universale dei vizi umani è l'amor proprio in quanto si
rivolge sopra lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in quanto
si ripiega sopra altrui, sia sopra gli altrui, sia sopra la virtù, sia
sopra Dio. ec.
Di alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura o
per non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta loro, si legge,
come di Cleopatra Mitridate ec. e più, anzi forse solamente fra gli antichi.
Ma di quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio,
come la malinconia l'amore ec. non si legge ch'io sappia in nessuna storia.
Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb'essere tanto
maggiore in loro [58] che negli altri, in quanto questi possono supporre se
non colla ragione (la quale è ben persuasa del contrario) almeno coll'immaginazione
(che non si persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già
nell'apice dell'umana felicità, trovandola vana anzi miserabilissima,
non possono più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati
per così dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa
vita come abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già
i loro desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei
miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può sognare,
come conquiste ec.
Disse la Dama: Voi mi avete rappacificata colla poesia: Godo assai, rispose
quegli, d'avere riconciliate insieme due belle cose.
Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro nelle scienze se i
trattatisti avessero la mente più poetica. Pare ridicolo il desiderare
il poetico p.e. in un matematico; ma tant'è: senza una viva e forte immaginazione
non è possibile di mettersi nei piedi dello studente e preveder tutte
le difficoltà ch'egli avrà e i dubbi e le ignoranze ec. che pure
è necessarissimo e da nessuno si fa nè anche da' più chiari,
che però non s'impara mai pienamente una scienza difficile p.e. le matematiche
dai soli libri.
Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
Per un'Ode lamentevole sull'Italia può servire quel pensiero di Foscolo
nell'Ortis lett.19 e 20 Febbraio 1799. p.200. ediz. di Napoli 1821.
Una facezia del genere ch'io ho detto in un altro pensiero essere stato proprio
degli antichi è quella degli Antiocheni che dicevano dell'imperatore
Giuliano che aveva una barba da farne corde, (Iulian. in Misopogone) la qual
facezia allora applaudita e sparsa per tutta la città e capace di muover
Giuliano a scrivere un libro ironico e giocoso (certo elegante e negli scherzi
si può dir Attico e Lucianesco e infinite volte superiore ai suoi Caesares,
senza sofistumi nello stile nè in altro, e senza affettazioni nè
pur nella lingua per altro elegante e ricca e ciò perchè questo
è un libro scritto per circostanza e non ?????????????come i Caesares)
contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi ec. parrebbe grossolana,
e di pessimo gusto. V. p.312.
E tanto è miser l'uom quant'ei si reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro
egloga ottava. Ora in quello stato ch'io diceva in un pensiero poco sopra, egli
non riputandosi misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione
alquanto [59] simile a quella che i'ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono
meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici.
Quando l'uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non
si vede più se non l'oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine
alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei
gesti che v'ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi
della maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce
noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato
pensiero che astragga l'animo così potentemente da tutte le cose circostanti,
come l'amore, e dico in assenza dell'oggetto amato, nella cui presenza non accade
dire che cosa avvenga, fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse
forse gli potrà essere paragonato.
Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze
e viltà e ridicolezze ch'io vedo fare e sento dire massime a questi coi
quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo
orribile e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste
cose, quanto allora ch'io mi sentiva o amore o qualche aura di amore, dove mi
bisognava rannicchiarmi ogni momento in me stesso, fatto sensibilissimo oltre
ogni mio costume, a qualunque piccolezza e bassezza e rozzezza sia di fatti
sia di parole, sia morale sia fisica, sia anche solamente filologica, come motti
insulsi, ciarle insipide, scherzi grossolani, maniere ruvide e cento cose tali.
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benchè tutto il
resto del mondo fosse per me come morto. L'amore è la vita e il principio
vivificante della natura, come l'odio il principio distruggente e mortale. Le
cose son fatte per amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo. Odiandosi,
benchè molti odi sono anche naturali, ne nasce l'effetto contrario, cioè
distruzioni scambievoli, e anche rodimento e consumazione interna dell'odiatore.
Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec.
che forma il comunissimo orpello de' nostri classici cinquecentisti (e credo
anche del Poliziano) però non paragonabili ai latini ma più ai
greci quanto allo stile, non si trova o più rara assai in Dante e nel
Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di
ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci ec.
come [60] in quello del Petrarca messo dall'Alfieri avanti alla sua Virginia:
Virginia appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo
Castità. Così anche le rime del Petrarca sono molto più
spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità
della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre
di netto ec. come nei cinquecentisti.
Una bella e notabile similitudine è quella dell'Alamanni nel Girone Canto
17. di un mastino e un lupo che si scontrino a caso (così dice) per una
selva, o ec. e la loro sorpresa scambievole e timore e rabbia subita e azzuffamento:
come pur quella del Martelli (non mi ricordo quale) di una villanella cercante
funghi e corrente dove vede biancheggiare una foglia secca ec. prendendola per
un fungo.
È pure un bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque
quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro,
noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza,
fui tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte
per sempre nè possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti
come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l'idea della
distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza
di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui pur ci piace di
ricordarci con qualche speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in
certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che
il luogo sia p.e. mutato affatto da quel ch'era allora ec. Così negli
anniversari. Ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato
e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell'anno
rispondente a quello dov'io provai per la prima volta un tocco di una carissima
passione. Ragionevolezza benchè illusoria ma dolce delle istituzioni
feste ec. civili ed ecclesiastiche in questo riguardo.
A ciò che ho detto in altro pensiero intorno all'eloquenza di chi parla
di se stesso si può aggiungere e l'esempio continuo di Cicerone che piglia
nuove forze ogni volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino
de' Medici nella sua Apologia che Giordani crede il più gran pezzo d'eloquenza
italiana e non vinto da nessuno [61] straniero. Ora questo è un'Apologia
di se stesso. Ed è mirabile com'egli che scriveva per se e non poteva
andar dietro alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l'eloquenza
greca e latina tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia
vi par nativa e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi più
fini dell'eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza
negligenza ec. così nello stile e condotta ordine ec. interno, come nell'esterno,
cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione
ec. quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è
latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti volendo
seguire la stessa eloquenza e maestri ec. come il Casa, facevano quelle miserie
di composizione di stile di lingua affettatissima e più latina che italiana.
Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua
e là per tutte le sue opere che ambedue parlano sempre di se e il Tasso
più dov'è più eloquente e bello e nobile ec. cioè
nelle lettere che sono il suo meglio. La migliore orazione di Demostene è
quella per la corona.
Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore, tanto commendati in
poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio non sono
bene spesso altro che un bell'uso di quel vago e in certo modo quanto alla costruzione,
irragionevole, che tanto è necessario al poeta. Come in Orazio dove chiama
mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna) ch'è
un'idea chiara, ma espressa vagamente (errantemente) così tirando l'epiteto
come a caso a quello di cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga
bene cioè se le due idee che gli si affacciano l'una sostantiva e l'altra
di qualità ossia aggettiva si possano così subito mettere insieme,
come chi chiama duro il vento perchè difficilmente si rompe la sua piena
quando se gli va incontro ec.
[62] Quel tanto trasportar parole greche di netto in latino che fu di moda ai
buoni secoli del Lazio (anche appresso i più antichi latini scrittori,
come dal francese parimente assai i nostri antichi italiani) dovea pur produrre
l'istesso senso che produce ora in noi la moda di usar parole francesi in lingua
italiana moda tanto antica fra noi quanto appresso i latini cioè cominciata
coi primi nostri scrittori, ma ora tornata in voga come ai tempi d'Orazio e
massimamente di Seneca Plinio ec. dove pare (e v. quello che dice Seneca della
voce, analogia) che fosse considerata come una barbarie siccome presentemente,
quantunque avesse per se tanti esempi antichi, come fra noi anche di parole
ora risibili p.e. frappare per battere, vengianza nell'Alamanni Girone più
volte e senza necessità di rima, e parecchie altre di questo andare nello
stesso poema ec. Se non che forse allora come adesso sarà cresciuto quel
gusto e divenuto senza giudizio e diffusosi alle forme ec. e divenuto nocevole
al genio nativo della lingua. V. p.312.
Si suol dire che leggendo certi autori semplici piani spontanei fluidi facili
disinvolti naturali ec. pare a tutti di saper far così che poi alla prova
si vede come sia falso. Ma leggendo Senofonte par proprio che tutti scrivano
così e che non si possa nè sappia scrivere altrimenti, se non
quando si passa da lui a un altro scrittore o da un altro scrittore alla lettura
di esso. Perchè gli altri scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte
non si scorge neppur ciò.
Nella gran battaglia dell'Isso, Dario collocò i soldati greci mercenari
nella fronte della battaglia, (Arriano l.2. c.8. sez.9. Curzio l.3. c.9. sez.2.)
Alessandro i suoi mercenari greci proprio nella coda, (Arriano c.9. sez.5.)
Curiosa e notabilissima differenza e da pronosticare da questo solo l'esito
della battaglia. Perchè era chiaro che tutta la confidenza dei Persiani
stava in quei 30 m. greci, e pure eran greci anche i mercenari d'Alessandro
(Arriano c.9. sez.7.) ed egli li poneva alla coda. Quindi è chiaro ch'egli
confidava più nel resto che in questi, e quello che era il più
forte dell'esercito Persiano era il più debole del Macedone. E Dario
si fidava più del valore dei mercenari che di coloro che combattevano
per la loro patria e avea ragione: Alessandro avendo gli stessi mercenari [63]
sapeva che sarebbero stati più valorosi gli altri che combattevano per
l'onor loro e di lui e la vendetta della patria ed avea somma ragione. E infatti
la propria falange Macedone venuta alle mani essa coi 30 m. mercenari, combatterono
ma furon vinti. E però da questa sola diversità delle due ordinanze
da cui si poteva arguire l'infinita differenza fra gli animi de' due eserciti,
era da congetturare quello che avvenne.
Della distinzione del ridicolo in quello che consiste in cose e quello che in
parole, data da me in altro pensiero vedi il Costa della elocuzione p.70. e
segg.
Una similitudine nuova può esser quella dell'agricoltore che nel mentre
che miete ed ha i fasci sparsi pel campo, vede oscurarsi il tempo ed una grandine
terribile rapirgli irreparabilmente il grano di sotto la falce: ed egli quivi
tutto accinto a raccoglierlo, se lo vede come strappar di mano senza poter contrastare.
La Commedia allora principalmente è utile quando fa conoscere il mondo,
i suoi pericoli, vizi, vanità, seduzioni, tradimenti, illusioni, ec.
ai giovani alle giovanette ec. giacchè ai vecchi che già lo conoscono
non serve gran cosa, e quanto alle massime di morale e gli esempi dei tristi
puniti, delle virtù, dei buoni premiati ec. sono miserabili cose e della
cui utilità, se non alquanto nel basso volgo, non si può disputare
in buona fede, che certo nessun giovane o persona qualunque di un certo mondo
e in somma civile, è tornata dalla commedia più virtuosa per le
prediche o gli esempi morali che ci ha sentite e vedute, bensì è
facile che sia (almeno in parte) disingannata dallo svelamento di tante trame
che si tendono alla povera gioventù, e dalla semplice imitazione e rappresentazione
di quello che succede nel mondo e che la gioventù ignora e crede molto
diverso, come appunto servono le storie più che tanti altri libri, colla
differenza che la commedia mostra la cosa più al vivo e al naturale e
la mette sotto gli occhi in luogo di narrarla, ond'è più persuasiva.
Diciamo in proporzione lo stesso degli altri generi di dramma.
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l'immaginazione
umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri [64] uguali
a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero
le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci
tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de' fonti abitati dalle
Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra
le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de' fiori
ec. come appunto i fanciulli.
Quello che ho detto p.32. di questi pensieri della tartaruga si potrà
forse dire anche del Pigro della cui vita bisogna vedere presso i naturalisti
se sia lunga.
Molti sono che dalla lettura de' romanzi libri sentimentali ec. o acquistano
una falsa sensibilità non avendone, o corrompono quella vera che avevano.
Io sempre nemico mortalissimo dell'affettazione massimamente in tutto quello
che spetta agli effetti dell'animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre
questa sorta d'infermità, e ho sempre cercato di lasciar la natura al
tutto libera e spontanea operatrice ec. A ogni modo mi sono avveduto che la
lettura de' libri non ha veramente prodotto in me nè affetti o sentimenti
che non avessi, nè anche verun effetto di questi, che senza esse letture
non avesse dovuto nascer da se: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare
più presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento
ch'io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare
alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più
speditamente.
Per esempio nell'amore la disperazione mi portava più volte a desiderar
vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo
che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in
prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così
tosto perchè dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere
di amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là,
ma s'io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel
desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante
ch'io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava
già inventato.
A quel pensiero dell'Algarotti che è nel t.8. delle sue Op. Cremona Manini
1778-1784. p.96. si può aggiungere il ?????(??????dei greci ch'è
la [65] parola corrispondente dov'è notabile l'indole di quella gentilissima
e amabilissima nazione che un uomo onesto e probo (quantunque non fosse bello,
giacchè questo nome come il suo astratto ?????(??????si usurpava per
significare la sola perfetta probità e integrità in qualunque
si trovasse) lo chiamava buono e bello; tanto facea conto della bellezza, che
non volea scompagnar l'elogio e l'indicazione della virtù da quella della
beltà e ciò costantemente e per proprietà di lingua in
maniera che si dava questo titolo anche a chi fosse tutt'altro che bello. Popolo
amante del bello e dilicato e sensibile, conoscitore di quanto possa l'esterno
e quello che cade sotto i sensi per ornare l'interno, e quanto sia sublime l'idea
della bellezza che non dovrebbe mai essere scompagnata dalla virtù. Parimente
si può aggiungere la parola corrispondente latina frugi, che viene a
dire, utile dimostrante la qualità dell'antico popolo romano dove un
uomo tanto si stimava quanto giovava al comune, ed era obbligo e costume dei
buoni il non vivere per se ma per la repubblica, onde per indicare un uomo di
garbo, un uomo buono, si considerava la sua qualità relativa al ben pubblico,
cioè in genere la sua utilità e quello che si poteva far di lui,
onde lo chiamavano, frugi, uomo da profitto, da cavarne costrutto.
Diceva una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una cannuccia gittatagli
per la finestra da Luigi: non piangere non piangere che a ogni modo ce l'avrei
gittata io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l'avrebbe
perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a
quell'altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando
ci persuadiamo che quel bene non era in nostra balìa d'ottenerlo, nè
quel male di schivarlo, e però cerchiamo di persuadercene, e non potendo,
siamo disperati, quantunque il male in tutti i modi si rimanga lo stesso. V.
p.188. V. a questo proposito il Manuale di Epitteto.
[66] Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio
di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel
momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione
e ansietà per quel timore. Non ho mai con più forza sentita la
discordanza assoluta degli elementi de' quali è formata la presente condizione
umana forzata a temere per la sua vita e a proccurare in tutti i modi di conservarla,
proprio allora che l'è più grave, e che facilmente si risolverebbe
a privarsene di sua volontà (ma non per forza d'altre cagioni). E vidi
come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia
e coerente in tutto il resto, che l'analogia è uno de' fondamenti della
filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e discorso, affatto
pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l'uomo non doveva per nessun
conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa
vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e l'essersene
accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii costituenti comuni
anche a tutti gli altri esseri (come dire l'amor della vita), e turba l'ordine
delle cose (poichè spinge infatti al suicidio la cosa più contro
natura che si possa immaginare).
Se tu hai un nemico mortale nella tal città e vedi che v'è sopra
un temporale, ti passa pur per la mente la speranza ch'egli ne possa restare
ucciso? Or come dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te, quando
la probabilità ch'egli uccida è tanto piccola che tu non ci sai
neppur fondare quella cosa che ha pur bisogno di sì poco fondamento per
sorgere in noi, dico la speranza? Lo stesso intendo dire di cento altri pericoli,
i quali se in vece fossero probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo
il porci per esse in nessuna speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in
timore. Tant'è: bisogna bene che per quanto la speranza sia facile a
nascere, e insussistente, il timore lo sia di più. Ma questa riflessione
mi pare molto atta a temperarlo. Il timore è dunque più fecondo
d'illusioni che la speranza.
Di un calcolatore che ad ogni cosa che udiva si metteva a computare, disse un
tale: Gli altri fanno le cose, ed egli le conta.
[67] Qualunque domestico entra nella mia famiglia non n'esce mai finchè
non muore, come potete sentire da quelli che ci sono stati, diceva un padrone
di casa al nuovo suo cuoco, dopo che due altri se n'erano licenziati spontaneamente.
Nelle favole del Pignotti (e forse in altre ancora) per la più parte,
è svanito il fine della favola, ch'è l'istruire i fanciulli ec.
col mezzo del dolce, della similitudine ec. e non si conserva nemmeno in apparenza
(come ne' poemi didascalici), giacchè sono dirette a significar certi
vizi del gran mondo, certe massime di politica, certe fine qualità del
carattere umano, che non giova punto nè è possibile ai fanciulli
di conoscere e comprendere: come p.e. quella dell'asino del cavallo e del bue.
Piuttosto quelle favole dalla loro prima istituzione Esopiana si son ridotte
a satirette non inurbane, o a meri giuochi d'ingegno, cioè similitudini
o novellette piacevoli, e alquanto istruttive per gli uomini maturi, come i
contes moraux di Marmontel, e le altre opere di questo genere, eccetto che qui
si parla di animali, piante ec. ec.
Notano (v. Roberti favola 62. nota) che le femmine degli uccelli generalmente
son meno belle dei maschi e se ne fanno maraviglia: e ciò perchè
nell'uomo pare il contrario. Poca riflessione. Noi siamo uomini e la femmina
ci par più bella del maschio, alle donne pare il contrario, agli uccelli
maschi certo par più bella la femmina, e alle femmine l'opposto. Che
se ci fosse un altro animale ragionevole che come noi giudichiamo degli uccelli,
così potesse giudicare della specie umana, non è dubbio che per
perfezione vistosità ec. rispettiva di forme ec. ec. darebbe la preferenza
al maschio, e chiamerebbe più bello l'uomo che la donna, che da noi tuttavia
si chiama il bel sesso.
Moltissime volte anzi la più parte si prende l'amor della gloria per
l'amor della patria. P.e. si attribuisce a questo la costanza dei greci alle
termopile, il fatto d'Attilio Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose
furono puri effetti dell'amor della gloria, cioè dell'amor proprio immediato
ed evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la
gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a
chi ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono
alla morte, anzi la [68] cercano per la speranza del paradiso che gliene viene
secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza
della gloria cercavano la morte i patimenti ec. ed è evidente che così
facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che
alle volte cercavano di morire anche senza necessità nè utile,
(come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile)
e da quegli Spartani accusati dall'opinione pubblica d'aver fuggito la morte
alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la vergogna.
Ed esaminando bene si vedrà che l'amor puramente della patria, anche
presso gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto
quello della libertà, l'odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti
che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che
bisogna ben intendere, perchè il sacrifizio precisamente per altrui non
è possibile all'uomo.
Guardate di dietro due, tre, o più persone delle quali una parli. Voi
discernete subito qual è quella che parla, ma se non le vedrete, con
tutto che siate alla stessa distanza, non la discernerete punto, quando non
la conosciate alla voce o per altra circostanza ec. E questo è accaduto
a me di non discernerla non vedendola, e discernerla poi al primo sguardo veduta
di dietro. Tanto è vero che il parlare anche delle persone più
modeste (com'era questa) è sempre accompagnato dai moti del corpo. V.
p.206.
Il gran giudizio e gusto e bella immaginazione dei greci si dimostra fra mille
altre cose anche nell'aver fatto vecchio il barcaiuolo dell'inferno (cruda deo
viridisque senectus, dice Virgilio divinamente) cosa che conviene sommamente
alla ruvidezza e squallore di quel luogo. E nota che tutti gli altri uffizi
attribuiti dalla mitologia alle divinità, sono attribuiti a Dei giovani.
Qui solamente, perchè si trattava dell'inferno, l'uffizio è dato
ad un vecchio.
Il nascere istesso dell'uomo cioè il cominciamento della sua vita, è
un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la
nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che
il bambino prova nel nascere. E nota [69] ch'io credo che esaminando si troverà
che fra le bestie un molto minor numero proporzionatamente perisce in questo
pericolo, colpa probabilmente della natura umana guasta e indebolita dall'incivilimento.
Invenies allum si te hic fastidit Alexis. Quest'è uno sbaglio formale.
Nessun vero amante crede di poter trovare un altro oggetto d'amore che lo compensi.
Oh infinita vanità del vero!
Quanto è più dolce l'odio che la indifferenza verso alcuno! Perciò
la natura intenta a proccurare la nostra felicità individuale nello stato
primitivo, ci avea lasciata l'indifferenza verso pochissime cose, come vediamo
nei fanciulli sempre proclivi a odiare o ad amare, temere ec.
A quello che ho detto in altro pensiero si può aggiungere che gli stessi
fiorentini pronunziano effe elle emme esse ec. e non effi elli ec. tanto è
chiaro che la lingua umana dove manca l'appoggio della vocale, cade naturalmente
in un'e.
Beati voi se le miserie vostre / Non sapete. Detto p.e. a qualche animale, alle
api ec.
Dev'esser cosa già notata che come l'allegrezza ci porta a communicarci
cogli altri (onde un uomo allegro diventa loquace quantunque per ordinario sia
taciturno, e s'accosta facilmente a persone che in altro tempo avrebbe o schivate,
o non facilmente trattate ec.) così la tristezza a fuggire il consorzio
altrui e rannicchiarci in noi stessi co' nostri pensieri e col nostro dolore.
Ma io osservo che questa tendenza al dilatamento nell'allegrezza, e al ristringimento
nella tristezza, si trova anche negli atti dell'uomo occupato dall'[70] uno
di questi affetti, e come nell'allegrezza egli passegia muove e allarga le braccia
le gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente
qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza
si rannicchia, piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto,
cammina lento, e schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io
mi ricordo, (e l'osservai in quell'istesso momento) che stando in alcuni pensieri
o lieti o indifferenti, mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo,
immediatamente strinsi l'una contro l'altra le ginocchia che erano abbandonate
e in distanza, e piegai sul petto il mento ch'era elevato.
La semplicità del Petrarca benchè naturalissima
come quella dei greci, tuttavia differisce da quella in un modo che si sente
ma non si può spiegare. E forse ciò consiste in una maggior familiarità,
e più vicina alla prosa, di cui il Petrarca veste mirabilmente i suoi
versi così nobilissimi come sono. I greci poeti forse sono un poco più
eleganti, come Omero che cercava in ogni modo un linguaggio diverso dal familiare
come apparisce da' suoi continui epiteti ec. quantunque sia rimasto semplicissimo.
Forse anche la lingua italiana, essendo la nostra fa che noi sentiamo questa
familiarità dello stile più che ne' greci, ma parmi pure che vi
sia una qualche differenza reale.
Non v'ha forse cosa tanto conducente al suicidio quanto il disprezzo di se medesimo.
Esempio di quel mio amico [71] che andò a Roma deliberato di gittarsi
nel Tevere perchè sentiva dirsi ch'era un da nulla. Esempio mio stimolatissimo
ad espormi a quanti pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi
venni in disprezzo. Effetto dell'amor proprio che preferisce la morte alla cognizione
del proprio niente, ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto
più fortemente e costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi.
E infatti l'amor della vita è l'amore del proprio bene; ora essa non
parendo più un bene, ec. ec.
A un cavallo turco. Oh quanto tu sei meglio degli uomini del tuo paese.
Colle persone colle quali penso di poter convenire, non amo di parlare in compagnia,
parte perchè i circostanti non conoscendomi bene (giacchè io non
soglio farmi conoscer da tutti) darebbero di me a queste persone sia direttamente
sia indirettamente una idea falsa; parte perchè io stesso per non entrare
in dispute ch'io sfuggo a più potere con quelli che hanno diversi principii,
e per non obbligare quella stessa tal persona ch'io stimassi, ad entrarvi, dissimulerei
necessariamente, e così cercando d'ingannar gli altri, ingannerei anche
colui, il quale mi crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può
convenire.
Io credo che la moltitudine assoluta di ciascuna specie di animali sia in ragion
diretta della loro piccolezza. Senza dubbio una sola pianticella in una campagna
contiene bene spesso più formiche assai che non v'ha uomini in tutto
quel campo. Così discorriamola. Vedi i naturalisti, e se questa osservazione
sia stata fatta da nessuno di loro. Osservo anche la moltitudine degli uccelli
i cui stormi sono innumerabili, e nondimeno son vinti dalla folla degli animali
più [72] piccoli che si ritrova in questo o in quel luogo secondo le
circostanze rispettive.
Anche il delitto bene spesso è un eroismo, cioè p.e. quando il
farlo torna in danno o pericolo, e nondimeno si vuol fare per soddisfare quella
tal passione ec. tanto più eroismo quanto che bisogna superare tutta
la forza della natura reclamante, e dell'abitudine (se si tratta p.e. di un
giovane, di un innocente ec.) ec. E però è un eroismo anche senza
il danno o il pericolo tutte le volte che è commesso da persona non solita
a commetterlo, costando sempre uno sforzo e una vittoria di se stesso, nel che
consiste l'eroismo. Quindi da un delitto di questa sorta si può sempre
argomentar bene o almeno alquanto straordinariamente di una persona. In somma
ogni sacrifizio di cosa cara ogni sacrifizio difficile è un eroismo,
anche quello della virtù, e dei sentimenti più sacri, quando questo
sacrifizio ancora costa.
Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle
cose è più tollerabile assai che la stessa noia.
Il sentimento della vendetta è così grato che spesso si desidera
d'essere ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da
un nemico abituale, ma da un indifferente, o anche (massime in certi momenti
d'umor nero) da un amico.
Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo
anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più
quieta conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario.
Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in
un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un vôto
universale, e in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di
dolermi.
[73] Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son creduto abile, come
nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a lodare. L'ho provata
posso dire per la prima volta (e verso una persona a me prossimissima) quando
ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui capiva d'esser debolissimo.
Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta
e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva
assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere,
e raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.
La cagione per cui il bene inaspettato e casuale, c'è più grato
dello sperato, è che questo patisce un confronto cioè quello del
bene immaginato prima, e perchè il bene immaginato è maggiore
a cento doppi del reale, perciò è necessario che sfiguri e paia
quasi un nulla. Al contrario dell'inaspettato che non perde nulla del suo qualunque
valore reale per la forza del confronto troppo disuguale.
L'ame est si mal à l'aise dans ce lieu, (dice la Staël delle catacombe
liv.5 ch.2. de la Corinne) qu'il n'en peut résulter aucun bien pour elle.
L'homme est une partie de la création, il faut qu'il trouve son harmonie
morale dans l'ensemble de l'univers, dans l'ordre habituel [74]de la destinée;
et de certaines exceptions violentes et redoutables peuvent étonner la
pensée, mais effraient tellement l'imagination, que la disposition habituelle
de l'ame ne saurait y gagner. Queste parole sono una solennissima condanna degli
orrori e dell'eccessivo terribile tanto caro ai romantici, dal quale l'immaginazione
e il sentimento in vece d'essere scosso è oppresso e schiacciato, e non
trova altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi della
fantasia e schivar quell'immagine che tu gli presenti.
Nell'autunno par che il sole e gli oggetti sieno d'un altro colore, le nubi
d'un'altra forma, l'aria d'un altro sapore. Sembra assolutamente che tutta la
natura abbia un tuono un sembiante tutto proprio di questa stagione più
distinto e spiccato che nelle altre anche negli oggetti che non cangiano gran
cosa nella sostanza, e parlo ora riguardo a un certo aspetto superficiale e
in parità di oggetti, circostanze ec. e per rispetto a certe minuzie
e non alle cose più essenziali giacchè in queste è manifesto
che la faccia dell'inverno è più marcata e distinta dalle altre
che quella dell'autunno ec.
Una delle cagioni del gran contrasto delle qualità degli abitanti del
mezzogiorno notata dalla Staël, Corinne liv.6. ch.2. p.246. troisieme édition
1812., (oltre quella, qu'ils ne perdent aucune force de l'ame dans la société,
com'ella dice ivi, onde la natura anche per questo capo resta più varia,
e non così obbligata e avvezzata alla continua uniformità, come
succede per lo spirito di società e d'eccessivo incivilimento in Francia)
è che il clima meridionale essendo [75] il più temperato, e la
natura quivi (come dice la stessa più volte) in grande armonia, essa
si trova più spedita, più dégagée, più sviluppata,
onde siccome le circostanze della vita son diversissime, così trovandosi
i caratteri meridionali per la detta cagione pieghevolissimi, e suscettibili
d'ogni impressione, ne segue il contrasto delle qualità che si dimostrano
nelle contrarie circostanze, e il rapido passaggio ec. Laddove negli altri climi
la natura trovandosi meno mobile più inceppata e dura, il violento difficilmente
mostra pacatezza, e l'indolente non divien quasi mai attivo, insomma la qualità
dominante, domina più assolutamente e tirannicamente di quello che faccia
nel mezzogiorno, dove non perciò si dee credere che manchino le qualità
dominanti nel tale e tale individuo, ma che in proporzione lascino più
luogo alle altre qualità, alla varietà loro ec.
Il sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa
v'ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti quantunque dilettosissimo, è
pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi
a quello di chi corra dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere:
e perciò lascia sempre nell'anima un gran desiderio: pur questo è
il sommo de' nostri diletti, e tutto quello ch'è determinato e certo
è molto più lungi dall'appagarci, di questo che per la sua incertezza
non ci può mai appagare.
[76] La somma felicità possibile dell'uomo in questo mondo, è
quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa
di un avvenire molto migliore, che per esser certa, e lo stato in cui vive,
buono, non lo inquieti e non lo turbi coll'impazienza di goder di questo immaginato
bellissimo futuro. Questo divino stato l'ho provato io di 16 e 17 anni per alcuni
mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz'altri disturbi,
e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire. E non lo proverò
mai più, perchè questa tale speranza che sola può render
l'uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di
quella tale età, o almeno, esperienza.
L'incivilimento ha posto in uso le fatiche fine ec. che consumano e logorano
ed estinguono le facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in
genere ec. le quali non erano richieste dalla natura, e tolte quelle che le
conservano e le accrescono, come quelle dell'agricoltore del cacciatore ec.
e della vita primitiva, le quali erano volute dalla natura e rese necessarie
alla detta vita.
Un corollario del pensiero posto qui sopra possono essere delle osservazioni
sulla vita degli anacoreti senza disturbi e colla speranza quieta e non impaziente
del paradiso.
L'espressione del dolore antico, p.e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle
descrizioni di Omero ec. doveva essere per necessità differente da quella
del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina come ne ha il nostro,
non sopravvenivano le sventure agli antichi come necessariamente dovute alla
nostra natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma [77] come impedimenti
e contrasti a quella felicità che agli antichi non pareva un sogno, come
a noi pare, (ed effettivamente non era tale per essi, certamente speravano,
mentre noi disperiamo, di poterla conseguire) come mali evitabili e non evitati.
Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni, le
calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti
propri di quello a cui sopravvenivano. (infatti il disgraziato al contrario
di adesso solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni
naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più
l'odio che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere
in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto
della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi,
non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore,
nè l'affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescolato
di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma intieramente disperato.
Somma differenza tra il dolore antico e il moderno per cui con ragione si raccomanda
al poeta artista ec. moderno di trattar soggetti moderni, non potendo a meno
trattando soggetti antichi di cadere in una di queste due, o violare il vero,
dipingendo i fatti antichi con prestare ai suoi personaggi sentimenti e affetti
moderni, o non interessare nè farsi [78]intendere dai moderni col far
sentire e parlare quei personaggi all'antica. Se non che l'offendere il vero,
nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il
verosimile, divenendo cosa da puro erudito, quando l'effetto di quella mescolanza
è buono, il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei
sentimenti, come io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella
pittura, ec. dove purchè l'offesa del vero non salti agli occhi, vale
a dire si salvi il verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire
i moderni, che assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe
nessuno effetto. Quindi non condanno punto anzi lodo p.e. Racine che avendo
scelto soggetti antichi (che colla loro natura non erano incompatibili coi sentimenti
moderni, e d'altronde erano per la loro bellezza, tragicità, forza ec.
preferibili ad altri soggetti de' giorni più bassi) gli ha trattati alla
moderna. La sensibilità era negli antichi in potenza, ma non in atto
come in noi, e però una facoltà naturalissima (v. il mio discorso
sui romantici), ma è cosa provata che le diverse circostanze sviluppano
le diverse facoltà naturali dell'anima, che restano nascose e inoperose
mancando quelle tali circostanze, fisiche, politiche, morali, e soprattutto,
nel nostro caso, intellettuali, giacchè lo sviluppo del sentimento e
della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della filosofia,
e della cognizione dell'uomo, e del mondo, e della vanità delle cose,
e della infelicità umana, [79] cognizione che produce appunto questa
infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere. Gli antichi in
cambio di quel sentimento che ora è tutt'uno col malinconico, avevano
altri sentimenti entusiasmi ec. più lieti e felici, ed è una pazzia
l'accusare i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il preferire a quei
sentimenti e piaceri loro che erano spiritualissimi anch'essi, e destinati dalla
natura all'uomo non fatto per essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre,
benchè naturali anch'esse, cioè l'ultima risorsa della natura
per contrastare (com'è suo continuo scopo) alla infelicità prodotta
dalla innaturale cognizione della nostra miseria. La consolazione degli antichi
non era nella sventura, per es. un morto si consolava cogli emblemi della vita,
coi giuochi i più energici, colla lode di avere incontrata una sventura
minore o nulla morendo per la patria, per la gloria, per passioni vive, morendo
dirò quasi per la vita. La consolazione loro anche della morte non era
nella morte ma nella vita. V. p.105. di questi pensieri.
Le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma
la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch'ella
trae da se stessa e non dalla natura, e così l'uditore. Ecco perchè
la Staël (Corinne liv.9. ch.2.) dice: De tous les beaux-arts c'est (la
musique) celui qui agit le plus immédiatement sur l'ame. Les autres la
dirigent vers telle ou telle idée, celui-là seul s'adresse à
la source intime de l'existence, et change en entier la disposition intérieure.
La [80] parola nella poesia ec. non ha tanta forza d'esprimere il vago e l'infinito
del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo
un'impressione sempre secondaria e meno immediata, perchè la parola come
i segni e le immagini della pittura e scultura hanno una significazione determinata
e finita. L'architettura per questo lato si accosta un poco più alla
musica, ma non può aver tanta subitaneità, ed immediatezza.
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror de l'avvenire.
Si può osservare che il Cristianesimo, senza perciò fargli nessun
torto ha per un verso effettivamente peggiorato gli uomini. Basta considerare
l'effetto che produce sopra i lettori della storia il carattere dei principi
cristiani scellerati in comparazione degli scellerati pagani, e così
dei privati, dei Patriarchi, Vescovi, e monaci greci (v. Montesquieu Grandeur
ec. Amsterd. 1781. ch.22.) o latini. Le scelleratezze dei secondi non erano
per nessun modo in tanta opposizione coi loro principii. Morto il fanatismo
della pietà, e il primo fervore di una religione che si considera come
un'opinione propria, e una setta e cosa propria, e di cui perciò si è
più gelosi (anche per li sacrifizi che costava il professarla) l'uomo
in società ritorna naturalmente malvagio, colla differenza che quando
gli antichi scellerati operavano o secondo i loro principii, o in opposizione
di massime confuse poco note e controverse, i cristiani operavano contro massime
certe stabilite definite, e di cui erano intimamente persuasi, e l'uomo è
sempre tanto più [81] scellerato quanto più sforzo costa l'esserlo,
massimamente contro se stesso, come per contrario accade della pietà.
E infatti da quando il cristianesimo fu corrotto nei cuori, cioè presso
a poco da quando divenne religione imperiale e riconosciuta per nazionale, e
passò in uomini posti in circostanze da esser malvagi, è incontrastabile
che le scelleratezze mutaron faccia e il carattere di Costantino e degli altri
scellerati imperatori cristiani, vescovi ec. è evidentemente più
odioso di quello dei Tiberi dei Caligola ec. e dei Marii e dei Cinna ec. e di
una tempra di scelleraggine tutta nuova e più terribile. E secondo me
a questo cioè al cristianesimo si deve in gran parte attribuire (giacchè
il guasto cristianesimo era una parte di guasto incivilimento) la nuova idea
della scelleratezza dell'età media molto differente e più orribile
di quella dell'età antiche anche più barbare: e questa nuova idea
si è mantenuta più o meno sino a questi ultimi tempi nei quali
l'incredulità avendo fatti tanti progressi, il carattere delle malvagità
si è un poco ravvicinato all'antico, se non quanto i gran progressi e
il gran divulgamento dei lumi chiari e determinati della morale universale molto
più tenebrosa presso gli antichi anche più civili, non lascia
tanto campo alla scelleraggine di seguire più placidamente il suo corso.
V. p.710. capoverso 1.
[82] Citerò un luogo delle Notti romane, non perch'io creda che quel
libro si possa prendere per modello di stile, ma per addurre un esempio che
mi cade in acconcio. Ed è quello dove la Vestale dice che diede disperatamente
del capo in una parete, e giacque. La soppressione del verbo intermedio tra
il battere il capo e il giacere, che è il cadere, produce un effetto
sensibilissimo, facendo sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa
di quella caduta, per la mancanza di quel verbo, che par che ti manchi sotto
ai piedi, e che tu cada di piombo dalla prima idea nella seconda che non può
esser collegata colla prima se non per quella di mezzo che ti manca. E queste
sono le vere arti di dar virtù ed efficacia allo stile, e di far quasi
provare quello che tu racconti.
Io era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino,
e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io
mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra
quest'orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa
vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato,
e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe
più pregevole. La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere
per fondamento un'osservazione simile a questa.
[83] La cagione per cui trovo nelle osservazioni di Mad. Di Staël del libro
14. della Corinna anche più intima e singolare e tutta nuova naturalezza
e verità, è (oltre al trovarmi io presentemente nello stessissimo
stato ch'ella descrive) il rappresentare ella quivi il genio considerante se
stesso e non le cose estrinseche nè sublimi, ma le piccolezze stesse
e le qualità che il genio poche volte ravvisa in se, e forse anche se
ne vergogna e non se le confessa (o le crede aliene da se e provenienti da altre
qualità più basse, e perciò se n'affligge) onde con minore
sublime ed astratto, ha maggior verità e profondità familiare
in tutto quello che dice Corinna di se giovanetta.
Quantunque io mi trovi appunto nella condizione che ho detta qui sopra pur leggendo
il detto libro, ogni volta che madame parla dell'invidia di quegli uomini volgari,
e del desiderio di abbassar gli uomini superiori, e presso loro e presso gli
altri e presso se stessi, non ci trovava la solita certissima e precisa applicabilità
alle mie circostanze. E rifletto che infatti questa invidia, e questo desiderio
non può trovarsi in quei tali piccoli spiriti ch'ella descrive, perchè
non hanno mai considerato il genio e l'entusiasmo come una superiorità,
anzi come una pazzia, come fuoco giovanile, difetto di prudenza, di esperienza
di senno, ec. e si stimano molto più essi, onde non possono provare invidia,
perchè nessuno invidia la follia degli altri, bensì compassione,
o disprezzo, e anche malvolenza, come a persone che non vogliono pensare come
voi, e come credete che si debba pensare. Del resto credono che ancor esse fatte
più mature si ravvedranno, tanto sono lontane dall'invidiarle. E così
precisamente [84]porta l'esperienza che ho fatta e fo. Ben è vero che
se mai si affacciasse loro il dubbio che questi uomini di genio fossero spiriti
superiori, ovvero se sapranno che son tenuti per tali, come anime basse che
sono e amanti della loro quiete ec. faranno ogni sforzo per deprimerli, e potranno
concepirne invidia, ma come di persone di un merito falso e considerate contro
al giusto, e invidia non del loro genio, ma della stima che ne ottengono, giacchè
non solamente non li credono superiori a se, ma molto al di sotto.
Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl'intellettuali
e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interamente
l'idea della natura e dell'uomo concepita e naturale per l'antico sistema detto
tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l'uomo un essere non
unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra,
ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l'infinità delle creature
che secondo tutte le leggi d'analogia debbono abitare gli altri globi in tutto
analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano
intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l'idea dell'uomo, e la
sublima, scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della
essenza delle cose, dell'esser nostro, dell'onnipotenza del creatore, dei fini
del creato ec. ec.
Nella mia somma noia e scoraggimento intiero della vita talvolta riconfortato
alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria
del mondo. Io rifletteva allora: io piango perchè sono più lieto,
e così è che allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza
d'addolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava
il vigore di dolermene.
[85] Cum pietatem funditus amiserint
Pi tamen dici nunc maxime reges volunt.
Quo res magis labuntur, haerent nomina.
Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi
sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido
nulla.
Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un'apparenza di felicità
viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti
e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come
nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella felicità
che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e
la infelicità dell'uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo
la trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo
la vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle
lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l'uomo in comparazione di
questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può
tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.
Uomo colto in piena campagna da una grandine micidiale e da essa ucciso o malmenato
rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi il capo colle mani ec. soggetto
di una similitudine.
Quando le sensazioni d'entusiasmo ec. che noi proviamo non sono molto profonde,
allora cerchiamo di avere un compagno con cui comunicarle, e ci piace il poterne
discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che vedendo
una bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la belle
campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere [86] il diletto
di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello degli altri. Ma quando
l'impressione è profonda accade tutto l'opposto perchè temiamo,
e così è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola
dal chiuso delle nostre anime, per esporla all'aria della conversazione. Oltre
ch'ella ci riempie in modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci
lascia campo di pensare ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a
ciò una certa attenzione che ci distrarrebbe, quando la distrazione ci
è non solamente importuna, ma impossibile.
Dice la Staël, (Corinne liv.18. ch.4.) parlando de la statue de Niobé:
sans doute dans une semblable situation la figure d'une véritable mère
serait entièrement bouleversée; mais l'idéal des arts conserve
la beauté dans le désespoir; et ce qui touche profondément
dans les ouvrages du génie, ce n'est pas le malheur même, c'est
la puissance que l'ame conserve sur ce malheur. Bellissima condanna del sistema
romantico che per conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire
l'affettazione che dai moderni è stata pur troppo sostituita alla dignità,
(facile agli antichi ad unire colla semplicità che ad essi era sì
presente e nota e propria e viva) rinunzia ad ogni nobiltà, così
che le loro opere di genio non hanno punto questa gran nota della loro origine,
ed essendo una pura imitazione del vero, come una statua di cenci con parrucca
e viso di cera ec. colpisce molto meno di quella che insieme colla semplicità
e naturalezza conserva l'ideale del bello, e rende straordinario quello ch'è
comune, cioè mostra ne' suoi eroi un'anima grande e un'attitudine dignitosa,
il che muove la maraviglia e [87] il sentimento profondo colla forza del contrasto,
mentre nel romantico non potete esser commosso se non come dagli avvenimenti
ordinari della vita, che i romantici esprimono fedelmente, ma senza dargli nulla
di quello straordinario e sublime, che innalza l'immaginazione, e ispira la
meditazione profonda e la intimità e durevolezza del sentimento. E così
ancora si verifica che gli antichi lasciavano a pensare più di quello
ch'esprimessero, e l'impressione delle loro opere era più durevole.
Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l'impossibilità
d'esser felice, e la somma e certa infelicità dell'uomo, comincia dal
divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar
nulla, nè perdere e soffrire più di quello ch'ella già
preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo l'indifferenza non basta,
egli perde quasi affatto l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza
così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto
degli uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si
abborre come un nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure,
o l'idea e l'atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza,
massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora
è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della
vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio,
il qual sorriso è l'ultima espressione della estrema disperazione e della
somma infelicità. V. Staël Corinne l.17. c.4. 5me édition
Paris, 1812. p.184.185. t.3.
[88] Je vous l'ai dit souvent, la douleur me tuerait; il y a trop de lutte en
moi contre elle; il faut lui céder pour n'en pas mourir, dice Corinna
presso la Staël liv.14. ch.3. t.2. p.361. dell'edizione citata qui dietro.
E da questo venia che gli antichi al carattere dei quali l'autrice ha voluto
ravvicinare quello di Corinna quanto era compatibile coi costumi e la filosofia
moderna di cui l'arricchisce a piena mano, erano vinti dall'infelicità
in modo che esprimevano la loro disperazione cogli atti e le azioni più
terribili, e la sventura li mandava fuori di se stessi, e gli uccideva. Quel
se réposer sur sa douleur, quel piacere perfino provato dai moderni per
la stessa sventura e per la considerazione di essere sventurato, era cosa ignota
a quelli che secondo l'istinto della natura non ancora del tutto alterata, correvano
sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale, e
trovavano il loro diletto dove la natura primitivamente l'ha posto, cioè
nella buona e non nella cattiva fortuna, la quale quando loro sopravvenniva,
la riguardavano come propria, non come universale e inevitabile. Nè il
desiderio della felicità era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito
da nessuna considerazione e da nessuna filosofia. Perciò tanto più
formidabile era l'effetto di quanto impediva loro l'adempimento di questo desiderio.
Les habitans du Midi craignant beaucoup la mort, l'on s'étonne d'y trouver
des institutions qui la rappellent à ce point; mais il est dans la nature
d'aimer à se livrer à l'idée même de ce que l'on
redoute. Il y a comme un enivrement de tristesse qui fait à l'ame le
bien de la remplir tout entière. Corinne l.10. ch.1 t.2. p.115. edizione
citata qui dietro [89]. A questo proposito si può notare quella indistinta
e pur vera voglia che noi proviamo avendo p.e. in mano una cosa fetente di sentirne
fuggitivamente l'odore. Così se ti abbatti a passare, poniamo, per un
luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di quella esecuzione, e pure
io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi gli occhi per vederla così
di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente altrove. V. a tal proposito un
luogo notabile di Platone, Opp. Ed. Astii, t.4. p.236. lin.8-16. E così
di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se tu hai corso un pericolo
che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai forza di fermarti
in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella vicinanza della morte
ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur che tra il volere e
il non volere ci lasci andare un'occhiata. Similmente se ti si affaccia qualche
pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche cosa che ti faccia vergognare
teco stesso ec. La ragione di questo effetto non è certo quell'inebbriamento
che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere
chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell'ignoto
ci fa più pena che il noto, e siccome quell'oggetto ci spaventa o ci
abbrividisce o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto,
e anche con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale
squadrata che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così credo,
proviene dall'amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della
noia ch'è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe
questa monotonia, ed esce dell'ordine comune, quantunque ci paia [90] più
grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo
e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa
in quell'agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale
spiegazione si ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non
è altro che il vuoto dell'anima, ch'è riempito, come ella dice
da quel pensiero, e occupato intieramente per quel punto. E in fine può
anche derivare, e penso che almeno in parte derivi dallo stesso timore che abbiamo
di quel pensiero, per la ragione che in tutte le cose fisiche e morali, il voler
troppo intensamente e il timore di non conseguire, distorna le nostre azioni
dal loro fine, e il mettersi ad un'operazione di mano p.e. chirurgica con troppa
intenzion d'animo e timore di non riuscire, la manda a male, e nelle lettere,
o belle arti, il cercar la semplicità con troppa cura, e paura di non
trovarla, la fa perdere ec.
L'orrore e il timore della fatalità e del destino si prova più
(anche oggidì che la superstizione è quasi bandita dal mondo)
nelle anime forti e grandi, che nelle mediocri per cagione che i desideri e
i fini di quelle sono fissi, e ch'elle li seguono con ardore, con costanza,
e risoluzione invariabile. Così era più ordinariamente presso
gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la forza e la magnanimità
erano virtù molto più ordinarie che fra i moderni. E vedendo essi
che spesse volte anzi frequentissimamente i casi della vita si oppongono ai
desideri dell'uomo, erano compresi da terrore per la ragione della loro immobilità
nel desiderare o nel diriggere le loro azioni a quel tale scopo che forse e
probabilmente non avrebbero [91] potuto conseguire. Infatti nella infinita varietà
dei casi è molto più improbabile che segua precisamente quello
a cui tu miri invariabilmente, che gl'infiniti altri possibili. Ora accadendone
piuttosto un altro non è effetto di destino fisso che ti perseguiti,
ma di cieco accidente. Essi tuttavia com'è naturale come per un'illusione
ottica o meccanica confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora confondono)
l'immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè
non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l'immobilità
stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino.
Laddove gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella
moltiplicità dei loro fini, e si abbattono più facilmente a uno
o più di quelli che desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza
difficoltà all'andamento delle cose, e da questo si lasciano trasportare,
piegare, regolare, andando a seconda degli avvenimenti. Così essi non
avendo immobilità in loro, nè vedendo la somma difficoltà
di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l'intelletto più
libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un'opposizione forte e stabile,
(la qual forza e stabilità non è veramente se non nella resistenza
che le anime grandi oppongono agl'instabilissimi e casuali avvenimenti) ma considerano
tutto come effetto del caso, e delle combinazioni, siccom'è infatti.
Aggiungi l'invariabilità non solo dei fini, ma anche dei mezzi nei primi,
(cioè ne' magnanimi) che non permette loro di cambiar principii, nè
di regolare le loro azioni a norma degli avvenimenti, ma li conserva sempre
costanti nel loro proposito e nel modo di seguitarlo, mentre il contrario accade
nei secondi. E anche senza nessun proposito nè scopo, si vedrà
che la sola fermezza e immutabilità del carattere, fa illusione sulla
forza del destino ch'essendo [92] così vario pare immutabile a quelli
che non vedono se non una sola via, una sola maniera di contenersi di pensare
e operare, una sola sorta di avvenimenti, e come questi dovrebbero o pare a
loro che dovrebbero accadere. E questo timore del destino si trova in conseguenza
più o meno anche negli spiriti mediocri, o puramente ragionevoli e filosofici
ec. quando provano qualche desiderio o mirano a qualche fine in modo che divengano
immobili intorno a quel punto. V. Staël Corinne l.13. c.4. p.306. t.2.
edizione citata poco sopra. L'illusione che ho detto si può in qualche
modo paragonare a quella che noi proviamo credendo la terra immobile perchè
noi siam fermi su di lei, quantunque ella giri e voli rapidissimamente. E già
si sa che anche nei magnanimi ella è più viva e presente secondo
che essi si trovano in circostanze di desideri e mire più vive, determinate
e focose forti ferme ec. nelle grandi passioni ec.
La società francese la quale fa che l'esprit naturel se tourne en épigrammes
plutôt qu'en poésie, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv.15.
chap.9. p.80. t.3. edizione citata da me alla p.87.) rende ancora epigrammatica
tutta la loro scrittura, ed abituati come sono a dare a tutti i loro detti nella
conversazione, une tournure che li renda gradevoli, un'aria di novità,
una grazia ascitizia, un garbo proccurato ec. ponendosi a scrivere, e stimando
naturalmente che la scrittura non li disobblighi da quello a cui gli obbliga
la raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di
società è così grande, anzi è l'anima e lo scopo
e il tutto della vita) e per lo contrario credendo che quest'obbligo sia maggiore
nello scrivere che nel parlare (e con ragione avuto riguardo al gusto de' lettori
nazionali che altrimenti li disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso
studio che adoprano nella conversazione per renderla aggradevole e piccante
ec. e però il loro stile è così diverso da [93] quello
de' greci e de' latini e degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino
quella prima frase che si presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere
un sentimento. E però le grazie naturali sono affatto sbandite dal loro
stile, anzi è curioso il vedere quello ch'essi chiamino naturalezza e
semplicità, come p.e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti.
In luogo delle grazie naturali il loro stile è tutto composto delle grazie
di società e di conversazione, e quando queste sono conseguite essi chiamano
il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in astratto quando paragonano
lo stil francese all'italiano p.e. o al latino ec. parte avuto riguardo alla
collocazione materiale delle parole e alla costruzione del periodo, e divisione
del discorso ec. paragonata con quella delle altre lingue, parte alla mancanza
delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure troppo evidenti, dei
giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si trovano nei cattivi stili
delle altre lingue, e che nel francese sono affatto straordinari e sarebbero
fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno ragione da un lato,
ma dall'altro non conoscono quella semplicità così intrinseca
come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza la politezza
la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della conversazione, ma sta
tutta nella natura, nella pura espressione de' sentimenti che è presentata
dalla cosa stessa, e che riceve novità e grazia piuttosto dalla cosa,
se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello scrittore, quella schiettezza
di frase le cui grazie sono ingenite e non ascitizie, quel modo di parlare che
non viene dall'abitudine della conversazione e che par naturale solamente a
chi vi è accostumato (cioè ai francesi e agli altri nutriti sempre
di cose francesi) ma dalla natura universale, e dalla stessa materia, quello
insomma ch'era [94] proprio dei greci, e con una certa proporzione, de' latini,
e degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de' trecentisti ec. i quali sono intraducibili
nella lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi sempre vantano
la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi, e di
uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile
che si possa immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta
osservar le traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino
a ridurre nel loro stile di società e di conversazione ch'essi chiamano
semplice (e ch'è divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è
quasi confuso con lei) quei prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità;
e come esse sieno lontane dal conservare in nessun modo il carattere dello stile
originale. Qui comprendo anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non
francesi, e quella generale osservazione fatta anche dalla Staël nella
Biblioteca Italiana che le traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre
un carattere nazionale e diverso dallo stile originale e anche dalle parti più
essenziali di esso, e anche da' sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni
e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non però suo proprio ma
similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue moderne, all'italiano)
si allontanino dall'indole della presente lingua francese, non solo quanto alle
parole e ai modi antiquati, ma principalmente nelle forme sostanziali, e nell'insieme
dello stile, che ora di francese non può avere altro che il nome, e che
sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato anche ogni vestigio d'arcaismo.
E scommetto ch'egli riesce più facile a intendere agl'italiani, che ai
francesi non dotti, massime nelle lingue classiche.
Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza
di pensare seco stesso, perchè noi [95] pensiamo parlando. Ora nessuna
lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl'infiniti
particolari del pensiero. Il posseder più lingue e il potere perciò
esprimere in una quello che non si può in un'altra, o almeno così
acconciamente, o brevemente, o che non ci viene così tosto trovato da
esprimere in un'altra lingua, ci dà una maggior facilità di spiegarci
seco noi e d'intenderci noi medesimi, applicando la parola all'idea che senza
questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella nostra mente. Trovata la
parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già
noto per l'uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità
e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata
e circoscritta. Cosa ch'io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi
pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche
francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa,
e mi venivano più presto trovate. Perchè un'idea senza parola
o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal
nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi
forma visibile, e sensibile, e circoscritta.
Spesse volte il caso ha renduto espressivissima una parola che parrebbe perciò
originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d'etimologia.
P.e. nausea quella parola sì espressiva presso i latini e gl'italiani
(v. questi pensieri p.12.) deriva dal greco ???? nave, onde ??????, ionicamente
??????, e in latino nausea perch'ella suole accadere ai naviganti.
Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea
all'imboccatura del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio, avesse
qualche altro significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria,
perchè non avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi
diamo alle [96] porche, e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare
che fosse anche voce antica e popolare latina nello stesso significato, e così
la porca venisse popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa
guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna
quell'animale o quell'oggetto materiale ch'è chiamato con un nome simile
al loro. V. la Cron. d'Euseb. l.1. c.46. e nota che quel racconto benchè
da scrittor greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un
latino. V. p.511. capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.76. e segg. In questi pensieri si può
osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di straordinario
e passeggero vigore, come avendo fatto uso di liquori che esaltino le forze
del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all'entusiasmo,
nè però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è
tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia e la pietà
non trova luogo allora nel cuor nostro o almeno non son questi i sentimenti
ch'ei preferisce, ma il vigore che proviamo dà un risalto straordinario
alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi nostri, e
quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell'amor patrio,
dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e delle
altre passioni antiche. Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariamente
l'entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato
di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale quanto noceva
e nuoce alla ragione, tanto favorisce l'immaginazione, e i sentimenti focosi
gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso della nostra vita
a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee dolorose, anche in quel
vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci potremo compiacere molto più
facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna di queste tali idee, quantunque
non cercata allora di preferenza. Ma osservo che in quei momenti anche le idee
malinconiche ci si presentano come un aria di festa che la felicità non
ci pare un'illusione, [97] anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti
alla felicità, e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar
e d'entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e
nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere,
o nell'abitudine contratta colla sperienza della vita.
Una delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di un soggetto
che c'interessi, senza potervi interloquire. E molto più se ne parlano
a sproposito, o ignorando una circostanza un fatto ec. che noi potremmo narrar
loro, o in contraddizione coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a concludere
il contrario di quello che noi stimiamo o sappiamo. Il che è penoso anche
quando la cosa non ci riguardi in nessun modo personalmente, nè anche
c'interessi. Ma soprattutto s'ella ci riguarda o interessa, è veramente
opera da uomo riflessivo lo schivare questi tali discorsi in presenza p.e. di
domestici che non vi potrebbero metter bocca, o di altri inferiori, i quali
sentendo toccare il tasto che è loro a cuore, senza potervi avere nessuna
parte attiva, ne proverebbero molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente
e con grande studio alla passiva di ascoltare, non ostante l'inquietudine che
sfuggirebbero rinunziando anche a questa parte, il che però non ci è
possibile.
Si suol dire che per ottenere qualche grazia è opportuno il tempo dell'allegrezza
di colui che si prega. E quando questa grazia si possa far sul momento, o non
costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch'io in questa opinione. Ma
per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche
benchè piccola premura di un vostro affare, non c'è tempo più
assolutamente inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l'uomo
è occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad
altro, ogni volta che o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna
l'interessano vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura
de' negozi delle infelicità dei desiderii altrui. Nei [98] momenti di
gioia viva o di dolor vivo l'uomo non è suscettibile nè di compassione,
nè d'interesse per gli altri, nel dolore perchè il suo male l'occupa
più dell'altrui, nella gioia perchè il suo bene l'inebbria, e
gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E massimamente
la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto
pieno della pietà di se stesso, o prova un'esaltazione di contento che
gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un'illusione,
per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie
tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all'interesse
per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza
scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione di operare dirittamente,
di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di dare un corpo ai suoi
sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto di entusiasmo virtuoso,
magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all'astratto e all'indefinito.
Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà,
ossia da quell'apparenza che noi riguardiamo come realtà, il rivolgerlo
ad un altro scopo, è impresa difficilissima e quello è il tempo
più inopportuno di sollecitar l'interesse altrui per la vostra causa,
quand'esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe
penosissimo al supplicato. Molto più se la gioia sia di quelle rare che
occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di
pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli
con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di
distorlo dal pensiero ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è
sì caro, e quel ch'è più, condurlo ad operare o a risolvere
efficacemente d'operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è
così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta,
cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo
affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito,
e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene,
e rivolgere immediatamente la [99] conversazione sopra quel soggetto.
Udrai dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi
a chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione.
Se intendono del passato, andrà bene. Ma non c'è uomo da cui tu
possa sperar meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamità
o nelle stesse circostanze tue. L'interesse ch'egli prova per se, soffoca tutto
quello che potrebbe ispirargli il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia
del tuo racconto, egli si rivolge sopra di se, e le considera applicandole alla
sua persona. Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la
sente di se stesso unicamente. T'interromperà ad ogni tratto con dirti:
appunto ancor io: oh per l'appunto se sapessi quello ch'io provo: questo è
propriamente il caso mio. Fa al proposito l'esempio d'Achille piangente i suoi
mali mentre ha Priamo a' suoi ginocchi. Si proverà anche d'estenuare
la tua miseria, il tuo bisogno, la ragionevolezza de' tuoi desideri, per ingrandire
quello che lo riguarda: Va bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto:
io all'opposto, e così discorrendo. In somma sarà sempre impossibile
di rivolger l'interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui,
(parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e d'entusiasmo)
e quando l'uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche della
sua gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello d'un
altro, massimamente se sia della stessa specie. Sarà sempre impossibile
attaccar l'egoismo così di fronte, quando anche da lato è così
difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione non isperar mai nulla
da un giovane che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te
senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato
come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio
agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia
simile alla tua ec. ec.
Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo
un nulla, non v'è altro di reale nè altro di sostanza al mondo
che le illusioni.
[100] È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente
greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più
di quello ch'esprimessero. (V. p.86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione
di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza,
per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando
evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come
la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando
e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre
il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l'arte
e l'affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che
la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri.
Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè
gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se
non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l'impressione
della poesia o dell'arte bella, infinita, laddove quella de' moderni è
finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell'oggetto,
lasciavano l'immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche,
che nascono dall'ignoranza dell'intiero. Ed una scena campestre p.e. dipinta
dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte,
destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d'idee confuse, e brillanti
di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza
e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove
che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son
privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non
quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell'oggetto intiero,
e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell'età matura, che
è priva di quegl'inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati
nella fanciullezza.
(8. Gen. 1820.)
[101] La cagione per cui gli uomini di gusto e di sentimento provano una sensazione
dolorosa nel leggere p.e. le continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno
le bellezze gli stili ec. delle opere classiche, (v. quello che dice il Foscolo
della continuazione del Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo
avviliscono presso noi stessi l'idea di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti
così affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza. Il vederle
così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo ridicolo,
ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per quei
grandi originali, ce la fa quasi parere un'illusione, ci dipinge come facili
triviali e comuni quelle doti che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima
di vedersi quasi in procinto di dover rinunziare all'idolo della nostra fantasia,
e rapire in certo modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l'oggetto del
nostro amore e della nostra venerazione ed ammirazione. Perchè in ogni
sentimento dolce e sublime entra sempre l'illusione, ch'è il più
acerbo dolore il vedersi togliere e svelare. Perciò quelle tali imitazioni
ci sarebbero gravi quando anche gareggiassero cogli originali, togliendoci l'inganno
di quell'unico e impareggiabile che forma il caro prestigio dell'amore e della
maraviglia. Nella stessa guisa che ci riesce dolorosissimo il vedere o porre
in ridicolo, o travisare, o imitare gli oggetti de' nostri sentimenti del cuore;
(v. Staël Corinne liv. Penult. ch. [6.] p. [328.] ediz. quinta di Parigi)
cosa che ci fa o dubitare o certificare della loro vanità reale, e della
nostra illusione, e ci strappa a quei soavi inganni che costituiscono la nostra
vita: nè c'è cosa che abbia questa forza più della precisa
imitazione o somiglianza di un altro oggetto che non possiamo pregiare nè
amare (sia per qualche grado di inferiorità reale, di ridicolo, di travisamento
ec. sia anche quando la somiglianza non abbia niente [102]o poco d'inferiore)
con quello che pregiamo ed amiamo, e che occupa il cuore e l'immaginazione nostra
in modo che ne siamo gelosissimi e paurosi, e cerchiamo in tutti i modi di custodirlo.
(8. Gen. 1820.)
È pure un tristo frutto della società e dell'incivilimento umano
anche quell'essere precisamente informato dell'età propria e de' nostri
cari, e quel sapere con precisione che di qui a tanti anni finirà necessariamente
la mia o la loro giovinezza ec. ec. invecchierò necessariamente o invecchieranno,
morrò senza fallo o morranno, perchè la vita umana non potendosi
estendere più di tanto, e sapendo formalmente la loro età o la
mia io veggo chiaro che dentro un definito tempo essi o io non potremo più
viver goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci un'idea dell'ignoranza della
propria età precisa ch'è naturale, e si trova ancora comunemente
nelle genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti i mali
ordinari e certi che il tempo reca alla nostra vita, mancando la previdenza
sicura che determina il male e lo anticipa smisuratamente, rendendoci avvisati
del quando dovranno finire indubitatamente questi e quei vantaggi della tale
e tale età di cui godo ec. Tolta la quale l'idea confusa del nostro inevitabile
decadimento e fine, non ha tanta forza di attristarci, nè di dileguare
le illusioni che d'età in età ci consolano. Ed osserviamo quanto
sia terribile in un vecchio p.e. d'80. anni, quel sapere determinatamente che
dento 10. anni al più egli sarà sicuramente estinto, cosa che
ravvicina la sua condizione a quella di un condannato, e toglie infinitamente
a quel gran benefizio della natura d'averci nascosto l'ora precisa della nostra
morte che veduta con precisione basterebbe per istupidire di spavento, e scoraggiare
tutta la nostra vita.
Ci sono tre maniere di vedere le cose. L'una e la più beata, di quelli
per li quali esse hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli
[103] uomini di genio e sensibili, ai quali non c'è cosa che non parli
all'immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi
e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll'infinito e
coll'uomo, e una vita indefinibile e vaga, in somma di quelli che considerano
il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell'animo loro.
L'altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver
molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto
dell'immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p.e. alla
scienza, alla politica ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa,
trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle
appariscono, e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano.
Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che
senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell'esistenza,
riempie però la vita, di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e
uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla
nascita al sepolcro. La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la
sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè corpo,
ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini
per lo più di sentimento che dopo l'esperienza e la lugubre cognizione
delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza toccare
la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità
delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti
alla vita per modo che senza esse non è vita. E qui voglio notare come
la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel
di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell'uomo, sia miserabile
e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla
stessa saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero della ragione. Perchè
chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo
e certissimo delle cose, in maniera [104] che la successone e varietà
degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe
pazzo assolutamente e per ciò solo, giacchè volendosi governare
secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue
operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo
facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è
contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima
pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa
ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se
non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa,
e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla
ragione, stando fra ambedue e non mai come si dice volgarmente con questa sola,
e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura
di assoluta e necessaria pazzia.
Dopo che l'eroismo è sparito dal mondo, e in vece v'è entrato
l'universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l'uno amico
all'altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben
difficilissimo. E perciò quantunque si sia sempre detto che l'uguaglianza
è l'una delle più certe fautrici dell'amicizia, io trovo oggidì
meno verisimile l'amicizia fra due giovani che fra un giovane, e un uomo di
sentimento già disingannato del mondo, e disperato della sua propria
felicità. Questo non avendo più desideri forti è capace
assai più di un giovane d'unirsi ad uno che ancora ne abbia, e concepire
vivo ed efficace interesse per lui, formando così un'amicizia reale e
solida quando l'altro abbia anima da corrispondergli. E questa circostanza mi
pare anche più favorevole all'amicizia, che quella di due persone egualmente
disingannate, perchè non restando desideri nè interessi in veruno,
non resterebbe materia all'amicizia e questa rimarrebbe limitata alle parole
e ai sentimenti, ed esclusa dall'azione. Applicate questa osservazione al caso
mio col mio degno e singolare amico, e al non averne trovato altro tale, quantunque
conoscessi ed amassi e fossi amato da uomini d'ingegno e di ottimo cuore.
(20. Gen. 1820.)
[105] E una delle gran cagioni del cangiamento nella natura del dolore antico
messo col moderno, è il Cristianesimo, che ha solennemente dichiarata
e stabilita e per così dire attivata la massima della certa infelicità
e nullità della vita umana, laddove gli antichi come non doveano considerarla
come cosa degna delle loro cure, se gli stessi Dei secondo la loro mitologia
s'interessavano sì grandemente alle cose umane per se stesse (e non in
relazione a un avvenire), erano animati dalle stesse passioni nostre, esercitavano
particolarmente le nostre stesse arti (la musica, la poesia ec.), e in somma
si occupavano intieramente delle stesse cose di cui noi ci occupiamo? Non è
però ch'io consideri intieramente il cristianesimo come cagion prima
di questo cangiamento, potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso
(come opina Beniamino Constant in un articolo sui PP. della Chiesa riferito
nello Spettatore) ma solamente come propagatore principale di tale rivoluzione
del cuore.
Non per questo che il piacere del dolore è conforto all'infelicità
moderna, l'ignoranza di esso piacere era difetto alla felicità antica.
Come nella speranza o in qualunque altra disposizione dell'animo nostro, il
bene lontano è sempre maggiore del presente, così per l'ordinario
nel timore è più terribile il male.
Per le grandi azioni che la maggior parte non possono provenire se non da illusione,
non basta ordinariamente l'inganno della fantasia come sarebbe quello di un
filosofo, e come sono le illusioni de' nostri giorni tanto scarsi di grandi
fatti, ma si richiede l'inganno della ragione, come presso gli antichi. E un
grande esempio di questo è ciò che accade ora in Germania dove
se qualcuno si sacrifica per la libertà (come quel Sand uccisore di Cotzebue)
non accade come potrebbe parere, per effetto della semplice antica illusione
di libertà, e d'amor patrio e grandezza di azioni, ma per le fanfaluche
mistiche di cui quegli [106] studenti tedeschi hanno piena la testa, e ingombra
la ragione come apparisce dalle gazzette di questi giorni dove anche si recano
le loro lettere piene di opinioni stravaganti e ridicole, che fanno dell'amor
della libertà una nuova religione, tutta nuovi misteri.
(26. Marzo 1820. e v. le Gaz. di Mil. del principio di questo mese.)
Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno de' miei fratellini, tu
mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per
la briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto,
e non per questo erano altro che miei fratelli. Io mi ricordo spesso di questo
fatto, quando io vedo un uomo (sovente di nessun pregio) servito riverentemente
da questo e da quello in cento minuzie, ch'egli potrebbe farsi da se, o fare
ugualmente a quelli che lo servono, e forse n'hanno più bisogno di lui,
che alle volte sarà più sano e gagliardo di quanti ha dintorno.
E dico fra me, nè i miei fratelli erano cavalli, ma uomini quanto me,
e questi servitori sono uomini quanto il padrone e simili a lui in ogni cosa;
e tuttavia quelli si lasciavano guidare benchè fossero tanto cavalli
quant'era io, e questi si lasciano comandare; e tra questi e quelli non vedo
nessun divario.
(26. Marzo 1820.)
Le genti per la città dai loro letti nelle lor case in mezzo al silenzio
della notte si risvegliavano e udivano con ispavento per le strade il suo orribil
pianto ec.
Stile francese. Stile di conversazione. Stile ordinario de' nostri pittori.
Stile arcadico, o frugoniano.
Come potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi della
sua propria nullità? E questo certo e profondo sentimento (massime nelle
anime grandi) della vanità e insufficienza di tutte le cose che si misurano
coi sensi, sentimento non di solo raziocinio, ma vero e per modo di dire sensibilissimo
sentimento e dolorosissimo, come non dovrà [107] essere una prova materiale,
che quella sostanza che lo concepisce e lo sperimenta, è di un'altra
natura? Perchè il sentire la nullità di tutte le cose sensibili
e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere
oggetti di natura diversa e contraria, ora questa facoltà come potrà
essere nella materia? E si noti ch'io qui non parlo di cosa che si concepisca
colla ragione, perchè infatti la ragione è la facoltà più
materiale che sussista in noi, e le sue operazioni materialissime e matematiche
si potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia, ma parlo di un
sentimento ingenito e proprio dell'animo nostro che ci fa sentire la nullità
delle cose indipendentemente dalla ragione, e perciò presumo che questa
prova faccia più forza, manifestando in parte la natura di esso animo.
La natura non è materiale come la ragione.
Il riso dell'uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno
di disperazione già matura. V. p.188.
Mi diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della disperazione.
Se noi diciamo tomba e i greci dicevano ???????nello stesso significato chi
non vorrà credere che gli antichi latini abbian detto tumbus o tumba
dal greco, onde noi tomba mutato l'u in o secondo il solito? Perchè dal
greco immediatamente non è possibile che il volgare l'abbia preso, (e
notate che in greco moderno si pronunzia timbos, sicchè se questa derivazione
non fosse antichissima noi non diremmo tomba, ma timba) e d'altronde le due
parole sono troppo somiglianti, e nello stesso valore, perchè l'una non
derivi evidentemente dall'altra. V. il Du Fresne e il Forcellini sì per
questa come per tutte le altre parole ch'io credo antiche e latine in questi
pensieri.
(15. Apr. 1820.)
???????espressamente per cubiculum si trova in Arriano Stor. di Alessandro l.7.
verso il fine. Transversare per attraversare è voce non solamente de'
bassi tempi ma antica, e sta nel Moretum. Camminare la bugia su pel naso, si
diceva anche ai tempi di Teocrito. Della voce ?????? v. Fabric. B. G. in nota
ad Phot. Cod.213. ed. vet. t.9. p.449.
[108] Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi
un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante e con una cert'aria
d'impotenza, tu ti senti intenerire da questa vista, e innamorare di quel fanciullo.
Se tu vedi una bella donna inferma e fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio
a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo
sesso, tu ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella
debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere
e sacrificare tutto te stesso all'amore e alla difesa sua. Cagione di questo
effetto è la compassione, la quale io dico che è l'unica qualità
e passione umana che non abbia nessunissima mescolanza di amor proprio. L'unica,
perchè lo stesso sacrifizio di se all'eroismo alla patria alla virtù
alla persona amata, e così qualunque altra azione la più eroica
e più disinteressata (e qualunque altro affetto il più puro) si
fa sempre perchè la mente nostra trova più soddisfacente quel
sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed ogni qualunque operazione
dell'animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine nell'egoismo,
per quanto questo sia purificato, e quella ne sembri lontana. Ma la compassione
che nasce nell'animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo
della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente
dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza
di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì
rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le
qualità le più riguardevoli e distintive dell'uomo sensibile e
virtuoso. [109] Se già la compassione non avesse qualche fondamento nel
timore di provar noi medesimi un male simile a quello che vediamo. (Perchè
l'amor proprio è sottilissimo, e s'insinua da per tutto, e si trova nascosto
ne' luoghi i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più
impenetrabili a questa passione). Ma tu vedrai, considerando bene, che c'è
una compassione spontanea, del tutto indipendente da questo timore, e intieramente
rivolta al misero.
Baggeo deriva altresì dal latino. V. il mio discorso sulla fama di Orazio.
E il francese planer dal greco ????????, onde anche in latino le stelle erranti
si chiamano planetae cioè errabundi, ed è ben verisimile che la
parola francese sia derivata (non essendo probabile dal greco) da planari detto
forse volgarmente in latino nello stesso senso. E nota in questo proposito i
due participi palans, tis, e palatus, a, um errante, segno certo di un antico
verbo palari, fatto da ???????? colla metatesi della ? (come da ???? rapio da
??????forma) e colla conseguente elisione della (. Buonus per bonus è
in Frontone, e vedi le ortografie del Cellario e del Manuzio.
Da ?????serpo, da ??? sal, da ?????salio e salto (ora non si trova altro che
???????), da ??? semi- (onde forse i francesi demi), da ???? sudor, benchè
con altro significato.
L'ubbriachezza è madre dell'allegrezza, così il vigore. Che segno
è questo? Perchè l'ubbriachezza non cagiona la malinconia? Prima
perchè questa deriva dal vero e non dal falso, e l'ubbriachezza cagiona
la dimenticanza del vero, dalla quale sola può nascere l'allegrezza.
Secondo, che gli uomini nello stato di natura, cioè di vigore molto maggiore
del presente, eran fatti per esser felici, e abbandonarsi alle illusioni, e
vederle e sentirle come cose vive e corporee e presenti.
Le parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la
sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno [110] immagini
accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le
voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto,
e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono
la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto
più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per
lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza
noccia a quella delle parole, perchè l'abbondanza di tutte due le cose
non fa pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà
delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia
ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità.
Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua
al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni
sorta di cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benchè questo la
rende facile e comune, perch'è la lingua più artifiziale e geometricamente
nuda ch'esista oramai. Perciò ha bisogno di grandi scrittori che appoco
appoco la tornino ad assuefare allo stile e alle voci del Bossuet del Fenelon
e degli altri sommi prosatori del loro buon secolo, e così nella poesia.
Mad. di Staël mostra col fatto di averlo conosciuto, e il suo stile ha
molto della pastosità dell'antico a confronto dell'aridità moderna
e di quegli scheletri (regolari ma puri scheletri) di stile d'oggidì.
Ed anche non farebbe male ad attingere alle antiche sue fonti d'Amyot e degli
altri tali che usati con discrezione ridarebbero alla lingua quel sugo ch'ella
oramai ha perduto anche per la monotona e soverchia regolarità della
sua costruzione (che anch'essa contribuisce massimamente a renderla comune in
Europa) di cui tanto si lagnava il Fenelon ed altri insigni. (V. l'Algarotti
Saggio sulla lingua francese.) Adattiamo questa osservazione a cose meno materiali.
[111] V. p.100. di questi pensieri. E riducendo l'osservazione al generale troveremo
il suo fondamento nella natura delle cose, vedendo come la filosofia e l'uso
della pura ragione che si può paragonare ai termini e alla costruzione
regolare, abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come tutto il
bello di questo mondo consista nella immaginazione che si può paragonare
alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata. Le voci greche
(le voci non i modi) di cui s'è tanto ingombrata la lingua francese in
questi tempi, non possono nelle nostre lingue esser altro che termini, con significazione
nuda e circoscritta, e aria tecnica e geometrica senza grazia e senza eleganza.
E quanto più ne abbonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto
più toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua. Perchè
la forza e l'evidenza consiste nel destar l'immagine dell'oggetto, e non mica
nel definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate nella nostra
lingua. Le metafore d'ogni sorta sono adattatissime per questa cagione alla
bellezza naturale e al colorito del discorso. E la lingua italiana studiata
di tanti scrittorelli d'oggidì che ancorchè sia piena di modi
e parole native, riesce sì misera e dissonante, vien tale (oltre all'affettazione
che si manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio italiano,
e stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e stile modellato
giudiziosamente sull'antico, e ridotti in succo e sangue proprio gli antichi
scrittori) perchè fa bruttissimo vedere l'aridità moderna che
questi non sanno schivare, colla freschezza il colorito la morbidezza la vistosità
l'embonpoint la floridezza il vigore ec. antico.
Gridare a testa o quanto se n'ha in testa è frase antichissima e greca.
Manca ne' Lessici gr. e lat. ma si trova in Arriano (ind. c. 30.): ?????????????????????????????????????????quantum
capita ferre poterant acclamasse interpreta il traduttore.
(30. Aprile 1820.)
[112] Quanto i greci facessero caso della bellezza, oltre alla parola ?????(??????notata
già in questi pensieri, vedi un luogo singolare di un antico in Clem.
Aless. Cohort. ad gentes c.4. dopo il mezzo ediz. di Venez. t.1. p.49. lin.
ult. p.17. nel marg. lat. e p.37. nel marg. gr. Qual è ora quel genitore
che domandi a Dio quella grazia come un bene principale e suo proprio e dei
figli? Intorno ai quali domanderanno piuttosto tutt'altro, sanità, ingegno,
docilità, virtù, abilità nei negozi, favore dei grandi,
ricchezza ec. ec. ma bellezza quando mai? Vedo che m'ha ingannato quella bestia
del traduttore, il quale dice formosos liberos, e il greco ?????????????. Vi
so dir io che la differenza è piccola da vero.
Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse
e definisse e stabilisse l'idea del perpetuo nemico della virtù dell'innocenza
dell'eroismo della sensibilità vera, d'ogni singolarità dell'animo
della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la
società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali
nemici dell'uomo, essendo pur troppo vero che come l'individuo per natura è
buono e felice, così la moltitudine (e l'individuo in essa) è
malvagia e infelice. (V. p.611. capoverso 1.)
La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perchè
non ha nessuna apparenza d'eroico.
Impertinente è una parola tutta latina, derivata da un verbo latino ec.
però è naturale che gli antichi o volgari latini dicessero impertinens.
(31. Maggio 1820.)
La gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d'amore, specialmente
stranieri, per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità
e unisono al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari
circostanze del Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch'egli
versa il suo cuore, e gli altri l'anatomizzano (anche i più [113] eccellenti)
ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano.
La cagione di quello che dice Montesquieu (Grandeur ec. c.4. Amsterdam 1781.
p.31. fine) è non solamente che nessun privato perde quanto il principe
nella rovina di uno stato, ma eziandio che nessuno crede di poter cagionare
quella rovina che non può impedire.
Agevole viene da agere come facile da facere, e questo agere essendo ignoto
alla nostra lingua, non è verisimile che il suo derivato agevole non
ci sia venuto già bello e formato dagli antichi latini che avranno detto
agibilis.
A colui che occupa una nuova provincia o per armi o per trattato è molto
più vantaggioso il suscitarci e il mantenerci due fazioni, l'una favorevole
e l'altra contraria al nuovo governo, di quello che averla tutta ubbidiente
e sottomessa e indifferente dell'animo. Perchè la prima fazione essendo
ordinariamente più forte della seconda, e perciò questa non potendo
nuocere, si cavano da ciò due vantaggi. L'uno d'indebolire i paesani
e renderli molto più incapaci di riunirsi insieme per intraprender nulla,
di quello che se tutti fossero indifferenti, il che poi viene a dire tacitamente
malcontenti. L'altro di avere un partito per se molto più energico e
infervorato di quello che se non esistesse un partito contrario, perchè
i principi non dovendo aspettarsi di essere amati nè favoriti dai sudditi
per se stessi nè per ragione, debbono cercare di esserlo per odio degli
altri, e per passione. Giacchè il contrasto eccita anche quei sentimenti
che in altro caso appena si proverebbero, e quello che non si farebbe mai per
affetto proprio, si fa per l'opposizione [114] altrui, come i migliori cattolici
sono quelli che vivono in paese eretico, e così l'opposto, nè
ci ebbe mai tanto ostinati e infocati partigiani del papa come a tempo dei Ghibellini.
V. Montesquieu l. c. ch.6. p.68. (5 Giugno 1820.) E neanche dai benefizi i principi
possono aspettar tanto quanto dallo spirito di parte e dal contrasto che rende
l'affare come proprio di colui che lo sostiene, laddove la gratitudine è
un debito verso altrui. E l'esperienza di tutti i secoli dimostra quanta gratitudine
ispirino i benefizi de' regnanti e dei grandi. E se bene gli uomini hanno imparato
a regolare i capricci e le passioni loro, queste però naturalmente possono
in loro molto più dell'interesse.
(5. Giugno 1820.)
Tanto è vero che l'anarchia conduce dirittamente al dispotismo, e che
la libertà dipende da un'armonia delle parti, e da una forza costante
delle leggi e delle istituzioni della repubblica, che Roma non fu mai tanto
libera nel senso comune di questa parola, quanto nei tempi immediatamente precedenti
la tirannia. Vedete gli affari di Clodio, e Montesquieu l. c. p.115. lin. ult.
e 116. lin.1. e 5. chapit.11.
(6. Giugno 1820.)
E lo stesso si può dir della Francia passata di salto da una libertà
furiosa al dispotismo di Buonaparte.
La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla
ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte. Consideriamo
tutte le nazioni antiche, la persiana a tempo di Ciro, la greca, la romana.
I romani non furono mai così filosofi come quando inclinarono alla barbarie,
cioè a tempo della tirannia. E [115] parimente negli anni che la precedettero,
i romani aveano fatti infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione
delle cose, ch'era nuova per loro. Dal che si deduce un altro corollario, che
la salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia
nè la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le
cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l'entusiasmo, in somma la
natura, dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più
piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da
una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l'intiero e l'intimo
delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb'essere il frutto dei
lumi straordinari di questo secolo.
(7. Giugno 1820.)
La barbarie non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura.
(7. Giugno 1820.)
Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano
solamente utili alla guerra, o ad eccitare l'amor della gloria ec. ma contribuivano,
anzi erano necessari a mantenere il vigor dell'animo, il coraggio, le illusioni,
l'entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole (vedete gli altri miei pensieri)
in somma quelle cose che cagionano la grandezza e l'eroismo delle nazioni. Ed
è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà
intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrario l'imbecillità
del corpo è favorevolissima al riflettere, (7. Giugno 1820.) e chi riflette
non opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui.
[116] La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in
questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per
passione, e la stessa religion cristiana che pare ed è alienissima dalla
passione, tuttavia perchè l'umano si mescola in tutto, non è stata
mai seguita e difesa con vero interesse se non quando ci erano portati da spirito
di parte, da entusiasmo ec. Ed anche ora i divoti fanno come un corpo, e una
classe la quale s'interessa per la religione solamente per ispirito di partito,
e quindi le loro malignità verso i non divoti o gl'irreligiosi, e l'astio
ec. e le derisioni, tutte cose umane e passionate, e non divine nè ragionate
nè fatte con posatezza e freddezza d'animo.
(7. Giugno 1820.)
Gli antichi supponevano che i morti non avessero altri pensieri che de' negozi
di questa vita, e la rimembranza de' loro fatti gli occupasse continuamente,
e s'attristassero o rallegrassero secondo che aveano goduto o patito quassù,
in maniera che secondo essi, questo mondo era la patria degli uomini, e l'altra
vita un esilio, al contrario de' cristiani.
(8. Giugno 1820.) V. p.253.
Dovunque si formano le scienze o le arti o qualunque disciplina, quivi se ne
creano i vocaboli. Se noi italiani non volevamo usar parole straniere nella
filosofia moderna, dovevamo formarla noi. Quelle discipline che noi abbiamo
formate (p.e. l'architettura) hanno i nostri vocaboli anche presso le altre
nazioni.
La cagione di quello che dice Montesquieu, l. c. ch.11. p.124. fine è
che l'uomo s'offende più del disprezzo che del danno. E la cagione di
questo è l'amor proprio il quale considera più noi stessi che
i nostri comodi. Vero è che certe anime basse non si curano del disprezzo,
e non si dolgono che [117] dei danni. La cagione è che in questi l'amor
proprio essendo più basso, ha per oggetto prima i beni materiali che
la stima l'onore la dignità della persona, i quali diremmo in certo modo
beni spirituali. Per lo contrario ci sono ancora degli uomini superiori i quali
disprezzando il disprezzo, si guardano però dai danni, perchè
questi son cose reali, e il disprezzo appresso a poco ci nuoce tanto quanto
noi lo stimiamo.
In quello che dice Montesquieu, l. c. ch.13. p.138. e nella nota, osservate
la differenza de' tempi e vedete l'esito de' regicidi francesi a' tempi nostri.
La cagione è che lo spirito del tempo è, come si dice, di moderazione,
vale a dire d'indolenza e noncuranza, che ora si allega come per tutta difesa
la differenza delle opinioni, quando una volta due persone differenti d'opinioni
in certi punti, erano lo stesso che due nemici mortali, e che ancora considerando
un uomo come reo e scellerato, la virtù ora non interessa tanto come
una volta, da volerlo punito a tutti i patti. Questa vendetta della virtù
si voleva e si cercava una volta in contemplazione di essa virtù. Ora
che questa si è conosciuta per un fantasma, nessuno si cura di far male
agli altri, e procacciarsi odii e nimicizie che son cose reali, per la causa
di un ente illusorio.
In proposito di quello che dice Montesquieu della codardia fortunata e propizia
di Ottaviano (l. c. ch.13. p.139. fine) considerate che se il Senato l'avesse
veduto [118] coraggioso l'avrebbe creduto intraprendente. Ora chi intraprende,
intraprende per se, e l'intraprendere per se in Ottaviano ch'era l'erede e il
figlio adottivo di Cesare, non poteva esser altro che il cercare la monarchia.
Il vederlo debole fece credere che avrebbe preso il partito dei buoni ch'è
il meno pericoloso, perchè ha per se l'opinione pubblica, ed è
la strada retta e ordinaria. Gli arditi per lo più son cattivi, e il
partito buono è quello dei più deboli, perchè non ci vuole
ardire per abbracciare il partito ovvio e inculcato dalle leggi dalla natura
e dall'opinione sociale, cioè quello della virtù, ma bensì
per entrare nel partito odioso del vizio. Il fatto però sta che era già
venuto anche per Roma il tempo che la politica dovea prevalere al coraggio come
ora, e in tutti i tempi corrotti.
(9. Giugno 1820.)
Altro è primitivo altro è barbaro. Il barbaro è già
guasto, il primitivo ancora non è maturo.
Non bisogna credere che un popolo non sia barbaro perchè non somiglia
ad altri barbari (come se i maomettani non fossero barbari perchè non
sono antropofagi). Vedete quante sorte di barbarie si trovano al mondo, laddove
la natura è una sola. Perchè questa ha leggi immutabili e fisse,
ma la corruttela varia infinitamente secondo le cagioni, e le circostanze vale
a dire i costumi le opinioni i climi i caratteri nazionali ec. ec.
(9. Giugno 1820.)
Una gran differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa
che la legge civile o umana si può dimenticare o per [119] distrazione
o per altro, e infrangerla senza leder la coscienza, (come s'io mangio carne
non ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione)
laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere
che uno la infranga non credendo, perch'ella ci sta sempre nel cuore come un
istinto che ci avverte continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.
La naturalezza dello scrivere è così comandata che posto il caso
che per conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io considero che questa
è come di legge civile, e quella come di legge naturale, la qual legge
non esclude caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba soffrire la società
o l'individuo, come non è straordinario che accada.
È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna
del mondo per costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che ora
tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi
odio degli stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode, perchè
contrasta assurdamente coll'eccessivo moderno di tutte le altre loro opinioni
costumi ec. Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci finalmente
era ragionevole, perchè non avendo conosciuto i romani se non tardissimo,
(v. Montesquieu Grandeur ec. ch.5. p.48. e la nota) non c'era effettivamente
altra nazione che gli uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è
noto che non ostante il loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi
[120] nel giudicare degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre
tutte quelle novità forestiere che giudicavano utili, quando anche per
adottar queste bisognasse lasciare o correggere le loro proprie usanze.
Nelle repubbliche le cagioni degli avvenimenti appresso a poco erano manifeste,
si pubblicavano le orazioni che aveano indotto il popolo o il consiglio a venire
in quella tal deliberazione, le ambascerie si eseguivano in pubblico, ec. e
poi dovendosi tutto fare colla moltitudine le parole e le azioni erano palesi,
ed essendoci molti di egual potere, ciascuno era intento a scoprire i motivi
e i fini dell'altro e tutto si divulgava. Vedete p.e. le lettere di Cicerone
che contengono quasi tutta la storia di quei tempi. Ma ora che il potere è
ridotto in pochissimi, si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e
il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte, o quelle
statue fatte camminare da persone nascostevi dentro. E il mondo umano è
divenuto come il naturale, bisogna studiare gli avvenimenti come si studiano
i fenomeni, e immaginare le forze motrici andando tastoni come i fisici. Dal
che si può vedere quanto sia scemata l'utilità della storia. V.
Montesquieu l.c. ch.13. fine. V. p.709. capoverso 1.
La cagione principale di ciò che dice Montesquieu ch.14. p.155. è
che il popolo quantunque sia composto d'individui tutti animati da passioni
basse, contuttociò queste essendo particolari e infinite, non si può
cattivare se non per le passioni generali, cioè con quelle cose che la
[121] natura ha fatte piacevoli generalmente, amabilità, virtù,
coraggio, servigi prestati, abilità negli affari, integrità, onestà,
onoratezza ec. Sicchè le elezioni del popolo non possono costringere
il candidato ad abbassarsi se non in piccole cose, anzi per lo contrario, ad
ingrandirsi. Ma le passioni dell'individuo sono piccole e basse, e quando l'elezione
dipende da lui, per cattivarselo è necessario coll'abbiezione dell'animo
farsi indegno di qualunque onore o vantaggio, e così le dignità
è naturale che tocchino per lo più agl'indegni. Oltre la grande
spinta che dà all'ingegno all'eloquenza e a tutte le nobili facoltà
il desiderio di cattivarsi la moltitudine, che ordinariamente non può
giudicare se non colle regole vere, perchè queste sole sono comuni.
(10. Giugno 1820.)
Perciò i giudizi ec. del tempo, e del pubblico sono sempre giusti riguardo
a qualunque oggetto.
La cagion vera secondo me di quello che dice Montesquieu loc. cit. ch.14. p.157.
di uno fatto accusare da Tiberio per aver venduta colla sua casa la statua dell'imperatore,
e di un altro che ec. è che il materiale e il sensibile, avea molto più
forza sugli antichi, ed era molto più considerato in quei tempi d'immaginazione,
che in questi nostri tutti intellettuali.
Le cagioni di quello che nota Montesquieu ch.14. fine, e se ne maraviglia, sono
1. che ciascuno è tanto infelice quanto esso crede, e i poveri e ignoranti
si credono assai meno infelici di quello che fanno i ricchi e istruiti, non
già che quelli non si credano molto più sventurati di questi,
ma misurando e ragguagliando l'opinione [122] della propria infelicità
quale ambedue la concepiscono si trova molto maggiore in questi che in quelli.
2. che di un popolo mezzo barbaro è tutto proprio il timore. 3. che per
disprezzar la vita e le sventure non basta essere infelici, ma si richiede magnanimità
e profondità di sentimenti, e forza d'animo, cose ignote alla plebe,
altrimenti prevale il desiderio naturale e cieco della propria conservazione.
4. che la prosperità dà confidenza, ma le continue sventure primieramente
in luogo di far l'uomo generoso, l'avviliscono col sentimento della propria
debolezza, e gli levano il coraggio, massime se egli non è magnanimo
per natura o per coltura; poi la trista esperienza rende l'uomo tremebondo a
causa del nessuno sperare, e dell'aspettar sempre male. 5. finalmente che chi
ha pochissimo, teme più per quel poco, perchè non è avvezzo
a confidare, nè a immaginar nessuna risorsa, avendone sempre mancato,
quando sia un popolo vissuto sempre nella inazione come i moderni, e non avvezzo
a continue imprese e vicissitudini di fortuna, come gli antichi romani ancorchè
poveri.
La cagione che adduce Montesquieu dell'esser sovente il principio de' cattivi
regni, come il fine dei buoni, (ch.15. p.160.) non è buona, perchè
va a terra quando un cattivo principe succede a un buono. Io credo che la vera
sia, prima, che il suo fine essendo di regnar male, egli fa bene nel principio
per inesperienza, e male nell'ultimo, al contrario dei buoni, poi, che una certa
generosità naturale [123] nei primi momenti della prosperità e
del potere è verisimile anche nei cattivi, anzi sarebbe inverisimile
il contrario. Poi coll'assuefazione a quello stato si torna a riprendere il
proprio carattere, interrotto da quella novità straordinaria, come avviene
spessissimo nella vita.
(11. Giugno 1820.)
L'efficacia del materiale e dello straordinario anche a questi tempi si può
arguire fra le mille altre cose dal fatto ultimamente accaduto di quei giovani
alunni di S. Michele di Roma usciti tutti in folla e andati al palazzo papale
a reclamare sotto le finestre del Ministro contro gli abusi dell'amministrazione
dell'ospizio. Un memoriale presentato in nome di tutti loro, sarebbe stato indizio
dello stessissimo malcontento, ma non avrebbe fatto lo stesso effetto. Da questo
caso si può anche argomentare quanto il complotto sia più facile
nei convitti e nella milizia, dove ciascuno considerando gli altri come compagni
e camerate, ci pone più confidenza.
Lo spatrio cioè il trapiantarsi d'un paese in un altro era possiamo dire
ignoto agli antichi popoli civili, finchè durò la loro civiltà,
segno di quanto fosse il loro amor patrio, e l'odio o disprezzo degli stranieri.
Al contrario quando declinarono alla barbarie. (V. Montesquieu Grandeur ec.
ch.2. p.20. fine e ch.16. p.179. e la nota 6.) Le colonie non erano altro che
ampliazioni della patria, dove ciascuno restava fra' suoi compatriotti, colle
stesse leggi, costumi ec.
[124] La cagione di quella contentezza di noi stessi che proviamo nel leggere
le vite o le gesta dei grandi e virtuosi (v. Montesquieu l.c. ch.16. p.176.)
è che (eccetto i malvagi di professione e di coscienza, i quali certo
non provano questo effetto) l'uomo o è buono, o mezzo buono mezzo cattivo,
come la maggior parte, nel qual caso ciascuno sente che l'istinto suo naturale
e la sua destinazione è la virtù, e si considera appresso a poco
come virtuoso. Ora quello che gli dà una grande idea della virtù
e gli mostra coll'esempio a che cosa porti, e come si faccia ammirare, accresce
l'idea di se stesso, ancorchè uno non vi rifletta, cioè ingrandisce
l'opinione e la stima di quella qualità, che ciascuno, anche senza avvedersene
distintamente, sente esser naturale in lui, e propria del suo essere. Così
dico del coraggio, e dell'eroismo ec. Oltre che quell'esempio e la lode e la
fama risultatane a quei grandi uomini, servendo come di sprone ad imitarli,
ciascuno in quel momento perchè prova un certo desiderio benchè
ordinariamente inefficace di fare altrettanto, si crede capace confusamente
di farlo se si presentasse l'occasione, la quale è lontana, e in lontananza
si vedono molte belle cose, e si fanno molti bei propositi. Omero farà
sempre in tutti questo effetto, e un francese diceva che gli uomini gli parevano
un palmo più alti quando leggeva Omero. Per questo lato anche i cattivi
sono suscettibili del detto effetto.
(12. Giugno 1820.)
[125] Per li fatti magnanimi è necessaria una persuasione che abbia la
natura di passione, e una passione che abbia l'aspetto di persuasione appresso
quello che la prova.
In proposito di quello ch'io dico nei miei pensieri p.112. e nel luogo quivi
citato, osservate che ora in uno stile sostenuto sarebbe vergogna il dare all'uditore
un epiteto che ricordasse un pregio del corpo. Non così presso i greci,
sia in ordine alla bellezza, sia alla robustezza ec. Il corpo non era in così
basso luogo presso gli antichi come presso noi. Par che questo sia un vantaggio
nostro, ma pur troppo le cose spirituali non hanno su di noi quella forza che
hanno le materiali, ed osservatelo nella poesia ch'è la imitatrice della
natura, e vedete ch'effetto facciano i poeti metafisici, rispetto agli altri
poeti.
La filosofia indipendente dalla religione, in sostanza non è altro che
la dottrina della scelleraggine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente,
e come l'hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente. Perchè
tutto il bello e il buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù,
la giustizia, la magnanimità ec. essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie,
quella scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura
aveva nascoste sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo
le rivelate, per necessità viene a concludere che il vero partito in
questo mondo, è l'essere un perfetto egoista, e il far sempre quello
che ci torna in maggior comodo o piacere.
(16. Giugno 1820.)
[126] Arriano ancorchè detto il secondo Senofonte, e vicinissimo certamente
a lui nella semplicità e purità dello stile, e nella negligente
varietà e irregolarità della costruzione ec. tuttavia si distingue
da lui in questo ch'egli (forse come uomo vissuto lungo tempo fra i romani,
forse per istudio di Tucidide, forse che la qualità ch'io dirò
di Senofonte non era propria di quel tempo tanto alieno dall'antica candidezza)
è più grave di Senofonte, e non ha quell'amabile familiarità
e quasi affabilità di Senofonte che tratta il lettore come suo amico,
e gli racconta o gli parla come se fosse presente. Così nelle orazioni
storiche, Arriano va sempre un mezzo tuono più alto di Senofonte, il
quale nelle stesse orazioni è piuttosto espositore della cosa che oratore.
L'impressione che produce l'annunzio improvviso di una grave sventura, non si
accresce in proporzione della maggiore o minor gravità di essa. L'uomo
in quel punto la considera quasi come somma, e tutto l'impeto del dolore si
scarica sopra di essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi, se la
sventura annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però,
se sin da principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenendo
un altro annunzio, la successione della cosa lascia luogo all'accrescimento
del dolore, sebbene neanche allora l'accrescimento sarebbe in proporzione del
raddoppiamento della sventura, perchè l'anima è già esaurita
e come intorpidita dal [127] dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due
fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce
che tutti due sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè
viene in chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi
perchè il dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in
ambedue? quando in una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in tutti
due i casi. E quella che tramortì all'annunzio, non avrebbe potuto soffrir
di più se la sventura per se stessa fosse stata doppia. Prescindendo
dal caso che la morte di due figli la privasse di tutta la figliuolanza, il
che muterebbe la specie della disgrazia, ed è fuor del caso. E potrebbe
anche darsi che quel solo figlio ch'ella perdè, fosse unico, laonde questa
considerazione qui non ha luogo.
(16. Giugno 1820.)
La gloria non è una passione dell'uomo primitivo affatto e solitario,
ma la prima volta che una truppa d'uomini s'unì per uccidere qualche
fiera, o per qualche altro fatto dov'ebbero mestieri dell'aiuto scambievole,
quegli che mostrò più valore, sentì dirsi bravo schiettamente
e senza adulazione da quella gente che ancora non conoscea questo vizio. La
qual parola gli piacque forte, e così egli come qualche altro spirito
magnanimo che sarà stato presente, sentirono per la prima volta il desiderio
della lode. E così [128] nacque l'amor della gloria.
(18. Giugno 1820.)
La qual passione è così propria dell'uomo in società, e
così naturale, che anche ora in tanta morte del mondo, e mancanza di
ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi,
e non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della
loro giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e
si abbreviano la vita, non tanto per l'amor del piacere, quanto per esser notati
e invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora appalude,
non restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e procacciarsene
lode, che questa. Giacchè ora pochissimo anche all'animo, ma tuttavia
all'animo resta qualche via di gloria, ma al corpo ch'è quella parte
che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose, il valore
della massima parte degli uomini, non resta altra strada.
La varietà che la natura ha posta nelle cose e negl'ingegni, è
tanta, che fino gli stessi filosofi, quantunque tutti cerchino la stessa verità,
nondimeno a cagione dei diversissimi aspetti nei quali una stessa proposizione
si presenta ai diversi ingegni, sarebbero tutti originali, se non leggessero
gli altri filosofi, e non [129] osservassero le cose cogli occhi altrui. Ed
è facile a scoprire che una grandissima parte delle verità dette
ai nostri tempi da quegli scrittori che s'hanno per originali, ancorchè
queste verità passino per nuove, non hanno altro di nuovo che l'aspetto,
e sono già state esposte in altro modo. (18. Giugno 1820.). E vedete
come tutti gli scrittori non europei, come gli orientali, Confucio ec. quantunque
dicano appresso a poco le stesse cose che i nostri, a ogni modo paiono originali,
perchè non avendo letto i nostri filosofi europei, non hanno potuto imitarli,
o seguirli e conformarcisi non volendo, come accade a tutti noi.
Dei nostri poeti d'oggidì altri non sentono e non pensano, e così
scrivono, altri sentono e pensano ma non sanno dire quello che vorrebbero, e
mettendosi a scrivere, per mancanza di arte, si trovano subito voti, e di tutto
quello che avevano in mente, non trovano più nulla, e volendo pure scrivere
si danno al fraseggiare, e all'epitetare e se la passano in luoghi comuni e
così chiudono la poesia, perchè una cosa nuova da dire gli spaventa,
non sapendo trovare l'espressione che le corrisponda; altri finalmente sentendo
e pensando e non sapendo dir quello che vogliono, tuttavia lo vogliono dire,
e questi sono ridicoli per lo stento l'affettazione la durezza l'oscurità,
e la fanciullaggine della maniera, quando anche [130] i sentimenti non fossero
dispregevoli.
(21. Giugno 1820.)
In proposito di quello che ho detto p.96. osservate come ragionevolmente gli
antichi usassero la musica e la danza nei conviti, e segnatamente dopo il pranzo,
come dice Omero nel primo dell'Odissea, e forse anche dove parla di Demodoco.
L'uomo non è mai più disposto che in quel punto ad essere infiammato
dalla musica e dalla bellezza, e da tutte le illusioni della vita.
A quello che ho detto p.128. aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol diventarci
qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidì
il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo fuorchè quella che
ho detto, o l'altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Così
la gloria d'oggidì è posta negli esercizi che nuocciono alla salute,
in luogo che una volta era posta nei contrarii. E così per conseguenza
s'infiacchiscono sempre più le generazioni degli uomini, e questo effetto
della mancanza d'illusioni esistentc nel mondo come una volta, divien cagione
di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore secondo quello che ho detto
negli altri pensieri, della necessità del vigor del corpo alle grandi
illusioni dell'animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi effetti della ordinaria
vita giovanile d'oggidì, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno
spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un
giovane privato, o che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare
di una vita inattiva, [131] senza nessuna vista, e nessuna aspettativa fuorchè
di un'eterna monotonia, e di una noia immutabile? Anticamente la vanità
era considerata come propria delle donne, perchè anche nelle donne c'è
lo stesso desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro
mezzo che quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui, il quale diceva
Celso che adimi feminis non potest. Ora resta intorno alla vanità la
stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perchè è
propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla
condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare
nel mondo, e l'uomo vecchio per la massima parte, è divenuto inutile
e spregevole, e senza vita nè piaceri nè speranze, come la donna
comunemente soleva e suol divenire, che dopo aver fatto molto parlar di se,
sopravvive alla sua fama invecchiando.
(22. Giugno 1820.)
Bisogna escludere dai sopraddetti, i negozianti gli agricoltori, gli artigiani,
e in breve gli operai, perchè in fatti la strage del mal costume non
si manifesta altro che nelle classi disoccupate.
Una conseguenza del materiale delle religioni antiche e dell'importanza che
davano a questa vita, era che il sacerdozio presso i romani fosse come un grado
secolare, e presso le altre nazioni, i sacerdoti, come i Druidi presso i Galli,
si mescolassero moltissimo negli affari civili, e nelle guerre e nelle paci,
e combattessero ancora negli eserciti [132] per la loro patria, l'amor della
quale tanto è lungi che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi
n'era uno de' fondamenti. E così a un di presso fra gli antichi Ebrei,
dove anzi il governo civile e militare era tutto fondato sopra la religione.
E così dirò degli oracoli consultati per le cose pubbliche, e
di tutto l'apparato delle religioni antiche, sempre ordinato ai negozi di questo
mondo.
Relativamente a quello che ho detto p.80. si può considerare che la barbarie
cupa ed oscura, e vilmente e stranamente crudele de' bassi tempi, non proveniva
solamente dall'ignoranza, ma da questa mescolata alla religion cristiana. Se
fosse stata una barbarie pagana, quella religione aperta, chiara, materiale,
senza misteri, avrebbe dato a quella ignoranza un colore più allegro,
e a quei costumi un carattere meno profondo. Male menti erano tutte piene di
quel sombre, di quel misterioso, di quel lugubre, di quello spaventoso della
religion cristiana massimamente guasta dalla superstizione; lo spirito del tempo
era modellato sopra queste forme metafisiche e astratte; l'uomo era malvagio
per natura della società, come sempre; aggiunta alla malvagità
l'ignoranza la superstizione, e lo spirito cupo del tempo, il vizio prese il
carattere di metafisica, cosa notabile, e ben diversa dagli antichi vizi che
generalmente erano più naturali, e quantunque gravi e dannosi, tuttavia
si soddisfacevano apertamente, o al più sotto un velo di politica superficialissima.
E quindi [133] la barbarie prese quel carattere tenebroso, e la malvagità
divenne scelleraggine profondissima.
(23. Giugno 1820.)
Aggiungete che la religion pagana come più naturale che ragionevole,
avrebbe servito a conservar qualche poco di natura in quella barbarie. E la
natura è un gran contravveleno e medicamento in ogni corruzione umana,
e un gran faro in mezzo alle tenebre dell'ignoranza, quando non sia spento da
una ragione corrotta, come allora.
Dice Luciano nelle Lodi della patria (t.2. p.479.): ??? ???? ???? ??? ??? ?????????
?????? ???????? ?????????? ? ??? ???????? ??????, ????? ????? ????? (vel ob
honoris glriam), ????? ????????????????????????????????????????????????????????(??????????????????????????????????(properantes),
?? ??? ?? ?? ?????? ????????? ?????????????? ?? ????? ???? ??? ??????? ?????????
?????????????????????????????????????, ?????? ???????????????????? ???? ??????
?????????. Questo è vero, e quando anche tu viva in una città
molto maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle opinioni
antiche a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che la gloria
o qualunque altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia romore particolare
nella tua patria. Ma la cagione non è mica l'amor della patria, come
stima Luciano, e come pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa
patria, tu provi lo stesso effetto [134] riguardo alla tua famiglia, e a' tuoi
più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che i
nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più
intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto
le nostre qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi
ec. E come non ti contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato
senza che si sapesse il tuo nome, perchè quella fama, ti parrebbe piuttosto
generica che tua propria, così proporzionatamente desideri ch'ella sia
sulle bocche di quelli presso i quali, conoscendoti più intimamente e
particolarmente, la tua stima viene ad essere più individuale e propria
tua, perchè si applica a tutto te, che sei loro noto minutamente. E viene
anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li nostri simili,
onde non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una specie di animali
diversa dall'umana, e così venendo per gradi, poco ci cureremmo di esser
famosi fra i Lapponi o gl'irocchesi, essendo ignoti ai popoli colti, e non saremmo
contenti di una celebrità francese o inglese, essendo sconosciuti ai
nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri propri cittadini,
e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni che si hanno o si
sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le emulazioni, le
gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte ec. ec. alle
quali cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra gloria,
o qualunque vantaggio acquistato. In somma [135] la cagione è l'amore
immediato di noi stessi, e non della nostra patria. V. p.536. capoverso 2.
Io non credo molto a quello che dice Montesquieu Dialogue de Sylla et d'Eucrate,
particolarmente p.293-295. per ispiegare il carattere e le azioni di Silla.
Questo è il solito errore di creder che gli uomini si formino da principio
un piano seguito di condotta, e seguano sempre un filo di azioni, quando la
nostra natura composta di cento passioni, è sempre piena d'incongruenze,
secondo che questa passione o quell'altra piglia il di sopra. E anche i ragionamenti
dell'uomo sono pieni di variazioni, per cui ora ci par conveniente uno scopo,
ed ora un altro, o volendo arrivare allo stesso scopo, cambiamo strada del continuo.
Solamente serve a mostrar l'ingegno dello scrittore il condurre tutte le azioni
disparatissime di un personaggio famoso, come tante linee a uno stesso punto,
e per questo capo è stimabile e ingegnoso il celebre Manuscrit venu de
Sainte-Helène, attribuito alla Staël. Io credo che Silla avesse
veramente una grandissima ambizione, e questa di comandare, come tutti gli altri,
poi, siccome il fantasma della gloria era ancor grande e potente nelle menti
romane, stimò più ambizioso il rinunziare al comando che il ritenerlo,
e così volle andare allo stesso fine per un'altra strada. Forse ancora
il pensiero di farsi tiranno della patria, non era per anche maturo negli animi
romani, nutriti in così smisurato amore e pregio della libertà:
ma la passione di Silla, fu l'odio civile, e la ferocia [136] verso i suoi competitori,
e per isfogarla, volle il supremo comando, non ostante che per se stesso non
lo bramasse, e che dopo sfogata lo deponesse. Perchè il piacere della
vendetta, e del calpestare i suoi nemici, e vederli intieramente oppressi domati
e annientati, è un piacere anzi un'ambizione che in molti può
più che quella del comando in genere. E così Silla contraddisse
ai suoi principii romani e liberali, e diede un esempio fatale alla libertà,
per soddisfare a una passione particolare.
(24. Giugno 1820.)
La poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell'anima. L'oppressione
del cuore, o venga da qualunque passione, o dallo scoraggiamento della vita,
e dal sentimento profondo della nullità delle cose, chiudendolo affatto,
non lascia luogo a questo respiro. Gli altri generi di poesia molto meno sono
compatibili con questo stato. Ed io credo che le continue sventure del Tasso
sieno il motivo per cui egli in merito di originalità e d'invenzione
restò inferiore agli altri tre sommi poeti italiani, quando il suo animo
per sentimenti, affetti, grandezza, tenerezza ec. certamente gli uguagliava
se non li superava, come apparisce dalle sue lettere e da altre prose. Ma quantunque
chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l'immaginazione
e anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un'aura di prosperità,
e senza un vigor d'animo che non può stare senza un crepuscolo un raggio
un barlume di allegrezza.
(24. Giugno 1820.)
Oggidì le menti superiori hanno questa proprietà che sono facilissime
a concepire illusioni, e facilissime e prontissime a perderle, (parlo anche
delle piccole illusioni della [137] giornata) a concepirle, per la molta forza
dell'immaginazione a perderle, per la molta forza della ragione.
Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo affatto di speranza, e così
desideroso della morte, che mi disperava per non poter morire, mi giunge una
lettera di quel mio amico, che m'avea sempre confortato a sperare, e pregato
a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e gran fama, ch'io diverrei
grande, e glorioso all'Italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo
bene le mie sventure, (Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte l'accettassi
come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore che mi portava.
Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente dalla vita, mi
riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io pensando
alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio amico,
che ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di
quella grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i
miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le
belle viste e le occupazioni dell'adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera
ch'io non sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava?
non già come morte, ma come annullatrice di tutta la bella aspettativa
passata. E pure quella lettera non mi avea detto nulla ch'io non [138] mi dicessi
già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla
mia opinione. Io trovo le seguenti ragioni di questo effetto. 1. Che le cose
che da lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella lettera
e quell'augurio mi metteva come in una specie di superstizione, come se le cose
si stringessero, e la morte veramente si avvicinasse, e quella che da lontano
m'era parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da vicino
mi pareva dolorosissima e formidabile. 2. Io considerava quel desiderio della
morte come eroico. Sapeva bene che in fatti non mi restava altro, ma pure mi
compiaceva nel pensiero della morte come in un'immaginazione. Credeva certo
che i miei pochissimi amici, ma pur questi pochi, e nominatamente quel tale
mi volessero pure in vita, e non consentissero alla mia disperazione e s'io
morissi, ne sarebbero rimasti sorpresi e abbattuti, e avrebbero detto. Dunque
tutto è finito? Oh Dio, tante speranze, tanta grandezza d'animo, tanto
ingegno senza frutto nessuno. Non gloria, non piaceri, tutto è passato,
come non fosse mai stato. Ma il pensar che dovessero dire, Lode a Dio, ha finito
di penare, ne godo per lui, che non gli restava altro bene: riposi in pace;
questo chiudersi come spontaneo della tomba sopra di me, questa subita e intiera
consolazione della mia morte ne' miei cari, quantunque ragionevole, mi affogava,
col sentimento di un mio intiero annullarmi. La previdenza della tua morte ne'
tuoi amici, che li consola anticipatamente, è la cosa più spaventosa
che tu possa immaginare. [139] 3. Lo stato non della mia ragione la quale vedeva
il vero, ma della mia immaginazione era questo. La necessità e il vantaggio
della morte ch'era reale faceva in me l'effetto di un'illusione, a cui l'immaginazione
si affeziona, e il vantaggio e le speranze della vita ch'erano illusorie, stavano
nel fondo del cuor mio come la realtà. Quella lettera di un tale amico,
mise queste cose viceversa. Insomma questa vita è una carnificina senza
l'immaginazione, e la sventura più estrema diventa anche peggiore e somiglia
a un vero inferno quando sei spogliato di quell'ombra d'illusione, che la natura
ci suol sempre lasciare. Se ti sopravviene una calamità senza rimedio,
e in qualunque affar doloroso, il communicarti con un amico, e il sentir che
questo ti conferma intieramente quello che già la tua ragione vedeva
troppo chiaro, ti toglie ogni residuo di speranza, e parendoti di accertarti
allora della totalità e irreparabilità del tuo male, cadi nella
piena disperazione.
Da queste considerazioni impara come tu debba regolarti nel consolare una persona
afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo male, se è vero. Non la persuaderesti,
e l'abbatteresti davantaggio, privandola della compassione. Ella conosce bene
il suo male, e tu confessandolo converrai con lei. Ma nel fondo ultimo del suo
cuore le resta una goccia d'illusione. I più disperati credi certo che
la conservano, per benefizio costante della natura. Guarda di non seccargliela,
e vogli piuttosto peccare nell'attenuare il suo male e mostrarti poco compassionevole,
che nell'accertarlo di quello [140] in cui la sua immaginazione contraddice
ancora alla sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii
certo che nell'intimo del suo cuore fa tutto l'opposto, dico nell'intimo, cioè
in un fondo nascosto anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma
col suo cuore, e come secondando il suo cuore tu darai una certa realtà
a quell'ombra d'illusione che gli resta, così nel caso contrario tu gli
porterai un colpo estremo e mortale. La solitudine e il deserto l'avrebbero
consolato meglio di te, perchè avrebbe avuto con se la natura sempre
intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle calamità gravissime e
reali che riducono alla disperazione della vita, e non delle leggere, nelle
quali anzi si desidera di esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti
da grandi illusioni e passioni, dove l'uomo forse cerca e vuole la disperazione
e fugge il conforto.
(26. Giugno 1820.)
Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da
qualunque sventura della vita, non è paragonabile all'affogamento che
nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le
cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità
del vuoto che si sente nell'anima. Le sventure o d'immaginazione o reali, potranno
anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha
più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione,
è pieno di vita, e quest'altro dolore ch'io dico è tutto morte;
e quella [141] medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è
cosa più viva, laddove quest'altra è più sepolcrale, senz'azione
senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un'oppressione
smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri
nella fanciullezza o dal pensiero dell'inferno. Questa condizione dell'anima
è l'effetto di somme sventure reali, e di una grand'anima piena una volta
d'immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita così evidentemente
nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la vanità delle cose,
perchè senza ciò la gran varietà delle illusioni che la
misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce questa fatale
e sensibile evidenza. E perciò non ostante che questa condizione dell'anima
sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo
contrarissima anzi la più dirittamente contraria alla natura, non si
sa se non di pochi che l'abbiano provata, come del Tasso.
La parola è un'arte imparata dagli uomini. Lo prova la varietà
delle lingue. Il gesto è cosa naturale e insegnata dalla natura. Un'arte
1. non può mai uguagliar la natura, 2. per quanto sia familiare agli
uomini, si danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. Perciò
negli accessi delle grandi passioni, 1. come la forza della natura è
straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla, 2. l'uomo è
così occupato, che l'uso di un'arte per quanto familiarissima, [142]
gli è impossibile. Ma il gesto essendo naturale, lo vedrete facilmente
dar segno di quello che prova con gesti e moti spesso vivissimi, o con grida
inarticolate, fremiti, muggiti ec. che non hanno che fare colla parola, e si
possono considerare come gesti. Eccetto se quella passione non produrrà
in lui l'immobilità che suol essere effetto delle grandi passioni ne'
primi momenti in cui egli non è buono a nessun'azione. Nei momenti successivi
non essendo buono all'uso della parola cioè dell'arte, pur è capace
degli atti e del movimento. Del resto lo vedrete sempre in silenzio. Il silenzio
è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore (anche nei momenti
dolci) dell'ira, della maraviglia, del timore ec.
(27. Giugno 1820.). V. al fine della pagina.
Nei trasporti d'amore, nella conversazione coll'amata, nei favori
che ne ricevi, anche negli ultimi, tu vai piuttosto in cerca della felicità
di quello che provarla, il tuo cuore agitato, sente sempre una gran mancanza,
un non so che di meno di quello che sperava, un desiderio di qualche cosa anzi
di molto di più. I migliori momenti dell'amore sono quelli di una quieta
e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente
a una sventura e non sai quale. In quel riposo la tua anima meno agitata, è
quasi piena, e quasi gusta la felicità. (V. Montesquieu Temple de Gnide
canto 5. dopo il mezzo. p.342.). Così anche nell'amore, ch'è lo
stato dell'anima il più ricco di piaceri e d'illusioni, la miglior parte,
la più dritta strada al piacere, e a un'ombra di felicità, è
il dolore.
(27. Giugno 1820.)
Curae leves loquuntur, ingentes stupent sta per epigrafe del n.95. dello Spectator
inglese, senza nome d'autore.
[143] Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono trovati di opere e di
scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un grado di fama
non dico uguale, ma neppur vicino a quello dell'imitato? Non è già
verisimile che essendo più facile l'inventis addere, e il perfezionare
una cosa inventata, che l'inventarla già perfetta, ed essendoci stati
molti imitatori di sommo ingegno, massimamente in Italia in un tempo dove l'imitare
era cosa di moda, e perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come
Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non si sia mai data
nessun'imitazione che almeno agguagli l'opera imitata, e per conseguenza meritasse
un posto compagno a quello dell'originale. Ma il fatto sta che in materia di
letteratura o di arti, basta accorgersi dell'imitazione, per metter quell'opera
infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso, come in molti altri,
la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed intrinseco dell'opera, quanto
alla circostanza dello scrittore o dell'artefice. Laonde, o imitatori qualunque
vi siate, disperate affatto di arrivare all'immortalità, quando bene
le vostre copie valessero effettivamente molto più dell'originale.
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito
umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi
erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare
riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti,
ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose,
e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella
solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita
ci debba esser sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato,
ma le mie sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè
mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che
m'impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero.
In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.
[144] Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano
e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia,
come nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio
dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno,
cioè nel 1819. dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione
della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai
più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente
sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello
che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto
alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura),
a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità
certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore
corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava
ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque
la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente,
anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di
prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini
mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo
dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec.
come ora ch'io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano
di sentimento.
(1. Luglio 1820.)
Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano
se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni
che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni
sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura,
e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.
È cosa già molte volte osservata che come le Accademie scientifiche
forse hanno giovato alle scienze, promosse e facilitate le [145] scoperte ec.
così le letterarie hanno piuttosto pregiudicato alla letteratura. Infatti
le Accademie scientifiche non hanno quasi mai seguito un sistema di filosofia,
ma lasciato il campo libero al ritrovamento della verità, qualunque sistema
ne dovesse esser favorito, e massimamente nelle cose naturali era difficile
seguire un sistema, dovendo promuovere le scoperte che non possono derivare
se non dal vero, e non si può prevedere che cosa riveleranno, e a che
sistema si adatteranno. Se avessero seguito un sistema, avrebbero pregiudicato
alle scienze, come le Accademie letterarie alla letteratura. Il fatto sta che
questa benchè abbia le sue regole, tuttavia il porre in chiaro queste
regole, e il decretarle e il farne un codice, non le ha mai giovato. Tutti i
grandi poeti greci sono stati prima di Aristotele, e tutti i latini prima o
contemporaneamente ad Orazio. Ma dunque non giova che il buon gusto sia promosso
e promulgato, e costituito per norma delle opere letterarie? Certamente ci vuole
il buon gusto in una nazione ma questo dev'essere negl'individui e nella nazione
intiera, e non in un'adunanza cattedratica, e legislatrice, e in una dittatura.
Primieramente non è facile il promuovere le opere di genio. Gli onori
la gloria gli applausi i vantaggi sono mezzi efficacissimi per promuoverle,
ma non quegli onori e quella gloria che derivano dagli applausi di un'Accademia.
Gli antichi greci e anche i romani avevano le loro gare pubbliche letterarie,
ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro
stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime
e istruitissime dove l'effetto non può esser mai quello che si fa nel
popolo, e per piacere ai critici si scrive 1. con timore, cosa mortifera, 2.
si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo
ascoltatore può far nascere l'originalità la grandezza e la [146]
naturalezza della composizione. In secondo luogo se il promuovere il genio non
giova, se gli sproni non l'aiutano, il freno l'ammazza, intendo un freno messogli
dagli altri e non dal proprio giudizio. Se questo manca, non ci è rimedio,
ma la magistratura letteraria non fa nascere le virtù letterarie, se
non ci sono i buoni costumi, intendo il retto giudizio e il buon gusto. Ma se
il gusto è corrotto non gioverà il promulgarlo, il ristabilirlo
ec.? Gioverà, voglio dire che le Accademie riusciranno a fare che non
si scriva più male, ma non che si scriva bene. L'Arcadia fu stabilita
per isbandire il seicentismo. Fu sbandito, ma lo stile Arcadico è un
nome derisorio che si dà in Italia a quelle poesie che non sanno di carne
nè pesce. Ora che rimedio trovereste al cattivo gusto? Ripeto quello
che ho detto nel principio dei miei pensieri. Quasi tutte le nazioni colte dopo
il loro secol d'oro, hanno avuto quello della corruzione, e ne sono risorte.
Ma dopo questo, un numero di scrittori veramente grandi e paragonabili ai primi
(dico in letteratura, non in fatto di pensieri, filosofia ec.), insomma un altro
secol d'oro è un esempio che ancora mi resta da vedere. Negli ottimi
secoli i grandi scrittori avevano modelli del buono da seguire, ma non del cattivo
da fuggire. Quelli possono giovare, questi nocciono. Dico che i cattivi scrittori
che si avevano, sì come non formavano classe, perchè il gusto
universale era buono, si dimenticavano affatto, e si sapeva a un di presso in
generale che non piacevano, piuttosto che perchè non piacevano. Certamente
l'idea de' loro vizi non era specificata, nè i difetti notati per minuto,
e si vede infatti che anche sommi scrittori cadevano in difetti puerili. In
somma la scienza del buono e del cattivo non era organizzata, nè sminuzzata.
Il gusto naturale tenea luogo di tutto. Dopo la corruzione i letterati si rialzano
tutti sbigottiti. Entrano gli scrupoli, le paure, le sottigliezze. Si pesa [147]
ogni cosa, si aguzzano gli occhi, si va col piede di piombo, ogni legge ogni
regola ogni idea è ben definita e circoscritta, si prevedono tutti i
casi, il gusto non è più naturale ma artefatto, o lo diviene,
perchè nessuno crede di potersi contentare del gusto naturale, l'arte
e la critica vanno al sommo, la natura si perde (forse ella può più
nel secolo guasto che nel seguente), nascono opere perfette ma non belle.
(2. Luglio 1820.)
Tutto quello, si può dire, che i moderni viaggiatori osservano e raccontano
di curioso e singolare nei costumi e nelle usanze delle nazioni incivilite,
non è altro che un avanzo di antiche istituzioni, massimamente se quelle
particolarità spettano alle classi colte. Perchè la natura quando
è più libera, come anticamente, e ora in gran parte appresso il
popolo, è sempre varia. Ma certamente nel moderno non troveranno niente
di singolare nè di curioso, e tutto quello che c'è da vedere negli
altri paesi possono far conto di averlo veduto nel proprio senza viaggiare.
Eccetto le piccole differenze provenienti dal clima e dal carattere di ciaschedun
popolo, i quali però vanno sempre cedendo all'impulso moderno di uguagliare
ogni cosa, e certamente da per tutto, massime nelle classi colte, si ha cura
di allontanare tutto quello che c'è di singolare e di proprio nei costumi
della nazione, e di non distinguersi dagli altri se non per una maggior somiglianza
col resto degli uomini. E in genere si può dire che la tendenza dello
spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte le nazioni
una sola persona. Non c'è più vestito proprio di nessun popolo,
e le mode in vece d'esser nazionali, sono europee ec.: anche la lingua oramai
divien tutt'una per la gran propagazione del francese, la quale io non riprendo
in quanto all'utile, ma bene in quanto al bello.
[148] Ora quell'((?( che Esiodo dice essere un dono degli Dei per promuovere
il bene e l'accrescimento degli uomini, si può dire che sia tolta di
mezzo fra le nazioni, e quasi anche fra gl'individui. Una volta le nazioni cercavano
di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e non sono mai così
superbe come quando credono di esserci riuscite. Così gl'individui. A
che scopo, a che grandezza a che incremento può portare questa bella
gara? Anche l'imitare è una tendenza naturale, ma ella giova, quando
ci porta a cercar la somiglianza coi grandi e cogli ottimi. Ma chi cerca di
somigliare a tutti? anzi perciò appunto sfugge di somigliare ai grandi
e agli ottimi, perchè questi si distinguono dagli altri? Quando saremo
tutti uguali, lascio stare che bellezza che varietà troveremo nel mondo,
ma domando io che utile ce ne verrà? Massimamente alle nazioni (perchè
il male è naturalmente più grande nei rapporti di nazione a nazione,
che d'individuo a individuo) che stimolo resterà alle grandi cose, e
che speranza di grandezza, quando il suo scopo non sia altro che l'uguagliarsi
a tutte le altre? Non era questo lo scopo delle nazioni antiche. E non si creda
che l'uguagliarsi nei costumi e nelle usanze, senza però volersi uguagliare
nel potere nella ricchezza nell'industria nel commercio ec. non debba influire
sommamente anche sopra queste altre cose, influendo sullo spirito generale della
nazione. Poco dopo che Roma fu divenuta una specie di colonia greca in fatto
di costumi e letteratura, divenne serva come greci.
Ma questa è una bella curiosità, che mentre le nazioni per l'esteriore
vanno a divenire tutta una persona, e oramai non si distingue più uomo
da uomo, ciascun uomo poi nell'interiore è divenuto una nazione, vale
a dire che non hanno più interesse comune con chicchessia, non formano
più corpo, non hanno più patria, e l'egoismo gli ristringe dentro
il solo circolo de' propri interessi, senza amore nè cura [149] degli
altri, nè legame nè rapporto nessuno interiore col resto degli
uomini. Al contrario degli antichi, che mentre le nazioni per l'esteriore erano
composte di diversissimi individui, nella sostanza poi, e nell'importante, o
in quel punto in cui giova l'unità della nazione, erano in fatti tutta
una persona, per l'amor patrio, le virtù, le illusioni ec. che riunivano
tutti gl'individui a far causa comune, e ad essere i membri di un sol corpo.
E per questo capo si può dire che ora ci son tante nazioni quanti individui,
bensì tutti uguali anche in questo che non hanno altro amore nè
idolo che se stessi.
Ed ecco un'altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora
ha trattato l'amor patrio d'illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutta una
patria, e l'amore fosse universale di tutti gli uomini: (contro natura, e non
ne può derivare nessun buono effetto, nessuna grandezza ec. L'amor di
corpo, e non l'amor degli uomini ha sempre cagionato le grandi azioni, anzi
spessissimo a molti spiriti ristretti, la patria come corpo troppo grande non
ha fatto effetto, e perciò si sono scelti altri corpi, come sette, ordini,
città, provincie ec.). L'effetto è stato che in fatti l'amor di
patria non c'è più, ma in vece che tutti gl'individui del mondo
riconoscessero una patria, tutte le patrie si son divise in tante patrie quanti
sono gl'individui, e la riunione universale promossa dalla egregia filosofia
s'è convertita in una separazione individuale.
(3. Luglio 1820.)
Quello che ho detto qui sopra dell'amore o spirito di corpo, deriva da questo.
Tutti gli affetti umani derivano dall'amor proprio conformato in diversissime
guise. L'efficacia loro è tanto maggiore, quanto derivano da un amor
proprio più sensibile, [150] e gli recano maggiore soddisfazione. Ora
nello spirito di corpo la soddisfazione dell'amor proprio è in ragione
inversa della grandezza del circolo. Gli spiriti elevati sono suscettibili di
un circolo più grande, ma se questo è smisurato, la detta soddisfazione
svanisce prima di arrivare alla periferia ch'è in tanta distanza dal
centro, cioè l'individuo, come il suono, gli odori, i raggi luminosi
si estinguono a una certa distanza dal centro della sfera.
(3. Luglio 1820.)
Quantum ad in vece di quod attinet ad, come noi diciamo quanto a, e i francesi
quant à, è usato da Tacito, Agricol. cap.44. Et ipse quidem, quamquam
medio in spatio integrae aetatis ereptus, QUANTUM AD GLORIAM, longissimum aevum
peregit. Esempio e significato omesso nel Forcellini e nell'Appendice.
(3. Luglio 1820.)
Quel che ho detto qui sopra non è l'ultima delle cagioni per cui il fervore
del Cristianesimo s'indebolì colla dilatazione di essa religione, di
quella religione istessa, che (senza però condannare l'amor della patria,
dimostrato dallo stesso Cristo piangente sopra Gerusalemme) tuttavia ha per
uno de' fondamenti l'amore universale verso tutti gli uomini. E contuttociò
fintanto ch'ella fu come una setta, il zelo e l'ardore per sostenerla fu infinito
ne' suoi seguaci. Quando divenne cosa comune, non fu più riguardato come
proprio quello ch'era di tutti, e lo spirito di corpo essendosi dileguato per
la sua grandezza, l'individuo non ci trovò più la soddisfazione
sua particolare, e il Cristianesimo illanguidì.
Aggiungete che lo spirito di corpo ci porta a proccurare i vantaggi di esso
corpo, e a compiacerci di quelli che ha, perchè l'individuo che gli appartiene
resta con ciò distinto e superiore agli altri che non gli appartengono.
L'amor di patria, l'amor di setta, di fazione ec. vedete che è tutto
fondato sopra l'ambizione, più o meno nascosta. Per gli spiriti piccoli
non [151] è fatto l'amore della nazione, perchè non arrivano a
desiderare nè a compiacersi di sovrastare a persone così lontane
e fuori della loro portata come sono i forestieri. L'amor poi universale, manca
affatto di questo fondamento dell'ambizione, che è la gran molla che
renda operoso l'amor di corpo, e perciò resta naturalmente inefficace
in quasi tutti, non essendoci speranza di distinguersi dagli altri col mezzo
dei vantaggi del suo corpo. E così spento quell'amore ch'è utile
per le ragioni sopraddette, quest'altro non gli subentra, e se anche gli subentra
resta inutile, non movendo efficacemente l'uomo a nessuna intrapresa.
(4. Luglio 1820.)
Anche nell'interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principii
nei costumi nel vizio nell'egoismo ec. Sono tutti uguali e tutti separati, laddove
anticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi
cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli. E la stessa nostra
uguaglianza è (cosa curiosa) il motivo della nostra disunione, che nasce
dall'universale egoismo.
(4. Luglio 1820.)
L'amore universale toglie l'emulazione e la gara del suo corpo coll'altrui,
la qual gara è la cagione dell'accrescimento e dei vantaggi e pregi che
gl'individui cercano di proccurare alla patria, al partito ec. Gli uomini grandi
sono suscettibili di una emulazione grande, come con quelli delle altre nazioni.
Gli uomini piccoli al contrario non sentono emulazione se non coi cittadini
de' paesi d'intorno, con quelli delle altre famiglie, coi suoi propri cittadini
ec. ec. ec.
(4. Luglio 1820.)
Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col riposo, parte per la
dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa rinnuovazione della
vita, cagionata da quella specie d'interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente
o più lieto o meno tristo, di quando ti coricasti. Nella mia vita infelicissima
l'ora meno trista è quella [152] del levarmi. Le speranze e le illusioni
ripigliano per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell'ora la gioventù
della giornata per questa similitudine che ha colla gioventù della vita.
E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla meglio
della precedente. E la sera che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato,
si può chiamare la vecchiezza della giornata.
(4. Luglio 1820.). V. p.193. capoverso 1.
L'ubbriachezza mette in fervore tutte le passioni, e rende l'uomo facile a tutte,
all'ira, alla sensualità ec. massime alle dominanti in ciascheduno. Così
proporzionatamente il vigore del corpo. È famoso quello di S. Paolo,
castigo corpus meum et in servitutem redigo. In fatti in un corpo debole non
ha forza nessuna passione.
Altro è la forza altro la fecondità dell'immaginazione e l'una
può stare senza l'altra. Forte era l'immaginazione di Omero e di Dante,
feconda quella di Ovidio e dell'Ariosto. Cosa che bisogna ben distinguere quando
si sente lodare un poeta o chicchessia per l'immaginazione. Quella facilmente
rende l'uomo infelice per la profondità delle sensazioni, questa al contrario
lo rallegra colla varietà e colla facilità di fermarsi sopra tutti
gli oggetti e di abbandonarli, e conseguentemente colla copia delle distrazioni.
E ne seguono diversissimi caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente
(ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto
proprio a soffrir grandemente della vita. L'altro scherzevole, leggiero, vagabondo,
incostante nell'amore, bello spirito, incapace di forti e durevoli passioni
e dolori d'animo, facile a consolarsi anche nelle più grandi sventure
ec. Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti di Dante e di Ovidio,
e vedete come la differenza della loro poesia [153] corrisponda appuntino alla
differenza della vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed Ovidio
sentissero e portassero il loro esilio. Così una stessa facoltà
dell'animo umano è madre di effetti contrarii, secondo le sue qualità
che quasi la distinguono in due facoltà diverse. L'immaginazione profonda
non credo che sia molto adattata al coraggio, rappresentando al vivo il pericolo,
il dolore, ec. e tanto più al vivo della riflessione, quanto questa racconta
e quella dipinge. E io credo che l'immaginazione degli uomini valorosi (che
non debbono esserne privi, perchè l'entusiasmo è sempre compagno
dell'immaginazione e deriva da lei) appartenga più all'altro genere.
(5. Luglio 1820.)
Tutti più o meno parlano e gestiscono da se soli, ma principalmente gli
uomini di grande immaginazione, sempre facili a considerar l'immaginato come
presente. Così l'Alfieri nei pareri sulle sue tragedie, racconta di questo
suo costume, massime nei punti di passione o di calore. Il qual costume è
proprio più che mai de' fanciulli, dove l'immaginazione può molto
più che negli uomini.
(5. Luglio 1820.)
Io stimo che molte parole antiche che si credono di diversissima origine, non
sieno derivate da altro che da antichissimo errore di scrittura, che le ha diversificate,
mentre erano una sola. Mi porta a crederlo la somiglianza materiale delle lettere
o sia dei caratteri, e l'uniformità del significato. Per esempio ?????
vuol dire lo stesso che ??????, e il ?????? ? e il ????????sono due caratteri
somigliantissimi, e facilissimi a esser confusi nelle scritture. Io non posso
pensare che queste due parole di uno stessissimo significato, e uguali eccetto
nella terminazione che non fa caso, e nella prima lettera di cui si disputa,
non abbiano che far niente fra loro. E credo che si potrebbero addurre molti
altri esempi simili sì greci come latini, dove la mutazione di una lettera
o due, [154] con altre compagne nella figura, ha tolto ai grammatici il sospetto
della loro unicità nell'origine.
(5. Luglio 1820.)
Da quello che dice Montesquieu Essai sur le Goût. Des plaisirs de l'ame.
p.369-370. deducete che le regole della letteratura e belle arti non possono
affatto essere universali, e adattate a ciascheduno. Bensì è vero
che la maniera di essere di un uomo nelle cose principali e sostanziali è
comune a tutti, e perciò le regole capitali delle lettere e arti belle,
sono universali. Ma alcune piccole o mediocri differenze sussistono tra popolo
e popolo tra individuo e individuo, e massimamente fra secolo e secolo. Se tutti
gli uomini fossero di vista corta, come sono molti l'architettura in molte sue
parti sarebbe difettosa, e converrebbe riformarla. Così al contrario.
Intanto ella è difettosa veramente rispetto a quei tali. Gli orientali
aveano ed hanno più rapidità, vivacità, fecondia ec. di
spirito che gli europei. Perciò quella soprabbondanza che notiamo nelle
loro poesie ec. se sarebbe difetto tra noi, poteva non esserlo, o esser minore
appresso un popolo più capace per sua natura di seguire e di comprendere
coll'animo suo quella maniera del poeta. Lo stesso dite dell'oscurità,
del metaforico eccessivo per noi, delle sottigliezze, delle troppe minuzie,
dell'ampolloso ec. ec. E questa distinzione fatela anche tra i popoli europei,
e non condannate una letteratura perchè è diversa da un'altra
stimata classica. Il tipo o la forma del bello non esiste, e non è altro
che l'idea della convenienza. Era un sogno di Platone che le idee delle cose
esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non potessero esistere altrimenti
(v. Montesq. ivi. capo 1. p.366.) quando la loro maniera di esistere è
affatto arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu e non ha
nessuna ragione per esser piuttosto così che in un altro modo, se non
la volontà di chi le ha fatte. E chi sa che non esista un altro, o più,
o infiniti altri sistemi di cose così diversi dal nostro che noi non
li possiamo neppur concepire? [155] Ma noi che abbiamo rigettato il sogno di
Platone conserviamo quello di un tipo immaginario del bello. (V. il discorso
di G. Bossi nella B. Italiana). Ora l'idea della convenienza essendo universale,
ma dipendendo dalle opinioni caratteri costumi ec. il giudizio e il discernimento
di quali cose convengano insieme, ne deriva che la letteratura e le arti, quantunque
pel motivo sopraddetto siano soggette a regole universali nella sostanza principale,
tuttavia in molti particolari debbano cangiare infinitamente secondo non solamente
le diverse nature, ma anche le diverse qualità mutabili, vale a dire
opinioni, gusti, costumi ec. degli uomini, che danno loro diverse idee della
convenienza relativa.
E similmente osservate quanto sia vano il pensare così assolutamente
che la musica perchè diletta sommamente l'uomo debba fare effetto sulle
bestie. Distinguete suono (sotto questo nome intendo ora anche il canto) e armonia.
Il suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i marmi
della scoltura ec. L'effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva
dall'armonia ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando
anche sia monotono. Questo è quello che la musica ha di speciale sopra
le altre arti, sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore.
Questi sono effetti e influssi naturali, e non bellezza. L'armonia modifica
l'effetto del suono, e in questo (che solo appartiene all'arte) la musica non
si distingue dalle altre arti, giacchè i pregi dell'armonia consistono
nella imitazione della natura quando esprimono qualche cosa, e in seguire quell'idea
della convenienza dei suoni ch'è arbitraria e diversa in diverse nazioni.
Ora il suono non è difficile che faccia effetto anche nelle bestie, ma
non è necessario, e massimamente quegli stessi suoni che fanno effetto
nell'uomo (quando vediamo anche tra gli uomini che certe nazioni si dilettano
di suoni tutti diversi da' nostri, e per noi insopportabili). [156] I loro organi,
e indipendentemente da questi, la loro maniera d'essere è differente
dalla nostra, e non possiamo sapere qual sia l'effetto di questa differenza.
Tuttavia se questa non sarà molto grande, o almeno avrà qualche
rapporto con noi in questo punto, il suono farà colpo in quei tali animali,
come leggiamo dei delfini e dei serpenti (V. Chateaubriand). Ma l'armonia è
bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno
si forma della convenienza di una cosa con un'altra, laonde se l'astratto dell'armonia
può esser concepito dalle bestie, non perciò per loro sarà
armonia e bellezza quello ch'è per noi. E così non è la
musica come arte ma la sua materia cioè il suono che farà effetto
in certe bestie. E infatti come vogliamo prentendere che le bestie gustino la
nostra armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo di molti
individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che hanno una
musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso che qualche
animale si trovasse in disposizione così somigliante alla nostra, che
nella musica potesse sentire se non tutta almeno in parte l'armonia che noi
ci sentiamo, vale a dire giudicare armonico quello che noi giudichiamo. Il quale
effetto è più difficile assai dell'altro sopraddetto del suono,
tuttavia non è affatto inverisimile.
(6. Luglio 1820.)
Con questa distinzione di suono e armonia, l'uno cagione di effetto naturale
e indipendente dall'arte e generale nell'uomo, (effetto arbitrario della natura,
e non già necessario astrattamente) l'altra di effetto naturale in astratto,
ma dipendente dall'arte in concreto, comprenderete perchè le bestie essendo
talvolta influite dalla musica, non lo sieno dalle altre arti. Ed è perchè
la materia della musica, è così efficace nell'uomo e così
generalmente e per natura, che non è maraviglia se la sua forza si estende
anche ad altri animali forse più analoghi degli altri all'uomo per questa
parte della loro natura. Ma non così la materia delle altre arti, eccetto
i colori, i quali [157] come fanno effetto naturale nell'uomo, così per
legge di analogia (che va ammessa non perchè fosse necessario alla natura
di osservarla, ma perchè la vediamo osservata) congetturo che possano
dar qualche diletto anche alle bestie, e forse se ne avrebbero delle prove.
Del resto nelle altre arti le bestie non essendo influite dalla materia che
nella musica ha influsso naturale e indipendente dall'arte, non possono essere
influite dall'arte stessa, non avendo la stessa idea della bellezza che abbiamo
noi, e che è tanto diversa anche tra noi. E quanto all'imitazione del
vero che in noi cagiona una maraviglia naturale, potrebb'essere che la producesse
anche in loro senza che noi ce ne accorgessimo, e potrebb'essere che non la
capissero, ma prendessero gli oggetti imitati per veri, o finalmente (che dev'essere
il più ordinario) si formassero di quegli oggetti d'arte un'idea confusa
tra l'oggetto vero, e un altro che lo somigli, non potendo sapere quelle cose
che sappiamo noi intorno all'artefice, e alla maniera e alla difficoltà
d'imitare in quel modo ec. ec. cose tutte che producono la maraviglia. E infatti
vedrete in molti barbari che le belle imitazioni delle nostre arti in vece di
destare maggior maraviglia, appena li commuovono.
Del rimanente anche intorno alla bellezza e a qualunque altra cosa appartenente
alle arti, bisogna sempre ricordarsi della differente maniera di esistere, differente
capacità di comprendere, di rapportare, di esser commossi ec. e così
regolarsi nell'istituire il paragone tra l'uomo e gli altri animali, e anche
tra un uomo e un altr'uomo, non riputando necessario e assoluto e perciò
universale quello ch'è arbitrario e relativo o nell'uomo o in qualunque
animale, e perciò può non trovarsi o trovarsi differentemente
negli altri.
Il piacere che ci dà il suono non va sotto la categoria del bello, ma
è come quello del gusto dell'odorato ec. La natura ha dato i suoi piaceri
a tutti i sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per
se stesso un effetto più spirituale [158] dei cibi dei colori degli oggetti
tastabili ec. E tuttavia osservate che gli odori, in grado bensì molto
più piccolo, ma pure hanno una simile proprietà, risvegliando
l'immaginazione ec. Laonde quello stesso spirituale del suono è un effetto
fisico di quella sensazione de' nostri organi, e infatti non ha bisogno dell'attenzione
dell'anima, perchè il suono immediatamente la tira a se, e la commozione
vien tutta da lui, quando anche l'anima appena ci avverta. Laddove la bellezza
o naturale o artifiziale non fa effetto se l'anima non si mette in una certa
disposizione da riceverlo, e perciò il piacere che dà, si riconosce
per intellettuale. Ed ecco la principal cagione dell'essere l'effetto della
musica immediato, a differenza delle altre arti, e v. questi pens. p.79.
Osservate come non si legga ch'io sappia di nessun effetto prodotto nelle bestie
dal canto. (In verità anticamente si diceva, excantare, ora incantare
i serpenti, e Frigidus in pratis CANTANDO rumpitur anguis dice Virgilio, ma
son favole che non hanno esperienze moderne a favore. D'Arione si legge che
innamorò i delfini col suono. Chateaubriand racconta di quel serpente
ammansato dal suono ec. ec. Del resto i poeti dicevano favolosamente che le
bestie si fermassero a udire il canto di questo o di quello). La ragione è
perchè questo è cosa più umana del suono, e perciò
di un effetto più relativo, come anche la differenza dei suoni cagiona
diversi effetti secondo la natura degli organi dove opera. Così nè
più nè meno i diversi odori, i diversi sapori, i diversi colori
de' quali l'uno diletterà principalmente questa persona, e l'altro quest'altra.
Il canto umano fa effetto grande nell'uomo. Al contrario quello degli uccelli
non molto. Grandissimo però dev'essere il diletto che cagiona negli uccelli,
giacchè si vede che questi cantano per diletto, [159] e che la loro voce
non è diretta ad altro fine come quella degli altri animali. (eccetto
le cicale i grilli e altri tali che nel continuo uso della loro voce non par
che possano avere altro fine che il diletto) Ed io sono persuaso che il canto
degli uccelli li diletti non solo come canto, ma come contenente bellezza, cioè
armonia, che noi non possiamo sentire non avendo la stessa idea della convenienza
de' tuoni.
(7. Luglio 1820.)
Osservate ancora un finissimo magistero della natura. Gli uccelli ha voluto
che fossero per natura loro i cantori della terra e come ha posto i fiori per
diletto dell'odorato, così gli uccelli per diletto dell'udito. Ora perchè
la loro voce fosse bene intesa, che cosa ha fatto? Gli ha resi volatili, acciocchè
il loro canto venendo dall'alto, si spargesse molto in largo. Questa combinazione
del volo e del canto non è certamente accidentale. E perciò la
voce degli uccelli reca a noi più diletto che quella degli altri animali
(fuorchè l'uomo) perchè era espressamente ordinata al diletto
dell'udito. E credo che ne rechi anche più agli altri animali che sono
in uno stato naturale, e forse perciò più capaci di trovarci o
tutta o in parte quell'armonia che ci trovano gli stessi uccelli, e che noi
non ci troviamo, perchè allontanandoci dalla natura, abbiamo perduto
certe idee primitive intorno alla convenienza, non assolute e necessarie, ma
tuttavia dateci forse arbitrariamente dalla natura. Io credo che i selvaggi
trovino il canto degli uccelli molto più dolce, e mi pare che si potrebbe
provar lo stesso degli antichi, i quali è noto che sentivano maggior
diletto di noi nel canto delle cicale ec. delle quali pure e simili si può
notare che cantano sopra gli alberi.
Da tutte le cose dette nei pensieri qui sopra, inferite che le nostre cognizioni
intorno alla natura o dell'uomo o delle cose, e le nostre deduzioni, raziocini,
e conclusioni, per la maggior parte non sono assolute ma relative, [160] cioè
sono vere in quanto alla maniera di essere delle cose esistenti, e da noi conosciute
per tali, ma era in arbitrio della natura che fossero altrimenti. E intendo
anche della maggior parte degli assiomi astratti, pochi de' quali sono veramente
assoluti e necessari in qualunque sistema di cose possibili (benchè paiano),
eccetto forse in matematica. E apprendiamo a formarci della possibilità
un'idea più estesa della comune, e della necessità e verità
un'idea più limitata assai. Vedete in questo proposito il fine del primo
Libro del Zanotti sopra le forze che chiamano vive.
Applicate le cose dette nel pensiero che incomincia Anche la stessa negligenza
ec. (p.50.) alle produzioni francesi riputate da quella nazione, modelli di
semplicità naïveté ec. p.e. al Tempio di Gnido di Montesquieu,
sebbene in questo il male deriva piuttosto dal contrasto della semplicità
delle cose col ricercato e manierato dello stile.
La rivoluzione Francese posto che fosse preparata dalla filosofia, non fu eseguita
da lei, perchè la filosofia specialmente moderna, non è capace
per se medesima di operar nulla. E quando anche la filosofia fosse buona ad
eseguire essa stessa una rivoluzione, non potrebbe mantenerla. È veramente
compassionevole il vedere come quei legislatori francesi repubblicani, credevano
di conservare, e assicurar la durata, e seguir l'andamento la natura e lo scopo
della rivoluzione, col ridur tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima
volta ab orbe condito di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente lagrimevole
in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile
a riuscire anche in questi tempi matematici, perchè dirittamente contraria
alla natura dell'uomo e del mondo. Le Comité d'instruction publique réçut
ordre de présenter un projet tendant à substituer un culte raisonnable
au culte catholique! (Lady Morgan, France [161] l.8. 3me édit. française,
Paris 1818. t.2. p.284. note de l'auteur) E non vedevano che l'imperio della
pura ragione è quello del dispotismo per mille capi, ma eccone sommariamente
uno. La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano l'egoismo. L'egoismo
spoglio d'illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù ec. e divide
le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono gl'individui. Divide
et impera. Questa divisione della moltitudine, massimamente di questa natura,
e prodotta da questa cagione, è piuttosto gemella che madre della servitù.
Qual altra è la cagione sostanziale della universale e durevole servitù
presente a differenza de' tempi antichi? Vedete che cosa avvenne ai Romani quando
s'introdusse fra loro la filosofia e l'egoismo, in luogo del patriotismo. Il
qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando
parea naturalissimo, che le antiche idee si risvegliassero ne' romani, fa pietà
il vederli così torpidi, così indifferenti, così tartarughe,
così marmorei verso le cose pubbliche. E Cicerone nelle filippiche il
cui grande scopo era di render utile la morte di Cesare, vedete se predica la
ragione, e la filosofia, o non piuttosto le pure illusioni, e quelle gran vanità
che aveano creata e conservata la grandezza romana. (8. Luglio 1820.). V. p.357.
capoverso 1.
In proposito di quello che ho detto p.145. osservate come infatti l'eloquenza
vera non abbia fiorito mai se non quando ha avuto il popolo per uditore. Intendo
un popolo padrone di se, e non servo, un popolo vivo e non un popolo morto,
sia per la sua condizione in genere, sia in quella tal congiuntura, come alle
nostre prediche il popolo non è vivo, non ha azione ec. ec. Oltre che
il soggetto delle prediche non ha il movimento, l'azione, la vita necessarie
alla grande eloquenza, e perciò quella del pergamo, quando anche sia
somma e perfetta, è tutt'altra eloquenza che l'antica, e forma [162]
un genere a parte. Del resto appena le repubbliche e la libertà si sono
spente, le assemblee, le società, i tribunali, le corti, non hanno mai
sentito la vera eloquenza, non essendo uditorii capaci di suscitarla. E questo
probabilmente è uno de' motivi per cui la repubblica di Venezia non ha
avuto mai eloquenza, perch'era una repubblica aristocratica e non democratica.
Vedete quello che dice Cicerone nell'oraz. pro Deiotaro capo 2.
Racconta Diogene Laerzio di Chilone Lacedemonio il quale interrogato in che
differissero i dotti dagl'indotti, rispose: nelle buone speranze (???????????????).
Io non so dire se avesse riguardo alle cose di questo mondo o di una vita avvenire.
Certamente rispetto a quelle, oggidì avviene appunto il contrario. In
che differisce l'ignorante dal savio? Nella speranza.
Lo scopo dell'incivilimento moderno doveva essere di ricondurci appresso a poco
alla civiltà antica offuscata ed estinta dalla barbarie dei tempi di
mezzo. Ma quanto più considereremo l'antica civiltà, e la paragoneremo
alla presente, tanto più dovremo convenire ch'ella era quasi nel giusto
punto, e in quel mezzo tra i due eccessi, il quale solo poteva proccurare all'uomo
in società una certa felicità. La barbarie de' tempi bassi non
era una rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima
e funestissima. Lo scopo dell'incivilimento dovea esser di togliere la ruggine
alla spada già bella, o accrescergli solamente un poco di lustro. Ma
siamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla.
E osservate che l'incivilimento ha conservato in grandissima parte il cattivo
dei tempi bassi, ch'essendo proprio loro, era più moderno, e tolto tutto
quello che restava [163] loro di buono dall'antico per la maggior vicinanza
(del quale antico in tutto e per tutto abbiam fatto strage), come l'esistenza
e un certo vigore del popolo, e dell'individuo, uno spirito nazionale, gli esercizi
del corpo, un'originalità e varietà di caratteri costumi usanze
ec. L'incivilimento ha mitigato la tirannide de' bassi tempi, ma l'ha resa eterna,
laddove allora non durava, tanto a cagione dell'eccesso, quanto per li motivi
detti qui sopra. Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di
frenarle com'era scopo degli antichi (Montesquieu ripete sempre che le divisioni
sono necessarie alla conservazione delle repubbliche, e ad impedire lo squilibrio
dei poteri, ec. e nelle repubbliche ben ordinate non sono contrarie all'ordine,
perchè questo risulta dall'armonia e non dalla quiete e immobilità
delle parti, nè dalla gravitazione smoderata e oppressiva delle une sulle
altre, e che per regola generale, dove tutto è tranquillo non c'è
libertà), non ha assicurato l'ordine ma la perpetuità tranquillità
e immutabilità del disordine, e la nullità della vita umana. In
somma la civiltà moderna ci ha portati al lato opposto dell'antica, e
non si può comprendere come due cose opposte debbano esser tutt'uno,
vale a dire civiltà tutt'e due. Non si tratta di piccole differenze,
si tratta di contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano civili,
o noi non lo siamo.
(10. Luglio 1820.)
Io riguardo l'indebolimento corporale delle generazioni umane, come l'una delle
principali cause del gran cangiamento del mondo e dell'animo e cuore umano dall'antico
al moderno. Così anche della barbarie de' secoli di mezzo, stante la
depravazione de' costumi sotto i primi imperatori e in seguito, la quale è
certa cagione d'infiacchimento corporale, come [164] appresso i Persiani divenuti
fiacchissimi (e perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione
degli antichi costumi e istituti che li rendevano vigorosissimi. V. la Ciroped.
cap. ult. art.5. e segg. sino al fine.
In proposito di quello che ho detto p.108. notate come ci muova a compassione
e c'intenerisca il veder qualunque persona che nell'atto di provare un dispiacere,
una sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza
di liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una persona
che non possa resistere.
(11. Luglio 1820.)
Il racconto è uffizio della parola, la descrizione del disegno (eseguito
in qualunque modo). Quindi non è maraviglia che quello sia più
facile di questa al parlatore. E questa è una delle primarie cagioni
per cui era falso ed assurdo quel genere di poesia poco fa tanto in pregio e
in uso appresso gli stranieri massimamente, che chiamavano descrittiva. Perchè
quantunque il poeta o lo scrittore possa bene assumere anche l'uffizio di descrivere,
è da stolto il farne professione, non essendo uffizio proprio della poesia,
e quindi non è possibile che non ne risulti affettazione e ricercatezza,
e stento, volendolo fare per istituto e per argomento, lasciando stare la noia
che deve nascere dalla lettura di una poesia tutta diretta a un uffizio proprio
di un'altra arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado qualunque studio,
e stentata, e tediosa per la continuazione di una cosa che non appartenendole
non può esser troppo lunga, al contrario di quelle che le appartengono,
nelle quali nessuno biasima che [la] poesia si ravvolga tutta intera.
(12. Luglio 1820.)
[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza
di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito
che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più
materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi)
desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille
aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è
tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è
ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine
in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina
colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione.
Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua
durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione,
perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta
che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il
detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho
detto non finisce se non coll'esistenza, e quindi l'uomo non esisterebbe se
non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch'è sostanziale
in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del
piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l'infinità, perchè
ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è
indeterminata, e l'anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta
l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire,
perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch'ella desidera
illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di
desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come
piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, [166]trovi
un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell'anima, perchè
quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile
che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la
natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che quella material
cagione che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti sempre (p.e. tu hai
desiderato la ricchezza, l'hai ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente,
ma non più come cagione neppure di un tal piacere, perchè questa
è un'altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte
le impressioni appoco a poco svaniscano, e che l'assuefazione, come toglie il
dolore, così spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere
provato una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l'animo sarebbe
pago, perchè il suo desiderio è anche infinito per estensione,
così che quel tal piacere quando uguagliasse la durata di questo desiderio,
non potendo uguagliarne l'estensione, il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri
sempre nuovi, come accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l'anima.
Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre,
del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua
natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità.
Il fatto è che quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la
soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e
non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto,
e che comprenda tutta l'estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio
non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè
non si tratta di una piccola ma di una somma [167] inferiorità al desiderio
e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser
misti di dispiacere, come proviamo, perchè l'anima nell'ottenerli cerca
avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità
di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.
Veniamo alla inclinazione dell'uomo all'infinito. Indipendentemente dal desiderio
del piacere, esiste nell'uomo una facoltà immaginativa, la quale può
concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono.
Considerando la tendenza innata dell'uomo al piacere, è naturale che
la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della
immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza
immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli
infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito
che non si può trovare nella realtà, si trova così nella
immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò
non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che
la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione
e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran
magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l'uomo e nessun
essere vivente, dell'amor del piacere che è una conseguenza immediata
e quasi tutt'uno coll'amor proprio e della propria conservazione necessario
alla sussistenza delle cose, dall'altra parte non potendo fornirli di piaceri
reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è
stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura,
la quale poteva ben farcene senza, 2. coll'immensa varietà [168] acciocchè
l'uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all'altro, o anche disingannato
di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle
cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non
avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall'altro canto
non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri
a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità
degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L'immaginazione
come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più
questa regnerà nell'uomo, tanto più l'uomo sarà felice.
Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l'ignoranza,
almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero
cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l'immaginazione.
E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più
grande negl'istruiti che negl'ignoranti, non lo è in atto come in potenza,
e perciò operando molto più negl'ignoranti, li fa più felici
di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri.
E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l'immaginazione non fosse
considerata dall'uomo come tale, cioè non ha voluto che l'uomo la considerasse
come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice,
e perciò avesse i sogni dell'immaginazione per cose reali e quindi fosse
animato dall'immaginario come dal vero (anzi più, perchè l'immaginario
ha forze più naturali, e la natura è sempre superiore alla ragione).
Ma ora le persone istruite, quando anche sieno fecondissime d'illusioni le hanno
per tali, e le seguono più per volontà che per persuasione, al
contrario degli antichi [169] degl'ignoranti de' fanciulli e dell'ordine della
natura. 2. Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo tanto grandi quanto
si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni
va la grandezza e copia de' piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi li
trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se non di riempierli,
almeno di trattenerli a bada. La natura non volea che sapessimo, e l'uomo primitivo
non sa che nessun piacere lo può soddisfare. Quindi e trovando ciascun
piacere molto più grande che noi non facciamo, e dandogli coll'immaginazione
un'estensione quasi illimitata, e passando di desiderio in desiderio, colla
speranza di piaceri maggiori e di un'intera soddisfazione, conseguivano il fine
voluto dalla natura, che è di vivere se non paghi intieramente di quella
tal vita, almeno contenti della vita in genere. Oltre la detta varietà
che li distraeva infinitamente, e li faceva passare rapidamente da una cosa
all'altra senz'aver tempo di conoscerla a fondo, nè di logorare il piacere
coll'assuefazione. 3. La speranza è infinita come il desiderio del piacere,
ed ha di più la forza se non di soddisfar l'uomo, almeno di riempierlo
di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza propria dell'uomo,
degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per il moderno
sapiente. V. il pensiero che incomincia Racconta, p.162.
Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione
(non solamente nell'uomo ma in ogni vivente), la pena dell'uomo nel provare
un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l'uomo
non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto
1. perchè tutti [170] i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e
l'ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato
dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla
natura. 2. perchè l'anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello
aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l'anima deve
naturalmente preferire agli altri quel piacere ch'ella non può abbracciare.
Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro
poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli
veramente Omerici in questo, (v. il pensiero Circa l'immaginazione, p.57. e
l'altro p.100.) gl'ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere
ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale
moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono
l'anima in un abbisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere il fondo
nè i contorni. E questa pure è la cagione perchè nell'amore
ec. come ho detto p.142. Perchè in quel tempo l'anima si spazia in un
vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale,
ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce le possono rappresentare,
nè la ragione ha verun potere di farlo. Ma la natura nostra n'era fecondissima,
e voleva che componessero la nostra vita. 3. perchè l'anima nostra odi
tutto quello che confina le sue sensazioni. L'anima cercando il piacere in tutto,
dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova,
abborre i confini per le sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella natura,
ama che l'occhio si spazi quanto è possibile. La qual cosa il Montesquieu
(Essai sur le goût, De la curiosité. p.374.375.) attribuisce alla
curiosità. Male. La curiosità non è altro che una determinazione
[171] dell'anima a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò
poi. Perciò ella potrà esser la cagione immediata di questo effetto,
(vale a dire che se l'anima non provasse piacere nella vista della campagna
ec. non desidererebbe l'estensione di questa vista), ma non la primaria, nè
questo effetto è speciale e proprio solamente delle cose che appartengono
alla curiosità, ma di tutte le cose piacevoli, e perciò si può
ben dire che la curiosità è cagione immediata del piacere che
si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo piacere sia
senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun piacere può
essere illimitato e perpetuo nell'anima, come il desiderio generale del piacere.
Del rimanente alle volte l'anima desidererà ed effettivamente desidera
una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche.
La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell'infinito, perchè
allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra
al reale. L'anima s'immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe,
quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura
cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè
il reale escluderebbe l'immaginario. Quindi il piacere ch'io provava sempre
da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una
porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità
delle sensazioni diletta moltissimo l'anima. Ne deducono ch'ella è nata
per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò,
che la moltiplicità delle sensazioni, confonde l'anima, [172] gl'impedisce
di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento subitaneo del piacere,
la fa errare d'un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e
quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito. Parimente la vastità
quando anche non sia moltiplice, occupa nell'anima un più grande spazio,
ed è più difficilmente esauribile. La maraviglia similmente, rende
l'anima attonita, l'occupa tutta e la rende incapace in quel momento di desiderare.
Oltre che la novità (inerente alla maraviglia) è sempre grata
all'anima, la cui maggior pena è la stanchezza dei piaceri particolari.
Da questa teoria del piacere deducete che la grandezza anche delle cose non
piacevoli per se stesse, diviene un piacere per questo solo ch'è grandezza.
E non attribuite questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura.
Posta la detta teoria, si viene a conoscere (quello ch'è veramente) che
il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale
dell'anima. Quindi 1. un assopimento dell'anima è piacevole. I turchi
se lo proccurano coll'oppio, ed è grato all'anima perchè in quei
momenti non è affannata dal desiderio, perchè è come un
riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo
come il sonno nel quale se ben l'anima forse non lascia di pensare, tuttavia
non se n'avvede. 2. la vita continuamente occupata è la più felice,
quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L'animo occupato
è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o
lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro il provvedere
ai suoi bisogni ordinari ec. ec. ec.) giacchè li considera allora come
piaceri (essendo piacere tutto quello che l'anima desidera), e conseguitone
uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori,
e non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e
la speranza di quei [173] piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni
avvenire o sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano
a riempierlo, e a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il quale non è
troppo lungo perchè sottentri la noia; oltre che il riposo dalla fatica
è un piacere per se. Questa dovea esser la vita dell'uomo, ed era quella
dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, degli agricoltori ec. e gli
animali non per altra cagione se non per questa principalmente, vivono felici.
Ed osservate come lo spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica, sembri
anche oggidì, a chi vive nel mondo, lo spettacolo della felicità,
anche per la mancanza dei dolori, e delle cure e afflizioni reali. 3. il maraviglioso,
lo straordinario è piacevole, quantunque la sua qualità particolare
non appartenga a nessuna classe delle cose piacevoli. L'anima prova sempre piacere
quando è piena (purchè non sia di dolore), e la distrazione viva
ed intera è un piacere rispetto a lei assolutamente, come il riposo dalla
fatica è piacere, perchè una tal distrazione è riposo dal
desiderio. E come è piacevole lo stupore cagionato dall'oppio (anche
relativamente alla dimenticanza dei mali positivi), così quello cagionato
dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità. Quando anche
la maraviglia non sia tanta che riempia l'anima, se non altro l'occupa sempre
fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la natura aveva
voluto che la maraviglia 1. fosse cosa ordinarissima all'uomo, 2. fosse spessissimo
intera, cioè capace di riempier tutta l'anima. Così accade ne'
fanciulli, e accadeva ne' primitivi, e ora negl'ignoranti, ma non può
accadere senza l'ignoranza, e l'ignoranza d'oggi non può mai esser come
quella dell'uomo che non vive in società, perchè vivendo in società,
[174] l'esperienza de' passati e de' presenti l'istruisce, più o meno,
ma sempre l'istruisce, e la novità diventa rara. 4. anche l'immagine
del dolore e delle cose terribili ec. è piacevole, come ne' drammi e
poesie d'ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l'uomo non tema o non si dolga
per se, la forza della distrazione gli è sempre piacevole. Non è
bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in questo caso cadrebbero
sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine del dolore ec. è
sufficiente a riempier l'animo e distrarlo. 5. la grandezza di ogni qualsivoglia
genere (eccetto del proprio male) è piacevole. Naturalmente il grande
occupa più spazio del piccolo, salvo se la piccolezza è straordinaria,
nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria. Questo ch'io dico
della grandezza è un effetto materiale derivante dalla inclinazione dell'uomo
al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si potrebbe forse dir lo
stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal bello ch'è piacevole
all'uomo per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza
del piacere che è l'elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci
distragga dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell'uomo al piacere
sotto qualunque forma, la noia, quest'affezione tanto comune, tanto frequente,
e tanto abborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l'uomo dovrebbe
sentirsi male, quando non ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna
occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor
positivo, o annoiato [175] dalla uniformità di una cosa non penosa nè
dispiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo quest'uomo deve soffrire.
E pur vediamo che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a
quello stato. (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici
consultati dal duca di Brancas, se la noia potesse uccidere. Lady Morgan France
l.8. notes). Non per altro se non per un desiderio ingenito e compagno inseparabile
dell'esistenza, che in quel tempo non è soddisfatto, non ingannato, non
mitigato, non addormentato. E la natura è certo che ha provveduto in
tutti i modi contro questo male, all'orrore e ripugnanza del quale nell'uomo,
si può paragonare quell'orrore del vuoto che gli antichi fisici supponevano
nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali. Ha provveduto col dare
all'uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e
della sete, freddo, caldo ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato;
colla gran varietà, colla immaginazione che l'occupa anche del nulla,
ed anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo
anch'esso dell'amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura
in genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo
o quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e
sciolgono la noia, colle turbazioni degli elementi, coi dolori e coi mali istessi,
perchè è più dolce il guarir dai mali, che il vivere senza
mali; e con tali altri disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti
della natura, scusandola col definirli per accidenti fuori dell'ordine; ma che
forse essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch'essi
al gran sistema universale. In somma il sistema della natura rispetto all'uomo
è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia,
che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente all'uomo moderno,
è quasi sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate
come i fanciulli anche in una quasi perfetta inazione, pur di rado o non mai
sentano [176] il vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella
basta ad occuparli tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà
corpo e vita e azione ad ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e
trovano in somma in se stessi una sorgente inesauribile di occupazioni e sempre
varie. Questo senza cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz'aver veduto
udito ec. in un mondo ristrettissimo e uniforme. E laddove parrebbe che quanto
più questo mondo e questo campo si accresce e diversifica, tanto più
ampio e vario per l'uomo dovesse essere il fondo delle occupazioni interne come
son quelle dei fanciulli, e la noia tanto più rara, nondimeno vediamo
accadere tutto il contrario. Gran lezione per chi non vuol riconoscere la natura
come sorgente quasi unica di felicità, e l'alterazione di lei, come certa
cagione d'infelicità. Del resto che la forza e fecondità dell'immaginazione
1. come rende facilissima l'azione, così spessissimo renda facile l'inazione,
2. sia cosa ben diversa dalla profondità della mente, la quale per lo
contrario conduce all'infelicità, è manifesto per l'esempio de'
popoli meridionali, segnatamente degl'italiani, rispetto ai settentrionali.
Giacchè gl'italiani 1. come una volta per il loro entusiasmo figlio di
un'immaginazione viva e più ricca che profonda, erano attivissimi, così
ora una delle cagioni per cui non si accorgono o almeno non si disperano affatto
di una vita sempre uniforme, e di una perfetta inazione, è la stessa
immaginazione ugualmente ricca e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni
che ne deriva, la quale gl'immerge senza che se n'avvedano in una specie di
rêve, come i fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente inculcata
dalla Staël, laddove i settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione
interna atta a consolarli, per necessità ricorrono all'esterna, e divengono
attivissimi. 2. la profondità della mente, [177] e la facoltà
di penetrare nei più intimi recessi del vero dell'astratto ec. quantunque
non sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, prontezza e penetrazione,
(che rende loro più facile il concepimento e la scoperta del vero, laddove
agli altri bisogna più fatica, e perciò spesso sbagliano con tutta
la profondità) contuttociò non è il loro forte, e per lo
contrario forma tutta l'occupazione e quindi l'infelicità dei settentrionali
colti (osservate perciò la frequenza de' suicidi in Inghilterra) i quali
non hanno cosa che li distragga dalla considerazione del vero. E quantunque
paia che l'immaginazione anche appresso loro sia caldissima originalissima ec.
tuttavia quella è piuttosto filosofia e profondità, che immaginazione,
e la loro poesia piuttosto metafisica che poesia, venendo più dal pensiero
che dalle illusioni. E il loro sentimentale è piuttosto disperazione
che consolazione. E la poesia antica perciò appunto non è stata
mai fatta per loro; perciò appunto hanno gusti tutti differenti, e si
compiacciono degli enti allegorici, delle astrazioni ec. (v. p.154.) perciò
appunto sarà sempre vero che la nostra è propriamente la patria
della poesia, e la loro quella del pensiero. (V. p.143-144.)
Dopo che la natura ha posto nell'uomo una inclinazione illimitata al piacere,
è rimasta libera di fare che questa o quella cosa fosse considerata come
piacere. Perciò le cagioni per cui una cosa è piacevole, sono
indipendenti dalla sovresposta teoria, dipendendo dall'arbitrio della natura
il determinare in qual cosa dovessero consistere i piaceri, e conseguentemente
quali particolari dovessero esser l'oggetto della sopraddetta inclinazione dell'uomo.
Esclusi quei piaceri che ho annoverati poco sopra (p.172. segg.), i quali sono
piaceri, non perch'è piaciuto alla natura di volerli tali indipendentemente
dalla inclinazione dell'uomo al piacere, ma solamente o principalmente per questo,
che l'uomo desidera [178] illimitatamente il piacere. Del resto la virtù,
i piaceri corporali, quelli della curiosità (v. se vuoi Montesquieu nel
luogo citato p.170. qui sopra) (giacchè, come ho detto, per piacere intendo
e vanno intese tutte le cose che l'uomo desidera) ec. ec. sono piaceri perchè
la natura ha voluto, e potevano non essere con tutta la inclinazione dell'uomo
al piacere, come l'idea assoluta che l'uomo ha della convenienza non è
ragione perchè queste o quelle cose gli paiano convenienti, e belle.
E dei piaceri altri sono comuni, altri particolari di questa o quella nazione,
altri di questa o quella classe d'uomini, come i piaceri appartenenti all'avarizia
all'ambizione ec., altri anche individuali, secondo le assuefazioni, le opinioni,
le costituzioni corporali, i climi ec. come l'idea rispettiva della bellezza
dipende dalle assuefazioni costumi opinioni ec. (V. Montesquieu l.c. De la sensibilité.
p.392.) E la natura ha posto nell'uomo diverse qualità delle quali altre
si sviluppano necessariamente, altre o si sviluppano o restano chiuse e inattive
secondo le circostanze. E di queste seconde altre la natura voleva, o non proibiva
che si sviluppassero, altre non voleva, e sviluppandosi, rendono l'uomo infelice.
E la cagione per cui le ha poste nell'uomo non volendo che sviluppassero, starà
nel sistema profondo della natura, e probabilmente si potrebbe scoprire, se
non ci fermassimo adesso sul generale. Secondo queste diverse qualità,
l'uomo trova piacevoli diverse cose, e l'uomo incivilito prova diversi piaceri
dal primitivo, e sentirà dei piaceri che il primitivo non provava, e
non proverà molti di quelli che il primitivo provava. E perciò
dall'esserci ora piacevole una cosa il cui piacere dipenda dal nostro eccessivo
incivilimento, non deduciamo che questo era voluto dalla natura. E se ora [179]
p.e. l'eccessiva curiosità del vero ci proccura molti piaceri quando
arriviamo a conoscerlo, non perciò dobbiamo stimare che la natura ci
volesse così curiosi, nè che questi piaceri sieno naturali, nè
che l'uomo naturale ne avesse gran vaghezza, o non sapesse benissimo contenersi
in questo desiderio, nè per conseguenza che l'infelicità dell'uomo
fosse necessaria, e provenga dalla natura assoluta dell'uomo, quando proviene
dalla nostra rispettiva e corrotta. Perchè molte circostanze che hanno
sviluppato in noi questa o quella qualità non erano volute dalla natura,
e provengono dall'uomo e non da lei. Del resto atteso la detta teoria de' piaceri
particolari, potrebbe anche essere che l'idea dell'infinito, la maraviglia e
qualcuna delle cose piacevoli che ho annoverate come tali a cagione solamente
dell'inclinazione nostra al piacere, fossero piacevoli anche indipendentemente
da questa; e la ragione fosse l'arbitrio della natura, come negli altri piaceri.
Mi sembra però che la ragione della loro piacevolezza sia bastantemente
spiegata nel modo che ho fatto, e che tutti i loro accidenti possano cadere
sotto quelle considerazioni.
L'infinità della inclinazione dell'uomo al piacere è un'infinità
materiale, e non se ne può dedur nulla di grande o d'infinito in favore
dell'anima umana, più di quello che si possa in favore dei bruti nei
quali è naturale ch'esista lo stesso amore e nello stesso grado, essendo
conseguenza immediata e necessaria dell'amor proprio, come spiegherò
poco sotto. Quindi nulla si può dedurre in questo particolare dalla inclinazione
dell'uomo all'infinito, e dal sentimento della nullità delle cose (sentimento
non naturale nell'uomo, e che perciò non si trova nelle bestie, come
neanche nell'uomo [180] primitivo, ed è nato da circostanze accidentali
che la natura non voleva). E il desiderio del piacere essendo una conseguenza
della nostra esistenza per se, e per ciò solo infinito, e compagno inseparabile
dell'esistenza come il pensiero, tanto può servire a dimostrare la spiritualità
dell'anima umana, quanto la facoltà di pensare. Anzi è notabile
come quel sentimento che pare a prima giunta la cosa più spirituale dell'animo
nostro (v. p.106-107.), sia una conseguenza immediata e necessaria (nella nostra
condizione presente) della cosa più materiale che sia negli esseri viventi
cioè dell'amor proprio e della propria conservazione, di quella cosa
che abbiamo affatto comune coi bruti, e che per quanto possiamo comprendere
può parer propria in certo modo di tutte le cose esistenti. Certamente
non c'è vita senza amor di se stesso, e amor della vita. Quanto poi alla
facoltà che ha l'immaginazione nostra di concepire un certo infinito,
un piacere che l'anima non possa abbracciare, cagione vera per cui l'infinito
le piace, quanto dico a questa facoltà, la quale è indipendente
dalla inclinazione al piacere, e stava in arbitrio della natura di darcela o
non darcela, giudichi ciascuno quanto possa provare in favore della nostra grandezza.
Io per me credo 1. che la natura l'abbia posta in noi solamente per la nostra
felicità temporale, che non poteva stare senza queste illusioni. 2. osservo
che questa facoltà è grandissima nei fanciulli, primitivi, ignoranti,
barbari ec. Quindi congetturo e mi par ben verisimile che esista anche nelle
bestie in un certo grado, e relativamente a certe idee, come son quelle dei
fanciulli ec. 3. considero che la ragione, la quale si vuole avere per fonte
della nostra grandezza, e cagione della nostra superiorità sopra gli
altri animali, qui non ha che far niente, se non per [181] distruggere; per
distruggere quello che v'ha di più spirituale nell'uomo, perchè
non c'è cosa più spirituale del sentimento nè più
materiale della ragione, giacchè il raziocinio è un'operazione
matematica dell'intelletto, e materializza e geometrizza anche le nozioni più
astratte. 4. che le illusioni sono anzi affatto naturali, animali, atti dell'uomo
e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all'istinto, il
quale abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione.
Applicate queste considerazioni a quello che soglion dire gli scrittori religiosi,
che il non poter noi trovarci mai soddisfatti in questo mondo, i nostri slanci
verso un infinito che non comprendiamo, i sentimenti del nostro cuore, e cose
tali che appartengono veramente alle illusioni, formino una delle principali
prove di una vita futura.
Tutto il sopraddetto intorno alla teoria del piacere è un nuovo argomento
del quanto si potrebbe semplificare la teoria dell'uomo e delle cose, (v. p.53.)
e del come il sistema intero della natura si aggiri sopra pochissimi principii
i quali producono gl'infiniti e variatissimi effetti che vediamo, e stabiliti
i quali, si direbbe che la natura ha avuto poco da faticare, perchè le
conseguenze ne son derivate necessariamente e come spontaneamente. I fenomeni
dell'animo umano notati dai moderni psicologi perderebbero tutta la maraviglia,
la quale deriva ordinariamente dall'ignoranza della relazione e dipendenza che
hanno gli effetti particolari colle cause generali. P.e. quei fenomeni che ho
analizzati e spiegati di sopra, derivano immediatamente da un principio notissimo,
che è l'amor del piacere. E questo amor del piacere è [182] una
conseguenza spontanea dell'amor di se e della propria conservazione. Questo
è un principio anche più noto e universale, e quasi finale. Tuttavia
quantunque la natura potesse separar queste due cose, esistenza e amor di lei,
e perciò l'amor proprio sia una qualità posta da lei arbitrariamente
nell'essere vivente, a ogni modo la nostra maniera di concepir le cose appena
ci permette d'intendere come una cosa che è, non ami di essere, parendo
che il contrario di questo amore, sarebbe come una contraddizione coll'esistenza
- Perciò l'amor proprio si può considerare ancor esso (nella natura
quale la vediamo) come una conseguenza dell'esistere, e questo in certo modo
anche negli esseri inanimati. Ora discendiamo. Esistenza. amore dell'esistenza
(quindi della conservazione di lei, e di se stesso) - amor del piacere (è
una conseguenza immediata dell'amor proprio, perchè chi si ama, naturalmente
è determinato a desiderarsi il bene che è tutt'uno col piacere,
a volersi piuttosto in uno stato di godimento che in uno stato indifferente
o penoso, a volere il meglio dell'esistenza ch'è l'esistenza piacevole,
invece del peggio, o del mediocre ec.) - amore dell'infinito ec. colle altre
qualità considerate di sopra. Così queste qualità che paiono
disparatissime e particolarissime vengono dirittamente dal principio generale
dell'amor proprio, e tanto necessariamente e materialmente, che si può
dire che la natura, dato che ebbe all'uomo l'amor proprio, e secondo la nostra
maniera di concepire, data che gli ebbe l'esistenza, non ebbe da far altro,
e le dette qualità (delle quali ci facciamo tanta maraviglia), senza
opera sua, vennero da loro.
[183] Conseguito un piacere, l'anima non cessa di desiderare il piacere, come
non cessa mai di pensare, perchè il pensiero e il desiderio del piacere
sono due operazioni egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza.
(12-23. Luglio 1820.)
Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordinaria penetrazione per
rilevare i nostri pregi veri o immaginari che sieno, e profondità di
riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro
queste qualità rispetto a qualunque altra cosa.
(23. Luglio 1820.)
La speranza non abbandona mai l'uomo in quanto alla natura. Bensì in
quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono (gli
autori della Morale universelle t.3.) che il suicidio non possa seguire senza
una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza
ec. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera
e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo
alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v'è speranza nessuna
per noi. (23. Luglio 1820.)
Se nella giornata tu hai veduto o fatto qualche cosa non ordinaria per te, la
sera nell'addormentarti o per qualunque altra cagione, e in qualunque stato,
chiudendo gli occhi, ti vedi subito innanzi, non dico al pensiero, ma alla vista,
le immagini sensibili di quello che hai veduto. E ciò quando anche tu
pensi a tutt'altro, e neanche ti ricordi più di quello che avevi veduto
forse molte ore addietro, nel quale intervallo ti sarai dato a tutte altre occupazioni.
In maniera [184] che questa vista, quantunque appartenga intieramente alle facoltà
dell'anima, e in nessun modo ai sensi, tuttavia non dipende affatto dalla volontà,
e se pure appartiene alla memoria, le appartiene, possiamo dire esternamente,
perchè tu in quel punto neanche ti ricordavi delle cose vedute, ed è
piuttosto quella vista che te le richiama alla memoria, di quello che la stessa
memoria te le richiami al pensiero. Effettivamente molte volte neanche pensandoci
apposta, ci ricorderemmo di alcune cose, che all'improvviso ci vengono in immagine
viva e vera dinanzi agli occhi. E notate che ciò accade senza nessun
motivo e nessuna occasione presente, che tocchi nella memoria quel tasto, perchè
del rimanente molte volte accade che una leggerissima circostanza, quasi movendo
una molla della nostra memoria, ci richiami idee e ricordanze anche lontanissime,
senza nessuno intervento della volontà, e senza che i nostri pensieri
d'allora ci abbiano alcuna parte.
Più volte m'è accaduto di addormentarmi con alcuni versi o parole
in bocca, ch'io avrò ripetute spesso dentro la giornata, o dentro qualche
ora prima del sonno, o vero coll'aria di qualche cantilena in mente; dormire
pensando o sognando tutt'altro, e risvegliarmi ripetendo fra me gli stessi versi
o parole, o colla stess'aria nella fantasia. Pare che l'anima nell'addormentarsi
deponga i suoi pensieri e immagini d'allora, come deponiamo i vestimenti, in
un luogo alla mano e vicinissimo, affine di ripigliarli, subito svegliata. E
questo pure senza operazione della volontà. Parimente s'io dentro la
giornata aveva letto per un certo tempo del greco o latino o francese o italiano
elegante ec. quando la mia memoria era più pronta, (perchè ora
[185] che nello svegliarmi la trovo ottusissima, non mi accade così facilmente)
mi risvegliava con varie frasi di quelle lingue in mente, e quasi parlando quelle
lingue fra me, non ostante che nel sonno, nessuna idea me le avesse richiamate.
Questo pure involontariamente. E così si può dire di cento altre
idee d'ogni sorta, che al risvegliarti si presentano spontaneamente affatto.
(24. Luglio 1820.)
Qualunque cosa ci richiama l'idea dell'infinito è piacevole per questo,
quando anche non per altro. Così un filareo un viale d'alberi di cui
non arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della
grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si
può considerare come una grandezza incircoscritta. Ci piacerà
anche più quel viale quanto sarà più spazioso, più
se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso
al di sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l'idea di una grandezza
infinita che ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i
sensi, e non è opera totalmente dell'immaginazione, la quale come ho
detto, si compiace alcune volte del circoscritto, e di non vedere più
che tanto per potere immaginare ec.
(25. Luglio 1820.)
In ordine alle donne, diceva taluno, ho già perdute due virtù
teologali, la fede e la speranza. Resta l'amore, cioè la terza virtù,
della quale per anche non mi posso spogliare, con tutto che non creda nè
speri più niente. Ma presto mi verrà fatto, e allora finalmente
mi appiglierò alla contrizione.
(25. Luglio 1820.)
[186] La ragione che reca Montesquieu (Essai sur le goût. Des plaisirs
de la symétrie) perchè l'anima amando la varietà, tuttavia
dans la plupart des choses elle aime à voir une espèce de symétrie,
il che sembra che renferme quelque contradiction, non mi capacita. Une des principales
causes des plaisirs de notre ame, lorsqu'elle voit des objets, c'est la facilité
qu'elle a à les appercevoir; et la raison qui fait que la symétrie
plaît à l'ame, c'est qu'elle lui épargne de la peine, qu'elle
la soulage, et qu'elle coupe, pour ainsi dire, l'ouvrage par la moitié.
De-là suit une règle générale: par-tout où
la symétrie est utile à l'ame et peut aider ses fonctions, elle
lui est agréable; mais, par-tout où elle est inutile, elle est
fade, parce qu'elle ôte la variété. Or les choses que nous
voyons successivement doivent avoir de la variété; car notre ame
n'a aucune difficulté à les voir: celles, au contraire, que nous
appercevons d'un coup d'oeil doivent avoir de la symétrie. Ainsi, comme
nous appercevons d'un coup d'oeil la façade d'un bâtiment, un parterre,
un temple, on y met de la symétrie, qui plaît à l'ame par
la facilité qu'elle lui donne d'embrasser d'abord tout l'objet. Ora io
domando perchè noi vedendo una campagna, un paesaggio dipinto o reale
ec. d'un colpo d'occhio come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa
vista, essendo i medesimi, noi vogliamo in quella la varietà, e in questa
la simmetria. E perchè ne' giardini inglesi parimente la varietà
ci piaccia [187] in luogo della simmetria. La ragion vera è questa. I
detti piaceri, e gran parte di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli
che derivano dalla simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla
convenienza. La simmetria non è tutt'uno colla convenienza ma solamente
una parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni gusti ec. che
determinano l'idea delle proporzioni, corrispondenze, ec. La convenienza relativa
dipende dalle stesse opinioni gusti, ec. Così che dove il nostro gusto
indipendentemente da nessuna cagione innata e generale, giudica conveniente
la simmetria, quivi la richiede, dove no non la richiede, e se giudica conveniente
la varietà, richiede la varietà. E questo è tanto vero,
che quantunque si dica comunemente che la varietà è il primo pregio
di una prospettiva campestre, contuttociò essendo relativo anche questo
gusto, si troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una
certa simmetria, come i toscani che sono avvezzi a veder nella campagna tanti
giardini. E così noi per l'assuefazione amiamo la regolarità dei
vigneti, filari d'alberi, piantagioni solchi ec. ec. e ci dorremmo della regolarità
di una catena di montagne ec. Che ha che far qui l'utile o l'inutile? perchè
quando sì, quando no negli oggetti della stessa natura? perchè
in queste persone sì, in quelle no? Di più quegli stessi alberi
che ci piacciono collocati regolarmente in una piantagione, ci piaceranno ancora
collocati senz'ordine in una selva, boschetto ec. La simmetria e la varietà,
gli effetti dell'arte e quelli della natura, sono due generi di bellezze. Tutti
[188] due ci piacciono, ma purchè non sieno fuor di luogo. Perciò
l'irregolarità in un'opera dell'arte ci choque ordinariamente (eccetto
quando sia pura imitazione della natura, come ne' giardini inglesi) perchè
quivi si aspetta il contrario; e la regolarità ci dispiace in quelle
cose che si vorrebbero naturali, non parendo ch'ella convenga alla natura, quando
però non ci siamo assuefatti come i toscani.
Notate che ne' pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo
e frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che
dalle labbra. Vi prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel
lasciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato
e più pazzo della stessa disperazione e pazzia. Cosa però notabilissima
anche nei savi ridotti alla intiera disperazione della vita, e massimamente
dopo concepita una risoluzione estrema, che li fa riposare appunto in questa
estremità d'orrore, e li placa, come già sicuri della vendetta
sopra la fortuna e se stessi.
(26. Luglio 1820.)
Nessun dolore cagionato da nessuna sventura, è paragonabile a quello
che cagiona una disgrazia grave e irrimediabile, la quale sentiamo ch'è
venuta da noi, e che potevamo schivarla, in somma al pentimento vivo e vero.
Così il bene come il male aspettato sono ordinariamente più grandi
che il bene o il male presente. La cagione di tutte due le cose è la
stessa, cioè l'immaginazione determinata dall'amor proprio occupato nel
primo caso dalla speranza, nel secondo dal timore.
Perchè una cosa non piacevole per se stessa, tuttavia [189] piaccia quando
riesce inaspettata, in somma da che derivi il piacere della sorpresa considerata
puramente come sorpresa, si spiega colla teoria della noia esposta di sopra
in questi pensieri. Perchè l'uomo prova piacere ogni volta ch'è
mosso potentemente, purchè non dal timore o dal male. Perchè poi
il piacere inaspettato riesca ordinariamente maggiore dell'aspettato, si spiega
parte colla detta ragione, parte con quella che ho notata, p.73. E v. se vuoi
Montesquieu Essai sur le goût. Des plaisirs de la surprise. Amsterdam
1781. p.386. Du je ne sais quoi. p.394. progression de la surprise p.398.
L'affettazione ordinariamente è madre dell'uniformità. Da ciò
viene che sazia ben presto. In tutti gli scritti di un gusto falso e affettato,
come in tante poesie straniere, come nelle poesie orientali, osservate che voi
sentirete sempre un senso di monotonia, come guardando quelle figure gotiche
che dice Montesquieu, l.c. des Contrastes p.383. E questo quando anche il poeta
o lo scrittore abbia cercato la varietà a più potere. Ragioni.
1. L'arte non può mai uguagliare la ricchezza della natura, anzi vediamo
quante varietà svaniscano quando l'arte se ne impaccia, come nei caratteri
e costumi e opinioni dell'uomo e in tutto il gran sistema della natura umana
già pieno di varietà, sia nelle idee e nell'immaginazione sia
nel materiale, ed ora dall'arte reso tanto uniforme. Così dunque l'affettazione.
2. L'affettazione continua è una uniformità da se sola, cioè
in quanto è una qualità continua dell'opera d'arte. Non dite che
in questo caso anche la naturalezza continua dovrebbe riuscire uniforme. 1.
la naturalezza non risalta nè stanca [190] nè dà negli
occhi come l'affettazione (ch'è una qualità estranea alla cosa),
eccetto s'ella pure fosse ricercata e affettata, nel qual caso non è
più naturalezza ma affettazione, come spessissimo nelle dette poesie.
2. la naturalezza appena si può chiamar qualità o maniera, non
essendo qualità o maniera estranea alle cose, ma la maniera di trattar
le cose naturalmente, e com'elle sono, vale a dire in mille diversissime maniere,
laonde le cose sono varie nella poesia, nello scrivere, in qualunque imitazion
vera, come nella realtà. Applicate queste osservazioni anche alle arti,
p.e. ai paesaggi fiamminghi paragonati a quelli del Canaletto veneziano (v.
la Dionigi Pittura de' paesi), alle stampe di Alberto Duro, dove lo stento e
l'accuratezza manifesta del taglio dà un colore uguale e monotono alla
più gran varietà di oggetti imitati nel resto eccellentemente
e variatissimamente. Così accade che la negligenza apparente, e l'abbandono,
lasciando cader tutte le cose nella scrittura come cadono naturalmente (o in
pittura ec.) sia certa origine di varietà, e quindi non istanchi come
le altre qualità della scrittura ec. p.e. anche l'eleganza: giacchè
nessuna stancherà meno della disinvoltura.
Dalle due sopraddette ragioni intendete perchè la massima parte delle
scritture e specialmente poesie francesi stanchino sopra modo. Il loro eterno
stile di conversazione 1. dev'essere infinitamente meno vario del naturale,
come l'arte della natura. 2. dà un colore uniforme alle cose più
varie, ed un colore ch'essendo estraneo alla cosa, risalta, e stanca a brevissimo
andare. In fatti osservate che le poesie francesi paiono tutte d'un pezzo, per
la grande monotonia, e il senso che producono è questo, d'una cosa dura
dura e non pieghevole, nè adattabile [191] a niente.
Il suono dello j, e ge e gi francese è un suono distintissimo che manca
alla nostra lingua, e forma effettivamente un'altra lettera dell'alfabeto. Nè
si può chiamare un composto di g, ed s. 1. perchè è distintissimo
dal suono di ciascuna di queste due lettere, 2. perchè si pronunzia tutto
in un solo istante, e non successivamente come noi italiani pronunzieremmo sgi
o sghi o gsi, ma sibbene come il z il quale è una lettera bella e buona
distintissima dalle altre, e non un composto di t ed s. Osservate anche le due
diverse pronunzie del z l'una o l'altra delle quali manca io credo a parecchie
nazioni, e la s schiacciata dei francesi che manca parimente a noi.
(28. Luglio 1820.)
Il primo autore delle città vale a dire della società, secondo
la Scrittura, fu il primo riprovato, cioè Caino, e questo dopo la colpa
la disperazione e la riprovazione. Ed è bello il credere che la corruttrice
della natura umana e la sorgente della massima parte de' nostri vizi e scelleraggini
sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa. E come
il primo riprovato fu il primo fondatore della società, così il
primo che definitamente la combattè e maledisse, fu il redentore della
colpa, cioè Gesù Cristo, secondo quello che ho detto p.112.
Con quello che dice Montesquieu, Essai sur le Goût. Des diverses causes
qui peuvent produire un sentiment. De la sensibilité. De la délicatesse
p.389-393. spiegate la cagione per cui c'interessino tanto le Storie romana
e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec. composte
[192] sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell'interesse non ci possa esser
suscitato da nessun'altra storia, o poema sopra altri fatti ancorchè
benissimo cantati, come dall'Ossian, o tragedia d'altri argomenti, quando anche
appartengano alla nostra storia patria più immediata, come agli avvenimenti
de' bassi tempi ec. e molto meno dalle poesie orientali, e da cento altre belle
cose volute e messe in voga dai nostri romantici, che di vera psicologia non
s'intendono un fico. Tutto proviene dalla moltiplicità delle cause che
producono in noi un sentimento, e sono, rispetto alle dette cose, ricordanze
della fanciullezza, abitudine presa, fama universale di quelle nazioni e di
quei poeti, affezionamento ancorchè involontario, continuo uso di sentirne
parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per quelli che ne hanno parlato,
tutte ragioni la mancanza delle quali rende difficilissimo, e forse impossibile
il fare ugualmente interessante un soggetto nuovo, massime in poesia, dove tutto
il diletto proviene dall'interesse, e non può stare colla sola curiosità,
o desiderio d'istruirsi ec. come nelle storie e simili. E v. il mio discorso
sui romantici. Souvent notre ame se compose elle-même des raisons de plaisir,
et elle y réussit surtout par les liaisons qu'elle met aux choses. Questo
e tutto l'altro che dice Montesquieu è notabilissimo, e applicabile a
diversissimi casi e condizioni nelle quali ci riesce piacevole quello che ad
altri non riesce, e a noi [193] stessi non riusciva in altre circostanze. P.e.
fu un tempo non breve in cui la poesia classica non mi dava nessun piacere,
e io non ci trovava nessuna bellezza. Fu un tempo in cui io non trovava altro
studio piacevole che la pura e secca filologia, che ad altri par noiosissima.
Fu un tempo in cui le scienze mi parevano studi intollerabili. E quanti nelle
loro professioni trovano piaceri, che agli altri parranno maravigliosi, non
potendo comprendere che diletto si trovi in quelle occupazioni! E nominatamente
in quello che appartiene alle lettere e belle arti, chi non sa e non vede tuttogiorno
che il letterato e l'artista trova piaceri incredibili e sempre nuovi nella
lettura o nella contemplazione di questa o di quell'opera, che letta o contemplata
dai volgari, non sanno comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto
lo troveranno in cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate ancora
la diversità de' gusti ne' diversi tempi, classi, nazioni, climi ec.
(29. Luglio 1820.)
Gran magistero della natura fu quello d'interrompere, per modo di dire, la vita
col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi
come un rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù ec.
v. p.151. Oltre alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti,
che fanno di una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall'altra
è un sommo rimedio contro la monotonia dell'esistenza. Nè questa
si poteva diversificare e variare maggiormente, che componendola in [194] gran
parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte.
Il ritrovare e procacciare la felicità destinata dalla natura all'uomo,
non è più opera del privato neanche per se solo. Non in società,
perchè ognuno vede come ci si vive, e il privato non può migliorare
le nostre istituzioni. Non nella vita domestica solitaria e primitiva, perchè
i piaceri suoi non possono più cadere in persone disingannate ed esaurite
nella immaginazione. Il dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi,
movimento, vita; il rinnuovare le illusioni perdute ec. ec. e opera solo de'
potenti.
La politica non deve considerar solamente la ragione, ma la natura, dico la
natura vera e non artefatta nè alterata. Il codice de' Cristiani in quante
cose si scosta dalla fredda ragione per accostarsi alla natura! Esempio poco
o nulla imitato dai legislatori moderni.
Oltre che il virtuoso è per l'ordinario sconosciuto e non voluto conoscere
e confessare dalla moltitudine che è formata dai tristi, tale è
la misera condizione dell'uomo in società, e dell'intrigo delle circostanze,
ch'egli è sovente sconosciuto e pigliato per tutt'altro, anche dagli
altri pochissimi virtuosi. Io mi sono abbattuto a dovere stimare ed amare due
persone di rettissimo cuore, che per alcuni incontri datisi tra loro, si stimavano
scambievolmente con intima persuasione, pessimi di carattere e di cuore. Tant'è,
noi giudichiamo del carattere degli uomini dal modo nel quale si sono portati
verso noi o perchè credessero di dovere, e anche dovessero portarsi così,
o arbitrariamente, o per forza di congiunture, o anche per colpa. E il [195]
più scellerato del mondo, se non ci avrà nociuto, e per qualunque
motivo, avrà avuto occasione di beneficarci, anche semplicemente di trattarci
bene, di mostrarcisi affabile manieroso rispettoso ec. basterà questo
perch'egli nell'animo nostro abbia un posto non cattivo, ed anche di uomo onesto.
E quando anche l'intelletto ripugni, il cuore e la fantasia ne terranno sempre
questo concetto. Questa dovrebb'essere regola generale per qualunque senta dir
bene o male di chicchessia. Se quegli che parla, parla per altrui relazione,
o se parla di mala fede può avere altri motivi. Ma tolti questi due casi,
ordinariamente nella vita privata, tu devi supporre che quegli che ti parla
ha ricevuto bene o male da quella tal persona, e da tutto il suo discorso non
credere di restare informato se non di questo.
(31. Luglio 1820.)
Gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare bisogna
sparlare bravare minacciare e far chiasso. Bisogna adoperar l'espediente di
quelle monache del Tristram Shandy.
(1 Agosto 1820.)
Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è
spenta in noi l'inclinazione. Se è tolto l'ottenere, non è tolto
nè possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani
l'ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità
e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo
ardore, vedete a che cosa li debba portare e li porti effettivamente. L'ardor
giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava
grandemente nella considerazione [196] degli uomini di stato. Questa materia
vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici
e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Frattanto
ella esiste ed opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser
posta a frutto (opera perchè quantunque tutte le istituzioni tendano
a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in un vigor primo freschissimo
e sommo com'è in quell'età) e laddove anticamente era una materia
impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia
così naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva,
circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si
può sopire nè impiegare in bene nè impedire che non iscoppi
in temporali in tremuoti ec. (1. Agosto 1820.).
Alla p.164. pensiero primo, aggiungi. Se tu vedi un fanciullo, una donna, un
vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro debolezza
impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a compassione,
e non proccuri, potendo, d'aiutarli. E se tu vedi che tu dai incomodo o dispiacere
ec. ad uno il quale soffre senza poterlo impedire, sei di marmo, o di una irriflessione
bestiale, se ti dà il cuore di continuare.
Anche gli uomini già sazi della lode, e persuasi della loro fama che
non guadagna per le espressioni particolari di questo o di quello, sono sensibili
alla lode che riguarda qualche pregio diverso da quelli per cui sono famosi.
E però, eccetto le persone avvezze a essere adulate in ogni cosa, nessuno
diviene indifferente alla lode in [197] genere, ma alla lode di quelle tali
sue qualità. Di più la lode più cara è spesso quella
che cade sopra una cosa nella quale tu desideri, ma dubiti o stimi di non esser
lodevole, o che altri non ti abbia per tale.
Dice Diogene Laerzio di Chilone che ???(??????????(???????????????????????????????(???????????????????????????????????.
E questo precetto si deve estendere, massimamente oggidì in tanta propagazione
dell'egoismo, a tutti i vantaggi particolari di cui l'individuo può godere.
Perchè se tu sei bello non ti resta altro mezzo per non essere odiosissimo
agli uomini che un'affabilità particolare, e come una certa noncuranza
di te stesso, che plachi l'amor proprio altrui offeso dall'avvantaggio che tu
hai sopra di loro, o anche dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto,
potente ec. Quanto maggiore è l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri,
tanto più per fuggir l'odio, t'è necessaria una maggiore amabilità,
e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in faccia agli altri, perchè
tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in te stesso e che gli altri
non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per se sola, senza che tu
sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa
notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali,
che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano
cura dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e quindi un [198] seguito
non interrotto di felicità li rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone
de Bello Parthico.
(4. Agosto 1820.). V. p.453. capoverso ult.
Montesquieu (Essai sur le Goût. Du je ne sais quoi) fa consistere la grazia
e il non so che, principalmente nella sorpresa, nel dar più di quello
che si prometta ec. In questa materia della grazia così astrusa nella
teoria delle arti, come quella della grazia divina nella teologia, noterò
1. L'effetto della grazia non è di sublimar l'anima, o di riempierla,
o di renderla attonita come fa la bellezza, ma di scuoterla, come il solletico
scuote il corpo, e non già fortemente come la scintilla elettrica. Bensì
appoco appoco può produrre nell'anima una commozione e un incendio vastissimo,
ma non tutto a un colpo. Questo è piuttosto effetto della bellezza che
si mostra tutta a un tratto, e non ha successione di parti. E forse anche per
questo motivo accade quello che dice Montesquieu, che le grandi passioni di
rado sono destate dalle grandi bellezze, ma ordinariamente dalla grazia, perchè
l'effetto della bellezza si compie tutto in un attimo, e all'anima dopo che
s'è appagata di quella vista non rimane altro da desiderare nè
da sperare, se però la bellezza non è accompagnata da spirito,
virtù ec. Al contrario la grazia ha successione di parti, anzi non si
dà grazia senza successione. Quindi veduta una parte, resta desiderio
e speranza delle altre. 2. Perciò la grazia ordinariamente consiste nel
movimento: e diremo così, la bellezza è nell'istante, e la grazia
nel tempo. Per movimento intendo anche tutto quello che spetta alla parola.
3. Veramente non è grazia [199] tutto quello ch'è sorpresa. Già
si sa quante sorprese non abbiano che far colla grazia, ma anche in punto di
donne, e di bello, la sorpresa non è sempre grazia. Ponete una bellissima
donna mascherata, o col viso coperto, e supponete di non conoscerla, e ch'ella
improvvisamente vi scopra il viso, e che quella bellezza vi giunga affatto inaspettata.
Quest'è una bella e piacevole sorpresa, ma non è grazia. E per
tener dietro precisamente a quello che dice Montesquieu, che la grazia deriva
principalmente da questo che nous sommes touchés de ce qu'une personne
nous plaît plus qu'elle ne nous a paru d'abord devoir nous plaire; et
nous sommes agréablement surpris de ce qu'elle a su vaincre des défauts,
que nos yeux nous montrent et que le coeur ne croit plus, supponete di vedere
una donna o un giovane di persona disavvenente, e all'improvviso mirandolo in
volto, trovarlo bellissimo; questa pure è sorpresa, ma non grazia. 4.
Pare che la grazia consista in certo modo nella naturalezza, e non possa star
senza questa. Tuttavia primieramente, siccome la natura, secondo che osserva
anche Montesquieu, è ora più difficile a seguire, e più
rara assai che l'arte, così notate che quelle grazie che consistono in
pura naturalezza, non si danno ordinariamente senza sorpresa. Se tu senti o
vedi un fanciullo che parla o vero opera, le sue parole e le sue azioni e movimenti,
ti riescono sempre come straordinari, hanno un non so che di nuovo e d'inaspettato
che ti punge, e fa una certa maraviglia, e tocca la curiosità. Così
in qualunque altro soggetto di naïveté. In secondo luogo ci sono
anche delle cose non naturali, che pur sono graziose; o vero naturali, ma graziose
non per questo che sono naturali. P.e. [200] alcuni difettuzzi in un viso, piacciono
assai, e paiono grazie a molti. Chi s'innamora di un naso rincagnato (come quel
Sultano di Marmontel), chi di un occhio un po' falso ec. Un parlar bleso ec.
a molti par grazia. E si vedono tuttogiorno, amori nati appunto da stranezze
o difetti della persona amata. Così nello spirito e nel morale. Il primo
amore dell'Alfieri fu per una giovane di una certa protervia che mi faceva,
dic'egli, moltissima forza. E di questo genere si potrebbero annoverare infinite
cose che paiono graziosissime e destano fiamma in questo o in quello, e ad altri
parranno tutto il contrario. Così un viso di quel genere che chiamano
piccante, vale a dire imperfetto, e irregolare, fa ordinariamente più
fortuna di un viso regolare e perfetto. Par cosa riconosciuta che la grazia
appartenga piuttosto al piccolo che al grande, e che se al grande conviene la
maestà, la bellezza, la forza ec. la grazia e la vivacità non
gli possa convenire. Questo in qualsivoglia cosa, e astrattamente parlando,
uomini, statue, manifatture, poesie ec. ec. ec. Un piccolin si mette Di buona
grazia in tutto dice il Frugoni. Ed è cosa ordinaria di chiamar graziosa
una persona piccola, e spesso in maniera come se piccolezza fosse sinonimo di
grazia. 5. Da queste cose deducete che in somma la definizione della grazia
non si può dare, e Montesquieu non l'ha data, benchè paia crederlo,
e bisogna sempre ricorrere al non so che. Perchè 1. se la sorpresa è
spesso compagna della grazia, è certo che questa è ben diversa
dalla sorpresa, cioè perchè una cosa sia graziosa, non basta che
sorprenda, bisogna che sia di quel tal genere, [201] e questo genere che cos'è?
2. non la sola naturalezza, come abbiamo veduto; non il perfetto, anzi spesso
il difettoso, l'irregolare, e lo straordinario; non tutto l'imperfetto, l'irregolare,
e lo straordinario, com'è manifesto: che cosa dunque? 3. Concedo che
spesso il sentimento della grazia contenga sorpresa, ma non è grazioso
per questo che sorprende, altrimenti tutto il sorprendente sarebbe grazioso,
ma perch'è un certo non so che. 4. Quel modo in cui Montesquieu spiega
questo non so che nelle parole riportate di sopra, non sussiste se non in alcuni
casi. Un viso piccante ed irregolare nous plaît veramente d'abord e senz'altro,
e qui non c'entra l'aver saputo vincere il difetto ec. Si vede ch'esso stesso
contiene propriamente in se una qualità piacevole distinta da tutto il
resto. È vero che un viso irregolare piace con una certa sorpresa, ma
quel che piace non è solamente nè principalmente la sorpresa,
altrimenti un viso mostruoso piacerebbe di più. Applicate queste considerazioni
agli altri esempi riportati di sopra, in tutti i quali non ha che far niente
il dare più di quello che si prometta, o non è la cagion principale
ed intima di quel tal piacere, ma piuttosto estrinseca e accidentale. 5. Il
grazioso è relativo come il bello, cioè ad uno sì, a un
altro no ec. L'esperienza lo mostra, che come non c'è tipo della bellezza,
così neanche della grazia. E quantunque paia che l'idea della naturalezza
debba essere universale, tuttavia non è, e presso noi passano per naturali
infinite cose che sono tutt'altro, e ai villani parranno naturali e graziose
cento maniere che a noi parranno grossolane ec. Così secondo le diverse
nazioni costumi abitudini opinioni ec. Non che la natura non abbia le sue maniere
[202] proprie, certe e determinate, ma succede qui come nel bello. Un cavallo
scodato, un cane colle orecchie tagliate, è contro natura, una donna
coi pendenti infilzati nelle orecchie, un uomo colla barba tagliata ec. eppur
piacciono. Molto più discordano i gusti intorno alla grazia indipendente
dalla naturalezza. 6. Quantunque questo non so che, non si possa definire, se
ne possono notare alcune qualità 1mo Spessissimo la semplicità
è fonte, o proprietà della grazia. 2do. Quantunque la grazia ordinarissimamente
consista nell'azione, tuttavia può stare qualche volta anche senza questa,
come appunto molte grazie derivanti dalla semplicità, p.e. nelle opere
di belle arti, nell'abito di una pastorella, citato anche da Montesquieu come
grazioso, insieme colle pitture di Raffaello e Correggio. Anche un viso piccante
ma non bello, si può dire che contenga questo non so che, e punga, senza
bisogno di azione, come p.e. veduto in un ritratto, quantunque d'ordinario prenda
risalto dal movimento. 3zo. La naturalezza non è la sola fonte della
grazia, e pure non c'è grazia, dove c'è affettazione. Il fatto
è che quantunque una cosa non sia graziosa per questo ch'è naturale,
tuttavia non può esser graziosa se non è, o non par naturale,
e il minimo segno di stento, o di volontà, ec. ec. basta per ispegnere
ogni grazia. Dico, se non pare, perchè le grazie della poesia, del discorso,
delle arti ec. per lo più paiono naturali e non sono. 4to La piccolezza
abbiamo veduto come abbia che far colla grazia. 5to Lo svelto, il leggero, parimente
ha che far colla grazia. E notate che i movimenti molli e leggeri di una persona
di taglio svelto, sono graziosi senza sorpresa, giacchè non è
strano che i moti di una tal persona sieno facili e leggeri. Bensì muovono
una certa maraviglia o ammirazione [203] diversa dalla sorpresa, la quale nasce
dall'inaspettato, o dall'aspettazione del contrario. Così la maraviglia
prodotta dalle belle arti, con tutto che appartenga al bello, non ha che far
colla grazia. 6to L'effetto della grazia ordinariamente è quello che
ho detto, di scuotere e solleticare e pungere, puntura che spesso arriva dirittamente
al cuore, come se tu vedi due occhi furbi di una donna rivolti sopra di te,
nel qual caso la scossa si può paragonare anche all'elettrica. Ma in
quella grazia che spetta p.e. alla semplicità pare che se l'effetto è
di solleticare, non sia di pungere, e forse si può fare su questa considerazione
una distinzione di due grazie, l'una piccante, l'altra molle, insinuante, glissante
dolcemente nell'anima. E forse la prima si chiama più propriamente il
non so che. 7mo La vivacità ha che far colla prima specie di grazia.
Ma con tutto ciò la vivacità non è grazia. 8vo Nei cibi
parimente si dà una certa grazia, ora della prima, ora anche della seconda
specie. Quelli che chiamano ragoûts appartengono alla prima. E qui pure
discordano i gusti infinitamente.
In somma non saprei che dire. Si potrebbe conchiudere che la grazia consiste
in un certo irritamento nelle cose che appartengono al bello e al piacere. Così
si verrebbe ad escludere un viso mostruoso ec. e dall'altra parte, il piacere
troppo spiccato e sfacciato, come quello della bellezza, dei godimenti corporali,
del desiderio soddisfatto; potendo la grazia chiamarsi piuttosto uno stuzzica-appetito,
che una soddisfazione di esso.
(4-9. Agosto 1820.)
L'affettazione nuoce anche alla maraviglia, capital cagione del diletto nelle
arti. Primieramente il conoscere il proposito toglie [204] la sorpresa. Poi,
e questo è il principale, non vedi somma difficoltà in una figura
somigliantissima al vero, ma stentata. Oltre che lo stento detrae al vero, perchè
non appartiene al vero se non la naturalezza, non è maraviglia, che con
fatica ti sia riuscito, quello che volevi. E non è maraviglia che tu
facci una cosa volendo, come che tu la facci, senza che gli altri si accorgono
che tu l'abbi voluto. E non è difficile il fare una cosa difficile, difficilmente,
ma in modo che paia facile. Così c'è il contrasto fra la nota
difficoltà della cosa, e l'apparente difficoltà del modo. L'affettazione
toglie il contrasto ec. ec. V. se vuoi Montesquieu, Essai sur le goût.
Amsterdam 1781. du je ne sais quoi. p.396-397.
(9. Agosto 1820.)
In proposito di quello che ho detto p.197. io so di una donna desiderosa di
concepire che bastonava fieramente una cavalla pregna, dicendo, tu gravida e
io no. L'invidia e l'odio altrui per le felicità che hanno, cade ordinariamente
sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de' quali vorremmo
esser gli unici o i principali possessori ed esempi. Sopra gli altri beni non
è cosa ordinaria l'invidia, ancorchè sieno beni grandissimi. Del
resto quantunque l'invidia riguardi per lo più i nostri simili, coi quali
solamente sogliamo entrare in competenza, nondimeno si vede che il furore di
questa passione può condurre all'invidia e all'odio anche delle altre
cose.
(10. Agosto 1820.)
Tutti i caratteri principali dello spirito antico, che si trovano in Omero,
e negli altri greci e latini, si trovano anche [205] in Ossian, e nella sua
nazione. Lo stesso pregio del vigor del corpo, della giovanezza, del coraggio,
di tutte le doti corporali. La stessa divinizzazione della bellezza. Lo stesso
entusiasmo per la gloria e per la patria. In somma tutti i beati distintivi
di una civilizzazione che sta nel suo vero punto fra la natura e la ragione.
Del resto, pietà filiale, e paterna, e tutti gli altri sentimenti doverosi
e naturali, hanno fra i caledoni tutta la loro forza. Il divario tra i greci
ed Ossian consiste principalmente in una malinconia generata dalle disgrazie
particolari, e non dalla disperante filosofia, ma più propriamente e
generalmente dal clima. Questa cagione non solo si conosce ma si sente nell'Ossian,
e perciò rende la sua malinconia molto inferiore a quella dei meridionali,
Petrarca, Virgilio, ec. nei quali si conosce e sente anche una potenza di allegria,
come pure in Omero ec. cosa necessaria alla varietà, all'ampiezza della
poesia composta di diversissimi generi, e quasi anche al sentimento.
Ossian prevedeva il deterioramento degli uomini e della sua nazione. V. Cesarotti
osservazione ultima al poemetto della guerra di Caroso. Ma certo quando egli
diceva ec. (v. gli ultimi versi d'esso poemetto) non prevedeva che la generazione
degl'imbelli si dovesse chiamar civile, e barbara la sua, e le altre che la
somigliarono.
Oste albergatore, ed anche ospite, ossia albergato, appresso gli antichi italiani.
V. la Crusca. Hostis aveva appunto questa seconda significazione appresso gli
antichi latini. V. il Forcellini. [206] Ed ecco una parola latina disusata ai
tempi di Cicerone, ricomparisce nei principii della nostra lingua. E forse hostis
avrà avuto anche il significato di albergatore, come oste oggidì,
e come hospes ed ospite in latino ed in italiano hanno lo stesso doppio senso
di albergatore e albergato.
(10. Agosto 1820.)
Straniero ossia ospite si prendeva per nemico anche nell'antica lingua celtica.
V. Cesarotti note al Fingal, Canto primo. Bassano 1789. t.1. p.17. E così
appoco appoco si sarà cambiato il significato di hostis, cioè
considerando lo straniero come nemico.
Cleobulo, dice Diog. Laerz, ???????????????????????(uxori) ?????????????????
?????????????, ???????????????????????????????????????????????????????????????
V. p.233.
Il medesimo, ??????????????????????????????????????????????????????????
In proposito di quello che ho detto p.68. nel pensiero, Guardate, Chilone, dice
il Laerz. ???????????????????????????????????????????????????. V. la nota d'Is.
Casaubono al Laerz. Vit. Polemon. l.4. segm.16.
La grazia propriamente non ha luogo se non nei piaceri che appartengono al bello.
Una novità, un racconto curioso, una nuova piccante, tutto quello che
punge o muove o solletica la curiosità, sono irritamenti piacevoli ma
non hanno che far colla grazia. E quelli che appartengono ai cibi, o a qualunque
altro piacere parimente, somigliano alla grazia, e possono esserne esempi, ma
non confondersi con lei. Perciò la grazia va definita semplicemente,
un irritamento nelle cose che appartengono al bello, tanto sensibile, quanto
intellettuale, come il bello poetico ec.
[207] Le grazie della lingua sono più che mai relative a quelle persone
che la intendono perfettamente ec. e non mai assolute. Così le grazie
attiche, toscane ec. forse più graziose per gli altri italiani che per
gli stessi toscani, a cagione di una certa sorpresa ec. ma poco o nulla agli
stranieri.
Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare
e grande si distingua al di fuori per un volto o un occhio assai vivo, ma del
resto per un corpo esilissimo e sparutissimo e anche difettoso. Pope, Canova,
Voltaire, Descartes, Pascal. Tant'è: la grandezza appartenente all'ingegno
non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice
dell'anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero. Non così anticamente,
dove il genio e la grandezza era più naturale e spontanea, e con meno
ostacoli a svilupparsi, oltre la minor forza della distruttrice cognizione del
vero inseparabile oggidì dai grandi talenti, e il maggior esercizio del
corpo riputato cosa nobile e necessaria, e come tale usato anche dalle persone
di gran genio, come Socrate ec. E Chilone uno de' sette savi non credeva alieno
dalla sapienza il consigliare come faceva, ?????????????????? (Laerz.), e questo
consiglio si trova registrato fra i documenti della sua sapienza. In particolare
poi quanto alla politica, oggidì l'uomo di stato si può dir che
sia come l'uomo di lettere, sempre occupato alle insaluberrime fatiche del gabinetto.
Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava agli affari civili, e nella sua giovanezza
fortificava necessariamente il corpo cogli esercizi la milizia ec. senza i quali
sarebbe stato quasi infame; e lo stesso esercizio della politica era pieno di
azione corporale, trattandosi di agire col popolo, clienti, impegni ec. ec.
Così anche la vita di qualunque altro uomo di genio era sempre piena
di azione nell'esercizio stesso delle sue facoltà. [208] Esempio ne può
essere Omero, secondo quello che si racconta della sua vita, viaggi ec. Di Cicerone
che tanto incredibilmente affaticò la mente e la penna, e che nacque
di quell'ingegno e natura unica che ognun sa, niun dice che fosse di corpo,
non che infermiccio, ma gracile, le quali qualità oggi s'hanno per segni
caratteristici, e condizioni indispensabili de' talenti non pur sommi ma notabili,
e massime di chi avesse coltivato e occupato tanto la mente negli studi letterari
e nello scrivere, come Cicerone anzi per una metà. Quel che dico di Cicerone
può dirsi di Platone, e di quasi tutti i grandissimi ingegni e laboriosissimi
letterati e scrittori antichi. V. però Plutarco Vita di Cic.
(11. Agosto 1820.). V. p.233. capoverso 3.
La grazia appena io credo che possa esser concepita dai francesi con idea vera.
Certo i loro scrittori non la conoscono. Lo confessa pienamente Thomas Essai
sur les Éloges ch.9. Infatti manca loro cette sensibilité tendre
et pure, cioè inaffettata e naturale (l'avrebbero per natura, ma la società
non vuole che la conservino: l'avevano i loro antichi scrittori) e cet instrument
facile et souple vale a dire una lingua come la greca e l'italiana. V. senza
fallo quel passo di Thomas.
(13. Agosto 1820.)
Non solamente il bello ma forse la massima parte delle cose e delle verità
che noi crediamo assolute e generali, sono relative e particolari. L'assuefazione
è una seconda natura, e s'introduce quasi insensibilmente, e porta o
distrugge delle qualità innumerabili, che acquistate o perdute, ci persuadiamo
ben presto di non potere avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi
eterne e immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l'opera del caso
e delle circostanze accidentali e arbitrarie. Aggiungete all'assuefazione, le
opinioni i climi i temperamenti corporali o spirituali, e persuadetevi che molto
ma molto poche verità sono assolute e inerenti al sistema delle cose.
Oltre all'indipendenza da queste verità che può trovarsi in altri
sistemi di cose.
(13. Agosto 1820.)
In somma dal detto qui sopra e da mille altre [209] cose che si potrebbero dire,
si deduce quanto giustamente i moderni ideologisti abbiano abolite le idee innate.
Archelao diceva secondo Diogene Laerzio che ?? ??????? ??? ?? ??????? non è
determinato dalla natura ma dalla legge. E così la legge naturale ancora
potrà esser considerata come un sogno. Abbiamo si può dire innata
l'idea astratta della convenienza, ma quali cose si convengano in morale, appartiene
alle idee relative. Considerate la morale dei diversi popoli, massimamente barbari.
E mettetevi nello stato primitivo dell'uomo. Vedrete che il far male agli altri
per vostro bene non vi ripugna. Il vostro simile in natura non è una
cosa così inviolabile, come credete. L'uomo solitario e selvaggio fa
mondo da se, e il suo simile è come un'altra fiera del bosco. Bensì
l'uomo è naturalmente più inclinato al suo simile, come rispettivamente
le altre bestie. Ma anche il leone combatte col leone, e il toro col toro per
li suoi diletti e vantaggi. Ho detto p.178. che la natura ha poste negli esseri
diverse qualità che si sviluppano o no, secondo le circostanze. P.e.
la facoltà di compatire. In natura è molto meno operosa. Ma non
è già propria del solo uomo. In casa mia v'era un cane che da
un balcone gittava del pane a un altro cane sulla strada. V. quello che racconta
il Magalotti di una cagna nelle Lettere sull'Ateismo. In natura si ristringe
a quegli esseri che ci toccano più da vicino. Così gli uccelli
coi loro figliuolini, vedendoseli rapire ec. Se vedranno un [210] altro uccello
della specie loro, travagliato o moribondo, non se ne daranno pensiero. Secondo
lo sviluppo delle diverse qualità per le diverse circostanze, è
nata la legge detta naturale. Il rubare l'altrui non ripugna assolutamente alla
natura. Costume degli Spartani. Differenze dalle leggi antiche alle moderne.
La società non è già propria del solo uomo. Le formiche
la fanno per trasportar pesi. Le api hanno anche un governo. In somma considerando
la natura dell'uomo e delle cose, si vedrà che tolte alcune idee astratte
e indeterminate, ossia non applicate, ma da applicarsi, tutto il resto è
relativo, e dipende dalle circostanze, e che negli altri esseri come nell'uomo
ci sono diverse qualità ingenite che sviluppandosi o no, ci fanno poi
giudicare vanamente della somiglianza assoluta della nostra razza colle altre.
(14. Agosto 1820.)
Diciamo male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si soddisfanno
i desideri, conseguito che abbiamo l'oggetto, ma si spengono, cioè si
perdono ed abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare.
E tutto quello che si guadagna conseguito l'oggetto desiderato, è di
conoscerlo intieramente.
(14. Agosto 1820.)
Come l'amore così l'odio si rivolge principalmente sopra i nostri simili,
nè si desidera mai così intensamente la vendetta di una bestia
come di un nemico. E notate: quando altri ci abbia fatto del male non volendo,
tuttavia il risentimento che [211] ne proviamo è maggiore che per una
bestia la quale volendo ci abbia fatto un maggior male.
Alla p.196. capoverso primo, aggiungi. Ci commuove molto più una rondinella
che vede strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli,
di quello che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso. V. Virg. Georg.
4. Qualis populea moerens philomela sub umbra ec.
È curioso che si riprenda (dagli stranieri particolarmente) Michelangelo
per aver troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e
si dia per regola di nasconder sempre questa scienza nell'arte dello scolpire
o del dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice,
mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla); e che frattanto
gli stranieri massimamente non sieno mai così contenti come quando hanno
inzeppato le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni astratte e metafisiche,
di psicologia, d'ideologia, di storia naturale, di scienza, di viaggi, di geografia,
di politica, e d'erudizione, scienza, arte, mestiero d'ogni sorta. E mentre
non vogliono l'erudizione antica, lodano e abusano vituperosamente della moderna.
(15. Agosto 1820.). V. la p.238. capoverso 8.
A proposito di quello che ho detto p.152. pens. ult. notate che l'immaginazione
dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma l'una, cioè
la fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi
in un'idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio,
di qualsivoglia occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni
allo studio non solo pel poco intelletto, ma perchè son pieni di distrazioni.
[212] Giacchè la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito
da un oggetto per attaccarsi a un altro. Eccetto alcuni fanciulli d'immaginazione
destinata a grandi cose, e a fargli infelici quando saranno maturi, la profondità
della quale li fissa fortemente in questa o in quella idea, ordinariamente paurosa
o dolorosa, e li tormenta nella stessa fanciullezza, com'è accaduto a
me. Ed è notabile come questa profondità della immaginazione li
renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del quale non trovano pace,
spaventandosi dello straordinario, e contando per disgrazia insopportabile l'aver
tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es. di Pietrino, e mio. Del resto
l'effetto della immaginazione dei fanciulli qual sia, v. p.172. fine.
Domandava una donna (un cortigiano) a un viaggiatore, avendogli a dire una cosa
poco piacevole; volete ch'io vi parli sinceramente? Rispose il viaggiatore,
anzi ve ne prego. Noi altri viaggiatori cerchiamo le rarità.
(16. Agosto 1820.)
La soprabbondanza della immaginazione è quella che tormenta i fanciulli
detti qui sopra, e perciò in luogo di cercarla nello straordinario, cercano
di spegnerla o addormentarla col metodo. Cosa che accade anche agli uomini.
V. il carattere di Lord Nelvil nella Corinna.
(16. Agosto 1820.)
L'irritamento della grazia è piacevole come un irritamento corporale
nel gusto nel tatto, ec. E come una maggiore irritabilità e dilicatezza
del palato, fibre [213] ec. rende più suscettibili e di più fino
discernimento rispetto a questi irritamenti corporali, così nella grazia
riguardo allo spirito. V. se vuoi Montesquieu l. più volte cit. De la
délicatesse. Che se l'effetto rispettivo della grazia de' due sessi è
molto maggiore di un irritamento, la cagione non è la sola grazia, come
non la sola bellezza negli stessi casi. Ma la grazia irrita allora una parte
sensibilissima dell'uomo, che è l'inclinazione scambievole all'uno de'
due sessi, la quale svegliata e infiammata produce effetti che la grazia per
se, ed in qualunque altro caso non produrrebbe, quando anche fosse in molto
maggior grado. Così nella pittura farà molto più effetto
la grazia di una donna ec. che di un uomo, la grazia anche di un uomo, che quella
di un bel cavallo, perchè sempre la inclinazione che abbiamo ai nostri
simili viene ad essere stuzzicata naturalmente più da quello che da questo
oggetto. Lo stesso dite di una pianta rispetto a un cavallo dipinto o scolpito,
o di un edifizio dipinto, sebbene in questo caso agisce molto la considerazione
in cui noi prendiamo quell'oggetto, cioè di opera umana, e perciò
forse più efficace in noi. Del resto tutto il medesimo accade in materia
del bello.
(17. Agosto 1820.)
Le illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia
restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E
non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute
una volta, nè si perdono in modo che non ne resti [214] una radice vigorosissima,
e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza,
e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime, piene di
cognizioni di sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni,
e desiderar la morte come unico bene, e augurarla ancora come tale, agli amici
loro: poco dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia riconciliarsi colla
vita, formare progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni vantaggi temporali
di quegli stessi loro amici ec. Nè poteva più essere per ignoranza
o non persuasione certa e sperimentale della nullità delle cose. Ed a
me pure è avvenuto lo stesso cento volte, di disperarmi propriamente
per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno
alla vita futura, e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione
e quel ritorno, non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè
la disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo
ch'io riprendeva le mie illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di consolarmi,
bastava all'effetto, ed è cosa indubitata che le illusioni svaniscono
nel tempo della sventura, (e perciò è verissimo, e l'ho provato
anch'io, che chi non è stato mai sventurato, non sa nulla. Io sapeva,
perchè oggidì non si può non sapere, ma quasi come non
sapessi, e così mi sarei regolato nella vita.) e ritornano dopo che questa
è passata, o mitigata dal tempo e dall'assuefazione. Ritornano con più
o meno forza secondo le circostanze, il carattere, il temperamento corporale,
e le qualità spirituali tanto ingenite come acquisite. Quasi tutti gli
scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo la disperazione e lo scoraggiamento
totale della vita, hanno cavato i colori dal proprio cuore, e dipinto uno stato
nel quale [215] essi stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene? con tutta
la loro disperazione passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamente la
natura e la forza di quelle acerbe verità e passioni che esprimevano,
anzi dovessero proccurarsene attualmente una intiera persuasione ec. per potere
rappresentare efficacemente quello stato dell'uomo, e per conseguenza sentissero
ed avessero quasi per le mani il nulla delle cose, tuttavia si prevalevano del
sentimento stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto più era
vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più
si prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio
della morte vivamente sentito, e vivamente espresso, non cercavano altro che
di proccurarsi alcuni piaceri della vita. E così tutti i filosofi che
scrivono e trattano le miserabili verità della nostra natura e ch'essendo
privi d'illusioni in fondo, non cercano poi altro veramente col loro libro che
di crearsi, e godersi alcuni illusorii vantaggi della vita (v. Cic. pro Archia
c.11.) Tant'è: la natura è così smisuratamente più
forte della ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre a ogni
credere, pure gli resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e questo negli
stessi seguaci suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano e la divulgano;
anzi con questo stesso predicare e divulgar la ragione contro la natura, la
danno vinta alla natura sopra la ragione. [216] L'uomo non vive d'altro che
di religione o d'illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile:
Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo
alla prima facoltà di ragionare (giacchè i fanciulli massimamente
non vivono d'altro che d'illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria
mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità
ingenita, e sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto
della ragione e del sapere. È da sperare che durino anche in progresso:
ma certo non c'è più dritta strada a quello che ho detto, di questa
presente condizione degli uomini, dell'incremento e divulgamento della filosofia
da una parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che
ci rimane; e dall'altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti
d'illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività,
nullità ec. di tutta la vita. Le quali cose se ridurranno finalmente
gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre,
ed avere avanti gli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità,
di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali
di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l'uomo
viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo
allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi.
Sogni [217] e visioni. A riparlarci di qui a cent'anni. Non abbiamo ancora esempio
nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di
un snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti
lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri.
(18-20. Agosto 1820.)
Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al
suo genio. Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi
gusti del suo paese. I francesi che scrivono sempre come conversano, timidissimi
per conseguenza, o piuttosto codardi, come dev'esser quella nazione presso cui
un tratto di ridicolo scancella qualunque più grave e seria impressione,
e fa più romore degli affari e pericoli di Stato, si maravigliano d'ogni
minimo ardire, e stimano sforzi da Ercole quelli che in Italia e nel resto d'Europa
sono soltanto deboli argomenti d'ingegno robusto, libero, inventore e originale.
E per una parte hanno ragione, perchè l'osar poco in Francia, dove la
regola è di vivre et faire comme tout monde, costa assai più che
l'osar molto altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire,
e questa robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete
che appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il [218] sentimento
ch'io provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un movimento forte,
sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per seguitarlo, trovo
che non c'è da far altro, e ch'egli è già tornato a parler
comme tout le monde. Cosa che produce una grande pena e disgusto e secchezza
nella lettura. Questo non ha che fare colle inuguaglianze proprie dei grandi
geni. Nessun genio si ferma così presto come Bossuet. Si vede propriamente
ch'egli è come incatenato, e fa sforzi più penosi che grandiosi
per liberarsi. E il lettore prova appunto questo medesimo stato. E perciò
volendo convenire che Bossuet sia stato veramente un genio, bisogna confessare
che tentando di domar la sua lingua e la sua nazione, n'è stato domato.
Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani. Se non che la voce di tutta
la Francia ha tanta forza, che forma il giudizio d'Europa. E il ridirsi è
quasi impossibile. Sicchè queste parole intorno a Bossuet sieno dette
inutilmente.
(20. Agosto 1820.)
Non è cosa così dispiacevole come il vedere uno scrittore dopo
intrapreso un gran movimento, immagine, sublimità ec. mancar come di
fiato. È cosa che in certo modo rassomiglia agli sforzi impotenti di
chi si vede che vorrebbe esser grande, bello ec. nello scrivere, e non può.
Ma questa è più ridicola, quella più penosa. In Bossuet
l'incontri a ogni momento. Una grande spinta; credi che seguiterà l'impulso,
ma è già finito. Quando anche [219] il seguito del suo parlare
sia forte magnifico ec. non è più fuoco naturale, ma artifiziale,
e preso dai soliti luoghi. Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur
momentanea, e queste lagune sono immense e frequentissime. Perchè se
la morale ch'egli sempre predica è sublime, sono sublimità ordinarie,
e appartengono al consueto stile degli oratori, non hanno che fare coll'entusiasmo
proprio e presente. Ma tu vorresti ch'egli esaurisse l'affetto ec. Non mi state
a insegnare quello che tutti sanno. Dall'eccesso al difetto ci corre un gran
divario. Ed è contro natura che un uomo quando si è abbandonato
all'entusiasmo, ritorni in calma, appena incominciata l'agitazione. E non c'è
cosa più dispettosa che l'essere arrestato in un movimento vivo e intrapreso
con tutte le forze dell'animo o del corpo. Leggendo i passi più vivi
di Bossuet il passaggio istantaneo e l'alternativa continua e brusca del moto
brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e travagliare. Si accerti
lo scrittore o l'oratore, che finattanto che non si stancano le sue forze naturali
(non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il lettore o uditore si stanca. E
fino a quel punto non tema di peccare in eccesso. Il quale anzi è forse
meno penoso del difetto, in quanto il lettore sentendosi stanco, lascia di seguir
lo scrittore, e anche leggendo, riposa. Ma obbligato [220] a fermarsi prima
del tempo, non può, come nell'altro caso, disubbidire allo scrittore,
il quale per forza gli taglia le ali. In somma se l'eloquenza è composta
di movimenti ed affetti della specie descritta, e di freddezze e trivialità
mortali nel resto, allora Bossuet sarà veramente eloquente in mezzo agli
eleganti del suo secolo, come dice Voltaire.
(21. Agosto 1820.)
Si dice con ragione che al mondo si rappresenta una Commedia dove tutti gli
uomini fanno la loro parte. Ma non era così dell'uomo in natura, perchè
le sue operazioni non avevano in vista gli spettatori e i circostanti, ma erano
reali e vere.
Della natura abbiamo tutto perduto fuorchè i vizi. Veramente molti di
questi non sono naturali, molti sono peggiorati e accresciuti, ma molti saranno
ancora primitivi, e in ogni modo non c'è vizio primitivo che non ci rimanga.
E tanto più malvagi quanto non sono contemperati colle virtù e
con altre qualità che la natura avea poste in noi.
La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti
amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano divenire.
E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia più
volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo
ma non amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione
passeggera, la quale [221] finisce ordinariamente colla presenza dell'oggetto,
o dell'immagine che ce ne fanno i racconti ec. (E l'anima non se ne compiace,
e non la richiama.) I quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per
commuoverci momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire
una giovane e bella, ancorchè non conosciuta, al semplice racconto della
sua disgrazia. Perciò Socrate sarà sempre più ammirato
che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E peccherebbe grandemente
quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Così il poeta ec.
Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve ben guardare
dal dar sospetto ch'egli sia brutto, perchè nel leggere una bella poesia
noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe disgustosissimo.
Molto più s'egli parla di se, delle sue sventure, de' suoi amori sfortunati,
come il Petrarca ec.
La vispezza e tutti i movimenti, e la struttura di quasi tutti gli uccelli,
sono cose graziose.
(21. Agosto 1820.)
E però gli uccelli ordinariamente sono amabili.
Quella tal compassione che ho detto per oggetti non amabili, si rassomiglia
molto e partecipa del ribrezzo, come se noi vediamo tormentare una bestia ec.
E perciò a destarla ci vogliono grandi calamità, altrimenti la
compassione per li piccoli mali di quei tali oggetti, appena, o forse neppur
si desta negli stessi animi ben fatti.
(21. Agosto 1820.).
[222] Ses héros aiment mieux étre écrasés par la
foudre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS INFLEXIBLE QUE LA
LOI FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy dove discorre di
Eschilo.
(22. Agosto 1820.)
La lettura per l'arte dello scrivere è come l'esperienza per l'arte di
viver nel mondo, e di conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate
questa osservazione, specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso
nello studio della lingua e dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto
in voi lo stesso effetto dell'esperienza rispetto al mondo.
(22. Agosto 1820.)
Dice Macchiavelli che a voler conservare un regno una repubblica o una setta,
è necessario ritirarli spesso verso i loro principii. Così tutti
i politici. V. Montesquieu, Grandeur etc. ch.8. dalla metà in poi, dove
parla dei Censori. Giordani sulle poesie di M. di Montrone applica questo detto
alle arti imitatrici. Ai principii s'intende, non quando erano bambine, ma a
quel primo tempo in cui ebbero consistenza. (Così anche si potrebbe applicare
alle lingue.) Ed io dico nello stesso senso; a voler conservare gli uomini,
cioè farli felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire
alla natura. - Oh pazzia. Tu non sai che la perfettibilità dell'uomo
è dimostrata. - Io vedo che di tutte le altre opere della natura è
dimostrato tutto l'opposto, cioè che non si possono perfezionare, ma
alterandole, si può solamente corromperle, e questo principalmente per
nostra mano. Ma l'uomo si considera quasi come fuori della natura, e non sottomesso
alle leggi naturali che governano tutti gli esseri, e appena si riguarda come
[223] opera della natura. - Frattanto l'uomo è più perfetto di
prima. - Tanto perfetto che, tolta la religione, gli è più spediente
il morire di propria mano che il vivere. Se la perfezione degli esseri viventi
si misura dall'infelicità, va bene. Ma che altro indica il grado della
loro perfezione se non la felicità? E qual altro è il fine, anzi
la perfezione dell'esistenza? in fatto sta che oggidì pare assurdo il
richiamare gli uomini alla natura, e lo scopo vero e costante anche dei più
savi e profondi filosofi, è di allontanarneli sempre più, quantunque
alle volte credano il contrario, confondendo la natura colla ragione. Ma anche
non confondendola, credono che l'uomo sarà felice quando si regolerà
intieramente secondo la pura ragione. Ed allora si ammazzerà da se stesso.
(23. Agosto 1820.). V. p.358.
???????????????????????????????????????????????????????, conferre ad virtutem
capessendam, era insegnamento della setta Cirenaica, o sia de' seguaci puri
di Aristippo. Laerz. in Aristippo l.2. segm.91.
(23. Agosto 1820.)
??????????????????????????????????????????????????????????????????. Insegnamento
della stessa setta. Ivi segm.93.
(24. Agosto 1820.)
Lord Byron nelle annotazioni al Corsaro (forse anche ad altre sue opere) cita
esempi storici, di quegli effetti delle [224] passioni, e di quei caratteri
ch'egli descrive. Male. Il lettore deve sentire e non imparare la conformità
che ha la tua descrizione ec. colla verità e colla natura, e che quei
tali caratteri e passioni in quelle tali circostanze producono quel tale effetto;
altrimenti il diletto poetico è svanito, e la imitazione cadendo sopra
cose ignote, non produce maraviglia, ancorchè esattissima. Lo vediamo
anche nelle commedie e tragedie, dove certi caratteri straordinari affatto,
benchè veri, non fanno nessun colpo. V. il discorso sui romantici, intorno
agli altri oggetti d'imitazione. E come non produce maraviglia, così
neanche affetti e sentimenti, e corrispondenza del cuore a ciò che si
legge o si vede rappresentare. E la poesia si trasforma in un trattato, e l'azione
sua dall'immaginazione e dal cuore passa all'intelletto. Effettivamente la poesia
di Lord Byron sebbene caldissima, tuttavia per la detta ragione, la quale fa
che quel calore non sia communicabile, è nella massima parte un trattato
oscurissimo di psicologia, ed anche non molto utile, perchè i caratteri
e passioni ch'egli descrive sono così strani che non combaciano in verun
modo col cuore di chi legge, ma ci cascano sopra disadattamente, come per angoli
e spicoli, e l'impressione che ci fanno è molto più esterna che
interna. E noi non c'interessiamo vivamente se non per li nostri simili, e come
gli enti allegorici, o le piante o le bestie ec. così gli uomini [225]
di carattere affatto straordinario non sono personaggi adattati alla poesia.
Già diceva Aristotele che il protagonista della tragedia non doveva essere
nè affatto scellerato nè affatto virtuoso. Schernite pure Aristotele
quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo che abbian fatto);
alla fine la vostra psicologia, s'è vera, vi deve ricondurre allo stesso
luogo, e a ritrovare il già trovato.
(24. Agosto 1820.). V. p.238. pensiero 1.
La sola cosa che deve mostrare il poeta è di non capire l'effetto che
dovranno produrre in chi legge, le sue immagini, descrizioni, affetti ec. Così
l'oratore, e ogni scrittore di bella letteratura, e si può dir quasi
in genere, ogni scrittore. Il ne paraît point chercher à vous attendrir:,
dice di Demostene il Card. Maury Discours sur l'Éloquence, écoutez-le
cependant, et il vous fera pleurer par réflexion. E quantunque anche
la disinvoltura possa essere affettata, e da ciò guasta, tuttavia possiamo
dire iperbolicamente, che se veruna affettazione è permessa allo scrittore,
non è altra che questa di non accorgersi nè prevedere i begli
effetti che le sue parole faranno in chi leggerà, o ascolterà,
e di non aver volontà nè scopo nessuno, eccetto quello ch'è
manifesto e naturale, di narrare, di celebrare, compiangere ec. Laonde è
veramente miserabile e barbaro quell'uso moderno di tramezzare tutta la scrittura
o poesia di segnetti e [226] lineette, e punti ammirativi doppi, tripli, ec.
Tutto il Corsaro di Lord Byron (parlo della traduzione non so del testo nè
delle altre sue opere) è tramezzato di lineette, non solo tra periodo
e periodo, ma tra frase e frase, anzi spessissimo la stessa frase è spezzata,
e il sostantivo è diviso dall'aggettivo con queste lineette (poco manca
che le stesse parole non siano così divise), le quali ci dicono a ogni
tratto come il ciarlatano che fa veder qualche bella cosa; fate attenzione,
avvertite che questo che viene è un bel pezzo, osservate questo epiteto
ch'è notabile, fermatevi sopra questa espressione, ponete mente a questa
immagine ec. ec. cosa che fa dispetto al lettore, il quale quanto più
si vede obbligato a fare avvertenza, tanto più vorrebbe trascurare, e
quanto più quella cosa gli si dà per bella, tanto più desidera
di trovarla brutta, e finalmente non fa nessun caso di quella segnatura, e legge
alla distesa, come non ci fosse. Lascio l'incredibile, continuo e manifestissimo
stento con cui il povero Lord suda e si affatica perchè ogni minima frase,
ogni minimo aggiunto sia originale e nuovo, e non ci sia cosa tanti milioni
di volte detta, ch'egli non la ridica in un altro modo, affettazione più
chiara del sole, che disgusta eccessivamente, e oltracciò stanca per
l'uniformità, e per la continua fatica dell'intelletto necessaria a capire
quella studiatissima oscurissima e perenne originalità.
(25. Agosto 1820.)
[227] Come le persone di poca immaginazione e sentimento non sono atte a giudicare
di poesia, o scritture di tal genere, e leggendole, e sapendo che sono famose,
non capiscono il perchè, a motivo che non si sentono trasportare, e non
s'immedesimano in verun modo collo scrittore, e questo, quando anche siano di
buon gusto e giudizio, così vi sono molte ore, giorni, mesi, stagioni,
anni, in cui le stesse persone di entusiasmo ec. non sono atte a sentire, e
ad essere trasportate, e però a giudicare rettamente di tali scritture.
Ed avverrà spesso per questa ragione, che un uomo per altro, capacissimo
giudice di bella letteratura, e d'arti liberali, concepisca diversissimo giudizio
di due opere egualmente pregevoli. Io l'ho provato spesse volte. Mettendomi
a leggere coll'animo disposto, trovava tutto gustoso, ogni bellezza mi risaltava
all'occhio, tutto mi riscaldava, e mi riempieva d'entusiasmo, e lo scrittore
da quel momento mi diventava ammirabile, ed io continuava sempre ad averlo in
gran concetto. In questa tal disposizione, forse il giudizio può anche
peccare attribuendo al libro ec. quel merito che in gran parte spetta al lettore.
Altre volte mi poneva a leggere coll'animo freddissimo, e le più belle,
più tenere, più profonde cose non erano capaci di commuovermi:
per giudicare non mi restava altro [228] che il gusto e il tatto già
formato. Ma il mio giudizio si ristringeva così alle cose esterne, e
nelle interne a una congettura dell'effetto che l'opera potesse produrre in
altrui. E l'opera non mi restava per conseguenza in grande ammirazione. E noterò
ancora che alle volte un'altra persona che si trovava in circostanza da esser
commosso, mi diceva mari e monti di quel libro, ch'egli leggeva nel medesimo
tempo. Questa considerazione deve servire 1. a spiegare la diversità
dei giudizi in persone ugualmente capaci, diversità che s'attribuisce
sempre a tutt'altro. 2. a non fidarsi troppo dei giudizi anche dei più
competenti e di se stesso, ed introdurre un pirronismo necessario anche in questa
parte. Il pubblico, e il tempo non vanno soggetti nei loro giudizi a questo
inconveniente.
(25. Agosto 1820.)
Torno, tornio, tornire, torno torno, intorno, attorno derivano dal greco ????????????????????????ec.
da??????; onde anche in latino, tornus, tornare ec.
(26. Agosto 1820.)
Uomo o uccello o quadrupede ucciso in campagna dalla grandine. V. p.85.
Il volume delle frutta de' nostri paesi va, non esattamente, ma in genere, appresso
a poco in ragione inversa della grandezza delle piante fruttifere. Piccoli arboscelli
producono la zucca, il cocomero (uno in quest'anno se n'è veduto [229]
fra noi del peso di 28 libbre), il mellone ec.: un arboscello un poco più
grande produce il pesco, più grande la ciriegia, la mandorla, la noce,
l'avellana, ec.: e finalmente la quercia produce la ghianda.
(30. Agosto 1820.)
L'abuso e la disubbidienza alla legge, non può essere impedita da nessuna
legge.
Il sistema di Napoleone metteva in somma le sostanze dei privati inabili e inerti
fra le mani degli abili e attivi, e il suo governo, contuttochè dispotico,
perciò appunto conservava una vita interna, che non si trova mai ne'
governi dispotici, e non sempre nelle repubbliche, perchè l'uomo di talento
e volontà di operare, era quasi sicuro di trovare il suo posto di onore
e di guadagno. Al che contribuiva la moltiplicità infinita degl'impieghi
la quale faceva che ogni uomo abile ed operoso potesse essere mantenuto e arricchito
a spese dei privati inabili e pigri. (Oltre una certa sagacità ed equità
nella scelta dei talenti e delle persone). E per una parte non aveva il torto,
perchè il privato incapace e indolente, nè beneficato giova, nè
maltrattato nuoce alle cose pubbliche. E ne seguiva che tutto il corpo che sotto
qualunque governo sarebbe stato morto, si lagnasse di lui, e tutto quello che
parte sarebbe stato vivo in qualunque circostanza, parte lo era per la natura
e l'efficacia del suo governo, se ne lodasse.
(31. Agosto 1820.)
[230] Dice il Casa (Galateo c.3.) che non è dicevol costume, quando ad
alcuno vien veduto per via, come occorse alle volte, cosa stomachevole, il rivolgersi
a' compagni, e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna
cosa puzzolente, come alcuni soglion fare, con grandissima istanza pure accostandocela
al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia come questo pute. Non solo dunque
il piacere che si prova, ma anche alcuni incomodi (oltre i dolori delle sventure
ec.) si vogliono quasi per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa
partecipazione ci diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai
che dunque l'uomo è fatto per vivere in società. Ma io dico anzi
che questa inclinazione o desiderio, benchè paia naturale, è un
effetto della società, bensì effetto prontissimo e facile, perchè
si dimostra anche ne' fanciulli, e forse più spesso che negli adulti.
V. p.208. e 85. fine.
(4. Settembre 1820.)
Intertenere è composto di una preposizione totalmente latina inter, che
gl'italiani dicono tra, onde trattenere ch'è quasi una traduzione d'intertenere.
E come trattenere manifesta origine italiana, così l'altro verbo si dimostra
palesemente per derivato dal latino a noi, non essendo verisimile che gli antichi
italiani inventassero una parola di questa forma. Interporre, intercedere, interregno,
sono parimente derivate dall'antico latino.
[231] ???????(Socrate)?????????????????????????????????????????????????????????????????????????dice
il Laer. in Socr. l.2. segm.31. Oggidì possiamo dire tutto l'opposto,
e questa considerazione può servire a definire la differenza che passa
tra l'antica e la moderna sapienza.
Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e più di
quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d'oggidì, non
solo in proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la
cognizione materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica,
la cognizione degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria
alla fecondità e varietà dell'immaginativa, alla proprietà
verità evidenza ed efficacia dell'imitazione. Questa non può fare
che non pregiudichi al poeta. Allora giova sommamente al poeta l'erudizione,
quando l'ignoranza delle cause, concede al poeta, non solamente rispetto agli
altri ma anche a se stesso, l'attribuire gli effetti che vede o conosce, alle
cagioni che si figura la sua fantasia.
(5. Settembre 1820.)
C'est que cela me donnera un battement de coeur, répondit - elle NAÎVEMENT;
et je suis si heureuse quand le coeur me bat! dice Lady Morgan (France. l.3.
1818. t.1 p.218.) di una Dama francese [232]e civetta. Queste naïvetés
negli scrittori francesi, come p.e. nel Tempio di Gnido, contrastano in maniera
col carattere del loro stile, della loro lingua quale è ridotta presentemente,
(giacchè nel francese antico avrebbero fatto diversissima figura) e anche
col carattere nazionale, che sono piuttosto affettazioni che naturalezze, e
non fanno verun buono effetto, ma semplicemente risaltano, come una singolarità
ricercata, nello stesso modo che p.e. nello stile greco risalterebbero le eleganze
e il manierato del francese, e contrasterebbero col rimanente.
L'origine del sentimento profondo dell'infelicità, ossia lo sviluppo
di quella che si chiama sensibilità, ordinariamente procede dalla mancanza
o perdita delle grandi e vive illusioni; e infatti l'espressione di questo sentimento,
comparve nel Lazio col mezzo di Virgilio, appunto nel tempo che le grandi e
vive illusioni erano svanite pel privato romano che n'era vissuto sì
lungo tempo, e la vita e le cose pubbliche aveano preso l'andamento dell'ordine
e della monotonia. La sensibilità che si trova nei giovani ancora inesperti
del mondo e dei mali, sebbene tinto di malinconia, è diverso da questo
sentimento, e promette e dà a chi lo prova, non dolore ma piacere e felicità.
(6. settembre 1820.)
[233] A un gran fautore della monarchia assoluta che diceva, La costituzione
d'Inghilterra è cosa vecchia e adattata ad altri tempi, e bisognerebbe
rimodernarla, rispose uno degli astanti, È più vecchia la tirannia.
(7. Settembre 1820.)
Al capoverso primo della p.206. aggiungi: Et si elles (les Françoises)
ont un amant, elles ont autant de soin de ne pas donner à l'heureux mortel
des marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne
pas paroître amoureux de sa femme en compagnie. Morgan, France. t.1.1818.
p.253. liv.3.
A quello che ho detto p.207. si può aggiungere quello che dice Algarotti
dell'immenso studio che bisogna oggidì per divenir letterato di qualche
pregio nel mondo, dove non passa più per vero letterato chi non è
enciclopedico, studio al quale solo basta appena la vita dell'uomo innanzi di
poterlo mettere a frutto coi parti del proprio ingegno, a differenza del poco
studio che bisognava agli antichi.
(8. settembre 1820.)
La compassione come è determinata in gran parte dalla bellezza rispetto
ai nostri simili, così anche rispetto agli altri animali, quando noi
li vediamo soffrire. Che poi oltre la bellezza, una grande e somma origine di
compassione sia la differenza [234] del sesso, è cosa troppo evidente,
quando anche l'amore non ci prenda nessuna parte. P.e. ci sono molte sventure
reali e tuttavia ridicole, delle quali vedrete sempre ridere molto più
quella parte degli spettatori che è dello stesso sesso col paziente,
di quello che faccia o sia disposta o inclinata a fare l'altra parte, massimamente
se questa è composta di donne, perchè l'uomo com'è più
profondo nei suoi sentimenti, così è molto più duro e brutale
nelle sue insensibilità e irriflessioni. E questo, tanto nel caso della
bellezza, quanto della bruttezza o mediocrità del paziente. Del resto
è così vero che le piccole sventure dei non belli non ci commuovono
quasi affatto, che bene spesso siamo inclinati a riderne.
Come la debolezza è un grande eccitamento alla compassione, anche rispetto
ai non belli, così non è forse cosa tanto contraria alla compassione,
quanto il veder l'impazienza del male, la malignità dello spirito, pronto
a schernire lo stesso o altro male o difetto in altrui, il cattivo umore, la
collera di chi soffre. E pochissima o nessuna compassione può sperare
chi non ha sortito dalla [235] natura o acquistato dalla disgrazia una dolcezza
e mansuetudine di carattere, almeno apparente. E questo deve servir di regola
ai poeti ed artisti nel formare i personaggi che si vogliono compassionevoli.
Sebbene l'eroismo, e il disprezzo del male che si soffre possa ancora produrre
un buon effetto, contuttociò relativamente al muover la compassione non
c'è miglior qualità della sopraddetta, qualità la quale
io so per esperienza che si acquista quasi per forza coll'uso delle sventure,
non ostante che naturalmente fossimo dominati dalla qualità contraria.
Non è cosa tanto nemica della compassione quanto il vedere uno sventurato
che non è stato in niente migliorato, nè ha punto appreso dalle
lezioni della sventura, maestra somma della vita. Perchè la prosperità
abbagliando e distraendo l'intelletto, è madre e conservatrice d'illusioni,
e la sventura dissipatrice degl'inganni, e introduttrice della ragione e della
certezza del nulla delle cose. E uno sventurato che non ha goccia di sentimento,
che non arriva a sublimare un istante l'anima sua colla considerazione dei mali,
che non ha acquistato nelle sue parole, almeno quando parla di se, niente di
eloquenza e di affetto, che non mostra una certa grandezza d'animo, non per
disprezzare, ma per nobilitare la sua sventura [236] quasi col sentimento di
esserne indegno, e di non lasciarsene abbattere senza una magnanima compassione
di se; uno sventurato che vi parla delle sue sventure, coll'amor proprio il
più basso, col dolore il più egoista, e vi fa capire che egli
è tanto afflitto del male che soffre, che voi non potreste mai arrivare
(notate) ad uguagliare l'afflizion sua colla vostra compassione (l'uomo veramente
penetrato di compassione si persuade che il paziente non sia più addolorato
di lui, in somma non fa differenza fra il paziente e se stesso, essendo pronto
a tutto per aiutarlo, e perciò non mette divario tra il dolore del paziente
e il suo proprio); questo sventurato non otterrà forse un'ombra di compassione,
e il suo male sarà dimenticato, appena saremo lontani da lui.
Tutto quello che ho detto in parecchi luoghi dell'affettazione dei francesi,
della loro impossibilità di esser graziosi ec. bisogna intenderlo relativamente
alle idee che le altre nazioni o tutte o in parte, o riguardo al genere, o solamente
ad alcune particolarità, hanno dell'affettazione grazia ec. perchè
riflette molto bene Morgan France l.3. t.1 p.257. Il faut pourtant accorder
beaucoup à la différence des manières nationales; et celles
de la femme françoise la plus amie du naturel doivent porter avec elle
ce qu'un Anglois, dans le premier moment, jugera une teinte d'affectation, jusqu'à
ce que l'expérience en fasse mieux juger.
(9. settembre 1820.)
[237] Anche l'affettazione è relativa, e la tal cosa parrà affettazione
in un paese e in un altro no, in una lingua e in un'altra no, o maggiore in
questa e minore in quella, dipendendo dalle abitudini, opinioni ec. L'espressione
del sentimentale conveniente in Francia sarà affettata per noi, quella
conveniente per noi, sarebbe parsa affettazione agli antichi. La grazia francese
affettata per noi, non lo sarà per loro. Tuttavia è certo che
la naturalezza ha un non so che di determinato e di comune, e che si fa conoscere
e gustare da chicchessia, ma com'ella si conosce quando si trova, così
le assuefazioni ec. impediscono spessissimo di essere choqués della sua
mancanza, e di avvedercene. V. p.201. fine.
La semplicità dev'esser tale che lo scrittore, o chiunque l'adopra in
qualsivoglia caso, non si accorga, o mostri di non accorgersi di esser semplice,
e molto meno di esser pregevole per questo capo. Egli dev'esser come inconsapevole
non solo di tutte le altre bellezze dello scrivere, ma della stessa semplicità.
Homme d'une simplicité rare, dice La Harpe di La Fontaine (Éloge
de La Fontaine), qui sans doute ne pouvait pas ignorer son genie, mais ne l'appréciait
pas, et qui même, s'il pouvait être témoin des honneurs qu'on
lui rend aujourd'hui, serait étonné de sa gloire, et aurait besoin
qu'on lui révélât le secret de son mérite. La stessa
cosa [238] in molto maggior grado si può dire degli scritti di Senofonte,
e caratterizzarne la semplicità.
(10. settembre 1820.)
Sono state sempre derise quelle poesie che aveano bisogno di note per farsi
intendere. E tuttavia queste note riguardavano cose accessorie o secondarie,
nomi, allusioni, fatti poco noti e male espressi ec. Che si dirà di quei
poemi che hanno bisogno di note dichiarative delle cose sostanziali e principali,
vale a dire dei caratteri, e delle proprietà ed operazioni del cuore
umano che descrivono, come sono i poemi di Lord Byron? Questi sono i riformatori
della poesia? Questi sono i grandi psicologi? Ma senza psicologia sapevamo già
da gran tempo che in questo modo non si fa effetto in chi legge. V. le p.223-225.
La negligenza e l'irriflessione spessissimo ha l'apparenza e produce gli effetti
della malvagità e brutalità. E merita di esser considerata come
una delle principali e più frequenti cagioni della tristizia degli uomini
e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo e sensibile, vedemmo
un giovanastro che con un grosso bastone, passando sbadatamente e come per giuoco,
menò un buon colpo a un povero cane che se ne stava pe' fatti suoi senza
infastidir nessuno. E parve segno all'amico di pessimo carattere in quel giovane.
A me parve segno di brutale irriflessione. [239] Questa molte volte c'induce
a far cose dannosissime o penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo
anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che
per trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ec.) e avvedutici,
ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene
quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo, e lo facciamo così
alla buona, e considerandolo bene non lo faremmo. Così la trascuranza
prende tutto l'aspetto, e produce lo stessissimo effetto della malvagità
e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu riflettessi, fossi molto
alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e che la malvagità
e crudeltà non abbia
che fare col tuo carattere.
(11 settembre 1820.)
Non per altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere avidamente
il popolo agli spettacoli sanguinosi delle esecuzioni pubbliche, e a tali altri,
che non hanno niente di piacevole in se (come potevano averne quelli de' gladiatori
e delle bestie nel circo, per la gara, l'apparato ec.) ma solamente in quanto
fanno un vivo contrasto colla monotonia della vita. Così tutte le altre
cose straordinarie, e perciò gradite, benchè non solo non piacevoli,
ma dispiacevolissime in se.
Dall'orazione di M. Tullio pro Archia si vede che la lingua greca era considerata
allora come [240] universale, nello stesso modo che la francese oggidì,
e l'uso e intelligenza della lingua latina era ristretta a pochi, Latina suis
finibus, exiguis sane, continentur. Perciocchè le scritture greche si
leggono in quasi tutte le genti, le latine restano dentro a' loro confini così
stretti come sono. Cic. l.c. E nondimeno l'impero romano fu forse il maggiore
di quanti mai si viddero, e i romani al tempo di Cicerone, erano già
padroni del mare, ed esercitavano gran commercio. Così ora si vede che
gl'inglesi sono padroni del mare e del commercio, e sebbene la loro lingua,
è perciò più diffusa di molte altre, nondimeno non è
nè conosciuta nè usata universalmente, ma da pochi in ciascun
paese, e cede di gran lunga alla francese, che non s'è mai trovata favorita
da un commercio così vasto. Onde si può ben dedurre, che la diffusione
di una lingua, se ha bisogno di una certa grandezza e influenza della nazione
che la parla (perchè la lingua francese, per quanto adattata alla universalità,
non sarebbe divenuta universale, se avesse appartenuto a una piccola, e impotente
nazione p.e. alla Svizzera), contuttociò dipende principalmente dalla
natura di essa lingua. Non vale il dire che i greci erano diffusissimi per le
colonie. Molto più lo erano i romani in quel tempo, e non solo per le
colonie, ma per le armate, governi, tribunali ec. ec. Ma quando una lingua si
diffonde per mezzo delle colonie, si può dire che si diffonda piuttosto
la nazione che la lingua, essendo [241]ben naturale che una città di
romani in qualunque luogo del mondo, parli la lingua romana, e così un'armata
ec. Ma questo non ha che fare coll'adottarsi generalmente una lingua dagli stranieri,
coll'essere tutti gli uomini colti di qualunque nazione, quasi ?????????, (v.
p.684.) e col potere un viaggiatore farsi intendere con quella lingua in qualunque
luogo. Ora in questo consiste l'universalità di una lingua, e non 1.
nell'esser parlata da' nazionali suoi, in molte parti del mondo, 2. nell'essere
anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli che la parlano naturalmente,
sia coll'abolire la lingua dei vari paesi (quando anzi la ????????? suppone
che questa si conservi), sia coll'alterarla o corromperla più o meno
per mezzo della mescolanza. Cosa che vediamo accaduta nel latino, del quale
si trovano vestigi notabilissimi in molte parti d'Europa (forse anche di fuori)
(come se non erro in Transilvania, in Polonia, in Russia ec.) e si vede ch'ella
si era stabilita nella Spagna e la Francia dove poi ne derivarono, corrompendosi
la latina, le lingue spagnuola e francese; e nell'Affrica Cartaginese e Numidica
ec.; quando della greca forse non si troveranno, o meno; e contuttociò
la lingua latina non è stata mai universale nel senso spiegato di sopra,
come non è universale oggi la lingua inglese perciò ch'ella è
stabilita e si parla come lingua materna in tutte quattro le parti del mondo.
(in ciascuna delle quattro parti). È noto poi come i greci l'ignorassero
sempre, il che forse contribuì a conservar più a lungo la purità
della loro lingua, la sola che conoscessero. E quanto [242]alle colonie la Francia
ha sempre o quasi sempre ceduto all'Inghilterra, alla Spagna, e fino al Portogallo,
come nel commercio. Neanche la letteratura è cagione principale della
universalità di una lingua. La letteratura italiana primeggiò
lungo tempo in Europa, ed era conosciuta e studiata per tutto, anche dalle dame,
come in Francia da Mad. di Sévigné ec. senza che perciò
la lingua italiana fosse mai universale. E se gl'italianismi guastavano la lingua
francese al tempo delle Medici, come ora i francesismi guastano l'italiano,
questo va messo nella stessa categoria della corruzione che producono le colonie,
le armate ec. (corruzione facilissima e sensibilissima. Pochi soldati napoletani
stanziati nella mia patria al mio tempo per uno o due anni, aveano introdotto
nel volgo parecchie parole ed espressioni del loro dialetto. Perchè il
volgo 1. era colpito da quella novità. 2 si faceva un pregio o un capriccio
d'imitare quei forestieri ec.). La letteratura, lingua e costumi spagnuoli si
divulgarono molto, quando la Spagna acquistò una certa preponderanza
in Europa, e massime in Italia (dove restano ancora alcune parole derivate credo
allora dallo spagnuolo), ma l'influenza loro finì con quella della nazione.
Laonde sebbene la letteratura greca, massime al tempo di Cicerone cioè
[243] prima del secolo di Augusto, era infinitamente superiore alla latina,
e più divulgata e famosa, questa ragione non basta. L'universalità
di una lingua deriva principalmente, dalla regolarità geometrica e facilità
della sua struttura, dall'esattezza, chiarezza materiale, precisione, certezza
de' suoi significati ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate
nella secca ragione, e nel puro senso comune, ma non hanno che far niente colla
bellezza, ricchezza (anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica),
dignità, varietà, armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto
meno conferiscono o importano alla universalità di una lingua, quanto
1. non possono esser sentite intimamente, e pregiate se non dai nazionali, 2.
ricercano abbondanza d'idiotismi, figure, insomma irregolarità, che quanto
sono necessarie alla bellezza e al piacere, il quale non può mai stare
colla monotonia, e collo scheletro dell'ordine matematico, tanto nocciono alla
mera utilità, alla facilità ec. La lingua greca sebbene ricchissima
ec. ec. ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione (dico nativa,
perchè poi fu alterata dagli scrittori più bassi che pretendevano
all'eleganza), laddove la latina era estremamente figurata, e la proprietà
de' suoi composti le dava una facilità e precisione materialissima di
significati, sebbene nuocesse non poco alla varietà la quale non può
risultare [244] dalla copia de' composti ma delle radici, come nel latino e
italiano. E di queste pure la lingua greca abbonda sommamente, ma può
anche fare a meno della massima parte, e con poche radici, e infiniti composti
formare tutto il discorso. Tale infatti era il costume degli antichi scrittori
greci (Luciano e gli altri più bassi, sono molto più vari e ricchi
di radici). Perchè il vocabolario di ciascheduno, osservandolo bene,
si compone di molto poche parole, che ritornano a ogni tratto, essendo raro
che quegli antichi varino la parola o la frase per esprimere una stessa cosa.
Onde segue che siccome la lingua greca per se stessa è immensa, così
passando da uno scrittore all'altro, ritrovate un altro piccolo vocabolario
suo proprio, del quale parimente si contenta, e le espressioni familiari di
ciascuno autor greco sono moltissime e continue, ma diverse quelle dell'uno
da quelle dell'altro, quasi fossero più lingue. Dal che si può
dedurre che la lingua greca benchè ricchissima nondimeno con un piccolo
vocabolario può comporre tutto il discorso, e questi vocabolari possono
esser molti e diversi, cosa dimostrata dal fatto, e dal vedersi negli scrittori
greci più che in quelli d'altra lingua, che la facilità acquistata
nel leggere e intendere uno scrittore, non vi giova interamente nel passare
a un altro, dovendovi quasi familiarizzare con un altro linguaggio. Questo appartiene
esclusivamente alla lingua, ma anche bisogna [245] notare che la lingua greca
come l'italiana, si presta a ogni sorta di stili, e non ha carattere determinato,
ma lo riceve dal soggetto e dallo scrittore, laonde il suo carattere varia,
anche in questo senso, e per questo motivo, secondo le diverse opere, come la
lingua di Dante o dell'Alfieri paragonata con quella del Petrarca ec.
(12-13-14. settembre 1820.). V. p.1029. fine.
L'irresoluzione è peggio della disperazione. Questa massima mi venne
profferita nettamente e letteralmente in sogno l'altro ieri a notte, in occasione
che mio fratello mi pareva deliberato per disperazione di farsi Cappuccino,
e io ricusava di allegargli quelle ragioni che gli avrebbero sospeso l'animo,
adducendo la detta massima.
(14. Settembre 1820.)
La lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia,
la quale è la sommità del discorso umano. Però i francesi
che sono rimasti molte miglia indietro del sublime nell'epica, molto meno possono
mai sperare una vera lirica, alla quale si richiede un sublime d'un genere tanto
più alto. Il Say nei Cenni sugli uomini e la società, chiama l'ode,
la sonata della letteratura. È un pazzo se stima che l'ode non possa
esser altro, ma ha gran ragione e intende parlare delle odi che esistono, massime
delle francesi.
[246] I francesi non solamente non sono atti al sublime, nè avvezzi a
sentirlo dai loro nazionali, o a produrlo in qualunque forma (applicate questa
osservazione ch'è anche letteralmente di Lady Morgan, e universale, ai
miei pensieri sopra Bossuet), ma disublimano ancora le cose veramente sublimi,
come nelle traduzioni ec.
Dalla teoria del piacere esposta in questi pensieri si comprende facilmente
quanto e perchè la matematica sia contraria al piacere, e siccome la
matematica, così tutte le cose che le rassomigliano o appartengono, esattezza,
secchezza, precisione, definizione, circoscrizione, sia che appartengano al
carattere e allo spirito dell'individuo, sia a qualunque cosa corporale o spirituale.
Tant'è. Le cose per se stesse non sono piccole. Il mondo non è
una piccola cosa, anzi vastissima e massimamente rispetto all'uomo. Anche l'organizzazione
de' più minuti e invisibili animaluzzi è una gran cosa. La varietà
della natura solamente in questa terra è infinita; che diremo poi degli
altri infiniti mondi? Sicchè per una parte si può dire che non
la grandezza delle cose, ma anzi la loro nullità così evidente
e sensibile all'uomo, è una pura illusione. Ma basta che l'uomo abbia
veduto la misura di una cosa ancorchè smisurata, basta che sia giunto
a conoscerne [247] le parti, o a congetturarle secondo le regole della ragione;
quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente,
ed egli ne rimane scontentissimo. Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi,
e che 'l dì nostro vola A gente che di là FORSE l'aspetta, quel
forse bastava per lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa immensa,
e dilettosissima all'immaginazione. Trovati che si sono, certamente non sono
impiccoliti, nè quei paesi son piccola cosa, ma appena gli antipodi si
son veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni
prestigio dell'idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura
quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer
nostro non vuol confini (sieno pure vastissimi, anzi sia pur vinta l'immaginazione
dalla verità), analizza, quando il piacer nostro non vuole analisi nè
cognizione intima ed esatta della cosa piacevole (quando anche questa cognizione
non riveli nessun difetto nella cosa, anzi ce la faccia giudicare più
perfetta di quello che credevamo, come accade nell'esame delle opere di genio,
che scoprendo [248] tutte le bellezze, le fa sparire), la matematica, dico,
dev'esser necessariamente l'opposto del piacere.
(18. settembre 1820.)
L'occupazione della società, come quella che offre la
società francese, riempie veramente la vita, la riempie dico materialmente,
ma non lascia così poco vuoto nell'animo come la occupazione destinata
a provvedere ai propri bisogni, ch'era quella dell'uomo primitivo. E la sera,
l'uomo che ha passata la giornata tutta intera nel mondo il più vivo,
vario, e pieno, e ne' divertimenti anche meno noiosi, e che si trova anche senza
cure e dispiaceri, ripensando alla giornata passata, e considerando la futura,
non si trova di gran lunga così contento e pieno, come colui che considera
i bisogni ai quali ha provveduto, e fa i suoi disegni sopra quelli a' quali
provvederà l'indomani. Qualche cosa di serio è necessario che
formi la base della nostra occupazione per condurci ad una certa felicità
(più o meno serio, secondo gl'individui), e se bene tutte le cose sono
ugualmente importanti per se stesse, e il nostro fine sia sempre il piacere,
nondimeno il puro spasso non è mai capace di soddisfarci. La cagione
è che ci bisogna un fine dell'occupazione, uno scopo al quale mirare,
acciocchè al piacere dell'occupazione si aggiunga quello della speranza,
che bene spesso forma essa sola il piacere dell'occupazione V. gli altri miei
pensieri in questo proposito.
[249] Gli Egesiaci (ramo della setta Cirenaica) dicevano secondo il Laerzio
(in Aristippo l.2. segm.95.) ?????????????????????????????????????????Questa
potrebb'esser la divisa di tutti i sapienti moderni, in quanto sapienti.
La natura in quanto natura assoluta e primitiva non ci ha dato idea di altri
doveri che verso noi stessi, ed ha limitato le norme del giusto ai rapporti
che l'animale ha con se stesso. Già verso gli animali d'altra specie
non è dubbio che la natura non ha dettato nessuna regola di onestà
e di rettitudine, perchè l'uomo non prova nessuna ripugnanza nel far
male agli altri animali anche senza suo vantaggio e per mero diletto, come a
uccidere una formica ec. E gli altri animali si pascono bene spesso di animali
di altra specie. Ma eziandio nella propria specie, l'uomo assolutamente primitivo,
non sente ingenitamente nessuna colpa a far male a' suoi simili per suo vantaggio,
come non la sentono gli altri animali, che maltrattano, combattono, e alle volte
anche si cibano dei loro simili, ed anche (sento dire) dei propri figli. In
quanto però alla figliuolanza è certo che la natura ha dettato
alcune leggi, o siano di semplice amore e inclinazione libera, o sieno anche
sentimenti di dovere; ma non perpetui; solo fino a un certo tempo, come vediamo
negli animali, [250] che dopo alcun tempo è verisimile che non riconoscano
affatto i propri figli, massime quegli animali che ogni anno ne producono più
d'uno. E così avverrebbe all'uomo se il figlio arrivato all'età
di provvedersi da se, si separasse dai genitori, e questi l'uno dall'altro,
come fanno gli animali. Giacchè la necessità del concubitu prohihere
vago, non prova nulla in favore della società, perchè anche gli
uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di matrimonio
finchè bisogna all'educazione sufficiente dei prodotti di quel tal matrimonio,
e nulla più; e non per questo hanno società. Nè la detta
necessità, riguardo all'uomo, si estende più oltre di questo naturalmente,
ma artifizialmente, e a posteriori, cioè posta la società, la
quale necessita la perpetuità de' matrimoni, e la distinzione delle famiglie
e delle possidenze.
(19. settembre 1820.)
Una prova evidente e popolare, frequente nella vita, e giornaliera, che il piccolo
è considerato come grazioso, si è il vezzo dei diminutivi che
si sogliono applicare alle persone o cose che si amano, o si vogliono vezzeggiare,
pregare, addolcire, descrivere come graziose ec. E così al contrario
volendo mettere in ridicolo qualche persona o cosa tutt'altro che graziosa,
se le applica il diminutivo perchè la renda ridicola colla forza del
contrasto. Quest'uso è così antico [251] (nel latino, greco ec.)
e così universale oggidì che si può considerare come originato
dalla natura, e non dal costume o dalla proprietà di questa o quella
lingua. E i francesi che non hanno se non pochissimi diminutivi, nei casi detti
di sopra, fanno grand'uso di questi pochissimi, o suppliscono col petit, dimostrando
che l'inclinazione ad attribuire ed esprimer piccolezza in quelle tali circostanze,
non è capriccio o assuefazione, ma natura, ed effetto di un'opinione
innata che la piccolezza sia quasi compagna della grazia e piacevolezza, cose
ben distinte dalla bellezza colla quale non ha che fare questo attributo. E
nello stesso modo, volendo ingiuriare, dipingere come sgraziato, discacciare,
ec. ec. qualunque persona o cosa, si adopera l'accrescitivo; e in genere l'accrescitivo
par che sempre tolga grazia al soggetto, anzi sia l'opposto della grazia, e
piacevolezza.
(22. settembre 1820.)
Bonaparte per isnidare i malandrini da una contrada di Parigi v'introdusse i
giullari e i giocolieri per richiamarvi il popolo, e frequentarla. (V. Lady
Morgan, France liv.5. principio). Il Papa alcuni mesi addietro per isnidare
i malviventi da Sonnino luogo di loro rifugio nei confini del suo stato verso
Napoli, decretò la distruzione di quel paese. Bonaparte popolò
il nido dei ladroni per cacciarneli, e ottenne [252] l'intento; il Papa giudicò
di non potere ottenerlo fuorchè colla distruzione di quel luogo. Dice
Cicerone che si devastano e distruggono le città nemiche, ma che se distruggiamo
le nostre proprie, ci caviamo gli occhi di nostra mano.
Alla tirannia fondata sopra l'assoluta barbarie, superstizione, e intera bestialità
de' sudditi, giova l'ignoranza, e nuoce definitivamente e mortalmente l'introduzione
dei lumi. Perciò Maometto, con buona ragione proibì gli studi.
Alle tirannie esercitate sopra popoli inciviliti fino a un certo punto, fino
a quel mezzo, nel quale consiste la vera perfezione dell'incivilimento e della
natura, l'incremento e propagazione dei lumi, delle arti, mestieri, lusso ec.
non solamente non pregiudica, ma giova sommamente, anzi assicura e consolida
la tirannia, perchè i sudditi da quello stato di mediocre incivilimento
che lascia la natura ancor libera, e le illusioni, e il coraggio, e l'amor di
gloria e di patria, e gli altri eccitamenti alle grandi azioni, passa all'egoismo,
all'oziosità riguardo all'operare, all'inattività, alla corruttela,
alla freddezza, alla mollezza ec. La sola natura è madre della grandezza
e del disordine. La ragione tutto all'opposto. La tirannia non è mai
sicura se non quando il popolo non è capace di grandi azioni. Di queste
non può esser capace per ragione, ma per natura. Augusto, Luigi 14. ed
altri tali mostrano di aver bene inteso queste verità.
(28. settembre 1820.)
[253] Dal 2. pensiero della p.116. inferite come, anche secondo questa sola
considerazione, il Cristianesimo debba aver reso l'uomo inattivo e ridottolo
invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com'egli sia favorevole al
dispotismo, non per principio (perchè il cristianesimo nè loda
la tirannia, nè vieta di combatterla, o di fuggirla, o d'impedirla),
ma per conseguenza materiale, perchè se l'uomo considera questa terra
come un esilio, e non ha cura se non di una patria situata nell'altro mondo,
che gl'importa della tirannia? Ed i popoli abituati (massime il volgo) alla
speranza di beni d'un'altra vita, divengono inetti per questa, o se non altro,
incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni. Laonde si può
dire generalmente anche astraendo dal dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito
non poco a distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo,
riducendo gli uomini dall'operare al pensare e al pregare, o vero all'operar
solamente cose dirette alla propria santificazione ec. sopra la quale specie
di uomini è impossibile che non sorga immediatamente un padrone. Non
è veramente che la religion cristiana condanni o non lodi l'attività.
Esempio un San Carlo Borromeo, un San Vincenzo de Paolis. Ma in primo luogo
l'attività di questi santi [254] se bene li portava ad azioni eroiche
(e per questa parte grandi) ed utili, non dava gran vita al mondo, perchè
la grandezza delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi stessi che assoluta,
e piuttosto intima e metafisica, che materiale. In secondo luogo, parendo che
il cristianesimo faccia consistere la perfezione piuttosto nell'oscurità
nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza di quanto appartiene a questo
esilio, egli ha prodotto e dovuto produrre cento Pacomi e Macari per un San
Carlo Borromeo, ed è certo che lo spirito del Cristianesimo in genere
portando gli uomini, come ho detto, alla noncuranza di questa terra, se essi
sono conseguenti, debbono tendere necessariamente ad essere inattivi in tutto
ciò che spetta a questa vita, e così il mondo divenir monotono
e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle della religione antica,
secondo cui questa era la patria, e l'altro mondo l'esilio.
(29. settembre 1820.)
Il costume e la massima di macerare la carne, e indebolire il corpo per ridurlo,
come dice S. Paolo, in servitù, dovea necessariamente illanguidire le
passioni e l'entusiasmo, e render soggetti anche gli animi di chi cercava di
soggiogare il corpo, e così per una parte contribuire infinitamente a
spegner la vita del mondo, per l'altra ad appianar la strada al dispotismo,
perchè non ci son forse uomini così atti ad esser tiranneggiati
[255] come i deboli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza,
o da lascivia e mollezza, come presso i Persiani, che dopo il tempo di Ciro
divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù; o da macerazione
ec. Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti,
non forza d'illusioni ec.
(30. settembre 1820.)
Nel corpo servo anche l'anima è serva.
L'allegria bene spesso è madre di benignità e d'indulgenza, al
contrario delle cure e dei mali umori. Questa è cosa nota e osservata,
sicchè non mi fermerò a cercarne la ragione, ch'è facile
a trovare. Ma solamente considererò l'armonia della natura, la quale
mirando sempre alla felicità degli esseri, e per conseguenza l'allegria
nel sistema naturale dovendo essere la condizione più frequente della
vita, ha voluto che fosse compagna della piacevolezza verso i suoi simili, virtù
somma nella società, e per conseguenza che l'allegria fosse utile non
solo all'individuo, ma anche agli altri, e servisse alla società, e rendesse
l'uomo verso altrui, tale quale dev'essere.
L'uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza del mondo, si può
dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare piuttosto
che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè [256] mentre
egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi, i principii di virtù,
le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia genere di cose,
gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se stesso, com'è
costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa. Ma colla
sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità,
sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei piccoli pregi
che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza dell'ottimo
o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini e le cose con se
stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non istimava se
non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le concepiva, non erano
reali, si può dire che il numero delle cose reali ch'egli stima vada
sempre crescendo, se bene diminuisca la misura della stima assoluta, e il numero
assoluto delle cose ch'egli stimava, perchè sono molte più quelle
cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza vicine, di quelle che da principio
non curava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. settembre 1820.)
Si mise un paio di occhiali fatti della metà del meridiano co' due cerchi
polari.
Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella.
(1 Ottobre 1820.)
[257] Alle volte la vivacità (sia del viso, o dei movimenti, o delle
azioni ec.), alle volte la languidezza e flemma è madre di grazia. E
chi è preso più da quella, chi più da questa.
Bisogna distinguere in fatto di belle arti, entusiasmo, immaginazione, calore
ec. da invenzione massimamente di soggetti. La vista della bella natura desta
entusiasmo. Se questo entusiasmo sopraggiunge ad uno che abbia già per
le mani un soggetto, gli gioverà per la forza della esecuzione, ed anche
per la invenzione ed originalità secondaria, cioè delle parti,
dello stile, delle immagini, insomma di tutto ciò che spetta all'esecuzione.
Ma difficilmente, o non mai, giova all'invenzione del soggetto. Perchè
l'entusiasmo giovi a questo, bisogna che si aggiri appunto e sia cagionato dallo
stesso soggetto, come l'entusiasmo di una passione. Ma l'entusiasmo astratto,
vago, indefinito, che provano spesse volte gli uomini di genio, all'udire una
musica, allo spettacolo della natura ec. non è favorevole in nessun modo
all'invenzione del soggetto, anzi appena delle parti, perchè in quei
momenti l'uomo è quasi fuor di se, si abbandona come ad una forza estranea
che lo trasporta, non è capace di raccogliere nè di fissare le
sue idee, tutto quello che vede, è infinito, indeterminato, sfuggevole,
e così vario e copioso, che non ammette nè ordine, nè regola,
nè [258] facoltà di annoverare, o disporre, o scegliere, o solamente
di concepire in modo chiaro e completo, e molto meno di saisir un punto (vale
a dire un soggetto) intorno al quale possa ridurre tutte le sensazioni e immaginazioni
che prova, le quali non hanno nessun centro. Anzi provando pure, come ho detto,
l'entusiasmo di una passione, e volendo scegliere per soggetto la stessa passione,
se l'entusiasmo è veramente vivo e vero, non saprete determinarvi a veruna
forma trattabile di questo soggetto. In sostanza per l'invenzione dei soggetti
formali e circoscritti, ed anche primitivi (voglio dire per la prima loro concezione)
ed originali, non ci vuole, anzi nuoce, il tempo dell'entusiasmo, del calore
e dell'immaginazione agitata. Ci vuole un tempo di forza, ma tranquilla; un
tempo di genio attuale piuttosto che di entusiasmo attuale (o sia, piuttosto
un atto di genio che di entusiasmo); un influsso dell'entusiasmo passato o futuro
o abituale, piuttosto che la sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo,
piuttosto che il mezzogiorno. Spesso è adattatissimo un momento in cui
dopo un entusiasmo, o un sentimento provato, l'anima sebbene in calma, pure
ritorna come a mareggiare dopo la tempesta, e richiama con piacere la sensazione
passata. Quello forse è il tempo più atto, e il più frequente
della concezione di un soggetto originale, o delle parti originali di esso.
E generalmente [259] si può dire che nelle belle arti e poesia, le dimostrazioni
di entusiasmo d'immaginazione e di sensibilità, sono il frutto immediato
piuttosto della memoria dell'entusiasmo, che dello stesso entusiasmo, riguardo
all'autore. (2. Ottobre 1820.). Laddove insomma l'opinione comune che par vera
a prima vista, considera l'entusiasmo come padre dell'invenzione e concezione,
e la calma come necessaria alla buona esecuzione; io dico che l'entusiasmo nuoce
o piuttosto impedisce affatto l'invenzione (la quale dev'essere determinata,
e l'entusiasmo è lontanissimo da qualunque sorta di determinazione),
e piuttosto giova all'esecuzione, riscaldando il poeta o l'artefice, avvivando
il suo stile, e aiutandolo sommamente nella formazione, disposizione, ec. delle
parti, le quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone quando l'autore
ha perduto i primi sproni dell'originalità.
(3. ottobre 1820.)
Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al
vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano
sentire l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le
più terribili disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi
anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia
e scoraggimento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie
(sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa);
servono sempre di consolazione, [260] raccendono l'entusiasmo, e non trattando
nè rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente,
quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà
delle cose, accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in qualunque altro
modo nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non è propriamente
imitazione), apre il cuore e ravviva. Tant'è, siccome l'autore che descriveva
e sentiva così fortemente il vano delle illusioni, pur conservava un
gran fondo d'illusione, e ne dava una gran prova, col descrivere così
studiosamente la loro vanità (v. p.214-215.), nello stesso modo il lettore
quantunque disingannato, e per se stesso e per la lettura, pur è tratto
dall'autore, in quello stesso inganno e illusione nascosta ne' più intimi
recessi dell'animo, ch'egli provava. E lo stesso conoscere l'irreparabile vanità
e falsità di ogni bello e di ogni grande è una certa bellezza
e grandezza che riempie l'anima, quando questa conoscenza si trova nelle opere
di genio. E lo stesso spettacolo della nullità, è una cosa in
queste opere, che par che ingrandisca l'anima del lettore, la innalzi, e la
soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione. (Gran cosa, e certa
madre di piacere e di entusiasmo, e magistrale effetto della poesia, quando
giunge a fare che il lettore acquisti maggior concetto di se, e delle sue disgrazie,
e del suo stesso abbattimento e annichilamento di spirito). Oltracciò
[261] il sentimento del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera.
Ma se questo sentimento è vivo, come nel caso ch'io dico, la sua vivacità
prevale nell'animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire,
e l'anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui
sente la morte perpetua delle cose, e sua propria. Giacchè non è
piccolo effetto della cognizione del gran nulla, nè poco penoso, l'indifferenza
e insensibilità che inspira ordinarissimamente e deve naturalmente ispirare,
sopra lo stesso nulla. Questa indifferenza e insensibilità è rimossa
dalla detta lettura o contemplazione di una tal opera di genio: ella ci rende
sensibili alla nullità delle cose, e questa è la principal cagione
del fenomeno che ho detto.
Osserverò che il detto fenomeno occorre molto più difficilmente
nelle poesie tetre e nere del Settentrione, massimamente moderne, come in quelle
di Lord Byron, che nelle meridionali, le quali conservano una certa luce negli
argomenti più bui, dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca,
p.e. de' Trionfi e della conferenza di Achille e di Priamo, dirò ancora
di Verter, produce questo effetto molto più che il Giaurro, o il Corsaro
ec. non ostante che trattino e dimostrino la stessa infelicità degli
uomini, e vanità delle cose.
(4. ottobre 1820.)
Io so che letto Verter mi sono trovato caldissimo nella mia disperazione letto
Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno; molto meno consolazione.
[262] E certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile alla mia disperazione:
piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo.
L'uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria.
Bisogna ricordarsi che l'invenzione della polvere contribuì non poco
all'indebolimento delle generazioni 1. disavvezzando dal portare armatura, (v.
Montesquieu ch.2. in proposito del gran vigore de' soldati romani) 2. rendendo
l'atto della guerra non più opera della forza individuale o generale,
ma quasi intieramente dell'arte; certamente rendendo l'arte molto più
arbitra della guerra che non era stata per l'addietro ec. 3. sopprimendo o togliendo
per conseguenza la necessità di quegli esercizi che o direttamente o
indirettamente come i giuochi atletici, servivano a render gli uomini vigorosi
ed atti alla guerra.
Lo spavento e il terrore sebbene di un grado maggior del timore, contuttociò
bene spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non contengono nessuna viltà:
e possono cadere anche negli uomini perfettamente coraggiosi, al contrario del
timore. P.e. lo spavento che cagiona l'aspetto di una vita infelicissima o noiosissima
e lunga, che ci aspetti ec. Lo spavento degli spiriti, così puerile esso,
e fondato in opinione così puerile, è stato (ed ancora è)
comune ad uomini coraggiosissimi. V. la p.531, e 535.
[263] L'intrigo può star molte volte colla chiarezza, come anche si può
essere strigato ed oscuro. L'intrigo può venire o dallo scrittore, o
dalla necessità della materia, ed allora la chiarezza è difficilissima
allo scrittore, e il luogo può riuscir difficile al lettore, sebbene
sia chiaro. Ma spessissimo si confonde l'intrigo coll'oscurità, e si
chiama oscuro quello ch'è solamente intrigato, e intrigato quello ch'è
solamente oscuro. Applicate quest'osservazione ai cinquecentisti che bene spesso
sono intrigati e contuttociò chiari, ai trecentisti che per lo più
sono strigatissimi e sovente oscurissimi, agli scrittori scientifici, tecnici,
gramatici ec.
Una cosa stimabile non può essere apprezzata degnamente se non da quelli
che ne conoscono il valore. Perciò la rarità non porta sempre
con se la stima della cosa, anzi spessissimo l'impedisce. Un uomo di grande
ingegno fra gl'ignoranti o è disprezzato, o apprezzato senz'ammirazione
senza entusiasmo senza nessuno di quegli affetti che paiono conseguenze infallibili
dello straordinario, e che debbano crescere tanto più quanto la cosa
è più straordinaria relativamente. Il conto che se ne fa, è
come di uno che abbia un utensile migliore degli altri, i quali talvolta lo
chiedono in prestito o se ne servono presso chi lo possiede, e non perciò
stimano che quell'uomo [264] sia una gran cosa, o superiore agli altri a cagione
di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con tanti altri. Così
le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o ignorante, così
la sensibilità massimamente e l'entusiasmo, il quale anzi dalle persone
ordinarie sarà stimato piuttosto un ???????????, che un ???????????,
e deriso come pazzia. Così si è veduto che eccetto i pregi sensibili,
o de' quali tutti sanno giudicare naturalmente, tutti gli altri sono stati assai
meno stimati nei secoli e nei luoghi dove sono stati più rari. Ed è
cosa certa che un grande ingegno non può essere intimamente conosciuto,
e però degnamente apprezzato e ammirato se non da un altro grande ingegno;
e così le sue opere; così tutto quello che spetta a discipline,
arti, abilità particolari, onde p.e. un grand'uomo di guerra non riscuoterà
degna ammirazione che da un altro grand'uomo dello stesso mestiere.
(5. ottobre 1820.). V. p.273.
Anticamente il cercare e istruirsi in diverse scuole non serviva come ora ad
imparar sempre più, giacchè tutte le scuole seguono gli stessi
principii, e non si diversificano se non per la diversa disciplina che professano.
Ma allora per imparare le dottrine di una scuola, bisognava disimparare quelle
[265] dell'altra, e scegliere quale si voleva seguire, giacchè ciascuna
contraddiceva alle altre. E perciò gli uomini di un certo ingegno mediocre
si attaccavano ad una setta, imparavano i dogmi di una sola scuola, di quelli
erano contenti, e si chiamavano col nome della loro setta. Altri un poco maggiori
d'ingegno o di presunzione introducevano qualche cangiamento nelle dottrine
de' loro maestri, o vi aggiungevano qualche cosa, e si facevano capi di un nuovo
ramo della setta stessa. Gl'ingegni superiori, non si servivano della istruzione
che prendevano in diverse scuole se non per isceglierne il meglio, o quello
che credessero tale, e fondere insieme i dogmi scelti da varie sette, per formare
o di essi soli, o di altri che v'aggiungessero del proprio, o di un nuovo sistema
cavato dalle varie e discordanti idee acquistate, una nuova scuola e setta,
come fece Platone che amò d'istruirsi in varie scuole, e ascoltò
Socrate, (altri due subito dopo la sua morte, nominati dal Laerzio nel principio
della vita di Platone), i Pitagorici, gli Egiziani, e voleva anche ascoltare
i maghi di Persia, ma non potè a cagione delle guerre d'Asia. E [266]
delle varie dottrine imparate e scelte da queste sette compose il suo nuovo
sistema.
(6. Ottobre 1820.)
Le passioni e i sentimenti dell'uomo si può dire che da principio stessero
nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più cupo dell'anima,
e finalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l'uomo naturale,
sebbene sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni
nella superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e volute
dalla natura per aprire una strada alla soverchia fuga ed impeto del sentimento,
il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè
richiamato subito al di fuori, dopo un grand'empito esterno, presto veniva meno,
se bene fosse molto più frequente. L'uomo non più naturale, ma
che tuttavia conserva un poco di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza
della passione, come l'uomo primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne
dà segni se non leggeri ed equivoci, e però il sentimento si rannicchia
tutto nel profondo, ed acquista maggior forza e durevolezza, e se il sentimento
è doloroso, non avendo lo sfogo voluto dalla natura, diventa capace anche
di uccidere o di tormentare più o meno, secondo la qualità sua
e dell'individuo. Di queste persone si trovano anche oggidì, [267] perchè,
tolto qualche parte del volgo, nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta
la passione lanciarsi alla superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove
la natura trionfa); ma molti ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e
poterla provare contenuta e chiusa nel fondo dell'animo. Tuttavia è certo
che questi tali appartengono ad un'epoca di mezza natura, a quel tempo in cui
la vera sensibilità non era nè così ordinaria nelle parole,
nè così straordinaria nel fatto, come presentemente. L'uomo perfettamente
moderno, non prova quasi mai passione o sentimento che si lanci all'esterno
o si rannicchi nell'interno, ma quasi tutte le sue passioni si contengono per
così dire nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono
se non mediocremente, gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà
naturali, abitudini ec. In maniera che la massima parte della sua vita si passa
nell'indifferenza e conseguentemente nella noia, mancando d'impressioni forti
e straordinarie. Esempio. Un amico o persona desiderata che ritorni dopo lungo
tempo, o che vediate per la prima volta. Il fanciullo e l'uomo selvaggio l'abbraccerà,
lo carezzerà, salterà, darà mille segni esterni di quella
gioia che l'anima veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi [268]
e naturalissimi. L'uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo
prenderà per la mano, o al più l'abbraccerà lentamente,
e resterà qualche tempo in questo abbracciamento, o in altra positura,
non dando segno della gioia che prova se non colla immobilità della persona
e dello sguardo, e forse con qualche lacrima, e mentre il di dentro è
diversissimo, il di fuori sarà quasi quello di prima. L'uomo ordinario,
o l'uomo di sentimento affievolito e intorpidito dall'esperienza del mondo,
e dalla misera cognizione delle cose, insomma l'uomo moderno, conserverà
di dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se
non piccola, minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse
o no, quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di
quei piaceri che si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando
anche voi lo desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace
di riempiervi o di scuotervi. V. p.270. capoverso 1.
Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione. Eccetto
quelle che sono piacevoli per se stesse, e nell'atto, (e sono ben poche, e il
piacere che danno è sommamente inferiore all'aspettazione) tutte le altre
non sono dilettevoli se non fatte con uno scopo e una speranza, e un'aspettativa
[269] di cosa non presente e che debba seguirne. Se bene molte di queste, o
perchè lo scopo si venga conseguendo a ogni tratto, come nello studio,
o perchè lo scopo sia tanto inerente e immedesimato con lei, che appena
si lasci distinguere, sogliono esser confuse colle azioni dilettevoli per se
stesse, quando non dilettano se non in quanto sono indirizzate a quel fine,
e a quella speranza, tolte le quali cose restano indifferenti o noiose, come
si può vedere considerando la stessa azione in due diversi individui.
La pura bellezza risultante da un'esatta e regolare convenienza, desta di rado
le grandi passioni (come dice Montesquieu), per lo stesso motivo per cui la
ragione è infinitamente meno forte ed efficace della natura. Quella bellezza
è come una ragione, perciò non suppone vita nè calore,
sia in se medesima, sia in chi la riguarda. Al contrario un volto o una persona
difettosa ma viva, graziosa ec. o fornita di un animo capriccioso, sensibile
ec. sorprende, riscalda, affetta e tocca il capriccio di chi la riguarda, senza
regola, senza esattezza, senza ragione ec. ec. e così le grandi passioni
nascono per lo più dal capriccio, dallo straordinario ec. e non si ponno
giustificare colla ragione.
(10. ottobre 1820.)
[270] Quello che ho detto p.266.-268. deve servir di regola agli scrittori drammatici
nell'esprimere e modellare i caratteri dei diversi tempi.
(10. ottobre 1820.)
La semplice bellezza rispetto alla grazia ec. è nella categoria del bello,
quello ch'è la ragione rispetto alla natura nel sistema delle cose umane.
Questa considerazione può applicarsi a spiegare l'arcana natura e gli
effetti della grazia.
La ragione è debolissima e inattiva al contrario della natura. Laonde
quei popoli e quei tempi nei quali prevale più o meno la ragione saranno
stati e saranno sempre inattivi in proporzione della influenza di essa ragione.
Al contrario dico della natura. Ed un popolo tutto ragionevole o filosofo non
potrebbe sussistere per mancanza di movimento e di chi si prestasse agli uffizi
scambievoli e necessari alla vita. ec. ec. E infatti osservate quegli uomini
(che non sono rari oggidì) stanchi del mondo e disingannati per lunga
esperienza, e possiamo dire, renduti perfettamente ragionevoli. Non sono capaci
d'impegnarsi in nessun'azione, e neanche desiderio. Simili al march. D'Argens,
di cui dice Federico nelle Lettere, che per pigrizia, non avrebbe voluto pur
respirare, se avesse potuto. La conseguenza della loro stanchezza, esperienza,
e cognizione delle cose è una perfetta indifferenza che li fa seguire
il moto altrui senza muoversi da se stessi, anche nelle cose che li riguardano.
Laonde se questa indifferenza potesse divenire universale [271] in un popolo,
non esistendovi moto altrui, non vi sarebbe movimento di nessuna sorta.
La gloria per lo più, massimamente la letteraria, allora è dolce
quando l'uomo se ne pasce nel silenzio del suo gabinetto, e se ne serve di sprone
a nuove imprese gloriose, e di fondamento a nuove speranze. Perchè allora
ella conserva la forza dell'illusione, sola forza ch'essa abbia. Ma goduta nel
mondo e nella società, ordinariamente si trova esser cosa o nulla, o
piccolissima, o insomma incapace di riempier l'animo e soddisfarlo. Come tutti
i piaceri da lontano sono grandi, e da vicino minimi, aridi, voti, e nulli.
Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualche considerabile vantaggio
della vita: non ti affliggere; assicurati che sono pure illusioni: parlano scioccamente.
Perchè quegli potrà e dovrà rispondere: ma tutti i piaceri
sono illusioni o consistono nell'illusione, e di queste illusioni si forma e
si compone la nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta?
e perchè vivo? Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni
ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l'attività,
il movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, [272] come son tolte.
Che piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la
virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza
vera in amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità
ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E tuttavia l'uomo sensibile se
ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse
più dietro a questi enti immaginari (astraendo ancora da una vita futura),
sarebbe molto meno infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna
cosa è capace di riempier l'animo umano, ma non è meglio una vita
con molti piaceri illusorii, che senza nessun piacere? non si vivrebbe meglio
se nel mondo si trovassero queste illusioni più realizzate, e se l'uomo
di cuore non si dovesse persuadere non solo che sono enti immaginari, ma che
nel mondo non si trovano più neanche così immaginari come sono?
in maniera che manchi affatto il pascolo e il sostegno all'illusione. E dall'altro
lato, non c'è maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello
che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto
più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l'uomo sarebbe
infelice.
(11. ottobre 1820.). V. p.338. capoverso 2.
[273] Di un ricco avaro al quale era stata rubata una piccolissima somma in
un suo stanzino pieno di danaio, disse taluno, S'è mostrato avaro (È
stato avaro) anche nel lasciarsi rubare.
(13. ottobre 1820.)
La maggior parte degli uomini vive per abito, senza piaceri, nè speranze
formali, senza ragion sufficiente di conservarsi in vita, e di fare il necessario
per sostenerla. Che se riflettessero, astraendo dalla religione, non troverebbero
motivo di vivere, e contro natura, ma secondo ragione, conchiuderebbero che
la vita loro è un assurdo, perchè l'aver cominciato a vivere,
secondo natura sibbene, ma secondo ragione non è motivo giusto di continuare.
Alla p.263. pensiero 2. aggiungi. Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare
di un pregio, se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero,
lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno
sarà infinitamente minor del giusto, sicchè relativamente considereranno
quel tal pregio come molto minore. Nella mia patria dove sapevano ch'io era
dedito agli studi, credevano ch'io possedessi tutte le lingue, e m'interrogavano
indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico, fisico,
matematico, politico, medico, teologo ec. insomma enciclopedicissimo. E non
perciò mi credevano una gran cosa, e per l'ignoranza, non sapendo che
cosa sia un letterato, non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri,
malgrado la detta opinione che [274] avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo
lodarmi, un giorno mi disse, A voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo
in una buona città, perchè quasi quasi possiamo dire che siate
un letterato. Ma s'io mostrava che le mie cognizioni fossero un poco minori
ch'essi non credevano, la loro stima scemava ancora, e non poco, e finalmente
io passava per uno del loro grado. È vero però che talvolta può
succedere il contrario, e per un'opinione simile, in tempi o luoghi ignoranti,
un uomo o un pregio piccolo conseguire una somma stima.
Alla p.252. capoverso 1. Vedi in questo proposito la p.114. pensiero ultimo,
e considera la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso
i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch'io dico, cioè
dell'esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favorevolissimi
alla tirannia. V. anche Montesquieu Grandeur etc. ch.10. principio. Certo la
profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione,
di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ec. non impedì la tirannia,
anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando n'ebbero in
buon numero, e così profondi come questi, e come non ne avevano avuti
mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia, sebbene paiano
suoi nemici, così scambievolmente la [275] tirannia giova loro, 1. perchè
il tiranno ama e proccura che il popolo si diverta, o pensi (quando non si possa
impedire) in vece che operi, 2. perchè l'inoperosità del suddito
lo conduce naturalmente alla vita del pensiero, mancando quella dell'azione,
3. perchè l'uomo snervato e ammollito è più capace e più
voglioso o di pensare, o di spassarsi coll'amenità ec. degli studi eleganti,
che di operare, 4. perchè il peso, la infelicità, la monotonia,
il sombre della tirannia fomenta e introduce la riflessione, la profondità
del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico; l'eloquenza non
più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5. perchè
la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l'immaginazione lieta aerea
brillante e insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione del
vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà
anche luogo all'immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più
dalle verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle
vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è
quella de' settentrionali, massime oggidì, fra' quali la poca vita della
natura, dà luogo all'immaginativa fondata sul pensiero, [276] sulla metafisica,
sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose,
sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica
sublime che colla poesia.
(14. ottobre 1820.)
P.51 capoverso 4. aggiungi. Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente
colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male,
per imperizia e mancanza d'arte nell'eseguirlo, per impotenza fisica o morale
o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse,
per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza
rimorso.
(14. ottobre 1820.)
La convenienza che cagiona la bellezza non è solamente nelle parti della
cosa. Molte cose possono esser così semplici che quasi non abbiano parti.
E il bello morale, e tutto quel bello che non appartiene ai sensi, non ha parti.
Ma la convenienza della cosa si considera anche rispetto alle relazioni del
tutto, o delle parti coll'estrinseco. P.e. coll'uso, col fine, coll'utilità,
col luogo, col tempo, con ogni sorta di circostanza, coll'effetto che produce
o deve produrre ec. Una spada con una gemma sulla [277] punta, la qual gemma
corrispondesse perfettamente all'ornato, alle proporzioni, alla configurazione,
alla materia del resto, a ogni modo sarebbe brutta. Questa bruttezza non è
sconvenienza di parti, non di una parte coll'altre, ma di una parte col suo
uso o fine. Di questo genere sono infinite bruttezze o bellezze tanto sensibili,
che intelligibili, morali, letterarie ec.
(14. ottobre 1820.)
Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è privo perciò
di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel nonnulla
che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se è
stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è
la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto
quello che si vede nella realtà e da vicino, si può dire che il
presente sia nullo per tutti, e che ogni uomo manchi del presente. Il vuoto
del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio
della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè
i suoi desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e [278] intorpiditi,
e ristretti, e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni
presenti, nè grandi speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè
l'estensione materiale del suo futuro è piccola, e non lo può
spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo spazio. Ma il giovane senza presente
nè futuro, cioè senza nè beni, attività, piaceri,
vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere infelicissimo
e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire della sua sorte
e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne ha, non serve
altro che ad attristarlo e stringergli il cuore. Le rimembranze della fanciullezza
e della prima adolescenza, dei godimenti di quell'età perduti irreparabilmente,
delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità
futura, di azioni, di vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri
e le passioni sue, sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno
bisogno di moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore
è il bisogno e l'estensione e intensità ec. della vita esterna
che si desidera. E mancando questa, quanto maggiore è la vita interna,
tanto maggiore è il senso di [279] morte, di nullità, di noia
ch'egli prova: insomma tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua
vita interiore è più energica. 3. Il giovane non ha provato nè
veduto. Non può esser sazio. I suoi desideri e passioni sono più
ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo assolutamente per l'età,
ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di che cibarsi e riempiersi.
Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella natura, quando anche
lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo futuro è materialmente
lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a percorrere,
fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta pena a passare.
Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera eccessivamente, sembrandogli
quel futuro più lungo e terribile di un'eternità. Di più
tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età passata non è stata
altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato senza dover vivere.
Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una sola volta deve
passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della vita, non
vivrà, avrà perduto e gli sarà inutile la sua unica esistenza.
Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa guisa, gli sembra
[280] una perdita irreparabile fatta sopra un'età che per lui non può
più tornare.
(16. ottobre 1820.)
Il suo divertimento era di passeggiare contando le stelle (e simili).
(16. ottobre 1820.)
Anche la mancanza sola del presente è più dolorosa al giovine
che a qualunque altro. Le illusioni in lui sono più vive, e perciò
le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile non sopporta
la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo vivere
nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e l'inattività
presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in qualunque
altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male,
e l'uomo col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia,
e trovarla molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della
noia da principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia
l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile
di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto eroica.
Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vita.
L'abito dell'eroismo può essere in un corpo debole, ma l'atto difficilmente,
e non senza un grande [281] sforzo, nè senza ripugnanza, e quasi contro
natura. E perciò vediamo moltissimi che per abito sono tutt'altro che
eroi, far non di rado azioni eroiche; e viceversa. Anzi si può dire che
gli uomini d'abito di principii e d'animo eroico, lo sono di rado nel fatto;
e gli uomini eroici nel fatto, lo sono di rado nell'abito nei sentimenti e nell'animo.
Estendete queste osservazioni all'entusiasmo.
Quell'usignuolo di cui dice Virgilio nell'episodio d'Orfeo, che accovacciato
su d'un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile
sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti
di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare
il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell'impotenza ch'esprime,
secondo quello che ho detto in altri pensieri.
Il Buffon Hist. nat. de l'homme, combatte coloro i quali credono che la separazione
dell'anima dal corpo debba essere dolorosissima per se stessa. A' suoi argomenti
aggiungi questo, che forse è il più concludente. Se volessimo
considerar l'anima come materiale, già non si tratterebbe più
di separazione, e la morte non sarebbe altro che un'[282] estinzione della forza
vitale, in qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi. Ma considerandola
come spirituale, è ella forse un membro del corpo, che s'abbia a staccare,
e perciò con gran dolore? O non piuttosto i legami tra lo spirito e la
materia, qualunque sieno, certo non sono materiali, e l'anima non si svelle
come un membro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere,
nello stesso modo che una fiamma si estingue e parte da quel corpo dove non
trova più alimento, nel che, per dire un'immagine, noi non vediamo nè
ci figuriamo neanche astrattamente nessuna violenza e nessun dolore sia nel
combustibile sia nella fiamma. La morte nell'ipotesi della spiritualità
dell'anima, non è una cosa positiva ma negativa, non una forza che la
stacchi dal corpo, ma un impedimento che le vieta di più rimanervi, posto
il quale impedimento, l'anima parte da se, perchè manca il come abitare
nel corpo, non perchè una forza violenta ne la sradichi e rapisca. Giacchè
se l'anima è spirito, non bisogna considerarla come parte del corpo,
ma come ospite di esso corpo, e tale che l'entrata e l'uscita sua sia facilissima
leggerissima e dolcissima, non essendoci mica nervi nè membrane nè
ec. che ve la tengano attaccata, o [283] catene che ve la tirino quando deve
entrarvi. E quando v'entra, la cosa è insensibile, e l'uomo certamente
non se ne avvede; così la sua uscita dev'essere insensibile, e tutta
diversa dalla nostra maniera di concepire. Come l'uomo non s'accorge nè
sente il principio della sua esistenza, così non sente nè s'accorge
del fine, nè v'è istante determinato per la prima conoscenza e
sentimento di quello nè di questo. V. p.290.
Qualunque uomo nuovo tu veda, purch'egli viva nel mondo, tu sei certo di non
errare, tenendolo subito per un malvagio, qualunque sia la sua fisonomia, le
maniere, il portamento, le parole, le azioni ec. E chi vuol mettersi al sicuro
deve subito giudicarlo per tale, e appresso a poco non troverà mai di
avere sbagliato veramente, non ostante che tutte le apparenze gli possano dimostrare
il contrario per lunghissimo tempo. Nello stesso modo, e per la stessa ragione
è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell'uomo da bene
che si unisce in matrimonio. Perchè s'egli non intende di portare e far
sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo [284]
fino da quel primo punto, che il suo matrimonio non frutterà al mondo
altro che qualche malvagio di più. E questo non ostante qualunque indole,
qualunque cura o arte di educazione ec. Perchè da che un uomo qualunque
dovrà entrare nella società, è quasi matematicamente certo
che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco
a poco; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli
ch'esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente saranno vinti.
E parimente dovrebb'esser dolorosissimo per l'uomo da bene il considerare nel
mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile
speranza di virtù, ch'egli ne possa concepire, è certissimo per
infallibile e continua esperienza, che saranno, almeno in gran parte, inutili
e vane. Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e
cercare il buon educatore, è d'istillare ne' suoi figli tanta dose di
virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco,
a proporzione della prima quantità. Questa sarebbe ben altra risposta
da darsi a chi vi consigliasse d'ammogliarvi, o v'interrogasse perchè
non l'abbiate fatto. Al che Talete interrogato [285] da Solone, dicono che rispondesse
col mostrargli le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli o le sventure
della sua prole. Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare dei malvagi:
per non dare al mondo altri malvagi.
(17. ottobre 1820.)
La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l'uomo,
neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria
ad essa speranza, e la più decisiva.
(18. ottobre 1820.)
Si può applicare alla poesia (come anche alle cose che hanno relazione
o affinità con lei) quello che ho detto altrove: che alle grandi azioni
è necessario un misto di persuasione e di passione o illusione. Così
la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di
qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa persuadere, non solo
secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un certo
tal quale convincimento che la cosa stia o possa stare effettivamente così.
Perciò l'antica mitologia, o [286] qualunque altra invenzione poetica
che la somigli, ha tutto il necessario dalla parte dell'illusione, passione
ec. ma mancando affatto dalla parte della persuasione, non può più
produrre gli effetti di una volta, e massime negli argomenti moderni, perchè
negli antichi, l'abitudine ci proccura una tal quale persuasione, principalmente
quando anche il poeta sia antico, perchè immedesimatasi in noi l'idea
di quei fatti, di quei tempi, di quelle poesie ec. con quelle finzioni, queste
ci paiono naturali e quasi ci persuadono, perchè l'assuefazione c'impedisce
quasi di distinguerle da quei poeti, tempi, avvenimenti ec. e così machinalmente
ci lasciamo persuadere quanto basta all'effetto, che la cosa potesse star così.
Ma applicate nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad altri argomenti
antichi, sia massimamente a soggetti moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo
sempre un non so che di arido e di falso, perchè manca la tal quale persuasione,
quando anche la parte del bello immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta.
Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei poeti
antichi, [287] sebbene il suo favoloso e maraviglioso è tratto dalla
religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione e incremento di lumi,
nessuna finzione o nuova [o] nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell'intelletto,
mancando la detta assuefazione, la quale supplisce al resto ne' poeti antichi.
E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì non può
più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e
al diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec.
all'impulso a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non
si presta alla finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo
appunto per le sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo
aver più effetto, il poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa
maneggiata con vero giudizio, scelta, e abilità, può tanto per
la maraviglia che per gli affetti ec. produrre impressioni sufficienti e notabili.
(19. ottobre 1820.)
Anche gli animali si associano in molti casi, e sempre per lo vantaggio comune.
Oltre le formiche e le api che ho notate altrove, si può osservare [288]
la così detta ruota che fanno i cavalli e altri animali per difendersi
da comuni aggressori. Dalla quale s'inferisce ancora che gli animali hanno idee
sufficienti di ordinanza o tattica, cioè del modo di accrescere e rendere
più profittevoli le forze individuali 1. coll'unione di molti individui,
2. colla disposizione e figura di tutta la torma, 3. colla conveniente collocazione
degl'individui. Di tali società guerriere offensive e difensive, credo
che la storia naturale fornisca moltissimi esempi. Come anche in altri casi;
p.e. se è vero quello che si racconta dell'ordinanza delle grù
nei viaggi che fanno, della sentinella o svegliatrice che tengono. Così
la catena delle scimmie per passare i fiumi, così cento altri esempi
dell'aiuto scambievole che le bestie si prestano per vantaggio comune, e forse
anche talvolta per vantaggio del solo bisognoso e aiutato.
Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al loro genere. Tuttavia
perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose, coloro
che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche difetto,
cioè imitare piuttosto [289] e figurare e scegliere l'individuo difettoso
che il perfetto, per render la imitazione più verisimile e credibile,
e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero. E laddove il difetto scema
pregio all'imitato e vi si biasima, accresce pregio all'imitazione e vi si loda.
Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non le fai tutte tonde
perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte così. Ed imiti
piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che contraffarne una inestimabile.
Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero,
che l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità,
del vantaggio che ne cava l'illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa
osservazione a regolamento di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto
da imitare, acciocchè rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto
d'imperfezione, intorno alla quale siamo pure nello stesso caso. Applicate quest'ultima
riflessione ai protagonisti di Lord Byron.
(20. ottobre 1820.)
[290] Alla p.283. aggiungi. L'uomo non si avvede mai precisamente del punto
in cui egli si addormenta, per quanto voglia proccurarlo. Ora il sonno non è
il fine della vita, ma certo un interrompimento, e quasi un'immagine di esso
fine; e se l'uomo non può sentire il punto in cui le sue facoltà
vitali restano come sospese, molto meno quando sono distrutte. Forse anche si
potrà dire che l'addormentarsi non è un punto, ma uno spazio progressivo
più o meno breve, un appoco appoco più o meno rapido; e lo stesso
si dovrà dir della morte. Di più è certo che i momenti
i quali precedono immediatamente il sonno, e il punto o lo spazio dell'addormentarsi
definitivamente (sebbene impercettibile), è dilettevole. Questo quando
anche la cagione del sonno, come il languore, il travaglio, la malattia, la
semplice debolezza, non siano dilettevoli, anzi l'opposto; e però i momenti
più lontani dal sonno siano penosi. Anzi anche il letargo proveniente
da infermità, anche mortale, è dilettevole. Che il torpore sia
dilettevole l'ho notato già in questi pensieri nella teoria del piacere,
e assegnatane la ragione. Credo che su questo fondamento il Napoletano [291]
Cirillo abbia opinato che la morte abbia un non so che di dilettevole. Nel che
sono interamente con lui, e non dubito che l'uomo (e qualunque animale) non
provi un certo conforto, e un tal qual piacere nella morte. Non già che
le cagioni di lei, e perciò i momenti più lontani da lei, siano
dilettevoli; ma sibbene i momenti che la precedono immediatamente, e quello
stesso punto o spazio impercettibile, e insensibile, in cui ella consiste. E
ciò in qualunque malattia, anche nelle acutissime, nelle quali il Buffon
pare che convenga che la morte possa esser dolorosa. Anzi il torpore della morte
dev'esser tanto più dilettevole, quanto maggiori sono le pene che lo
precedono, e da cui esso per conseguenza ci libera. E però generalmente
e sempre, il torpore della morte dev'essere più grato di quello del sonno,
perchè succede a molto maggior travaglio. Il qual sonno come ho detto
non è mai penoso, quando anche sia cagionato da pene, anche da angoscie
vive, come da febbre ardente ec. Quanto alle malattie dove l'uomo si estingue
appoco appoco, e con piena conoscenza fino all'ultimo, è certo che non
v'è momento così immediatamente vicino alla morte, dove l'uomo
anche il meno illuso non si prometta un'ora almeno di vita, come si dice de'
vecchi ec. E così la morte non è mai troppo vicina al pensiero
del moribondo, per la solita misericordia della natura. Vedi p.599. capoverso
2. Io bene spesso trovandomi in gravi travagli o corporali o morali, ho desiderato
non solamente il riposo, ma la mia anima senza sforzo, e senza eroismo, si compiaceva
[292] naturalmente nell'idea di un'insensibilità illimitata e perpetua,
di un riposo, di una continua inazione dell'anima e del corpo, la qual cosa
desiderata in quei momenti dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col
nome espresso di morte, nè mi spaventava punto. E moltissimi malati non
eroi, nè coraggiosi anzi timidissimi, hanno desiderato e desiderano la
morte in mezzo ai grandi dolori, e sentono un riposo in quell'idea, il quale
sarebbe molto maggiore, se l'idea della morte non fosse accompagnata dai timori
del futuro, e da cento altre cose estranee, e d'altro genere. Del resto il riposo
ch'io desiderava allora mi piaceva più che dovesse esser perpetuo, acciò
non avessi dovuto ripigliare svegliandomi gli stessi travagli de' quali era
così stanco.
Se la morte e il sonno siano un punto o uno spazio, non si ricerca riguardo
a quei momenti nei quali l'uomo conserva ancora una cognizione di se, che va
scemando a poco a poco, giacchè questo non si dubita che non sia uno
spazio progressivo, ma riguardo al tempo non sensibile, nè conoscibile,
nè ricordabile. Il quale pare che debba essere istantaneo, giacchè
il passaggio dal conoscere al non conoscere, [293] dall'essere al non essere,
dalla cosa quantunque menoma al nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente
per salto, e istantaneamente.
(21. ottobre 1820.)
Ho detto altrove; (p.55.) domandate piacere ad uno, che non vi si possa fare
senza incorrere nell'odio di un altro ec. La cagione di questo è che
l'odio è passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che
il benefizio produca l'amore passione, giacchè questa non si può
dubitare che spesso non sia più efficace ed attiva dell'odio e di tutte
le altre. Ma la semplice gratitudine è tutta relativa ad altrui, laddove
l'amore passione, benchè sembri, non è tale, ma è fondata
sommamente nell'amor proprio, giacchè si ama quell'oggetto come cosa
che c'interessa, ci piace, e la nostra persona entra in questo affetto per grandissima
parte. Ma la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi.
Bisogna fare che l'uomo si muova per la ragione come, anzi più assai
che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La
natura degli uomini e delle cose, può ben [294] esser corrotta, ma non
corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non
ostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna
estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare
che il dovere la virtù l'eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per
natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma quando
la sola passione del mondo è l'egoismo, allora si ha ben ragione di gridar
contro la passione. Ma come spegner l'egoismo colla ragione che n'è la
nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l'uomo privo di passioni,
non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perchè le cose
son fatte così, e non si possono cambiare, chè la ragione non
è forza viva nè motrice, e l'uomo non farà altro che divenirne
indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com'è divenuto
in grandissima parte.
(22. ottobre 1820.)
Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor della morte, i quali
par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile, e che la
morte può [295] privarci di minore spazio di tempo, e di minori godimenti,
anzi di maggiori mali (fenomeno discusso ultimamente dai filosofi tedeschi che
ne hanno recato mille ragioni fuorchè le vere: v. lo Spettatore di Milano),
sono, oltre quella che ho recata, mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo
Sarno, queste altre. 1. Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza,
si estingue o scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è
meno gagliarda, l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne
o considerarne la perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la
vita, coraggiosissimi nelle battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi
nelle malattie, tanto per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi
dell'animo, quanto perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione,
quel movimento, quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo
ai rischi attivi. 2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare,
e niente spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano
mille difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano
pareano facili ad abbandonare [296] per forza di ardore di entusiasmo, o di
passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono infinitamente quando la passione
è sparita, e le cose si considerano quietamente. 3. Che la natura ha
posto negli esseri viventi sommo amor della vita, e quindi odio della morte,
e queste passioni ha voluto e fatto che fossero cieche, e non dipendessero dal
calcolo delle utilità, della maggiore o minor perdita ec. Quindi è
naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio crescano in proporzione
che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di
cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano
quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si
corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo
era maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti
in qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo,
è il vero possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente.
5. Che la felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma
dall'interno. Il vecchio per l'assuefazione è meno suscettibile [297]
di mali, e meno sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto
e dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno
vivo nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che
desidera, e a desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde
la vita del vecchio non è più infelice di quella del giovane,
anzi forse più felice secondo la sesta considerazione. 6. Che la vita
metodica, tranquilla e inattiva non è penosa ma piacevole, quando s'accordi
col metodo, calma, e inattività dell'individuo. Certo il giovane muore
in una tal condizione, ma la condizione ch'egli desidera, specialmente nello
stato presente del mondo, è difficilissima o impossibile a conseguire.
Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il vecchio lo desidera, lo cerca,
lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e a differenza delle
altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo lo soffre
con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può
non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete
la tempesta delle passioni, dalla [298] quale il vecchio è libero, la
tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli
stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla sospirata
in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo
stato naturale è il riposo e la quiete, e che l'uomo anche più
ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma e all'INAZIONE continuamente
in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la vita metodica era
quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale, ma naturale.
Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita rurale
o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella
par loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente
è tale quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi,
e nei selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre
della fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura
inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe [299]
penosissima. Si vedono bene spesso de' carcerati ingrassare e prosperare, ed
esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione di una sentenza che decida
della loro vita. Dove anzi l'imminenza del male, accresce il piacere del presente,
cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro,
e provata da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali
furori di gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava
un male imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e non più,
e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e soprattutto
di quel male, per pensare solamente a godere, non ostante la mia indole malinconica
in tutti gli altri tempi, e riflessivissima. Anzi forse questa accresceva allora
l'intensità del godimento, o della risoluzione di godere. Applicate anche
questa settima considerazione ai vecchi. V. p.121. pensiero 3. e confrontalo,
rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23. ottobre 1820.)
I principi non possono essere amati per altra passione che per quella che consiste
nell'amor di parte. [300] L'ambizione, l'avarizia ec. cadono sotto la categoria
dell'interesse, consistono nel freddo calcolo dell'egoismo, e perciò
spettano alla ragione, tutto l'opposto del fervido, irriflessivo e cieco impeto
della passione. E chi sacrifica se stesso al principe per ambizione, avarizia,
o altre mire di propria utilità, non si sacrifica veramente al principe
ma a se stesso, e tanto quanto lo crede utile a se stesso, e in caso diverso,
abbandona la sua causa. Ma l'amor di parte conduce a sacrificarsi furiosamente,
e senza riserva nè condizione nè ritegno nè calcolo veruno,
all'oggetto di questo amore, e così la passione primieramente è
più forte della ragione e dell'interesse, e conduce ad affrontare molto
maggiori ostacoli e pericoli; in secondo luogo non è soggetta a cambiar
di strada secondo le circostanze, come l'interesse che da una causa porta a
difenderne un'altra, secondo che meglio torna. I principi dunque non potendo
esser favoriti dai sudditi per altra passione che per la sopraddetta, e l'interesse
non essendo nè così forte, nè molto meno così costante,
la ragione poi essendo inoperosissima (giacchè vediamo tutto giorno che
quella parte [301] dei sudditi la quale ama o favorisce il suo governo per mera
persuasione, come anche quella che lo odia nello stesso modo, è la parte
più immobile e più passiva del popolo), debbono fomentare l'amor
di parte. E siccome questo non è attivo anzi non esiste, se non v'è
parte contraria, perciò, quantunque sembri un paradosso, si può
affermare che giova al principe il dar luogo a una fazione contraria alla sua,
quando esista la favorevole, e sia più forte com'è il più
naturale e ordinario. Questa fu la pratica dei romani la quale riuscì
loro così bene come nessuno ignora. E i realisti di Francia, e le provincie
o città realiste non sarebbero così ardenti sostenitori del re,
se non avessero lo spirito di parte, e se non esistesse un partito contrario
considerabile, il quale non è più forte, ma se fosse, l'affare
sarebbe fuor del caso. E cento altri esempi e prove simili può fornire
la storia antica e moderna e presente. Quello dunque che ho detto p.113. de'
conquistatori, si può estendere a tutti i principi e governi.
(27. ottobre 1820.)
massime monarchici, oligarchici, aristocratici ec. perchè nelle repubbliche
[302] il caso è alquanto diverso, e le fazioni sono utili per altre ragioni,
ma non però che anche questa non si possa applicare ad esse pure. V.
p.1242.
Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la consolazione o
filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e non vede altra
consolazione che della morte. Il libro di Crantore ?????????????lodatissimo
dagli antichi, il libro di Cicerone de Consolatione dove espresse in gran parte
quello di Crantore, saranno stati utili alle altre età. Pel giovane estremamente
sventurato, o che si creda tale, non si può scriver libro consolatorio.
La corruttela de' costumi è mortale alle repubbliche, e utile alle tirannie,
e monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della natura e differenza
di queste due sorte di governi.
(3. novembre 1820.)
La plus grande marque qu'on est né avec de grandes qualités, c'est
d'être sans envie Madame la Marquise de Lambert, Avis d'une mère
à son fils. À Paris et à Lyon 1808. p.67.
Une résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame)
contracteroit avec son état. Il faut céder aux malheurs. Renvoyez-les
à la patience: c'est à elle seule à les adoucir [303].
La même, ibid. p.88. (5 Nov. 1820.).
Bione Boristenite ???????????????????????????????? (anxietate maiore detineatur),
??????????????????????????????????????, colui che cerca le supreme felicità
(Laerz. in Bione, l.4 segm.48.). Chi sa pascersi delle piccole felicità,
raccogliere nell'animo suo i piccoli piaceri che ha provato nella giornata,
dar peso presso
se medesimo alle piccole fortune, facilmente passa la vita, e se non è
felice, può crederlo, e non accorgersi del contrario. Ma chi non dà
mente se non alle grandi felicità, non considera come guadagno, e non
proccura di pascersi e ruminare seco stesso i piccoli accidenti piacevoli, le
piccole riuscite, soddisfazioni, conseguimenti ec. e tiene tutto per nulla,
se non ottiene quel grande e difficile scopo che si propone; vivrà sempre
cruccioso, ansioso, senza godimenti, e in vece della gran felicità, ritroverà
una continua infelicità. Massimamente che, conseguito ancora quel grande
scopo, lo troverà molto inferiore alla speranza, come sempre accade nelle
cose lungamente desiderate e cercate.
(6. Nov. 1820.). V. poco sotto.
Osservano i giuristi che nel Cod. Giustin. non si trova legge contro i duelli
(perlochè moltissimi si sforzano di tirarci scioccamente quella di Costantino
M. [304] contro i Gladiatori). Così accade a chi fa il ritratto o la
copia avanti che abbia veduto l'originale, o ad un fanciullo che si faccia le
vesti per quando sarà cresciuto.
Il faut s'arrêter et séjourner sur les goûts et sur les plaisirs,
pour en jouir: il faut de repos pour le bonheur. Il n'y a point de présent
pour une ame agitée: la soif des richesses ne laisse jamais assez de
calme pour sentir ce que l'on possède (lo stesso dite di qualunque altro
desiderio difficile a conseguire, e vivissimo tuttavia)... Ils passent leur
vie en désirs et en espérances: ainsi, ils ne vivent pas, mais
ils espérent de vivre. Madame de Lambert, Réflexions sur les richesses.
Paris 1808. à la suite des Avis d'une mère à son fils.
p.153.154.
Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n'appuyez pas a me pare
che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato
della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo
insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto
nè alla ragione, ma all'istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l'avevamo
messo in pratica da [305] fanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti
studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci
ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo
dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi
bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d'esser filosofi, e senza stenti
nè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità
ec. Sicchè la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque
massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo; anzi tanto più, quanto
il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi operavamo
per istinto e disposizione ch'era dentro di noi, ed immedesimata colla nostra
natura, e però più certamente e immancabilmente e continuamente
efficace. Così l'apice del sapere umano e della filosofia consiste a
conoscere la di lei propria inutilità se l'uomo fosse ancora qual era
da principio, consiste a correggere i danni ch'essa medesima ha fatti, a rimetter
l'uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato, s'ella non fosse mai
nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia,
perchè ci libera e disinganna dalla filosofia.
(7. Nov. 1820.)
[306] Aristotele, o secondo altri, Diogene, ?????????????????????????????????????????????????.
(Laerz. in Aristot. l.5. seg.18.) Teofrasto definiva la bellezza ????????????????(ib.
19.). Pur troppo bene: perchè tutto quello che la bellezza promette,
e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza
d'animo, è tutto falso. E così la bellezza è una tacita
menzogna. Avverti però che il detto di Teofrasto è più
ordinario, perchè ??????non è propriamente menzogna, ma inganno,
frode, seduzione, ed è relativo all'effetto che la bellezza fa sopra
altrui, non al mentire assolutamente.
Appelliamo tutto giorno ai posteri. Nelle cose dove alla giustizia, al retto
giudizio, alle retribuzioni dovute ec. nuocono i difetti o vizi de' contemporanei
in quanto contemporanei, va bene. Ma in tutto il resto, in tutto quello che
spetta ai vizi degli uomini come uomini, o come animali depravati, non so quanto
ci gioverà quest'appellazione. Se potessimo appellare ai passati, saremmo
più fortunati, ma il costume del mondo è stato sempre di peggiorare,
e che il futuro fosse peggiore del presente e del passato. Le generazioni migliori
non sono quelle davanti, ma quelle di dietro; e non c'è speranza che
[307] il mondo cambi costume, e rinculi in vece di avanzare; e avanzando già
non può far altro che peggiorare. Massime a questi tempi e costumi presenti,
non par che possa succedere nè derivare altro che tempi e costumi peggiori.
Vediamo dunque che cosa ci resti a sperare dalla posterità. V. p.593.
capoverso 1.
È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi
liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino
classici, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari,
e si mettano in mano de' fanciulli, come i trattati più secchi e regolari
delle cognizioni esatte.
Omero che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d'esser gravido
delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità
sarebbe stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per
servir di regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi,
e originali come lui. E si può ben dire che l'originalità di un
grande scrittore, producendo la sua fama, (giacchè senza quella, sarebbe
rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma [308] e di modello) impedisce
l'originalità de' successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri
gramatici, i quali dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto
popolare il Parnaso greco di eccezioni, di sillabe comuni ec. o almeno avvertire
che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero
innocentemente, non sapendo il gran feto delle regole del quale erano pregni
i suoi poemi, adoperava le sillabe a suo talento, e fino nello stesso piede,
adoperava la stessa sillaba una volta lunga, e un'altra breve.
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Il Parnaso latino creato dopo che gli studi aveano preso forma regolare, se
non intieramente presso i latini (quantunque la vera creazione del Parnaso latino
si possa porre nel secolo di Augusto, perchè i poeti antecedenti erano
di pochissimo conto), certo però presso i greci, dai quali tutta la letteratura
latina derivò immediatamente; non fu soggetto a questa difficoltà.
(8. Nov. 1820.)
Ma la poesia greca ebbe la disgrazia di trovarsi tutta bella e formata prima
della nascita delle regole. Dal che non solo intorno alla prosodia, ma a tutto
il rimanente, si possono [309] osservare quelle conseguenze che sono naturali,
e quelle differenze che ne dovevano nascere, rispetto alla poesia latina.
Il faut être bien grand pour avoir la force de ne l'être qu'à
ses propres yeux. Madame de Lambert, Portrait de M. de S. Paris 1808. à
la suite des Avis d'une mère à son fils. p.226.
Il est dans l'âge où les sentimens deviennent plus délicats,
parce qu'on échappe à l'empire des sens: dans cet âge où
l'on vit encore pour ce qui plaît, et où l'on se retire pour ce
qui incommode, il jouit des plaisirs purs. Ib. p.227.
Di uno sciocco che sempre vien fuori colla logica, dove ha gran presunzione,
e la caccia in tutti i discorsi. Egli è propriamente l'uomo definito
alla greca; un ANIMALE logico.
Il gusto decisamente di preferenza che ha questo secolo per le materie politiche,
è una conseguenza immediata e naturale, della semplice diffusione dei
lumi, ed estinzione dei pregiudizi. Perchè quando per una parte non si
pensa più colla mente altrui, e le opinioni non dipendono più
dalla tradizione, [310] per l'altra il sapere non è più proprio
solamente di pochi, i quali non potrebbero formare il gusto comune; allora le
considerazioni cadono necessariamente sopra le cose che c'interessano più
da vicino, più fortemente, più universalmente. L'uomo pregiudicato
o irriflessivo, segue l'abitudine, lascia andar le cose come vanno, e perchè
vanno e sono andate così, non pensa che possano andar meglio. Ma l'uomo
spregiudicato e avvezzo a riflettere, com'è possibile che essendo la
politica in relazione continua colla sua vita, non la renda l'oggetto principale
delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo gusto? Nei secoli passati,
come in quello di Luigi 14. anche gli uomini abili, non essendo nè spregiudicati,
nè principalmente riflessivi, della politica conservavano l'antica idea,
cioè che stesse bene come stava, e toccasse a pensarvi solamente a chi
aveva in mano gli affari. Più tardi, gli uomini spregiudicati non mancavano,
ma eran pochi: pensavano e parlavano di politica, ma il gusto non poteva essere
universale. Aggiungete che i letterati e i sapienti per lo più vivono
in una certa lontananza dal mondo; perciò la politica non toccava il
sapiente così dappresso, non gli stava tanto avanti gli occhi, non era
in tanta relazione [311] colla sua vita, come ora che tutto il mondo è
sapiente, e le cognizioni son proprie di tutte le classi. Del resto, sebbene
la morale per se stessa è più importante, e più strettamente
in relazione con tutti, di quello che sia la politica, contuttociò a
considerarla bene, la morale è una scienza puramente speculativa, in
quanto è separata dalla politica: la vita, l'azione, la pratica della
morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della
nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei,
e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo
mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto: la vita
domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma
dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo. Osservatelo nella differenza
tra la morale pratica degli antichi e de' moderni sì differentemente
governati.
(9 Nov. 1820.)
Oltracciò il comune è bensì illuminato e riflessivo al
dì d'oggi, ma non profondo, e sebbene la politica domanda forse maggior
profondità di lumi e di riflessioni che la morale, contuttociò
il suo aspetto e superficie offre un campo più facile agl'intelletti
volgari, e generalmente la politica si presta [312] davantaggio ai sogni alle
chimere alle fanciullaggini. Finalmente il volgo preferisce il brillante e il
vasto al solido ed utile, ma in certo modo più ristretto e meno nobile,
perchè la morale spetta all'individuo, e la politica alla nazione e al
mondo. E la superbia degli uomini è lusingata dal parlare e discutere
i pubblici interessi, dall'esaminare e criticare quelli che gli amministrano
ec. e il volgare si crede capace e degno del comando, allorchè parla
della maniera di comandare.
Alla p.62. pensiero 1. Osservate però che c'è una differenza in
questo fra la letteratura latina e l'italiana, in quanto non le sole cognizioni
filosofiche o filologiche, le quali esigevano l'uso delle parole greche, ma
tutta la letteratura latina era derivata dalla greca. Non così l'italiana
dalla francese, eccetto nella filosofia ec. anzi per lo contrario. Sicchè
l'introdur parole greche in latino doveva essere un poco più facile e
naturale. Del resto la stessa cognazione e fratellanza ch'era tra la greca e
la latina esiste tra la lingua italiana e la francese, e se la greca si vuol
considerare per anteriore, se non altro nella formazione e sistemazione, anche
la lingua provenzale ci ha preceduto quasi nello stesso modo.
Alla p.58. pensiero penultimo. Aggiungete che il [313] tempo di Giuliano era
tutto sofistico, e tale egli è in tutte le altre sue opere, tali sono
Libanio, Temistio ec. suoi più famosi scrittori contemporanei. Ma nessuno
è sofista quando parla di se stesso e per se stesso, e in un'occasione
che mette in vero movimento l'animo suo.
Come la forza della natura giovanile, forza che non può esser vinta in
fatto da nessuna ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità
di pensare ec. fa che il giovane s'inebbri facilmente della felicità,
così anche dell'infelicità, quando questa è tanto grave
che superi la naturale inclinazione del giovane all'allegrezza, al divagarsi,
a sperare, a noncurare il male. E perciò il giovane è incapace
d'altra consolazione che della morte, come ho detto p.302. Nè religione,
nè ragione, nè altro che sia, non è sufficiente a consolare
il giovane sommamente sventurato, s'egli ha una certa forza d'animo, la quale
tutta s'impiega in consolidare, e fargli sentire profondamente e ostinatamente
il suo male.
La letteratura francese si può chiamare originale per la sua somma e
singolare inoriginalità.
[314] Alla p.252. La Spagna è una prova e un esempio vivo e presente
di quello ch'io dico. Nella Spagna barbara di barbarie non primitiva ma corrotta
per la superstizione, la decadenza da uno stato molto più florido, civile,
colto e potente, gli avanzi de' costumi moreschi ec. nella Spagna, dico, l'ignoranza
sosteneva la tirannia. Questa dunque doveva cadere ai primi lampi di una certa
filosofia, derivati dall'invasione e dimora de' francesi, e dalla rivoluzione
del mondo. L'ignoranza è come il gelo che assopisce i semi e gl'impedisce
di germogliare, ma non gli uccide, come l'incivilimento, e passato l'inverno,
quei semi germogliano alla primavera. Così è accaduto nella Spagna,
dove quel popolo, tornato quasi vergine ha sentito le scosse dell'entusiasmo,
e l'avea già dimostrato nell'ultima guerra. E perciò s'è
veduto quivi il contrario delle altre nazioni, come osserva l'autore del Manuscrit
venu de Sainte Hèlene, cioè che lo spirito rivoluzionario esisteva
solamente in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati,
nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non aveano che a perdere: [315] perchè
il torpore della nazione non derivava da eccesso d'incivilimento, ma da difetto;
e i pochi colti, probabilmente non lo erano all'eccesso, come altrove, ma quanto
basta e conviene, e non più. Quando la Spagna sarà bene incivilita
ricadrà sotto la tirannia, sostenuta non più dall'ignoranza, ma
per lo contrario dall'eccesso del sapere, dalla freddezza della ragione, dall'egoismo
filosofico, dalla mollezza, dal genio per le arti e gli studi pacifici. E questa
tirannia sarà tanto più durevole quanto più moderata della
precedente. E se il re di Spagna avrà vera politica dovrà promuovere
a tutto potere l'incivilimento del suo popolo (e in questi tempi vi potrà
riuscire più facilmente e più presto). E con ciò non consoliderà
la loro indipendenza, come si crede comunemente, ma gli assoggetterà
di nuovo, e ricupererà quello che ha perduto. Non c'è altro stato
intollerante di tirannia, o capace di esserne esente, fuorchè lo stato
naturale e primitivo, o una civilizzazione media, com'è ora quella della
Spagna, com'era quella de' Romani ec. Atene e la Grecia quando furono sommamente
civili, non furono mai libere veramente.
(10 Nov. 1820.)
[316] Teofrasto notato dagli antichi per uomo laboriosissimo e infaticabile
negli studi, venuto a morte nell'estrema vecchiezza per l'assiduità dello
scrivere, secondo ch'è riferito da Suida, e interrogato dagli scolari
se lasciasse loro nessun precetto o ricordo, rispose, Nient'altro se non che
l'uomo disprezza molti piaceri a causa della gloria. Ma non così tosto
incomincia a vivere che la morte gli sopravviene. Però l'amor della gloria
è così svantaggioso come checchessia. Vivete felici, e lasciate
gli studi che vogliono gran fatica, o coltivategli a dovere, che portano gran
fama. Se non che la vanità della vita è maggiore dell'utilità.
Per me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello
che vada fatto. E così dicendo spirò. (Queste sono le sue proprie
parole come le riporta il Laerzio, in Theophrasto l.5 segm.41.)
Del rimanente mi pare che Teofrasto forse solo fra gli antichi o più
di qualunque altro, amando la gloria e gli studi, sentisse peraltro l'infelicità
inevitabile della natura umana, l'inutilità de' travagli, e soprattutto
l'impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente
alla felicità dell'uomo e anche del saggio, al contrario degli altri
filosofi tanto [317] meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente
si compiacevano di credere il filosofo felice per se, e la virtù sola
o la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità. Laonde Teofrasto
non ebbe giustizia dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità
di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare. Vexatur Theophrastus
et libris et scholis omnium philosophorum, quod in Callisthene suo laudarit
illam sententiam: Vitam regit fortuna non sapientia. Cic. Tuscul. 3. et 5. (vedilo
perchè contiene qualche altra cosa). Quod maxime efficit Theophrasti
de beata vita liber, in quo multum admodum fortunae datur. Id. de Finibus l.4.
Neanche ha ottenuto dai moderni quella stima che meritava, essendo smarrite
quasi tutte le sue moltissime opere, nè restando altro che alcune fisiche,
eccetto i Caratteri; e io credo di essere il primo a notare che Teofrasto essendo
filosofo e maestro di scuola (e scuola eccessivamente numerosa), anteriore oltracciò
ad Epicuro, e certamente non Epicureo nè per vita nè per massime,
si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle
triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte
e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente
a' dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale. Ma così
anche si vede che Teofrasto conoscendo le illusioni, non però [318] le
fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le amava,
anzi si faceva biasimare dagli altri antichi filosofi, appunto perchè
onorava le illusioni molto più di loro. Itaque miror quid in mentem [venerit]
Theophrasto in eo libro quem De divitiis scripsit: in quo multa praeclare, illud
absurde. Est enim multus in laudanda magnificentia et apparatione popularium
munerum, taliumque sumtuum facultatem, fructum divitiarum putat. Cic. de offic.
Così si vede che appunto chi conosce e sente più profondamente
e dolorosamente la vanità delle illusioni, le onora e desidera e predica
più di tutti gli altri, come Rousseau, la Staël ec.
Che se Teofrasto vicino a morte le abbandonò e quasi le rinegò
come Bruto, questo stesso è una prova di quanto le avesse amate perchè
non si ripudia quello che non s'è mai amato, nè si abbandona quello
che non s'è mai seguito. Nè si mente senza vantaggio in punto
di morte ec.
(11. Nov. 1820.)
[319] Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e gustare un bene già
sicuro, non per avidità di esso bene, ma per solo timore di concepirne
troppa speranza, e guastarlo coll'aspettativa. E questa tale impazienza, ho
osservato che non veniva da riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch'io andava
fantasticando e congetturando sopra quel bene o diletto. E così anche
naturalmente proccurava di distrarmi da quel pensiero. Se però l'abito
generale di riflettere, o vero l'esperienza e la riflessione che mi aveano già
precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei piaceri,
e la diffidenza dell'aspettativa, non operavano allora in me senz'avvedermene,
e non mi parvero natura.
(11 Nov. 1820.)
Dice Quintiliano l.10. c.1. Quid ego commemorem Xenophontis iucunditatem illam
inaffectatam, sed quam nulla possit affectatio consequi? E certo ogni bellezza
principale nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non dall'affettazione
o ricerca. Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza
di esprimere il carattere e lo stile altrui, e ripetere il detto di un altro
alla maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate quanto sia difficile una
buona traduzione in genere di bella letteratura, [320] opera che dev'esser composta
di proprietà che paiono discordanti e incompatibili e contraddittorie.
E similmente l'anima e lo spirito e l'ingegno del traduttore. Massime quando
il principale o uno de' principali pregi dell'originale consiste appunto nell'inaffettato,
naturale e spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può essere
spontaneo. Ma d'altra parte quest'affettazione che ho detto è così
necessaria al traduttore, che quando i pregi dello stile non sieno il forte
dell'originale, la traduzione inaffettata in quello che ho detto, si può
chiamare un dimezzamento del testo, e quando essi pregi formino il principale
interesse dell'opera, (come in buona parte degli antichi classici) la traduzione
non è traduzione, ma come un'imitazione sofistica, una compilazione,
un capo morto, o se non altro un'opera nuova. I francesi si sbrigano facilmente
della detta difficoltà, perchè nelle traduzioni non affettano
mai. Così non hanno traduzione veruna (e lasciateli pur vantare il Delille,
e credere che possa mai essere un Virgilio), ma quasi relazioni del contenuto
nelle opere straniere; ovvero opere originali composte de' pensieri altrui.
[321] Una delle prime cagioni della universalità della lingua francese,
è la sua unicità. Perchè la lingua italiana (così
sento anche la tedesca, e forse più) è piuttosto un complesso
di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti,
e stili, e caratteri degli scrittori ec. che quei diversi stili paiono quasi
diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole. Dante -
Petrarca e Parini ec. Davanzati - Boccaccio, Casa ec. V. p.244. Dal che come
seguono infiniti e principalissimi vantaggi, così anche parecchi svantaggi.
1. che lo straniero trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore,
e passando a un altro, non l'intende. (Così nei greci) 2. che potendosi
scrivere o parlare italiano senza essere elegante ec. ec. ec. lo scrittore italiano
volgare scrive ordinariamente malissimo; così il parlatore ec. Al contrario
del francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e parte, non parla
francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i francesi scrivono
e parlano elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e quanto al più
e il meno, le differenze sono così piccole, [322] che se i francesi le
sentono nei loro diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili. Laddove
le differenze de' buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia. Così
anche dei greci.
E notate di passaggio che la lingua latina ha una strada molto più segnata
e definita, e rassomiglia in questo alla francese. La cagione è che la
lingua latina scritta, fu opera dell'arte (onde il volgar latino differiva sommamente
dal letterale) come è noto, e come dimostra a prima vista la sua artificiosissima
e figuratissima costruzione. Laddove la forma della lingua greca e italiana
fu opera della natura, vale a dire che ambedue queste lingue si formarono prima
della nascita, o almeno della formazione e definizione delle regole, e prima
che gli scrittori fossero legati da' precetti dell'arte. Così la natura
è sempre varia, e l'arte sempre uniforme, o se non altro sommamente inferiore
alla natura in varietà.
In somma lo straniero e il francese parla facilmente bene la sua lingua, dove
la varietà non genera confusione o difficoltà all'imperito.
[323] E l'unicità della lingua francese, e la moltiplicità dell'italiana
apparisce più chiaro che mai dalla facoltà rispettiva nelle traduzioni.
La lingua tedesca ancora, passa per sommamente suscettibile di prendere il carattere
e la forma di qualunque lingua, scrittore, e stile, e quindi per ricchissima
in traduzioni vivamente simili agli originali. Non so peraltro se questa facoltà
consista veramente nello spirito dello stile, o solamente nel materiale, come
par che dubiti la Staël nell'articolo sulle traduzioni.
Il fatto sta che i francesi vantandosi dell'universalità della loro lingua
si vantano della sua poca bellezza, della sua povertà, uniformità,
ed aridità, perchè s'ella avesse quanto si richiede per esser
bella, e se fosse ricca e varia, e se non fosse piuttosto geometria che lingua,
non sarebbe universale. Ma il mondo se ne serve come delle formole o dei termini
di una scienza, noti e facili a tutti, perchè formati sullo sterile modello
della ragione, o come di un'arte o scienza pratica, di una geometria, di un'aritmetica,
ec. comuni a tutti i popoli, perchè tutti dalle stesse maggiori deducono
le stesse conseguenze.
(13. Nov. 1820.)
[324] Dalle sopraddette considerazioni osserverai quanto sia giusta la maraviglia
e degna la lode di quelli che dicono che in Francia da Luigi 14. in poi non
si disputa più della lingua, e si scrive bene, laddove in Italia si disputa
sempre della lingua e si scrive male. Prima di Luigi 14. quando la lingua francese
non era ancora geometrizzata, e ridotta a una processione di collegiali, come
dice Fénélon, siccome si poteva scriver meglio di adesso, così
anche si potea scriver male.
Demetrio Falereo ????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????.
(Laerz. in Demetr. l.5. seg.82.). Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat
circumcidi oportere altitudinem, opinionem autem de se relinquere. Così
l'interprete benissimo. Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune parole
dello stesso segm. poco addietro.
???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????(subint.
????, quod est in superioribus) Detto dello stesso, appo il Laerz. l.c. segm.83.
Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace
consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura.
A quello che ho detto poco sopra di Teofrasto, [325] aggiungi i suoi Caratteri,
dove com'è noto, e forse superiormente a qualunque scrittore antico,
massimamente greco e prosatore, si dimostra molto avanzato nella scienza del
cuore umano. Ora chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce
la vanità delle illusioni, e inclina alla malinconia, tanto più
che la base di questa scienza è la sensibilità e suscettibilità
del proprio cuore, nel quale principalmente si esamina la natura dell'uomo e
delle cose. (V. quello ch'io dirò in questi pensieri intorno al Massillon).
Del rimanente Teofrasto liberò due volte la sua patria dalla tirannide.
Plutarco, adversus Colot. in fine. p.1126. f. Non se n'ha altra testimonianza
che questa, come apparisce dal Fabricio.
Come i più ardenti zelatori delle illusioni sono forse quelli che ne
conoscono e sentono più vivamente e universalmente la vanità,
così i loro più ardenti impugnatori son quelli che non la conoscono
bene, o se la conoscono bene, non la sentono intimamente e in tutta l'estensione
della vita; cioè la conoscono in teoria, ma non in pratica. Tali sono
gli spregiudicati e gl'intolleranti filosofici de' nostri giorni. [326] Perchè
se la conoscessero e sentissero, e ne comprendessero tutta l'immensa estensione,
se ne spaventerebbero, la mancanza di esse illusioni torrebbe loro quasi il
respiro, cercherebbero di rifugiarsi un'altra volta nel seno dell'ignoranza
o dimenticanza del vero, e del crudelissimo dubbio (dimenticanza che non gli
alienerebbe, anzi li ricondurrebbe alla religione), di richiamar l'attività
ec. Se non altro non sarebbero così ardenti nel combattere le illusioni,
non cercherebbero gloria nel dimostrar la vanità di tutte le glorie,
non porrebbero molta importanza nel dimostrare e persuadere che nulla importa,
e per conseguenza neanche questa dimostrazione.
Dicono che la felicità dell'uomo non può consistere fuorchè
nella verità. Così parrebbe, perchè qual felicità
in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità,
il vero non deve render felice? Eppure io dico che la felicità consiste
nell'ignoranza del vero. E questo, appunto perchè il mondo è diretto
alla felicità, e perchè la natura ha fatto l'uomo felice. Ora
essa l'ha fatto anche ignorante, come gli altri animali. Dunque l'avrebbe fatto
[327] infelice esso, e le altre creature; dunque l'uomo per se stesso sarebbe
infelice (eppure le altre creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero
stati necessari moltissimi secoli perchè l'uomo acquistasse il complemento,
anzi il principale dell'esistenza, ch'è la felicità (giacchè
nemmeno ora siam giunti all'intiera cognizione nel vero); dunque gli antichi
sarebbero stati necessariamente infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente
lo saranno anche oggidì; dunque noi pure necessariamente per quella parte
che ci manca della cognizione del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei
generi e non degl'individui) sono usciti perfetti nel loro genere dalle mani
della natura.
E la perfezione consiste nella felicità quanto all'individuo, e nella
retta corrispondenza all'ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo
quest'ordine in un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l'ignoranza
è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile
la scienza. E se la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità
degli esseri, perchè, supponendo che l'abbia posta riguardo all'uomo
nella cognizione del vero, ha nascosto questo vero così gelosamente che
secoli e secoli non bastano a discoprirlo? [328] Non sarebbe questo un vizio
organico, fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come
ha reso così difficile il solo mezzo di ottener quello ch'ella voleva
soprattutto, e si prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la
felicità dell'uomo, il quale tiene evidentemente il primo rango nell'ordine
delle cose di quaggiù? Come ha ripugnato con ogni sorta di ostacoli a
quello ch'ella cercava? Ma l'uomo dovea ben tenere il primo rango, e lo terrebbe
anche in quello stato naturale che noi consideriamo come brutale; non però
dovea mettersi in un altr'ordine di cose, e considerarsi come appartenente ad
un'altra categoria, e porre la sua dignità, non nel primeggiare tra gli
esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente fuori della
loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e indipendenti dalle leggi universali
della natura.
(14. Nov. 1820.)
È osservabile nella differenza tra i giuochi greci e i romani, la naturalezza
dei primi che combattevano nella lotta nel corso ec. appresso a poco coi soli
istrumenti datici dalla natura, laddove i romani colle spade e altri istrumenti
artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei giuochi, [329] diretti
presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini,
sentimenti ec.: presso gli altri o al semplice sollazzo, o all'addestramento
militare. Così che quelli andavano alla sorgente universale delle grandi
imprese, questi si fermavano ad un mezzo particolare. E questa differenza è
anche più notabile in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti
da uomini liberi per amor di gloria. Quindi l'effetto favorevole all'entusiasmo,
l'eccitamento, l'emulazione, gli esercizi preparatorii ec. Gli spettacoli romani
erano eseguiti da' servi. Quindi non altro effetto utile che l'avvezzar gli
occhi e l'animo agli spettacoli e pericoli della guerra: utilità parziale
e secondaria, non generale e primitiva come l'altra. Nel che forse si potrà
anche notare la differenza tra un popolo libero e padrone, e un popolo libero
bensì, ma non padrone, se non di se stesso, com'era il greco. V. p.360.
capoverso 2.
Quello che ho detto altrove della necessità di una persuasione per le
grandi imprese, è applicabile soprattutto alla massa del popolo, e combina
con quello che dice Pascal che l'opinione è la regina [330] del mondo,
e gli stati dei popoli e i loro cangiamenti, fasi, rovesciamenti provengono
da lei. 1. Le passioni son varie, l'opinione è una, e il popolo non può
esser mosso in uno stesso senso, se non da una cagione comune e conforme. 2.
L'individuo potrà essere strascinato dalle sue illusioni, o conoscendole
per tali, e nondimeno seguendole (cosa impossibile al popolo, giacchè
il capriccio, o un entusiasmo non fondato sopra basi vere o false, ma stabili,
non può essere universale); ovvero non conoscendole; e questo è
più difficile al popolo, perchè la cosa più varia è
l'illusione, la più uniforme e costante è la ragione, e perciò
il popolo ha bisogno di un'opinione decisa, non dico vera, ma pur logica, e
apparentemente vera, in somma conseguente e ragionata, perchè tutto il
resto non può essere un movente universale. Così Maometto produsse
i cangiamenti, e spinse gli Arabi alle imprese, che tutti sanno. Così
Lutero cagionò le guerre della riforma; così gli Albigesi ec.
così i Martiri sparsero il sangue pel Cristianesimo, così gli
antichi morivano per la patria e la gloria. V. in questo proposito il principio
del Capo 1. dell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion.
(15 Nov. 1820.)
[331] Quello ch'io dico della filosofia de' romani, e in genere di ogni filosofia,
si conferma dall'esser cosa già osservata che la religione si ritrova
presso la culla di tutti i popoli, in quella guisa che la filosofia si è
trovata sempre vicina alla lor tomba. (Essai sur l'indifférence en matière
de Religion. nelle prime linee del Capo 2. E poco dopo il principio del C.1.
dopo aver detto che la filosofia greca, tanto temuta da Catone, e nondimeno
insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di Roma vincitrice del
mondo, soggiunge ch'è un fatto degno della più seria considerazione
che tutti gl'imperi, la cui storia è da noi conosciuta, e che erano stati
consolidati dal tempo e dalla prudenza, si videro rovesciati dai Sofisti. Nel
capo secondo si estende maggiormente in provare che la filosofia fu la distruttrice
di Roma, e conviene con Montesquieu il quale non teme di attribuire la caduta
di quest'impero alla filosofia di Epicuro, aggiungendo in nota che Bolinghbroke
pensa in questo punto assolutamente come Montesquieu: "L'obblio ed il disprezzo
della Religione furono la cagione principale dei mali che [332] provò
Roma in seguito: la Religione e lo Stato decaddero nella medesima proporzione.".
T.4 p.428.). Colla differenza che laddove gli apologisti della religione ne
deducono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti
dall'errore, io dico che sono stabiliti e conservati dall'errore, e distrutti
dalla verità. La verità non si è mai trovata nel principio,
ma nel fine di tutte le cose umane; e il tempo e l'esperienza non sono mai stati
distruttori del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori
del vero. E chi considera le cose al rovescio, va contro la conosciuta natura
delle cose umane. Questo è il controsenso fondamentale in cui è
caduto l'autore sopracitato. Egli avrebbe difesa molto meglio la Religione se
l'avesse difesa non come dettame dell'intelligenza, ma come dettame del cuore.
E quando egli dice che dunque l'esistenza e la felicità, la perfezione
e la vita dell'uomo sarebbero contro natura, perchè la natura è
il complesso delle perpetue verità, s'inganna, perchè la natura
è il complesso delle verità in tal modo che tutto quello ch'esiste
sia vero, ma non tutto quello ch'è vero sia conosciuto da ciascuna delle
di lei parti. Ed una di queste verità che son comprese [333] nel sistema
della natura, è che l'errore e l'ignoranza è necessaria alla felicità
delle cose, perchè l'ignoranza e l'errore è voluto, dettato, e
stabilito fortemente da lei, e perch'ella in somma ha voluto che l'uomo vivesse
in quel tal modo in cui ella l'ha fatto. E non perchè l'uomo ha voluto
speculare il fondo delle cose, contro quello che doveva anzi poteva fare naturalmente,
perciò è meno vero ch'egli doveva ignorare quello che ha scoperto,
e che la sua felicità sarebbe stata vera, se egli avesse errato, e ignorato
quelle verità che così considerate riescono indifferenti all'uomo,
e che la natura ha seguite (ma segretamente) nel suo sistema, perchè
gli erano necessarie, (16. Nov. 1820.) o perchè così gli è
piaciuto.
La natura può supplire e supplisce alla ragione infinite volte, ma la
ragione alla natura non mai, neanche quando sembra produrre delle grandi azioni:
cosa assai rara: ma anche allora la forza impellente e movente, non è
della ragione ma della natura. Al contrario togliete le forze somministrate
dalla natura, e la ragione sarà sempre inoperosa e impotente.
[334] Non c'è uomo costituito in carica o dignità, il quale confessi
di averla cercata, e non dica o voglia fare intendere d'esserne stato rivestito
spontaneamente, anzi contro sua voglia ec. Gl'incarichi, le dignità,
gli onori, ciascuno li cerca, e nessuno gli ha cercati.
Laerzio, Vit. Speusippi, l.4, seg.2, dice di Speusippo: ??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????.
Questo è notabile nei progressi dello spirito umano. Ma non so quanto
sia vero perchè Platone aveva già riunite e legate nel suo sistema
filosofico la fisica (compresa l'astronomia), la metafisica, la morale, la politica
e le matematiche. È noto fra le altre cose il motto della sua scuola:
non entri nessuno se non è geometra. V. la nota d'Is. Casaubono al detto
passo.
(17. Nov. 1820.)
Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il mondo era in uno stato
di morte all'epoca della prima comparsa del Cristianesimo; che questo lo ravvivò,
cosa, dicon essi che pareva impossibile. Quindi [335] conchiudono che questo
non poteva essere effetto se non dell'onnipotenza divina, che prova chiaramente
la sua verità, che l'errore perdeva il mondo, la verità lo salvò.
Solito controsenso. Quello che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni;
il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione.
E gli effetti ch'egli produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi,
eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione. Non consideriamo adesso
s'egli sia vero o falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore.
Ma come si stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni,
contraddicendo ai governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che il
fanatismo di una grande illusione trionfa di tutto. Non ha considerato menomamente
il cuore umano, chi non sa di quante illusioni egli sia capace, quando anche
contrastino ai suoi interessi, e come egli ami spessissimo quello stesso che
gli pregiudica visibilmente. Quante pene corporali non soffrono per false opinioni
i sacerdoti dell'India ec. ec.! E la setta dei flagellanti nata sui principii
del Cristianesimo, che illusione era? E i sacrifizi infiniti che facevano gli
antichi filosofi p.e. i Cinici alla professione della loro setta, spogliandosi
di tutto il loro nella ricchezza ec.? E il sacrifizio de' 300. alle Termopili?
Ma come [336] trionfò il Cristianesimo della filosofia, dell'apatia che
aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di quel tempo non erano 1. nè
stabili, definiti e fissi, 2. nè estesi e divulgati, 3. nè profondi
come ora; conseguenza naturale della maggiore esperienza, della stampa, del
commercio universale, delle scoperte geografiche, che non lasciano più
luogo a nessun errore d'immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si
danno la mano in modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta
in qualunque genere influisca sopra lo spirito umano. Quei lumi erano bastati
a spegnere l'error grossolano delle antiche religioni, ma non solamente permettevano,
anzi si prestavano ad un error sottile. E quel tempo appunto per li suoi lumi
inclinava al metafisico, all'astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava
in quei tempi. V. Plotino, Porfirio, Giamblico, e i seguaci di Pitagora, anch'esso
astratto e metafisico. L'Oriente poi, non solo allora, ma antichissimamente,
aveva inclinato alla sottigliezza, ed anche alla profondità e verità,
nella morale e nel resto. Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec. ec. A distrugger
l'error più [337] sottile vi volevano lumi molto più profondi,
sottili e universali di quelli d'allora. Tali sono quelli d'oggidì, così
perfetti che sono interamente sterili d'errore, e da essi non può derivare
error più sottile, come dai lumi antichi, il quale pur dia qualche vita
al mondo. Ai mali della filosofia presente, non c'è altro rimedio che
la dimenticanza, e un pascolo materiale alle illusioni.
Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illanguidito
dal sapere, ma siccome, anche considerandolo com'errore, era appunto un errore
nato dai lumi, e non dall'ignoranza e dalla natura, perciò la vita e
la forza ch'ei diede al mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato
riceve da' liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma nociva, e produttrice
di maggior debolezza. Applicate quest'osservazione 1. alla poca durata della
vera e primitiva forza del Cristianesmo sotto ogni rapporto, in paragone dell'infinita
durata della forza degl'istituti e religioni antiche, p.e. presso i romani.
2. alla qualità di questa forza, tutta tetra, malinconica ec. in paragone
della freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec. della vita antica:
conseguenza naturale della [338] differenza dei dogmi. 3. all'aspetto lugubre
che presero tanto i vizi quanto le virtù dopo la propagazione intera
del Cristianesimo, cioè dopo estinto quel primo fuoco febbrile della
nuova dottrina (cosa da me osservata altrove): in maniera che si può
dire che il mondo (quanto alla vita, e al bello) deteriorasse infinitamente
se non a cagione del Cristianesimo, almeno a cagione della tendenza che lo produsse
e doveva produrlo, e dopo la sua introduzione: giacchè prima restavano
ancora molti errori più naturali, e quindi più vitali e nutritivi,
non ostante la filosofia.
(17. Nov. 1820.)
Un pensiero degno di essere sviluppato intorno alla perpetua superiorità
degli antichi sopra i moderni a causa della maggior forza della natura, per
anche non corrotta, o meno corrotta, sta nelle notes historiques de l'Éloge
historique de l'Abbé de Mably, par l'abbé Brizard, avanti le Observations
sur l'hist. de France. Kehll. 1789. t.1. p.114. Note II.
(17. Nov. 1820.)
Alla p.271. pensiero ult. Tale era l'idea che gli antichi si formavano della
felicità ed infelicità. Cioè l'uomo privo di quei tali
vantaggi della vita [339] benchè illusorii, lo consideravano come infelice
realmente, e così viceversa. E non si consolavano mai col pensiero che
queste fossero illusioni, conoscendo che in esse consiste la vita, o considerandole
come tali, o come realtà. E non tenevano la felicità e l'infelicità,
per cose immaginare e chimeriche, ma solide, e solidamente opposte fra loro.
(18. Nov. 1820.)
Il Laerzio Vit. Platon. l.3. seg.79-80. dice di Platone. ?????????????????????????????
??????????? ??????????????????????, (arbitratus est. Interpr.) ??????????????????????????????????
????????, ????????????????????????????????????????????????????. (???????????????????????????????????,
???? ???????????? ??????????? ????????????????????????(narrationes. Interpr.)
??????????????????? ????????????????????????????????????, (ut, quod incertum
sit ista post mortem sic se habere, ad moniti mortales etc. Interpr. ma non
bene) ??????????????????????????????.
Alla inclinazione degli uomini di partecipare altrui il piacere e il dolore,
notata in altri pensieri, si dee riferire in gran parte la smania (attribuita
principalmente alle donne, e propria soprattutto de' fanciulli, insomma degli
uomini più leggeri e naturali) di rivelare il segreto [340] o la cosa
che si dovrebbe, e spesso anche d'altronde si vorrebbe tener nascosta, di raccontar
subito una nuova, una cosa scoperta, un piacere un timore un dolore una noia
provata ec. e tutta la loquacità che appartiene al riferire, (20. Nov.
1820.) o al dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato ec. come
i fanciulli non si possono tenere di ciarlare su qualunque soggetto.
In somma considerate gli antichi e i moderni: vedrete evidentemente una gradazione
incontrastabile e notabilissima di grandezza, sempre in ragion diretta dell'antichità.
Cominciando dagli uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni, come
dicea quel francese, e dalle piramidi di Egitto ec. discendete alle imprese
nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità
delle loro costruzioni fatte per l'eternità (cosa propria anche de' tempi
bassi, e fino al cinque o secento), alla profondissima impronta delle monete,
all'eroismo, e a tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci,
i romani ec. E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete
come l'uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest'ultimo
grado di piccolezza generale e individuale, e d'impotenza in cui lo vediamo
oggidì. In maniera che l'eterna fonte del grande (come del bello) sono
gli scrittori, le opere d'ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli
antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de' nostri tempi.
(V. p.338. capoverso 1.) Che segno è questo? La ragione ingrandisce o
[341] impiccolisce? La natura era grande o piccola?
(20 Nov. 1820.)
Una grandissima e universalissima fonte di errori, controsensi, oscurità,
sviste, contraddizioni, dubbi, confusioni ec. negli scrittori e filosofi tanto
antichi che modernissimi, è il non aver considerata, e definita, e posta
nelle basi del sistema dell'uomo, la nemicizia scambievole della ragione e della
natura. Posta la quale, che è tanto evidente, e universale, si rischiarano,
e determinano, e risolvono infiniti misteri e problemi nell'ordine e composto
delle cose umane. Ma confondendo la ragione colla natura, il vero col bello,
i progressi dell'intelligenza coi progressi della felicità e col perfezionamento
dell'uomo, le nozioni e la natura dell'utile, il fine o scopo dell'intelligenza
(ch'è la verità) col fine e scopo vero dell'uomo e della natura
sua ec. non si viene mai a capo di diciferare il mistero dell'uomo, e di accordare
le infinite contraddizioni che par che s'incontrino in questa principalissima
parte del sistema universale, cioè in quella che riguarda la nostra specie.
Il combattimento della carne e dello spirito, dei sensi e della mente, notato
già dagli scrittori, massimamente religiosi, o non è sufficiente,
o non e stato bene inteso ed applicato, [342] ed esteso quanto doveva; o è
stato torto in senso contrario al giusto, e dedottene conseguenze della stessa
specie. ec. ec. ec.
(20. Nov. 1820.)
Il lavoro della terra era la principal fatica e occupazione destinata all'uomo.
Ora è curioso l'osservare che la parte più oziosa della società
è appunto quella la cui sostanza consiste in terre.
Quanto sia vero che i doveri e la morale determinata, non provengano da legge
naturale nè sieno fondate sopra idee innate e comuni a tutti gli uomini,
si può anche vedere per questo esempio. Il rispetto e l'immunità
degli araldi, considerati antichissimamente come persone sacre e inviolabili,
e da Omero chiamati cari a Giove, entra nel diritto così detto universale
delle genti, e l'abitudine ce la fa riguardare come un dover naturale. Ora mettiamoci
coll'immaginazione nello stato di natura, e vedremo che l'uomo non ha nessuna
ripugnanza di far male al suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti,
come non l'hanno gli altri animali, perchè il nemico è sempre
nemico, e l'uomo inclina a nuocergli quanto e come e quando e dove mai possa.
Così che l'inviolabilità degli araldi non è fondata sull'istinto,
non è insegnata dalla natura, ma è legge [343] di pura convenzione,
cagionata dall'utilità e necessità sua, utilità e necessità
riconosciuta dalla ragione e per via d'argomento, non istillata e ingenita negli
animi dalla natura senza bisogno di riflessione. E così il diritto delle
genti, che si crede naturale, vediamo per questo esempio, che contiene una legge
di pura convenzione, la quale prima ch'esistesse, non era colpa il contravvenirle,
come si sarà mille volte fatto. In questo proposito ecco alcune parole
dell'Essai sur l'indifférence en matière de religion, alquanto
dopo la metà del Capo 4. Diciamolo pure, giacchè non v'ha verità
più sconosciuta e più importante: la Religione dei popoli è
tutta la loro morale. Questo (per notarlo di passaggio) dopo aver nei capi precedenti
voluto provar la religione colla morale, come fondamento di essa morale, e deriso
Hobbes che toglie la coscienza, e dice che in natura non ci sono doveri. E qui
viene a dire che la morale non si può provare se non colla religione.
In ogni modo puoi veder gli esempi ch'egli adduce prima e dopo il detto luogo,
per dimostrare la varietà delle coscienze, secondo la varietà
delle religioni.
(21 Nov. 1820.). V. p.356. fine.
La lingua italiana non si è mai tolto il potere di adoperar quelle parole,
frasi, modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però intesi da tutti
senza difficoltà, e possano [344] cadere nel discorso senza affettazione:
i quali sono infiniti per chi conosce la lingua, ma bene a fondo; e questi sono
pochissimi o nessuno. La lingua francese si è spogliata affatto di questa
facoltà, e ammettendo facilmente vocaboli e modi nuovi (intorno ai quali
si sgridano gl'italiani perchè non gli ammettono) non si è legate
le mani se non per gli antichi, cioè per quelli ch'ella già possedeva,
e ha creduto di far progressi quando ha perduto l'infinito che aveva (giacchè
veramente era ricca), e guadagnato il poco che non aveva. Nel che 1. io non
vedo come una lingua si possa accrescere, perchè anche in parità
di partite, se quanto si guadagna, tanto si perde, la lingua sarà sempre
stazionaria in fatto di ricchezza e varietà. 2. se, com'è certissimo,
infinite cose che non si sono potute esprimere se non con parole nuove, forestiere
ec. si potevano esprimere colle antiche, io non vedo perchè queste dovessero
esser posposte. Il caso è lo stesso in Italia, chi ben considera la ricchezza
immensa de' nostri antichi scrittori. 3. Le parole e modi che maggiormente conferiscono
alla evidenza, efficacia, forza, grazia ec. delle lingue sono sempre, e incontrastabilmente
le antiche, siccome quelle che erano cavate più da presso dalla natura,
e dall'oggetto significato (come deve necessariamente accadere nella formazione
delle lingue), e però lo rappresentavano al [345] vivo, e ne destavano
più fortemente, sensibilmente, facilmente e prontamente l'idea, secondo
però 1° i diversi aspetti o parti più o meno vivi, principali,
caratteristici, esprimibili; il diverso numero di aspetti, parti, o relazioni
della cosa, considerato dagl'inventori della parola: 2° la diversa forza
d'immaginazione, sentimento, delicatezza ec. nei detti inventori: 3° la
diversa loro facoltà di applicare il suono alia cosa: 4° il diverso
carattere della nazione, clima, circostanze naturali, morali, politiche, geografiche
intellettuali ec.: la dolcezza, o l'asprezza, la ruvidezza o gentilezza ec.
5° la diversa impressione prodotta dagli stessi oggetti ne' diversi popoli
o individui. Solamente quella grazia che non deriva dalla naturalezza, semplicità
ec. l'eleganza ec. può guadagnare; ma quella che deriva dai detti fonti,
(massime nelle frasi e modi) ed è la principale, e più solida
e durevole; la forza poi assolutamente, l'evidenza e l'efficacia, non possono
altro che perdere infinitamente coll'abolizione delle parole antiche, e peggio
colla sostituzione delle nuove. Qui ancora ha luogo la grande inferiorità
dell'arte e della ragione alla natura, in tutto il bello, il grande, il forte,
il grazioso ec.
(21. Nov. 1820.)
Tutte le cose vengono a noia colla durata, anche i diletti più grandi:
lo dice Omero, lo vediamo tuttogiorno. La monotonia è insoffribile. Ma
un grande e forse sommo rimedio di questo male, è lo scopo. Quando l'uomo
si [346] propone uno scopo o dell'azione, o anche dell'inazione, trova diletto
anche nelle cose non dilettevoli, anche nelle spiacevoli, quasi anche nella
stessa monotonia; e quanto alle cose dilettevoli, l'uniformità e durata
loro non nuoce al piacere di chi le dirigge a un fine. Io non credo che per
altra più capitale, universale ed intima ragione, gli studi sieno agli
studiosi come un'eccezione dalla regola generale, cioè la continuazione
di essi non pregiudichi quasi mai al piacere. Vedete tutto giorno delle persone
che non leggono per altro fine che di passare il tempo, trovar gran diletto
nelle prime pagine di un libro, e non poterne arrivare al fine senza noia, quando
anche quel libro abbia per se stesso tutti i mezzi per dilettare in seguito
come nel principio. Ma l'uniformità del diletto, senza uno scopo, produce
inevitabilmente la noia, e perciò queste tali persone che leggono per
solo divertimento, si stancano così presto, che non sanno concepire come
nella lettura si trovi tanto divertimento, e cercano del continuo di variare
e passare nauseosamente da un libro a un altro, senza trovar mai diletto in
veruno, se non lieve e passeggero. Al contrario lo studioso che della lettura
si prefigge sempre uno scopo, quando anche leggesse per ozio e passatempo. E
così tutte le altre occupazioni [347] a cui l'uomo si affeziona, applicandoci
un interesse, e uno scopo più o meno determinato, e più o meno
grave e importante; dove la continuazione, la lunghezza e la monotonia non arrivano
mai ad annoiare.
(22. Nov. 1820.). V. p.359. capoverso 1.
Le buone poesie sono ugualmente intelligibili agli uomini d'immaginazione e
di sentimento, e a quelli che ne son privi. E contuttociò quelli le gustano,
e questi no, anzi non comprendono come si possano gustare, primieramente perchè
non sono capaci nè disposti ad esser commossi, sublimati ec. dal poeta;
e oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non intendono
la verità, l'evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro
che quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec. che il poeta descrive,
vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta, benchè
chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose e quelle verità
che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non intendono il poeta. Bisogna
bene osservare che questo accade anche negli scritti filosofici, profondi, metafisici,
psicologici ec. affine di non maravigliarsi dei diversissimi, e spesso contrarissimi
effetti che producono in diversi individui, e classi, e quindi del diverso concetto
in cui son tenuti. Perchè, ponete uno scritto di questo genere, pienissimo
di verità, e composto con [348] tutta quella chiarezza d'espressioni,
della quale possa mai esser suscettibile. Le parole dicono lo stesso all'uomo
profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale
dello scritto, e in somma tutti intendono perfettamente quello che l'autore
vuol dire. E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come
si crede comunemente. Perchè l'uomo superficiale; l'uomo che non sa mettere
la sua mente nello stato in cui era quella dell'autore; insomma l'uomo che appresso
a poco non è capace di pensare colla stessa profondità dell'autore,
intende materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei
detti col vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo
che l'autore scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch'egli vedeva,
e dai quali deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per chiunque gli
somigli sono incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità:
vedranno le stesse cose, ma non conosceranno nè sentiranno che abbiano
relazione insieme, e con quelle conseguenze che l'autore ne cava; non vedranno
la relazione scambievole delle parti del sillogismo (giacchè ogni umana
cognizione è un sillogismo): brevemente, intenderanno appuntino lo scritto,
e non capiranno la verità di quello che dice, verità che esisterà
realmente, e sarà compresa da altri. Così pure non avranno tanta
forza di mente da poter dubitare, e sentire la ragionevolezza e la verità
del dubbio intorno alle cose che la natura o l'abito danno per certe. Non basta
intendere una proposizion vera, bisogna sentirne la verità. C'è
un senso della verità, come delle passioni, de' sentimenti, bellezze,
ec.: del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò
che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perchè
non ne prova il senso, cioè la persuasione. In questo numero di persone
va posta la maggior parte dei moderni apologisti della religione, uomini senza
cuore, senza sentimento, senza tatto fino e profondo nelle cose della natura,
insomma senza esperienza della verità, come quei lettori de' poeti che
sono senza esperienza di passioni, entusiasmo, sentimenti ec.; i quali, [349]
posto che intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi
che combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno
nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete
e sentirete ch'è vero, o viceversa. Del resto per intendere i filosofi,
e quasi ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver
tanta forza d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere,
da potersi porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista
e di situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive;
altrimenti non troverete mai ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia
in effetto. E ciò, tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione
e l'assenso allo scrittore, quanto nel caso contrario. Io so che con questo
metodo non ho trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della
Staël, che tutti danno per oscurissimi. (22 Nov. 1820.)
L'Essai sur l'indifférence en matière de religion, alquanto dopo
il principio del capo V. nel luogo dove tratta delle origini storiche del Deismo,
dimostra i neri presentimenti che agitavano i Capi della Riforma intorno al
futuro stato delle opinioni, della religione, e dei popoli. Buon Dio, qual tragedia,
esclamava uno di essi, vedrà mai la posterità! Pur troppo bene.
Essi cominciavano [350] a sentire e prevedere la febbre divorante e consuntiva
della ragione, e della filosofia; la distruzione di tutto il bello il buono
il grande, e di tutta la vita; l'opera micidiale e le stragi di quella ragione
e filosofia che aveva avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista
devastazione in Germania, patria del pensiero, (come la chiama la Staël)
non inducendo gli uomini da principio se non ad esaminar la religione, e negarne
alcuni punti, per poi condurli alla scoperta di tutte le verità più
dannose, e all'abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari.
I lumi cagionati dal risorgimento delle lettere, erano appunto allora giunti
a quel grado che bastava per cominciare l'infelicità e il tormento di
un popolo, al quale la natura era stata meno larga dei mezzi di felicità,
che sono l'immaginazione ricca e varia, e le illusioni. Ne avevano naturalmente
quanto bastava (e così gl'inglesi ai tempi di Ossian, come gli stessi
germani ai tempi de' Bardi e di Tacito), ma non tanti, nè tanto forti
da resistere ai lumi così lungamente, come i paesi meridionali, e soprattutto
(la Spagna e) l'Italia, dove anche oggidì si vive poco, è vero,
perchè manca il corpo e il pascolo materiale e sociale delle illusioni,
ma si pensa anche ben poco.
(23. Nov. 1820.)
La Spagna s'è trovata finora nello stesso caso. Il suo clima, e la situazione
geografica, e il governo ec. [351] proteggevano le illusioni come in Italia,
senza però lasciarnela profittare, nè proccurarsene punto di vita,
massime esterna e sociale.
A tutto quello che ho detto di Teofrasto, si può aggiungere come altra
cagione della qualità che ho notato in lui, il suo sapere enciclopedico,
che apparisce dal catalogo delle sue opere, la massima parte perdute. Il qual
sapere, e la quale speculazione intorno ad ogni genere di scibile, egli non
lo faceva servire, come Platone, all'immaginativa, per fabbricarne un sistema
fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per
discorrere delle cose sul fondamento del vero e dell'esperienza. Nel qual caso
l'estensione, e varietà del sapere, influisce necessariamente sulla profondità
dell'intelletto, e il disinganno del cuore.
In somma conviene che il filosofo si ponga bene in mente, che la vita per se
stessa non importa nulla, ma il passarla bene e felicemente, o se non altro,
anzi soprattutto, il non passarla male e infelicemente. E perciò non
riponga l'utilità in quelle cose che semplicemente aiutano, conservano
ec. la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che
la rendono [352] un bene, cioè felice da vero. Ma felice da vero non
la rende altro che il falso, ed ogni felicità fondata sul vero, è
falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e vana, quando
l'oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e verità.
Ho veduto le lezioni di un tedesco, il sig. Hufeland, dell'arte di prolungare
la vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch'egli occupava, dedicata
espressamente a quest'arte. Prima bisognava insegnare a render la vita felice,
e quindi a prolungarla. Infelicissima com'è, stimerei molto più
chi m'insegnasse ad abbreviarla, perchè non ho mai saputo che sia degno
di lode, e giovi al pubblico colui che insegna a prolungare l'infelicità.
In vece di fondare queste cattedre che sono al tutto straniere anzi contrarie
alla natura dei tempi, i principi dovrebbero proccurare che la vita dell'uomo
fosse più felice, ed allora saremmo grati a chi c'insegnasse a prolungarla.
Se la durata fosse un bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio
di viver lungamente in qualunque caso.
Nominando i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni antichi, i nostri buoni
antichi. Tutto il mondo ha opinione che gli antichi fossero migliori di noi,
tanto i vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani che perciò
li disprezzano. Il certo [353] è che il mondo in questo non s'inganna:
il certo è che, senza però pensarvi, egli riconosce e confessa
tutto giorno il suo deterioramento. E ciò non solamente con questa frase,
ma in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di tornare indietro,
anzi non crede onorevole se non l'andare sempre più avanti, e per una
delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato, che avanzando
migliorerà, e non potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe
di esser perduto retrocedendo.
Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce
se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma,
si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre
di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella
credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non
compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava
intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza
pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi
più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354] età,
non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette,
ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava
in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli
uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava
che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava
nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli
di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva
una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che
la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un
giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì
poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia,
e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo,
ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i
loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente
alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il
contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava
quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti
quanto de' belli, perchè n'ebbe molti), e non lasciava [355] passare
anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere
i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della
loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva
i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione,
e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in
loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello
stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli,
al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale.
Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure
corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie,
le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età,
fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico
ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l'età
della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente
se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano
rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea.
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era
stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è
se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e
una conseguenza immediata e necessaria dei [356] principii di religione esattamente
considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più
misericordiosa ec. Ma la ragione è così barbara che dovunque ella
occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella
parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro. Così
vediamo le tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie
dell'immaginazione. E anche senza i principii religiosi, è pur troppo
evidente che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate
di sopra. Non c'è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie,
con quegli errori ch'ella ispira, e dove la ragione non entra. S'ella ci fa
piangere la morte dei figli, non è che per un'illusione, perchè
perdendo la vita non hanno perduto nulla, anzi hanno guadagnato. Ma il non piangerne
è barbaro, e molto più il rallegrarsene, benchè sia conforme
all'esatta ragione. Tutto ciò conferma quello ch'io voglio dire che la
ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se stessa), l'eccesso
della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente non è
barbaro se non ciò che è contro natura, (25. Nov. 1820.) sicchè
natura e barbarie son cose contraddittorie, e la natura non può esser
barbara per essenza.
Alla p.343. Vedilo ancora sulla fine del Capo 5. da quel passo abbastanza lungo
di Rousseau, Tutto ciò che sento esser bene, [357] è bene, in
poi. Dove l'autore insomma viene a concludere che non esiste legge naturale,
o secondo i Deisti che combatte, o anche, come pare, secondo la propria persuasione,
giacch'egli ne vuol dedurre che non esiste regola di condotta, esclusa la religione,
solo canone dei doveri morali. E nel principio propriamente del Capo 6. dice,
l'uomo ha riconosciuto dovunque ed in qualunque tempo la distinzione essenziale
del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto; e malgrado i vari errori nella
estimazione degli atti liberi considerati come virtuosi o viziosi, non v'ebbe
mai alcun popolo che confondesse le nozioni opposte del delitto e della virtù.
Siamo d'accordo. Così nel bello, tutti hanno la nozione della convenienza,
e nessuno ne ha il tipo. Ma stando così la cosa, le diverse opinioni
non si possono chiamare errori, come voi fate; perchè non esiste il tipo
del buono morale; e perchè non erra quell'etiope che crede la figura
della sua nazione, la più perfetta e la sola bella nel genere umano.
Alla p.161. I fasti della rivoluzione abbondano di altre prove di quello ch'io
dico, e dimostrano qual fosse l'assunto dei riformatori. Si eressero altari
alla Dea ragione: Condorcet nel piano di educazione presentato all'Assemblea
legislativa ai 21 e 22 Aprile 1792 proponeva l'abolizione e proscrizione anche
della religion naturale, come irragionevole e contraria alla filosofia, e così
di tutte le altre religioni. (Essai sur l'indifférence en matière
de religion Ch.5. presso alla fine, nota) Non parlo del [358] nuovo Calendario,
della festa all'Essere Supremo di Robespierre ec. In somma lo scopo non solo
dei fanatici, ma dei sommi filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque
modo complici della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente
filosofo e ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango principalmente
per aver creduto alla chimera del potersi realizzare un sogno e un utopia, ma
per non aver veduto che ragione e vita sono due cose incompatibili, anzi avere
stimato che l'uso intiero, esatto, e universale della ragione e della filosofia,
dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte della vita e della forza
e della felicità di un popolo.
(27. Nov. 1820.)
Il vigore e il ben essere del corpo conferisce alla serenità dell'animo,
e la serenità dell'animo al vigore e al ben essere del corpo. Come per
lo contrario la debolezza o mal essere del corpo, e la tristezza dell'animo.
Così la natura aveva congegnata e ordinata ogni cosa alla più
felice condizione dell'uomo.
Alla p.223. Le dottrine non rimontano mai verso la loro sorgente, e la Riforma
invano si sforzava d'arrestare il corso del fiume che la trascinava, dice l'Essai
sur l'indifférence en matière de religion, a poco più di
un terzo del Capo 6. Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni,
ogni cosa umana si guasta e perde quando s'allontana da' suoi principii, e non
c'è altro rimedio che richiamarvela, cosa ben difficile, perchè
l'uomo non torna indietro senza qualche ragione universale, necessaria ec. come
sovversioni del globo, o di [359] nazioni, barbarie simile a quella che rinculò
il mondo ne' tempi bassi, ec.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti,
e per sola ragione e riflessione, non mai; non essendo possibile che la causa
del male, cioè la corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ec. siano
anche la causa del rimedio. Del resto la religion Cattolica non si mantiene
meglio delle altre, dopo tanti secoli, se non per la somma cura dell'antichità,
e del conservare lo stato primitivo, e bandire la novità, nello stesso
modo che dice Montesquieu (l. cit. nel pensiero, a cui questo si riferisce)
della costituzione d'Inghilterra custodita e osservata e protetta e richiamata
sempre gelosamente dalla camera.
Alla p.347. Questa pure è una cagione della gran differenza che passa
fra i letterati e gl'illetterati, e anche fra i letterati di professione, e
i letterati di semplice genio, ornamento, divertimento ec. nel gustare gli scritti
anche i più popolari, e adattati all'intelligenza e al diletto di chicchessia.
L'eloquenza massimamente giudiziaria, ma anche d'ogni altro genere, consiste
in gran parte nell'appianare le scabrosità, riempiere i voti e le valli,
agguagliare la superficie, e raddrizzare le storture delle cose. E però
succede bene spesso che ascoltando o leggendo un pezzo eloquente tu sei persuaso
di una cosa, della quale da te stesso non ti saresti mai persuaso, e della quale
dubiterai forse nel seguito, o la condannerai; credi fattibile, e facile una
cosa, che ti pareva e tornerà a parerti impossibile [360] o difficile;
ti svaniscono quelle incertezze, quelle difficoltà ec. e tu sei costretto
a non vedere e dimenticare quello che vedevi, a contraddire e condannare te
stesso, anzi sovente a vedere e non vedere, ricordarti e dimenticare nello stesso
tempo. Tale è la proprietà non solo dell'eloquenza che strascina,
ma anche di quella secca eloquenza, fondata sopra uno stretto ragionamento,
e una dialettica per lo più ingannatrice (se non quanto al tutto, almeno
quanto alle parti): eloquenza della quale fra gli antichi sono modelli i così
detti Oratori attici, fra i moderni (parlo almeno degli oratori di professione)
forse il solo Bourdaloue, oratore veramente e propriamente attico, il quale
convince l'uomo di cose non sempre vere, se non altro, non interamente vere.
(27. Nov. 1820.)
Non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari.
Corn. Nep. praef.
Alla p.329. fine. Nulla Lacedaemoni tam est nobilis vidua quae non ad scenam
eat mercede conducta. Magnis in laudibus totâ fuit Graeciâ, victorem
Olympiae citari. In scenam vero prodire, et populo esse spectaculo, nemini in
eisdem gentibus fuit turpitudini. Quae omnia apud nos partim infamia, partim
humilia, atque ab honestate remota ponuntur. Corn. Nep. praef.
(27. Nov. 1820.)
L'uomo senza la cognizione di una favella, non può concepire l'idea di
un numero determinato. Immaginatevi di contare trenta o quaranta pietre, senz'avere
una denominazione da dare a ciascheduna, vale a dire, una, due, tre, [361] fino
all'ultima denominazione, cioè trenta o quaranta, la quale contiene la
somma di tutte le pietre, e desta un'idea che può essere abbracciata
tutta in uno stesso tempo dall'intelletto e dalla memoria, essendo complessiva
ma definita ed intera. Voi nel detto caso, non mi saprete dire, nè concepirete
in nessun modo fra voi stesso la quantità precisa delle dette pietre;
perchè quando siete arrivato all'ultima, per sapere e concepire detta
quantità, bisogna che l'intelletto concepisca, e la memoria abbia presenti
in uno stesso momento tutti gl'individui di essa quantità, la qual cosa
è impossibile all'uomo. Neanche giova l'aiuto dell'occhio, perchè
volendo sapere il numero di alcuni oggetti presenti, e non sapendo contarli,
è necessaria la stessa operazione simultanea e individuale della memoria.
E così se tu non sapessi fuorchè una sola denominazione numerica,
e contando non potessi dir altro che uno, uno, uno; per quanta attenzione vi
ponessi, affine di raccogliere progressivamente coll'animo e la memoria, la
somma precisa di queste unità, fino all'ultimo; tu saresti sempre nello
stesso caso. Così se non sapessi altro che due denominazioni ec. Eccetto
una piccolissima quantità, come cinque o sei, che la memoria e l'intelletto
può concepire senza favella, perchè arriva ad aver presenti simultaneamente
tutti i pochi individui di essa quantità. Nello stesso modo e per la
stessa ragione [362] i numeri che rappresentano una quantità troppo grande,
come centomila, un milione e simili, e più, un bilione, non ci destano
se non un'idea confusa, quantunque noi sappiamo benissimo il loro significato,
e l'estensione o quantità precisa e misurata, che comprendono: ma in
questo caso non basta sapere interamente il significato della parola, per concepire
l'idea significata (cosa che forse non accade in altro caso, se non in parole
indefinite, o che esprimono idee indefinite): e ciò perchè l'operazione
della mente non si può estendere in un medesimo tempo sopra tutte le
parti di questa quantità, ed abbracciarle e concepirle chiaramente tutte
in una volta, malgrado il soccorso della favella, il quale non basta quando
le parti son troppe. Per parti intendo p. es. le diecine, o anche le centinaia
la somma delle quali, quando può esser concepita chiaramente ci desta
un'idea abbastanza chiara della data quantità, a cagione dell'abitudine
contratta coll'esercizio del discorso, la quale abitudine ci fa concepir facilmente
e prontamente gl'individui compresi in ciascuna diecina. In genere l'idea precisa
del numero, o coll'aiuto della favella o senza, non è mai istantanea,
ma composta di successione, più o meno lunga, più o meno difficile,
secondo la misura della quantità.
(28. Nov. 1820.). V. p.1072. fine.
L'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, Capo 7. verso
la fine, dice, Da una dottrina indigente nasce un culto indigente al par di
essa. Quindi quant'è maggiore il numero dei dogmi che una setta ha conservato,
tanto maggior vita e pompa e grandezza ha il suo culto. E vedilo in quello che
segue perchè fa al mio proposito. Questa osservazione di fatto si può
addurre fra le tante altre in conferma di quello ch'io dico, che senza illusioni
di cui l'uomo sia persuaso, non c'è vita ne azione, giacchè l'uomo
[363] non opera senza persuasione, e se la persuasone non è illusoria,
ma viene dalla ragione, l'uomo non opera, perchè la ragione non lo persuade
ad operare, anzi ne lo distoglie, e lo getta nell'indifferenza. La pompa e la
vita del culto senza una persuasione della sua necessità, doverosità,
importanza, non ha potuto durare. Limitate le credenze, allargato il dubbio,
allargata la ragione e l'indifferenza, e la secca speculazione delle cose, il
culto è svanito, laddove si mantiene presso i cattolici, i quali ne conservano
tutte le basi, cioè tutti i dogmi, le credenze ec. tanto relative ad
esso culto, quanto generalmente alla Religione. Se non ch'egli va languendo
anche tra noi, sia nel fatto, sia nell'impressione e l'effetto che produce,
e il modo e l'animo con cui è considerato, e veduto o eseguito: e ciò
in proporzione dei progressi dell'incredulità, o diminuzione della fede,
perchè non si può dar gran cura, nè coltivare, nè
promuovere, nè esser molto affetti e toccati, da quello che si considera
come poco importante, e che non è in relazione colla nostra opinione.
(29. Nov. 1820.)
I doveri dipendono dalle credenze; quanti saranno dunque i simboli, tante saranno
le morali... Chi non comprende che dal momento che si rigetta ogni autorità
vivente (dunque la morale determinata deriva dall'autorità [364] non
dalla natura), la regola de' costumi addiviene tanto variabile e tanto incerta
quanto la regola della fede? Essai ec. poco sotto al luogo citato nel pensiero
precedente.
Ogni uomo ha diritto di giudicare di per se stesso, e la diversità delle
opinioni è tanto naturale quanto la diversità de' gusti. Dott.
Midleton (Middleton) Introductory Discourse to a free Enquiry into the miraculous
powers. (Discorso preliminare alla libera Disquisizione sopra i poteri miracolosi)
p.38.
Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è, ogni leggera malattia
che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o mortale, la credono
leggera, o minore che non è. E la cagione d'ambedue le cose è
la codardia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove
non è speranza.
La filosofia e la natura de' tempi e della vita presente s'ha per capital nemica
della Religione, ed è vero. Contuttociò se l'uomo doveva esser
filosofo, far della ragione quell'uso che ora ne fa, conoscere tutto quello
che ora conosce, e generalmente s'egli doveva vivere come ora vive, e se i tempi
dovevano essere quali ora sono, o il sistema della natura e delle cose è
totalmente assurdo e contraddittorio, o bisogna necessariamente ammettere una
Religione. Perchè se l'uomo doveva essere inevitabilmente infelice, come
ora accade, ne [365] segue che al primo nell'ordine degli enti, è meglio
il non essere che l'essere, ne segue che l'uomo non solo non deve amare nè
conservare la sua esistenza, ma distruggerla; in maniera che la sua stessa esistenza
rinchiuda non dirò un germe nè un principio di distruzione, ma
quasi una distruzione formale e completa; ne segue che la vita ripugna alla
vita, l'esistenza all'esistenza, giacchè l'uomo non verrebbe ad esistere
se non per cercare di non esistere, quando conoscesse il suo vero destino. La
qual cosa è un'assurdità e una contraddizione sostanziale e capitale
nel sistema della natura. Per lo contrario se l'uomo non doveva essere quale
ora è, se la natura l'aveva fatto diversamente, se gli aveva opposto
ogni possibile ostacolo al conoscere quello che ha conosciuto e al divenire
quello ch'è divenuto, allora dallo stato presente dell'uomo, e dalle
assurdità che ne risultano, non si può dedur nulla intorno al
vero, naturale, primitivo ed immutabile ordine delle cose; come se un animale
si rompe una gamba, non se ne può dedur nulla intorno all'ordine generale,
perchè questo è un inconveniente particolare. Così lo stato
presente dell'uomo, e le assurdità sue, dovranno esser considerate come
una particolarità indipendente dall'ordine e dal sistema generale e [366]
destinato, e costante, e primordiale. Che se anche non c'è più
rimedio per l'uomo, nemmeno per chi si tagli una gamba, o sia schiacciato da
una pietra, c'è più rimedio. Basta che il male non sia colpa della
natura, non derivi necessariamente dall'ordine delle cose, non sia inerente
al sistema universale; ma sia come un'eccezione, un inconveniente, un errore
accidentale nel corso e nell'uso del detto sistema. V. p.370. e 1079. fine.
Hanter frequentare, visitare spesso, aver familiarità ec. verbo che Girard
nei Sinonimi fa derivare da hant (se ben mi ricordo) che nelle lingue del nord
significa congiungere o darsi le mani, non potrebbe piuttosto derivare da ??????
Ma bisognerebbe anche vedere se quella parola settentrionale abbia nessuna relazione
con questo verbo greco.
L'idea di una grave sventura (come anche di qualunque grande e strana mutazione
di cose in bene come in male) che ci sopraggiunga, massimamente improvvisa,
non si può concepire intera, se non altro ne' primi momenti; anzi è
sempre confusissima, debolissima, oscurissima, e difettosa. Non considero adesso
l'impressione e la sorpresa e il dolore ec. che deve naturalmente oscurar l'anima,
e intorpidirla. Ma ponete che vi si annunzi la morte di uno de' vostri cari
e familiari, anche preveduta. Il dispiacere, [367] la rimembranza delle relazioni
avute con lui, la novità che introduce nella vostra vita, vale a dire
il troncamento di tutte quelle relazioni, e il dover considerare quella persona
in un modo tutto diverso dal passato, cioè come morta, come incapace
di essere amata o beneficata, di amare e beneficare ec. ec. tutte queste cose
che si presentano in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un
imbarazzo uno stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della
cosa, non ne considerate nessuna, non siete capace di valutare nè l'estensione
nè la profondità nè la natura della cosa, nè di
formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l'idea in genere e confusamente,
non siete capace di pensarvi, nè vi pensate formalmente, non dirò
perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non sapete pensarvi. E
quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie,
sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo,
che voi considerandone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o rallegrarvene
separatamente. Giacchè questo pure è notabile, che l'atto del
piangere o rallegrarsi ec. in somma l'espressione ??? ?????? cade sempre sopra
una parte della cosa, non già sul tutto, perchè l'anima non è
capace di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo. P.e. nel [368] caso
detto di sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza,
per una tal riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che
non potete ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante
la prima impressione. Ma finattanto che l'idea o la cosa vi si presenterà
tutta intera, e voi non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non
piangerete mai, nè sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente.
E neanche dopo lungo tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale
e generale della disgrazia intera. (1. Dec. 1820.).
Si suol dire che la monotonia fa parere i giorni più lunghi. Così
è quanto alle parti del tempo considerate separatamente. Ma quanto al
complesso è tutto l'opposto, perchè un giorno pieno di varietà,
terminato che sia ti parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà
di credere a prima giunta che una cosa fatta, accaduta, veduta, ec. oggi, appartenga
al giorno di ier o ier l'altro, perchè la moltiplicità delle cose
allunga nella tua memora lo spazio, e il maggior numero degli accidenti, accresce
l'apparenza del tempo. All'opposto in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà
(e m'è avvenuto) di credere che l'accaduto ieri o ier l'altro appartenga
al giorno d'oggi, o quello di più giorni fa, al giorno di ieri. E ciò
per la ragione contraria, e perchè l'uniformità impiccolisce l'immagine
delle distanze. Così la monotonia [369] prolunga la vita in quanto la
lunghezza è penosa, e l'abbrevia in quanto la lunghezza è piacevole
e desiderata; e la tua vita passata nell'uniformità ti par brevissima
e momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).
Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e l'impazienza
di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di ottenerlo, quando
però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi. Non già
solamente perchè l'incertezza, obbliga all'azione (laddove la certezza
può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine incerto domanda maggior
cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior cura, il che può
ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però
una grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità
e dal bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo,
per questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi
di liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine
che tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza
di non poterlo conseguire. Anche materialmente m'è accaduto più
volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere
un fine che [370] mi premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente,
sebbene altri mi consigliava di riposare perchè la dilazione non faceva
alcun danno. Ma io non poteva sostenere l'incertezza di una cosa che m'importava,
laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare.
E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi
il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi compire
una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi, l'impazienza
e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da vantaggio,
e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine prefisso.
(1. Dec. 1820.). V. p.712. capoverso 2.
Alla p.366. pensiero 1. Perciò coloro che deducono la necessità
assoluta della Religione dallo stato presente dell'uomo, e dalla sua miseria,
nihil agunt, se non provano ancora che questo stato gli era destinato, e ch'egli
vivendo così, segue i suoi destini, e l'ordine assoluto delle cose, non
arbitrario. Perchè anche gli animali, p.e. le formiche, le api, i castori,
hanno fra loro tanta società quanto basta ai loro bisogni o comodi, e
non per questo hanno Religione, o legge di sorta alcuna. Anche gli animali hanno
un uso sufficientissimo di ragione, hanno il principio ??? ????????, il principio
di conoscenza innato in tutti gli esseri viventi, non già nel solo uomo;
e non per questo se ne servono come l'uomo, nè sono infelici. E non è
provato che la società, quale ora è, sia lo stato naturale dell'uomo,
[371] come per lo contrario è provato che l'uomo senza società,
non ha per natura o istinto, nessuna idea di Religione, e non ne ha verun bisogno,
tutti i suoi doveri non riguardando che se stesso, ed avendo il loro immobile
fondamento nell'istinto che lo porta ad amarsi e conservarsi. (2. Dec. 1820.).
Sostengono come indubitato che l'uomo è perfettibile. Vale a dire ch'egli
può perfezionare se stesso, perfezionar l'opera della natura. Considerate
il sistema materiale del mondo, tanto nelle minime che nelle massime cose, tanto
nell'organizzazione di un animale appena visibile, quanto nell'ordine degli
astri, e voi troverete da per tutto un artifizio, una sapienza, una maestria
tale, che non solamente non si può perfezionar nulla di quanto la natura
ha fatto, non solamente non vi si può nè aggiungere nè
levarne cosa alcuna, nè alterare in nessun modo senza guastare, ma quando
anche noi avessimo quella stessa potenza di fare che ha avuto la natura, non
c'è uomo d'ingegno così sottile e profondo e sublime, che fosse
capace non dico di condurre a termine, ma di concepir solamente un piano così
magistrale, così minuto, così strettamente legato insieme e corrispondente,
così perfetto in ogni menomissima parte, come quello che vediamo eseguito
dalla natura. Io dunque dico all'uomo [372] il quale asserisce d'essere perfettibile,
e di potersi, anzi doversi perfezionare da se: perfeziona il tuo corpo, la tua
notomia, la tua costruzione organica, o almeno qualche parte di lei: se non
puoi questo, almeno immagina un disegno più perfetto, più completo,
più giusto, più conveniente, più esatto, più squisito
di quello della natura, relativamente alla organizzazione ec. del tuo corpo.
L'uomo si mette a ridere, e confessa che non solo non c'è cosa più
perfetta, ma ch'egli con lunghissimo studio, dal principio del mondo in poi,
ancora non è arrivato a comprenderne interamente tutta la perfezione,
e ogni giorno rivela qualche altra cosa da ammirare, ed accresce la sua maraviglia.
Or come dunque non potendo perfezionare il tuo corpo, anzi non potendo neppur
comprendere tutta la misura della sua perfezione naturale, presumi di perfezionare
una parte tanto più nobile, astrusa, e difficile, qual'è lo spirito?
Come dunque la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita
e intera in tutto il resto, e nominatamente nel tuo corpo, è stata così
stupida e manchevole e difettosa nella parte più rilevante di te, in
quella parte da cui dipendeva l'uso di quel tuo corpo così perfetto,
e che anche doveva molto influire sugli altri ordini di enti? Come ti ha lasciato
da far tanto in quella parte che più le doveva premere, non avendoti
lasciato nulla da fare in quella che importava meno, e ch'era subordinata alla
prima? Come soprattutto presumi di perfezionare, non solo il tuo spirito, [373]
ma anche l'ordine vastissimo delle altre cose terrestri, in quanto ha stretta
relazione e connessione e dipendenza cogli andamenti e lo stato della tua specie?
(2. Dec. 1820.).
La poesia e la prosa francese si confondono insieme, e la Francia non ha vera
distinzione di prosa e di poesia, non solamente perchè il suo stile poetico
non è distinto dal prosaico, e perch'ella non ha vera lingua poetica,
e perchè anche relativamente alle cose, i suoi poeti (massime moderni)
sono più scrittori, e pensatori e filosofi che poeti, e perchè
Voltaire p.e. nell'Enriade, scrive con quello stesso enjouement, con quello
stesso esprit, con quella stess'aria di conversazione, con quello stesso tour
e giuoco di parole di frasi di maniere e di sentimenti e sentenze, che adopra
nelle sue prose: non solamente, dico, per tutto questo, ma anche perchè
la prosa francese, oramai è una specie di poesia. Filosofi, oratori,
scienziati, scrittori d'ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano eleganti,
se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile continuamente
poetico, e montato principalmente sul tuono lirico. E ciò massimamente
è accaduto dopo l'introduzione de' poemi in prosa, siano poemi propriamente
detti, siano romanzi, opere descrittive, sentimentali ec. Ma [374] i francesi
che si credono i soli maestri e modelli e conservatori, e zelatori dello scriver
classico a' tempi moderni, non so in qual classico antico abbiano trovato questo
costume, per cui non si sa essere elegante nè eloquente, senza andare
a quella perpetua, dirò così, traslazione e ?????????e concitazione
di stile, ch'è propria della poesia. (L'eloquenza di Bossuet, è
appunto di questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di convenzione; e
lo stile biblico, e questo gergo forma l'eloquenza e l'eleganza ordinaria d'ogni
sorta di scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non mai posatezza,
non semplicità, non familiarità. Non dico semplicità nè
familiarità distintiva di uno stile o di uno scrittore particolare, ma
dico quella ch'è propria universalmente e naturalmente della prosa, che
non è uno scrivere ispirato. Osservino Cicerone, osservino gli scrittori
più energici dell'antichità, e mi dicano se c'è uomo così
cieco che non distingua subito come quella è prosa non poesia; se ridotta
questa prosa in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come accadrebbe
nelle loro prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente, energica,
consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico. Anche i loro scrittori
de' buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a questo difetto,
[375] nondimeno hanno un gusto e un sapore di prosa molto maggiore e più
distinto (eccetto pochi), hanno non dico austerità, neanche gravità
nè verecondia (pregi ignoti ai francesi) ma pur tanta posatezza e castigatezza
di stile quanta è indispensabile alla prosa: come la Sévigné,
Mme Lambert, Racine e Boileau nelle prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando
ai filosofi e pensatori moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza
in questo punto.
(2. Dic. 1820.). V. p.477. capoverso 1.
La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva
di cui si serve l'uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri
animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere.
Questa l'ha posta nell'uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano
contraddizioni. Nemico della natura è quell'uso della ragione che non
è naturale, quell'uso eccessivo ch'è proprio solamente dell'uomo,
e dell'uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è
naturale, nè proprio dell'uomo primitivo.
Spesso gli uomini irresoluti, preso che hanno un partito, sono costantissimi
nel mantenerlo, a fronte delle maggiori difficoltà, appunto per irresoluzione,
e perchè non si sanno risolvere a lasciar quello, e prenderne un altro;
perchè ciò par loro più difficoltoso; perchè si
spaventano di tornare un'altra volta a risolvere. Forse questo effetto accade
principalmente in quelli che sono irresoluti per infingardaggine, e che trovano
più infingardo [376] e facile il proseguire che il tornare indietro.
Ma è comune, s'io non erro, a tutti gl'irresoluti.
(3. Dic. 1820.)
L'Essai sur l'indifférence en matière de religion, prima o seconda
pagina del Capo 9. Ed è rimarcabile che tutti gli uomini... uniscono
costantemente all'idea della felicità, l'idea del riposo, che non è
altro fuorchè quella pace profonda, inalterabile, di cui gode necessariamente
un essere pervenuto alla sua perfezione, e che S. Agostino chiama per eccellenza,
la tranquillità dell'ordine... In una parola non si trova felicità
fuorchè nel seno dell'ordine; e l'ordine è la sorgente del bene,
come il disordine è la sorgente del male, tanto nel mondo morale, quanto
nel mondo fisico; tanto pei popoli, quanto per gl'Individui. L'amore dell'ordine,
o l'idea della necessità dell'ordine, che è quanto dire dell'armonia
e convenienza, è innata, assoluta, universale, giacchè è
il fondamento del raziocinio, e il principio della cognizione o del giudizio
falso o vero. Ma l'idea di un tal ordine, è variabile, dipendente dall'abitudine,
opinione, ec. è relativa, e particolare. Il desiderio del riposo, non
è in quanto riposo, o quiete, ma 1. in quanto convenienza, armonia ec.
colle qualità e la natura della specie o dell'individuo. 2. in quanto
stabilità, o capacità di durare. L'uomo e nessun altro essere,
non può trovar bene se non se in [377] uno stato che armonizzi colle
sue qualità e natura. Senza questo stato, egli è in una condizione
di contrasto, di sconvenienza, e perciò travaglioso, non per l'assenza
della quiete assolutamente, ma dell'armonia relativa. Se alla sua natura convenisse
la guerra, il moto perpetuo, l'azione continua, egli sarebbe in istato di pena,
e violento, quando fosse costretto al riposo propriamente detto, e non riposerebbe,
vale a dire, non troverebbe felicità, se non che nella guerra o fatica.
Il riposo e la pace per lui sarebbe disordine, e la fatica e la guerra ordine.
Sicchè il riposo che noi desideriamo, non è riposo o quiete assolutamente,
ma armonia colla nostra natura tanto specifica, quanto individuale. Così
diremo della stabilità, perchè quello che contrasta colla nostra
natura, se anche ha l'atto della durata, non ha la potenza o il diritto, cosicchè
l'uomo non ci può trovar quiete. Al contrario nel caso opposto. Ma questa
quiete non è quiete assoluta, quasi che la quiete fosse essenzialmente
e primordialmente buona; bensì è quiete relativa, o vogliamo dire
armonia. Non bisogna dunque usare le proposizioni astratte nelle cose relative,
nè pretendere di aver dimostrato che noi amiamo naturalmente un tal ordine,
perciò che amiamo l'ordine. Amiamo l'ordine, l'amano tutti gli esseri;
ma qual ordine? Odiamo il disordine, ma qual è questo disordine? Ciò
bisogna [378] cercare, qui di nuovo i filosofi si dividono, e dal principio
antecedente, incontrastabile e confessato, invano si presume di ricavar nulla
di definito e concreto, circa la questione, dello stato e perfezione destinata
particolarmente all'uomo, e desiderata da lui ardentemente. Io dico dunque:
lo stato di perfezione, quello stato di ordine, fuori del quale non c'è
riposo, fuor del quale non c'è la tranquillità dell'ordine, nè
la felicità, è per l'uomo, come per tutte le altre cose esistenti,
quello stato in cui la natura l'ha posto di sua propria mano, e non quello in
cui egli o si sia posto, o si debba porre da se.
Il Capo 9. dell'Essai ec. qui sopra citato è il più forte profondo
e concludente forse di tutta l'opera, perchè le prove della Religione
non sono dedotte dalla considerazione dell'uomo qual egli è, dalle opinioni
ec. ma dalla natura dell'uomo. Farai bene a rileggerlo. Ma ecco il suo raziocinio.
La felicità non si trova se non nella perfezione di cui l'essere è
capace. Un essere non è perfetto se le sue facoltà non sono perfettamente
d'accordo fra loro, perfettamente sviluppate secondo la loro natura, e se non
godono ciascuna del suo proprio oggetto secondo tutta l'estensione della sua
capacità. Non è perfetto s'egli non è in conformità
colle leggi che risultano dalla sua natura. Ma per conformarcisi [379] bisogna
conoscerle. Dunque l'uomo non sarà felice se non quando conosca se stesso,
e i rapporti necessari che ha con altri esseri. E deve poterli conoscere, altrimenti
sarebbe un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè
la perfezione o la felicità, non avrebbe alcun mezzo di pervenirvi. L'uomo
dunque inclinando alla perfezione o felicità, inclina sommamente alla
cognizione del vero. Dalla cognizione deriva l'amore o l'odio, ossia il giudizio
relativo alla qualità buona o cattiva. Dall'amore o l'odio deriva l'azione,
perchè l'uomo non si può determinare se non a quello che crede
bene. L'ignoranza assoluta è uno stato di morte, perchè, supponendo
che l'uomo non abbia un motivo per creder le cose buone o cattive, la sua indifferenza
è totale, e non potendo amare nè odiare, non può scegliere,
dunque non può agire, dunque non può vivere. Sicchè conoscere,
amare, operare; ecco tutto l'uomo. L'oggetto della facoltà di conoscere,
è la verità. L'estensione di questa facoltà si misura dal
desiderio. L'uomo sente un desiderio infinito di conoscere e così di
amare. Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l'intelligenza è capace
di conoscere la verità infinita; la sua facoltà di amare, è
capace di amare il Bene infinito. Laddove la sua facoltà di agire essendo
limitata, egli non sente un desiderio infinito di agire, come essere fisico.
Dunque la felicità dell'uomo [380] consiste nella perfezione della conoscenza;
dell'amore, o sia disposizione dell'anima verso gli oggetti; e dell'azione che
deriva da questi due principii. Dunque consiste nel vero: perchè 1. l'ignoranza
assoluta è lo stesso che mancanza intera di cognizione, amore, e azione.
2. l'errore ingannandolo sui suoi rapporti, e sull'accordo e sviluppo delle
sue facoltà, contraddice alla perfezione, ossia distrugge l'armonia dell'uomo
e delle sue facoltà colle leggi che risultano dalla sua natura, e quindi
distrugge la sua felicità. Ecco l'argomentazione. Ecco le risposte.
Primieramente quanto alla verità, che cosa si debba intendere per verità,
rispetto alla felicità dell'uomo, e per conseguenza qual sia il fine
e lo scopo e l'oggetto vero della sua facoltà di conoscere, vedilo chiaramente
esposto p.326. di questi pensieri, capoverso 1. Quello solo basterebbe a rispondere
a tutto questo raziocinio.
Secondariamente, qual sia l'ordine, la perfezione l'accordo delle facoltà
dell'uomo, la sua corrispondenza co' suoi rapporti, e colle leggi che risultano
dalla sua natura, vedilo p.376-378. donde rileverai che questo principio astratto,
benchè vero, e confessato, non ha forza di provar nulla nella questione
delle vere leggi, dei veri rapporti, e della vera natura particolare dell'uomo.
Veniamo al desiderio di conoscere. Certamente bisogna che l'uomo conosca, cioè
si possa determinare, perch'egli è libero. Così accade anche al
bruto. [381] Bisogna che conosca bene per determinarsi bene. Dunque bisogna
che conosca il vero, e l'errore toglie la sua felicità. Falsa conseguenza.
Bisogna che conosca quello che fa per lui. La verità assoluta, e per
così dire il tipo della verità, è indifferente per l'uomo.
La sua felicità può consistere nella cognizione e giudizio vero
o falso. Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla
sua natura.
La facoltà di formare questo giudizio non manca all'uomo ignorante, perchè
tutto quello ch'egli deve sapere gli è insegnato dalla natura. Bisogna
esser bene stupido per ammetter l'ipotesi di un'ignoranza che lasci l'uomo nell'intera
indifferenza, come quell'asino delle scuole, posto tra due cibi distanti e moventi
d'un modo, il quale si morria di fame. L'ignorante ignora il vero, ma non i
motivi di determinarsi. Anzi l'ignorante naturale, come il fanciullo, si determina
molto più presto, facilmente e vivamente, risolutamente e certamente
dell'uomo istruito o saggio. Di più le stesse cose per natura loro indifferenti
all'uomo, per poco che abbia perduto della natura, quelle cose che non possono
essere oggetti di azione, come piante, sassi, e che so io, non sono indifferenti
all'uomo primitivo nè al fanciullo, il quale da piccolissime minuzie,
cava argomento di amarle o di odiarle, e trova notabili benchè immaginarie
differenze, nelle cose più[382] indifferenti, ed esagera e ingrandisce
le piccole differenze reali: sicchè non gli manca ma motivo di determinazione.
Anzi la ragione e la scienza è indifferentissima, e la natura e l'ignoranza
è tutto l'opposto dell'indifferenza. (V. il mio discorso sui romantici,
e la p.69. di questi pensieri, capoverso 3.) Perchè l'immaginazione e
l'errore dà molto più peso alle minuzie, che la ragione, e non
ammette nè dubbi, nè freddezze nella stessa certezza, come la
ragione che conosce la poca importanza di tutto, e perciò la poca differenza
dell'utilità o bontà rispettiva. Oltracciò la ragione e
la scienza, tende evidentemente ad agguagliare il mondo sotto ogni rispetto,
ed estinguere o scemare la varietà, perchè non c'è cosa
più uniforme della ragione, nè più varia della natura;
e così la scienza promuove sommamente l'indifferenza, perchè toglie
o scema anche le differenze reali, e quindi i motivi di determinazione.
E quanto al dubbio, cagione principalissima d'indifferenza, lo stesso libro
ch'io discuto reca un passo di Pascal, dove fra le altre cose (degne d'esser
lette) si dice: conviene che ciascuno prenda il suo partito, e si collochi necessariamente
o al dogmatismo, o al pirronismo... Sostengo che non ha mai esistito un pirronista
effettivo e perfetto. La natura sostiene la ragione impotente, e l'impedisce
di delirare fino a questo punto... [383] La natura confonde i pirronisti, e
la ragione confonde i dogmatizzanti (vale a dire quelli che ammettono e sostengono
delle opinioni come certe). (Pensées de Pascal, Ch.21) Infatti il dubbio
non ha quasi esistito se non dopo la ragione e la scienza, e non c'è
cosa così sicura in quello che crede come l'ignoranza; e l'uomo naturale,
tutto quello che sa o crede sapere (e ciò per dettato della natura),
lo tiene per certissimo e non ci prova ombra di dubbio. Tanto è vero
che l'ignoranza conduce alla totale indifferenza, e quindi all'inazione e alla
morte: o piuttosto tanto è vero che si dia un'ignoranza assoluta, ossia
uno stato dell'anima privo affatto di credenza, e di giudizi: tanto è
stolto il confondere la mancanza della verità, colla mancanza dei giudizi,
quasi non si dassero giudizi se non veri, o quasi dal detto principio risultasse
la necessità di un giudizio vero assolutamente, e non piuttosto di un
giudizio veramente utile e adattato alla natura dell'uomo.
Quanto al desiderio che ha l'uomo di conoscere, desiderio che si pretende infinito,
come quello di amare, e a differenza di quello di operare
1° Non è vero ch'egli sia infinito per se, ma solo materialmente,
e come desiderio del piacere, ch'è tutt'uno coll'amor proprio. E non
è vero che l'uomo [384] naturale sia tormentato da un desiderio infinito
precisamente di conoscere. Neanche l'uomo corrotto e moderno si trova in questo
caso. Egli è tormentato da un desiderio infinito del piacere. Il piacere
non consiste se non che nelle sensazioni, perchè quando non si sente,
non si prova nè piacere nè dispiacere. Le sensazioni non le prova
il corpo, ma l'anima, qualunque cosa s'intenda per anima. La sensazione dell'intelligenza,
è il concepire. Dunque l'oggetto della facoltà intellettiva, è
il concepire. (non il vero, come dirò poi.) L'uomo desidera un piacere
infinito in tutte le cose, ma non può provare una certa infinità,
se non se nella concezione, perchè tutto il materiale è limitato.
V. la pag.388. di questi pensieri, fine. L'uomo dunque prova piacere nella maggior
estensione possibile della concezione, ossia dell'atto della facoltà
intellettiva. V. questi pensieri p.170. fine, e p.178. fine - 179. principio.
Questo è indipendente dal vero. L'uomo non desidera di conoscere, ma
di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle
facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll'immaginazione,
non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi
esclude l'infinito. E da queste cose si potrà dedurre che anche la curiosità,
o desiderio di conoscere, o piuttosto di concepire, [385] derivi [non] da una
determinazione arbitraria della natura, a fare che il conoscere o concepire
sia piacere, ma da questo stesso, che l'uomo desidera illimitatamente il piacere,
contro quello che ho inclinato a credere nella teoria del piacere. Del resto
questo desiderio infinito di concepire, dev'essere essenzialmente comune anche
ai bruti. V. p.180. fine.
2° E tanto è miser l'uomo quant'ei si reputa, e tanto è beato
quant'ei si reputa. Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere
o concepire, dalla credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la
verità assoluta è totalmente indifferente all'uomo anche per questo
capo. Anzi il desiderio infinito di concepire può ben essere in qualche
modo e spesso appagato dalla natura col mezzo della immaginazione e delle persuasioni
false ossiano errori; ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè
dai sensi col mezzo degli oggetti reali. Che se l'uomo avesse questa tendenza
infinita non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al vero,
perchè la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria
alla sua felicità? Perchè avrebbe radicate nella sua mente tante
illusioni che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può
estirpare, e non del tutto? Perchè la verità sarebbe così
difficile a scoprire? Da che l'uomo tende infinitamente alla precisa cognizione,
nessuna verità è indifferente per lui. [386] Non solo la cognizione
delle verità religiose, morali ec. ma di qualunque verità fisica
ec. ec. diviene necessaria alla sua felicità. Ora quando anche si voglia
supporre che l'uomo primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le verità
religiose e morali, (come par che supponga il nostro libro) è certo che
non gli ebbe per infinite altre, è certo che infinite se ne ignorano
ancora, che infinite se ne ignoreranno sempre, che la massima parte degli uomini
è (tolto nella religione rivelata) ignorante quanto i primitivi, che
i fanciulli lo sono parimente, anche quanto alla religione. È certo che
quantunque l'uomo conosca Dio ch'è infinito, non lo conosce nè
lo può conoscere infinitamente (come neanche amare, quantunque l'autore
presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita, essendo infinito
il desiderio); anzi limitatissimamente. Dunque la sua cognizione non è
infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere è infinita, manca
del suo oggetto, e perciò della sua felicità. Dunque l'uomo non
può esser felice: dunque ripeterò coll'autore egli è un
essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione
o la felicità, non ha alcun mezzo di pervenirvi. E le illusioni che la
natura ha poste saldissimamente in tutti noi, perchè ce le ha poste?
Per contendergli espressamente la sua felicità? E se l'ignoranza è
infelicità, perchè l'uomo esce dalle mani della natura, così
strettamente infelice? In somma [387] le assurdità sono infinite quando
non si vuol riconoscere che l'uomo esce perfetto dalle mani della natura, come
tutte le altre cose; che la verità assoluta è indifferente all'uomo
(quanto al bene, ma non sempre, anzi di rado, quanto al nuocergli); che lo scopo
della sua facoltà intellettiva, non è la cognizione, in quanto
cognizione derivata dalla realtà, ma la concezione, o l'opinione di conoscere,
sia vera, sia falsa. Che vuol dire che gl'ignoranti in luogo di esser più
infelici, sono evidentemente i più felici?
Posti questi principii, dice l'autore, (cioè i sovresposti p.378-380.)
consideriamo la filosofia e la Religione ne' loro rapporti colla felicità.
E segue mostrando che la filosofia non rivela nè prescrive nulla fuorchè
il dubbio, tanto ne' principii o nelle verità, quanto ne' doveri: e la
Religione tutto l'opposto. Siamo d'accordo, ma la natura? l'avete dimenticata?
Non c'è altra maestra che la filosofia o la religione? tutte due ascitizie
e non inerenti alla natura dell'uomo. Laddove tutti gli altri esser viventi,
che hanno lo stesso desiderio infinito della felicità, ne hanno la maestra,
gl'insegnamenti, e i mezzi in se stessi. La natura non insegna nulla? non prescrive
nulla? Concedo la vostra definizione della felicità, ammetto le facoltà
dell'uomo che voi ammettere, dico che debbono esser d'accordo [388] fra loro,
d'accordo colle leggi che risultano dalla loro natura, perfettamente sviluppate
secondo la loro natura, godere del loro oggetto secondo la loro natura. I principii
son veri, l'applicazione è falsa. Voi continuate a stare sull'assoluto
invece di passare al relativo. Cioè, la natura dell'uomo non è
quella che voi dite. Del resto so anch'io che la filosofia è più
contraria alla natura che la religione, ma non ne segue che non ci siano altri
insegnamenti se non della Religione o della filosofia, che non ci siano altre
cognizioni, altri amori, altre azioni, cioè quelli che la natura ci ha
ispirati e dettati; nè molto meno che questi non sieno analoghi alle
nostre facoltà, ed alle leggi della nostra natura; nè che l'uomo
naturale sia infelice ec. ec. ec. e che le leggi della nostra natura non sieno
quelle della nostra natura. Convien conoscerle, dic'egli, per conformarcisi.
E io dico che l'uomo le conosce dal suo nascere, e dovea necessariamente conoscerle
per non essere un ente contraddittorio, e bisognoso per esser felice, di cose
che non possiede essenzialmente e primordialmente, al contrario di tutti gli
altri enti.
(7. Dic. 1820.)
Alla p.384. Così il desiderio che ha l'uomo di amare, è infinito
non per altro se non perchè l'uomo si ama di un amore senza limiti. E
conseguentemente desidera di trovare [389] oggetti che gli piacciano, di trovare
il buono (intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che affetta
gradevolmente qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque di amare,
ossia di determinarsi piacevolmente verso gli oggetti. E lo desidera senza confini,
tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto rispetto alla misura della
loro bontà, amabilità, piacevolezza. Questo è desiderio
innato, inerente, indivisibile dalla natura non solo dell'uomo, ma di ogni altro
vivente, perchè è necessaria conseguenza dell'amor proprio, il
quale è necessaria conseguenza della vita. Ma non prova che la facoltà
di amare sia infinita nell'uomo: e così il desiderio infinito di conoscere
non prova che la sua facoltà di conoscere sia infinita: prova solamente
che il suo amor proprio è illimitato o infinito. E infatti come si potrà
dire che la facoltà nostra di conoscere o di amare sia infinita? - Ma
noi possiamo conoscere un Bene infinito ed amarlo. Bisognerebbe che lo potessimo
conoscere infinitamente ed amare infinitamente. Allora la conseguenza sarebbe
in regola. Ma non lo possiamo nè conoscere nè amare, se non imperfettissimamente.
Dunque la nostra cognizione e il nostro amore, benchè cadano sopra un
Essere infinito, non sono infinite, nè possono mai [390] essere. Dunque
le nostre facoltà di conoscere e di amare sono essenzialmente ed effettivamente
limitate come la facoltà di agire fisicamente, perchè non sono
capaci nè di cognizione nè di amore infinito, nè in numero
nè in misura, come non siamo capaci di azione infinita fisica. (E se
noi avessimo delle facoltà precisamente infinite, la nostra essenza si
confonderebbe con quella di Dio). Dunque il nostro desiderio infinito di conoscere
(cioè concepire), e di amare, non può esser mai soddisfatto dalla
realtà, ossia da questo, che la nostra facoltà di conoscere e
di amare possieda realmente un oggetto infinito in quanto è infinito,
e in quanto si possa mai possedere (altrimenti la possessione non sarebbe infinita):
ma solamente può esser soddisfatto dalle illusioni (o false concezioni,
o false persuasioni di conoscenza e di amore, e di possesso e godimento) e dalle
distrazioni ovvero occupazioni (v. p.168. 172-173.175. ivi, fine-176. principio):
due grandi istrumenti adoperati dalla natura per la nostra felicità.
(8. Dicembre. 1820.).
L'immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto
per noi, è una conseguenza naturale dell'amor proprio necessariamente
coesistente con noi, e necessariamente illimitato. Onde è naturale che
ciascuna specie d'animali s'immagini, se non chiaramente, certo confusamente
e fondamentalmente la stessa cosa. Questo accade nelle specie o generi rispetto
agli altri generi o specie. Ma proporzionatamente lo vediamo accadere anche
negl'individui, riguardo, non solo alle altre specie o generi, ma agli altri
individui della medesima specie.
[391] Il bene non è assoluto ma relativo. Non è assoluto nè
primariamente o assolutamente nè secondariamente o relativamente. Non
assolutamente perchè la natura delle cose poteva esser tutt'altra da
quella che è; non relativamente, perchè in questa medesima natura
tal qual esiste, quello ch'è bene per questa cosa non è bene per
quella, quello che è male per questa è bene per quell'altra, cioè
gli conviene. La convenienza è quella che costituisce il bene. L'idea
astratta della convenienza si può credere la sola idea assoluta, e la
sola base delle cose in qualunque ordine e natura. Ma l'idea concreta di essa
convenienza è relativa. Non si può dunque dire che un essere sia
più buono di un altro, cioè abbia o contenga maggior quantità
o somma di bene, perchè il bene non è bene se non in quanto conviene
alla natura degli esseri rispettivi. Solamente, questo si può dire degl'individui
rispetto agli altri individui della stessa specie. Ogni specie dunque, ed ogni
individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è
perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci perfezione
assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie è più
perfetta di un'altra) possiede tutto il bene che è bene per [392] lui,
perchè il resto non sarebbe bene: è tanto buono quanto può
essere, perchè per lui non c'è buono fuori della sua natura; anzi
fuori di questa, tutto è per lui cattivo, perchè non c'è
bene assoluto. Tutto ciò tanto nel fisico che nel morale. (8. Dicembre.
1820.). Questo io credo che sia il sistema (Leibniziano se non erro) dell'Ottimismo.
Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli esemplari
tanto nazionali che antichi; della regolarità della lingua, dello scrivere
e della poesia ridotti ad arte ec. un'altra gran cagione dell'estinguersi che
fece subitamente l'originalità vera e la facoltà creatrice nella
letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè
subito dopo la nascita di essa letteratura, può essere l'estinzione della
libertà, e il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la
quale costringe lo spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle
cose, a rivolgersi alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto
monarchico in Italia e fuori, quanto al governo. E le lettere italiane risorsero
dal sonno del quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de' Medici fondatori della
monarchia toscana e distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento
(come poi sotto Leon X.) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta
diversa da quella del trecento, e (quel che è più) da quella che
sogliono sempre prendere nel loro risorgimento [393] o nascere. La letteratura
italiana non è stata più propriamente originale e inventiva. L'Alfieri
è un'eccezione, dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del
tempo, e alla natura de' governi sotto cui visse. (8. Dicembre. 1820.).
A quello che ho detto p.175. fine- 176. principio, riferisci
quello che ho detto p.153. capoverso primo. I fanciulli parlano ad alta voce
da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno, si raccontano le cose
che hanno fatte, vedute ec. o che loro sono accadute, si lodano, si compiacciono,
predicano ed ammirano ad alta voce le cose che fanno, e non v'è per loro
tanta solitudine ed inazione materiale, che non sia piena società conversazione,
ed azione spirituale; società ed azione non languida nè passeggera,
ma energica, presente, simile al vero, accompagnata anche da gesti e movimenti
fisici d'ogni sorta, durevole ed inesauribile.
(9. Dic. 1820.)
Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini, e l'attribuir ch'io fo tutto
o quasi tutto alla natura, e pochissimo o nulla alla ragione, ossia all'opera
dell'uomo o della creatura, non si oppone al Cristianesimo.
1° La natura è lo stesso che Dio. Quanto più attribuisco alla
natura, tanto più a Dio: quanto più tolgo alla ragione, tanto
più alla creatura. Quanto più [394]esalto e predico la natura,
tanto più Dio. Stimando perfetta l'opera della natura, stimo perfetta
quella di Dio; condanno la presunzione dell'uomo di perfezionar egli l'opera
del creatore; asserisco che qualunque alterazione fatta all'opera tal qual è
uscita dalle mani di Dio non può esser altro che corruzione. Laddove
coloro che si credono più amici della religione; attribuendo tutto o
quasi tutto alla ragione, fanno dipendere la massima e principal parte dell'ordine
umano ed universale, dalle facoltà della creatura. Sostenendo la perfettibilità
dell'uomo, sostengono che l'opera della natura, cioè di Dio, era imperfetta;
che l'uomo può essere perfezionato non già da Dio, ma da se stesso;
che per conseguenza la perfezione o felicità della prima delle creature
terrestri derivi e debba derivare da essa e non da Dio.
2° Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell'uomo, e il suo decadimento
dallo stato primitivo, stato di felicità; come appunto fa il Cristianesimo.
S'io dico che l'uomo fu corrotto dall'abuso della ragione, dal sapere, e dalla
società, questi sono i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione,
e non tolgono che la causa originale non sia stata il peccato. Io non credo
che nessuna vera e soda ragion di fede provi la scienza infusa in Adamo. S'egli
ebbe subito un linguaggio, si può stimare, ed è ben verosimile
che n'abbiano anche le bestie per servire a [395]quella tal società di
cui abbisognano; a quella che sarebbe convenuta anche all'uomo nello stato primitivo,
come conviene alle bestie che sono ancora in esso stato; a quella che Dio volle
indicare (e non altro) quando disse: Non est bonum esse hominem solum: faciamus
ei adiutorium simile sibi (Gen. 2.18.); a quella della quale ho detto bastantemente
altrove. E contuttociò le bestie non hanno scienza infusa, e dalla Genesi
non risulta niente di questo, riguardo ad Adamo, anzi il contrario. Giacchè
qualunque cosa si voglia intendere per l'albero della scienza del bene e del
male, è certo che il solo comando che Dio diede all'uomo dopo averlo
posto in paradiso voluptatis (Gen. c.2. v.8.15.23.24.) (s'intende voluttà
e felicità terrena, contro quello che si vuol sostenere, che all'uomo
non sia destinata naturalmente se non se una felicità spirituale e d'un'altra
vita), fu De ligno autem scientiae honi et mali ne comedas, in quocumque enim
die comederis ex eo, morte morieris (Gen. 2.17.). Non è questo un interdir
chiaramente all'uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacchè
questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo agl'incrementi della ragione,
come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice
della felicità, e vera perfezione [396]di quella tal creatura, tal quale
egli l'aveva fatta, e in quanto era così fatta? Il serpente disse alla
donna Scit enim Deus quod in quocumque die comederitis ex eo, aperientur oculi
vestri, et eritis sicut dii, scientes bonum et malum. (Gen. 3.5.) In maniera
che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri,
per donargli quella felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente
il vedere s'egli avrebbe saputo contenere la sua ragione, ed astenersi da quella
scienza, da quella cognizione, in cui pretendono che consista, e da cui vogliono
che dipenda la felicità umana: fu appunto il vedere s'egli avrebbe saputo
conservarsi quella felicità che gli era destinata, e vincere il solo
ostacolo o pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione
e del sapere. Questa fu la prova a cui Dio volle assoggettar l'uomo, se bene
lo fece in un modo o materiale, o misterioso. Di che cosa poi si trattava [?]
È egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere
il bene ed il male? (che in somma è quanto dire la cognizione) Secondo
voi altri apologisti della Religione, non è. Ma all'autor della Religione
parve che fosse, perchè l'uomo già sapeva abbastanza per natura,
cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò
che gli conveniva sapere. La colpa dell'uomo fu volerlo sapere per opera sua,
cioè non [397]più per natura, ma per ragione, e conseguentemente
saper più di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue
proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi non dipendendo più
dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi
della sua natura, era contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato
di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; peccato
di superbia nell'aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla
cognizione, un mezzo e un'opera propria, cioè la ragione, in luogo dell'istinto,
ch'era un mezzo e un'azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare
che sia rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell'uomo.
I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità,
e cercata questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato,
la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta:
ragione, parlando assolutamente, non male adoperata, giacchè non cercava
se non la scienza del bene e del male. Or questo appunto fu peccato e superbia.
Condannato ch'ebbe la donna e l'uomo, disse Iddio: Ecce Adam quasi unus ex nobis
factus [398]est, sciens bonum et malum. (Gen. 3.22.) E non aggiunse altro in
questo proposito. Dunque egli non tolse alla ragione umana quell'incremento
che l'uomo indebitamente gli aveva proccurato. Dunque l'uomo restò veramente
simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai di quando
era stato creato. Dunque il decadimento dell'uomo, non consistè nel decadimento
della ragione, anzi nell'incremento. V. p.433. capoverso 1. E sebben l'uomo
ottenne precisamente quello che il serpente aveva promesso ad Eva, cioè
la scienza del bene e del male, non però questa accrebbe la sua felicità,
anzi la distrusse. Questi mi paiono discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati
ma solidi, e dedotti naturalmente e da dedursi dalle parole e dallo spirito
bene inteso della narrazione Mosaica, e se ne può efficacemente concludere
che lo spirito di questa narrazione, è di attribuire formalmente la corruzione
e decadenza dell'uomo all'aumento della sua ragione, e all'acquisto della sapienza;
considerar come corruttrice dell'uomo la ragione e il sapere: cioè come
mezzi espressi di corruzione, perchè la causa primaria fu la disubbidienza,
ma la disubbidienza a un divieto che proibiva appunto all'uomo di proccurarsi
e di rendere efficaci questi mezzi di corruzione e d'infelicità.
[399]3° Avanti il peccato, ossia avanti il sapere, erat autem uterque nudus,
Adam scilicet et uxor eius, et non erubescebant. (Gen. 2.25.) Ma come prima
Adamo ebbe mangiato del frutto, ET APERTI SUNT OCULI AMBORUM: cumque COGNOVISSENT
se esse nudos, consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata. (3.7.) E
Dio disse loro: QUIS enim INDICAVIT TIBI quod nudus esses, nisi quod ex ligno
de quo praeceperam tibi ne comederes, comedisti? (3.11.) Questi luoghi suggerirebbero
vaste osservazioni sulla legge naturale, pretesa innata. In sostanza è
chiaro 1. che la decadenza dell'uomo consistè nella decadenza dallo stato
naturale o primitivo, giacchè subito dopo il peccato l'uomo provò
una contraddizione colla sua natura, vergognandosi della nudità, ossia
del modo nel quale era stato fatto: vergogna, e per conseguente dovere, che
non esisteva innanzi alla corruzone. 2. Che questa decadenza o corruzione in
luogo di consistere in quella della ragione, fu anzi cagionata dal sapere, giacchè
l'uomo allora seppe quello che prima non sapeva, e non avrebbe saputo nè
dovuto sapere, cioè di esser nudo. Quando aprirono gli occhi, come dice
la Genesi, allora conobbero di esser nudi, e si vergognarono della loro natura
(contro quello che prima era [400]avvenuto); e decaddero dallo stato naturale,
o si corruppero. Dunque l'aprir gli occhi, dunque il conoscere fu lo stesso
che decadere o corrompersi; dunque questa decadenza fu decadenza di natura,
non di ragione o di cognizione. 3. Che l'uomo naturale sarebbe vissuto come
gli altri animali senza vestimenti. Questo è un gran colpo, tanto alla
pretesa legge di natura, ingenita ed essenziale: quanto alla pretesa necessità,
o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell'uomo alla società.
Una gran parte del bisogno che l'uomo ha dell'aiuto scambievole, che il bambino
ha per lungo tempo de' genitori, consiste ne' vestimenti. Di più, una
gran parte del bisogno che l'uomo ha di una certa arte, di un certo uso della
sua ragione, consiste nel bisogno de' vestimenti.
4° Quanto alla società, non quella primitiva, e tenue e comune anche
agli animali, che ho definita di sopra, ma quella intera, e bisognosa di leggi,
di costumi, di riti, di potere e sudditi, di comando e ubbidienza ec. ec. vedi
quello che ne pensi la religion Cristiana p.112. capoverso 1.191. capoverso
2.
5° La descrizione che fa Mosè del paradiso terrestre, prova che i
piaceri destinati all'uomo naturale in questa vita, erano piaceri di questa
vita, materiali, sensibili, [401]e corporali, e così per tanto la felicità.
Oltracciò Dio pose Adamo in paradiso voluptatis ut OPERARETUR et custodiret
illum. (2.15.) Dunque sebben l'uomo fu condannato dopo il peccato a lavorar
la terra maledetta nell'opera di esso, (3.17.) e scacciato dal paradiso di voluttà
(3.23.) ut operaretur terram de qua sumptus est (ib.), si deve intendere a lavorarla
con sudore, e con ingratitudine d'essa terra, secondo il contesto della Genesi,
e non che la sua vita avanti il peccato, e la sua felicità dovesse consistere
nella contemplazione, ed essere inattiva, ossia senza opere e occupazioni corporali
ed esterne, e piacere di queste opere. Infatti chi non vede che l'uomo corrotto,
ossia l'uomo tal qual è oggi ha molto più bisogni degli altri
viventi, molto più ostacoli a proccurarsi il necessario, e quindi ha
mestieri di molto più fatica per la sua conservazione? Fatica di stento,
comandata dalla ragione e dalla necessità, ma ripugnante alla natura:
fatica non piacevole ec. Laddove gli altri animali con poca fatica, e quasi
nessuno stento si procacciano il bisognevole; non lavorano la terra, nè
questa produce loro spinas et tribulos, (3.18.) cioè non contrasta ai
loro desideri, ma somministra loro il necessario spontaneamente; ed essi raccolgono
e non [402]seminano. Intendo parlare di qualunque cibo del quale si pascano.
Del vestire, l'uomo abbisogna nello stato presente, essi no, ma nascono vestiti
dalla natura. La società primitiva qual è usata anche dagli animali;
il raziocinio primitivo, ossia il principio di cognizione comune a tutti gli
esseri capaci di scelta, erano destinati a supplire ai bisogni dell'uomo. La
società qual è, la ragione qual è ridotta, accresce smisuratamente
questi bisogni: il mezzo di servire ai bisogni e di estinguerli, è divenuto
padre, e cagione, e fonte perenne e abbondantissima di bisogni. I bisogni naturali
dell'uomo sarebbero pochissimi, come quelli degli altri anmali; ma la società
e la ragione aumentano il numero e la misura de' suoi bisogni eccessivamente.
Questa distinzione fra' bisogni naturali, e sociali o fattizi, e nonpertanto
inevitabili nel nostro stato, formava il fondamento della setta Cinica, la quale
si prefiggeva di mostrare col fatto, di quanto poco abbisogni l'uomo naturalmente.
V. l'epitaffio di Diogene nel Laerzio. L'uomo fu dunque veramente condannato
alla fatica, e fatica di stento; vi fu condannato a differenza degli altri animali;
ed essendovi stato condannato sotto l'aspetto che ho esposto, non ne segue che
la sua vita innanzi la corruzione dovesse essere inattiva, cioè dovesse
[403]contenere meno attività ed occupazione fisica, di quello che ne
contenga la vita degli altri animali.
6° Se la Religione ha poi divinizzato la ragione e il sapere; dato la preferenza
allo spirito sopra i sensi; fatto consistere la perfezione dell'uomo nella ragione
a differenza dei bruti; e in somma dato alla ragione il primato nell'uomo sopra
la natura: tutto ciò non si oppone al mio sistema. L'uomo era corrotto,
cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura:
e quindi l'uomo era divenuto sociale: quindi l'uomo era divenuto infelice, perchè
prevalendo la ragione, la sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli
era, decaduto dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro
che nella sua essenza o condizione propria e primordiale. Da questo stato di
corruzione, l'esperienza prova che l'uomo non può tornare indietro senza
un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello che si è
imparato non si dimentica. In fatti la storia dell'uomo non presenta altro che
un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all'eccesso
di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo. Barbarie, s'intende,
di corruzione, non già stato primitivo [404]assolutamente e naturale,
giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta mai
l'uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l'uomo tal quale
è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato
di civiltà media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile
colla sua ragione già radicata in un posto più alto del primitivo.
Questo stato non è il naturale assoluto, ma è quello stabilito
appresso a poco dalla religione, come dirò poi. Lo stato naturale assoluto
non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il discorso de' miracoli, è
sopraumano, e non entra in filosofia. Perchè dunque l'uomo corrotto com'è,
non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato puramente naturale,
e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane, colla detta
ragione, spiegato in filosofia. In religione anche meglio; perchè Dio
in pena del peccato, avendo condannato l'uomo all'infelicità della corruzione
derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo.
Volendo mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione compatibile
colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro
che perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto
immutabilmente nell'uomo [405]per la sua disubbidienza, e con ciò causata
la sua corruzione. La perfezion della ragione non è la perfezione dell'uomo
assolutamente, ma bensì dell'uomo tal qual è dopo la corruzione.
Perchè la perfezione di un essere non è altro che l'intiera conformità
colla sua essenza primigenia. Ora l'essenza primigenia dell'uomo supponeva e
conteneva l'ubbidienza della ragione, in somma tutto l'opposto della perfezion
della ragione. Questa perfezione dunque non poteva essere la sua felicità
in questa vita, non essendo la perfezione dell'ente. Non poteva dunque se non
formare la sua felicità in un'altra vita, dove la natura dell'ente in
certo modo si cambiasse. La ragione (massime relativamente all'altra vita) non
può essere perfezionata se non dalla rivelazione. Fu dunque necessario
che Dio rivelasse all'uomo la sua origine, e i suoi destini; quei destini che
avrebbe conseguiti rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe conseguiti
insieme colla felicità terrena. Laddove il Cristianesimo chiama beato
chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola suppone
essenzialmente l'infelicità di questa vita, per conseguenza [406]naturale
degli addotti principj. Ma da questi segue ancora che la maggior felicità
possibile dell'uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il
più vero ed intero, all'infelicità naturale, è la religione.
Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana assolutamente,
e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale,
è impossibile all'uomo dopo la corruzione. La ragione autrice di essa
corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell'uomo corrotto
è la perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale.
La perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità
di un'altra vita. Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione
e della cognizione, non può stare senza la rivelazione. Dunque il migliore
stato dell'uomo corrotto, è la Religione, e siccome è il migliore,
cioè quello che più gli conviene, perciò, sebben suppone
l'infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto,
e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile
dell'uomo in questa vita. Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col
mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.
[407]7° La perfezion della ragione consiste in conoscere la sua propria
insufficienza a felicitarci, anzi l'opposizione intrinseca ch'ella ha colla
nostra felicità. V. p.304. capoverso 2. Questa è tutta la perfettibilità
dell'uomo, conoscersi incapace affatto a perfezionarsi, anzi ch'essendo egli
uscito perfetto sostanzialmente dalle mani della natura, alterandosi non può
altro che guastarsi. Ora la Religione confonde appunto la nostra ragione, gli
mostra la sua insufficienza, la corruttela che ha introdotto nell'uomo, e l'impossibilità
ch'ell'ha di felicitarci: ed ecco la perfezion della ragione. Perchè
queste cose l'uomo non le avrebbe conosciute nel suo stato primitivo, ma prevaluta
la ragione, egli non può giungere a maggior perfezione che di conoscere
l'impotenza e il danno della ragione. La perfezion della ragione consiste a
richiamar l'uomo quanto è possibile al suo stato naturale; ritorno ch'essendo
fatto mediante quella ragione stessa che ha corrotto l'uomo, ed avendo il suo
fondamento in questa medesima corruttrice, non può più equivalere
allo stato naturale, nè per conseguenza alla nostra perfezion primitiva,
nè quindi proccurarci quella felicità che ci era destinata. Ma
contuttociò, riguardo a questa vita, è la miglior condizione che
l'uomo possa sperare. Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente [408]la
natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle
qualità ch'eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla
natura, appaga la nostra immaginazione coll'idea dell'infinito, predica l'eroismo,
dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che
costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato dell'uomo
sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede tanto alla natura,
quanto è compatibile colla società. Osservate infatti che lo stato
di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente
civile. Vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi,
amor pubblico, fedeltà privata e pubblica degl'individui e delle nazioni,
virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità
ec. ec. Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il
fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo. Esempio della
Spagna fino al 1820. del suo eroismo contro i francesi ec. Le sue stesse superstizioni
non erano altro che illusioni, e però vita. Osservate ancora che tutto
quello che v'è di meno della civiltà media nello stato di un popolo,
è contrario al Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello
stato de' bassi tempi, della Spagna ec. Perchè il Cristianesimo puro,
conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta civiltà, quanta nè
più nè meno conviene all'uomo sociale. D'altra parte osservate
che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun popolo al di
là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo cristiano
veramente, è stato mai al [409]di qua nè al di là della
civiltà media. Le società o barbare assolutamente, o corrotte
e barbare per corruzione, sono incivilite dal Cristianesimo, e portate al detto
stato di civiltà media. Esempio de' popoli barbari convertiti dalla predicazione
del Vangelo. All'opposto le società eccessivamente incivilite, e strettamente
ragionevoli, (come anche gl'individui) non sono state mai cristiane. Esempio
de' nostri tempi. In luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi
di queste società, sono l'egoismo, la morte, il tedio, l'indifferenza,
l'inazione, la mala fede pubblica e privata, l'assenza di ogni eroismo, sacrifizio,
virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo,
o sviluppatasi naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma
la sostanza e la ragione della vita, e ch'essendo ispirata dalla natura è
confermata dal Cristianesimo.
8° La detta perfezion della ragione è relativa a questa vita. Ma
la ragione non può esser perfetta se non è relativa all'altra
vita. Perchè quel richiamarci ch'ella deve fare alla natura, e alle illusioni
naturali, essendo un richiamo fatto dalla ragione, non può esser altro
che persuasione di esse illusioni. Dopo ch'esse son conosciute, come ci torneremmo,
se non [410]ci persuadessimo di nuovo che fossero vere? Un ritorno della ragione,
non ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, istabile
e passeggero, come quello de' moderni filosofi sensibili, che cercando a più
potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più, momentaneamente,
e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e morte. Dopo la cognizione
pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè ripersuadercene,
se non conoscendo che son vere. Ma non son vere se non rispetto a Dio e ad un'altra
vita. Rispetto a Dio ch'è la virtù, la bellezza ec. personificata;
la virtù sostanza, e non fantasma, come nell'ordine delle cose create.
Rispetto a un'altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù
e l'eroismo premiato ec. dove insomma le illusioni non saranno più illusioni
ma realtà. Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa
come all'altra vita, perchè ho mostrato che la perfezione rispetto a
questa vita dipende dalla perfezione rispetto all'altra) consiste formalmente
nella cognizione di un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la
perfezione, e quindi la felicità dell'uomo corrotto. Dunque l'uomo corrotto
non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione,
ossia dalla Religione. Ed ecco strettamente [411]dimostrato e dichiarato come
all'uomo corrotto sia necessaria quella cognizione, ch'era contraria alla natura
dell'uomo primitivo; e come il Cristianesimo divinizzando la ragione e il sapere,
non si opponga al mio sistema che divinizza la natura nemica della ragione e
del sapere.
9° L'esperienza conferma che l'uomo qual è ridotto, non può
esser felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù)
se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e
una verità alle illusioni, senza le quali non c'è felicità,
ma ch'essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all'uomo,
come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la
realtà che si suppongano avere in un'altra vita. A questo effetto contribuirono
anche le Religioni antiche, il Maomettismo, le sette d'ogni genere, e tutte
quelle opinioni che hanno dato vita a un popolo o ad una società, e indottala
ad operare. Riferite a questo tutto quello che ho detto altrove della necessità
di una persuasone per condurre alle azioni, e di una persuasione che abbia l'aspetto
d'illusione e di passione, ec. Giacchè la persuasione che tutto sia nullo,
non conduce all'azione. E la persuasione che le cose sieno cose, non può
[412]aver fondamento nè ragione, se non se nell'idea e persuasione di
un'altra vita. Ma questa ci deve persuadere: dunque bisogna che la religione
ci persuada, e non si può essere indifferenti circa la sua qualità
e verità. Altrimenti se la Religione si considera e si segue come una
delle altre illusioni, questa non sarà più persuasione, e tanto
le altre illusioni, quanto questa, mancheranno di nuovo del loro fondamento,
e non ci potranno quindi condurre all'azione durevole, alla perfezione, alla
felicità. Ecco perchè la Religione si trova presso la culla di
tutti i popoli; ecco perchè gl'imperi o stati fondati o conservati dalle
opinioni religiose, sono distrutti dalla filosofia; ecco perchè la decadenza
di Roma fu compagna della decadenza della sua Religione ec. ec. V. gli altri
pensieri. Perchè indebolendoo mancando le credenze Religiose, indebolisce,
o manca il principio di azione, cioè la credenza alle illusioni, o sia
la persuasione della realtà delle cose, le quali non possono essere reali
ed importanti se non rispetto ad un'altra vita. E nello stesso modo, mancando
quella tal Religione che realizza quelle tali illusioni, manca quel tale stato
di un popolo, e la sostituzione di un'altra Religione, non riconduce quello
stesso stato, anzi lo cambia. E così avvenne del Cristianesimo rispetto
al paganesimo in Roma. Perchè l'uomo credendo [413](non dico conoscendo
ma credendo) diversamente, opera diversamente. Quindi resta giustificata anzi
lodata la gelosia che gli antichi politici greci e Romani manifestarono sempre
per le loro antiche credenze, colle quali doveva mancare e mancò il loro
stato.
10° Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità
assoluta non sia indifferente per l'uomo, non prova che la felicità dell'uomo
consista nel conoscere. Col prevaler della ragione e del sapere, l'uomo non
potendo più credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch'egli
tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo sapere che non
si poteva più estinguere. La cognizione del vero gli era dunque necessaria,
non come indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza che gli
bisognava per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli
avea tolta. Verità o errore, bastava ed importava solamente che l'uomo
credesse quelle cose, senza le quali non poteva esser felice. Ma l'errore l'avrebbe
potuto credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non
poteva credere stabilmente altro che il vero. Bisognava dunque ch'egli trovasse
verità reali in quelle opinioni e in [414]quei giudizi che formano e
servono di base alla vita umana. Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli
realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religion vera, cioè
universalmente e stabilmente credibile. Ecco dunque come la ragione non poteva
condurre alla felicità senza la rivelazione. La verità non era
necessaria all'uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità.
Ora la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione
e di sapere. E l'uomo senza credenza stabile, non ha stabile motivo di determinarsi,
quindi di agire, quindi di vivere.
Ma siccome la verità era necessaria all'uomo, soltanto come unico fondamento
di quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella
parte di verità che non serve di fondamento a queste credenze, è
indifferente all'uomo, anzi nociva, anche nello stato presente di corruzione.
Al contrario di quello che accadrebbe se la felicità dell'uomo o naturale
o corrotto dovesse necessariamente consistere nella cognizione assoluta; il
cui oggetto essendo la verità assolutamente, nessuna minima verità
sarebbe indifferente all'uomo, e l'uomo sarebbe infelice finchè non avesse
conosciuta tutta la generale e particolare estensione della verità, perch'egli
prima di questo punto, non sarebbe arrivato alla [415]sua perfezione. Al qual
punto però gli è formalmente impossibile di arrivare, come ho
detto altrove. V. p.385-386. e p.389-390. Dove che la Religione, avendo insegnato
all'uomo quelle verità che realizzano le credenze necessarie alla sua
felicità, non solo non insegna, o suppone le altre verità, ma
anzi, come ho detto di sopra, e come prova l'esperienza, non c'è maggior
nemico della Religione che un secolo pieno di cognizioni. E la Religion Cristiana
si adatta e si deve adattare alla capacità dell'ignorante, e conviene,
anzi trova il suo miglior posto nell'ignoranza delle altre verità. Le
quali anche astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell'uomo,
quantunque già ragionevole, perchè non sono altro che un'estensione
di questa ragione e sapere che distruggono la umana felicità, e un più
vasto eccidio di quelle opinioni e illusioni parziali, che anche dopo prevaluta
la ragione, possono esser credute stabilmente, se il sapere, l'esperienza ec.
non si applicano parzialmente a sradicarle, cioè finchè dura l'ignoranza
parziale. La quale può occupare maggiore o minore spazio, e quanto più
ne occupa tanto più l'uomo è felice. P.e. le scoperte geografiche
sono indifferenti alla religione. Ma geometrizzando l'idea del mondo, distruggono
quelle belle illusioni che ancora restavano a causa dell'ignoranza parziale
intorno a questo capo. [416]E la perfezione della ragione non consiste nella
cognizione di queste verità, perchè non consiste nella cognizione
della verità in quanto verità, ma in quanto stabile fondamento
delle credenze necessarie o utili alla vita. E ci deve richiamare alla natura
o alla felicità naturale per una strada diversa dalla primitiva, la quale
è irrevocabilmente perduta. Ora se alcune delle dette credenze hanno
già un fondamento stabile nell'ignoranza parziale, la ragione e il sapere,
distruggendole nuocono alla nostra felicità, e non corrispondono alla
loro perfezione la quale consiste in richiamarci alla natura. Laddove scoprendo
queste verità parziali ch'erano stabilmente nascoste, ci allontanano
maggiormente dalla natura, e quindi dalla felicità. V. p.420. capoverso
1.
11° Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui,
sicchè tutto il fin qui detto suppone essenzialmente la verità
reale del Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto.
Frattanto osserverò che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può
supplire a spiegare quella parte della natura delle cose che nel mio sistema
resta intatta, ovvero oscura e difficile. 1. L'origine del mondo e dell'uomo,
che [417]mediante il Cristianesimo resta spiegata colla creazione. 2. Col Cristianesimo
resta spiegato perchè l'uomo sia così facile a perdere il suo
stato primitivo, e non si trovi, si può dir, popolo nè individuo
che perfettamente conservi questo stato, ch'io predico pel solo perfetto, felice,
destinatogli, e proprio suo: laddove tutti gli altri viventi appresso a poco
(escluse alcune cause accidentali, e provenienti per lo più dall'uomo)
conservano il loro primo stato. (Sebbene si potrebbero forse addurre parecchi
esempi di nazioni che conservano quasi interamente lo stato naturale, e ne sono
felici e contente: nè hanno se non quanta società conviene ai
loro bisogni, come ne hanno gli animali; peraltro con quel di più che
conviene alla nostra specie, a causa dell'organizzazione, specialmente riguardo
agli organi della favella. Anche gli animali hanno più o meno società,
proporzionatamente alla natura rispettiva, e le scimie più degli altri,
perchè più si accostano alla nostra organizzazione). Questo fenomeno
si può naturalmente spiegare colla diversità dell'organizzazione,
la quale in noi è tale che ci dà somma facilità di sperimentare,
e quindi conoscere, e quindi alterare il nostro primo stato: giacchè
l'esperienza è la sola madre della cognizione [418]e del sapere, come
anche delle immaginazioni determinate (non della facoltà immaginativa):
e questo in tutti i viventi: essendo riconosciute per favola le idee assolutamente
innate. Così forse anche la nostra diversa organizzazione interna, come
del cervello ec. Ma da questa spiegazione si potrebbe conchiudere che l'uomo
dunque, in vece d'essere il primo degli enti nell'ordine delle cose terrestri,
è anzi l'infimo, perch'è il più facile a perdere la sua
felicità, ossia la perfezione; e quasi impossibilitato a conservarla.
(Questa conseguenza già non sarebbe assurda se non per chi si forma della
perfezione un'idea assoluta, ossia considera la perfezione assolutamente secondo
le nostre idee nello stato presente. Chi considera la perfezione e ogni altra
cosa come relativa, non avrebbe difficoltà di creder l'uomo l'infimo
degli enti terrestri). Il Cristianesimo spiega chiaramente perchè la
ragione e il sapere corruttori dell'uomo, siano in lui così facili a
prevalere, giacchè attribuisce la cagione originale e radicale della
sua corruzione, al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la ragione
e la natura sua, ragione e natura ottimamente equilibrate o subordinate l'una
all'altra, insomma combinate negli altri esseri viventi. Ed è ben conforme
alla ragione, e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare la sua
misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto [419]di farlo,
com'era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia voluto
assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità
temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazion di Dio, ch'è
seguita dall'incremento della ragione umana, alla Redenzione ec. Manifestazione
che non avrebbe avuto luogo se l'uomo avesse conservato il suo grado e felicità
naturale, ancorchè più perfetto, relativamente alla sua natura.
Questa supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente
al Cristianesimo, il quale insegna (e non può altrimenti) che Dio permise
il peccato dell'uomo per sua maggior gloria. Ora, secondo lo stesso Cristianesimo,
era certamente meglio che l'uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più
perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli
era destinato primordialmente. Eppure Iddio permise che peccasse. Dunque secondo
lo stesso Cristianesimo, Dio permise un effettivo male, per un bene: permise
una cosa contraria alla destinazione dell'uomo. Dunque questa destinazione era
meno atta alla gloria di Dio, secondo i suoi misteriosi giudizi. [420]Altrimenti
Dio avrebbe permesso un male (e sommo male qual è il peccato) senza motivo:
avrebbe lasciato violare e guastare l'ordine da lui stabilito senza motivo;
e non avrebbe fatto il meglio ma il peggio.
Così il Cristianesimo aiuta il mio sistema riempiendone le necessarie
lagune nelle cose dove non arriva il nostro ragionamento: e di più l'appoggia
precisamente; come apparisce dal sopraddetto, massime dalla esposizione di quei
luoghi della Genesi, i quali somministrano una formale e stretta dimostrazion
religiosa del punto principale del mio sistema, cioè che la corruzione
e l'infelicità conseguente dell'uomo, è stata operata dalla ragione
e dalla cognizione, (9-15. Dic. 1820.) e consiste immediatamente nell'esso incremento
loro.
Alla p.416. L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche
nell'uomo alterato dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società.
Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o minor numero
di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo stato
primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per [421]conseguenza
quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà questa ignoranza
parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo
in fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de' selvaggi.
S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze,
giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi
e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura,
e perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro
quelli fabbricati dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi
all'opposto, com'essendo un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto
quello che si oppone a esso stato. Perciò le superstizioni, le barbarie
ec. non conducono alla felicità, ma all'infelicità. V. p.314.
Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice
possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove
un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza,
[422]mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali
(e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino
gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti.
Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di
vita, perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità
naturale. Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e
perciò dannosi e barbari, i quali non erano in gran numero, nè
gravissimi) conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più
di quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior
numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una più
estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo più vicino allo
stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor parte
davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da ignoranza
non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa
non poteva conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando
maggiormente l'uomo dalla natura: se non in [423]quanto quell'ignoranza qualunque
richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una
vita meno lontana dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella
che produce l'incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto
v. in questo proposito p.162. capoverso 1. Tra la barbarie e la civiltà
eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura,
e meno infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità.
Del rimanente per lo stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è
opposta alla felicità e natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici
generalmente, barbareschi Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della Spagna e simili
più moderne ed europee.).
Ma il detto effetto delle antiche religioni non poteva durare, se non quanto
durasse la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire,
quanto durasse quella tal misura e profondità d'ignoranza che permettesse
di credere veramente [424]e stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni
naturali che vi erano fondate. Prevalendo sempre più la ragione e il
sapere, e scemando l'ignoranza parziale, quelle religioni più naturali
e felici, ma perciò appunto più rozze, non potevano più
esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili,
alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto
disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava
richiamare quelle illusioni. Ma come, se restavano e non potevano più
allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e
il sapere erano padroni dell'uomo? (qui osservate gl'inutili sforzi di Cicerone
nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni,
non più come verità, perchè tali non erano più credute;
e com'egli non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi
dell'immortalità dell'anima, e del premio delle buone azioni nell'altra
vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col
mezzo di una tal qual religione, e v. gli altri pensieri). Bisognava dunque
richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa
ragione e sapere. Dico col mezzo, perchè non c'era altro modo di richiamarle,
se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non
la ragione e il sapere già stabilito. Ma come quella stessa ragione e
sapere che le avevano distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi
introdurle di nuovo nell'anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se
stessa. (come conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere). Non c'era altro
mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione,
e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle
illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che
queste ripigliassero l'aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini.
In somma bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali
e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O parlando cristianamente,
bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione, che quelle credenze
ch'ella aveva ripudiate, erano vere. Ecco dunque arrivata la necessità
di una religione perfettamente ragionevole [426](cioè rivelata, perchè
senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta ragione
credere o tornare a credere quello che, umanamente parlando, è veramente
falso?) o almeno perfettamente conforme a quella tal misura della ragione e
sapere di quei tali tempi. Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo,
cioè quel momento in cui l'eccessivo progresso della ragione e del sapere,
negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso
o dubbio senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive,
gettava l'uomo nell'inazione, nell'indifferenza, nell'egoismo (e quindi nella
malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda
barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi ultimi
secoli: quel momento in cui la virtù, l'eroismo, l'amor patrio, l'amore
scambievole ec. erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente parlando):
quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami sociali, e anche
individuali, cioè dell'uomo con se stesso e con la vita: quel momento
in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si sviluppano naturalmente
nell'uomo ridotto in società, (quali sono quasi tutte le illusioni sopraddette),
erano pure estinte: [427]quel momento a cui forse si dee riferire il maggior
progresso della setta scettica o Pirroniana. (V. Diog. Laerz. l.9. Luciano passim,
e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè
dopo nato il Cristianesimo, ma non però divulgato, anzi bambino).
Con ciò si potrà spiegare perchè il Cristianesimo fosse
rivelato in quel tempo, e non prima nè dopo: e per la pienezza de' tempi
famosa nel Vecchio Testamento si potrà ingegnosamente e sodamente intendere
quel punto in cui la ragione e il sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti,
aveano incominciato una devastazione, e una rivoluzione micidiale nell'uomo,
e una mortificazione generale dei popoli colti e degl'individui. In maniera
che quello era il punto in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una
grande rivelazione del vero relativo all'uomo diveniva precisamente, e per la
prima volta necessaria.
E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo
con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da
essa ragione. Ma appunto perchè la medicina era composta di ragione,
e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate,
cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio
ragionevole, perciò [428]quel rimedio era bensì l'unico applicabile
a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era,
non a quello anteriore al male. Giacchè questo era necessariamente più
naturale, e quindi più conducente alla felicità di quaggiù.
E infatti la vita, sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore,
meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacchè
il Cristianesimo non aveva insegnato all'uomo che la vita è ragionevole,
e ch'egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar questa ad un'altra
vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa vita: e che
questa sarebbe necessariamente infelice.
Ma il detto effetto non fu colpa del Cristianesimo, ma delle cause che aveano,
come si è detto, prodotta la necessità di questo rimedio; cause
che presto o tardi doveano necessariamente emergere dall'andamento che avea
preso la ragione (ossia dalla superiorità che aveva acquistata, e che
dovea naturalmente crescere e portar gli uomini a quel punto) e dallo stato
di società, a cui l'uomo era irrevocabilmente ridotto. Sicchè
presto o tardi era indispensabile e certa la nascita del Cristianesimo, o di
una [429]Religione ammissibile dalla ragione, anzi prodotta in certo modo da
essa, e molto più ragionevole delle antiche le quali non erano conformi
nè adattabili se non ad un grado di ragione e di sapere molto minore.
Quindi, posta la corruzione dell'uomo operata dalla ragione e dal sapere, l'uomo
doveva necessariamente arrivare una volta, a quella poca felicità di
vita, che il Cristianesimo stabilisce dogmaticamente, e anche produce attivamente,
ma come seconda e necessaria, non come prima e libera cagione. Era dico indispensabile
presto o tardi il Cristianesimo, posta la corruzione operata dalla ragione,
e lo era 1. umanamente: perchè la ragione prima di arrivare a quell'estremo
al quale è giunta oggidì, doveva naturalmente spaventarsi di se
stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose, e quindi
venirsi a distruggere la vita e il mondo, doveva considerar se stessa come assurda,
e concludere che ci doveva esser qualche verità ignota la quale dasse
alle cose quella realtà ch'essa non poteva più scoprire nè
ammettere. Quindi anche da se stessa [430]dovea rifugiarsi nel seno di una religione
astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una religione
misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà
delle cose di cui la ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente
colle sue forze, veniva stabilita dall'opinione verisimile, e creduta vera,
di un Dio infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere
la detta realtà. Così che la ragione sopra un fondamento oscuro,
ma creduto vero, veniva a creder quelle cose, che dall'una parte non poteva
credere sopra un fondamento chiaro e dettagliato; dall'altra parte le sembrava
ancora assurdo il negare, a dispetto della natura e del sentimento intimo che
le asseriva. Sicchè la ragione anche da se, nel suo corso naturale, prima
di distrugger tutto, doveva necessariamente immaginare, e persuadersi di una
religion rivelata. 2. molto più divinamente. Perchè supposto un
Dio, e che questi abbia cura delle sue creature, quando per non veder perire
[431]il primo degli enti terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua vita
quaggiù, o ridursi all'ultima infelicità, non rimase altro mezzo
che la credenza di una rivelazione, era troppo conveniente alla sua misericordia
l'adoperarlo, e perchè questa credenza fosse stabile e certa, fare che
fosse vera, cioè rivelar da vero.
Del resto sebbene io dico che la civiltà media è il migliore stato
dell'uomo corrotto e sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè più
nè meno in questo stato, ciò non contraddice a quello ch'io soggiungo,
che l'uomo era più felice prima che dopo il Cristianesimo. Perchè
questo stato di civiltà media può avere diversi gradi, cioè
contener più o meno di natura, o di ragione; di credenze naturali o non
naturali; e quindi essere più o meno felice. Ma oggidì non essendo
più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore
incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa
vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo. V. poi gli altri miei
pensieri circa gli effetti del Cristianesimo (o delle cause che lo produssero)
[432]sulla società, sulla qualità e sulla felicità di questa
vita.
Del resto osservate che il Cristianesimo limita estremamente l'esercizio della
ragione, di quella facoltà distruttrice della vita; di quella facoltà
che l'aveva reso necessario; di quella al cui guasto egli è venuto a
riparare; di quella che in certo modo l'invocò e lo produsse. Perchè,
tranne alcune proposizioni generali fondamentali, che hanno bisogno della ragione
per esser giudicate e credute, vale a dire, l'esistenza, la provvidenza, la
manifestazione, e l'infallibilità di un Dio, tutte le altre proposizioni
particolari che la religione insegna, sono indipendenti dall'esame e dall'intervento
della ragione. E sebben questa, credendole, e regolando con esse le azioni e
la vita, opera ragionevolmente e conseguentemente, in vista di quelle proposizioni
generali, contuttociò, l'uso e l'esercizio suo resta scarsissimo nella
vita cristiana, limitandosi al solo fondamento, e al solo generale, il quale
esclude essenzialmente ogni operazion della ragione in tutti i particolari,
che sono il [433]più, e che formano e regolano la vita. Anche per questo
capo il Cristianesimo conduce l'uomo alla civiltà media, ingiungendo
l'inazione e l'acciecamento della ragione nella vita, sebbene essa ragione sia
la fonte di questa inazione ec. dipendente dalla persuasione attiva ch'ella
ha, delle proposizioni fondamentali.
(18. Dic. 1820.)
Alla p.398. Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum
suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum. (Gen.
3.22.) Dunque il ragionamento è chiaro. S'egli mangerà del frutto
dell'albero di vita, vivrà realmente in eterno: dunque avendo colto e
mangiato dell'albero della scienza, aveva realmente acquistato essa scienza.
E Dio non gliel'aveva tolta, perchè nello stesso modo gli poteva togliere
l'immortalità, se avesse mangiato dell'albero della vita. Ora egli tanto
non giudicava di togliergli quest'immortalità, nel caso che ne avesse
mangiato, che anzi perchè non ne mangiasse (non per il peccato, ma per
questo espresso motivo, secondo la chiarissima narrazione della Genesi) lo cacciò
dal paradiso, dov'era quell'albero di vita. Et emisit eum (segue immediatamente
[434]la Gen.) Dominus Deus de paradiso voluptatis... et collocavit ante paradisum
voluptatis Cherubim, et flammeum gladium atque versatilem, AD CUSTODIENDAM VIAM
LIGNI VITAE. (23.24.) Vengano adesso i teologi, e mi dicano che la corruzione
dell'uomo consistè nella ribellione della carne allo spirito, e nella
superiorità acquistata da quella, ossia nell'assoggettamento della parte
ragionevole e intellettiva. Ovvero che questo fu il proprio effetto della corruzione
e del peccato. È vero, e dico anch'io, che allora incominciò quella
nemicizia della ragione e della natura ch'io sempre predico, nemicizia che non
ha luogo negli altri viventi, provveduti per altro di raziocinio, e del principio
di cognizione. Ma questa nemicizia, questo squilibrio, questo contrasto di due
qualità divenute allora incompatibili, provenne e consistè nell'incremento
e preponderanza acquistata dalla ragione; e la degradazione dell'uomo non fu
quella della ragione nè della cognizione, nè l'offuscazione dell'intelletto.
Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l'uomo ebbe l'intelletto rischiaratissimo,
acquistò la scienza del bene e del male, e divenne effettivamente per
questa, quasi unus ex nobis, disse Iddio. [435]Tutto ciò lo dice la Scrittura
a lettere cubitali. Allora insomma la ragione dell'uomo cominciò a contraddire
alle sue 1. inclinazioni, 2. credenze primitive, cosa che per l'avanti non aveva
fatto; e questa fu una ribellione della ragione alla natura, o dello spirito
al corpo, non della natura alla ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate che il mio sistema è l'unico che possa dare alla narrazion
della Genesi, una spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile, spontanea,
anzi tale che non può esser diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo
come assurdo. E infatti secondo i teologi i quali considerano l'incremento della
ragione e sapere come un bene assoluto per l'uomo, e la parte ragionevole come
primaria in lui assolutamente ed essenzialmente (non accidentalmente, cioè
posta la corruzione); secondo i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi,
resta assurdissimo, giacchè pone l'incremento della ragione e l'acquisto
della scienza come effetto preciso e diretto del peccato. Laddove il mio sistema
che pone la perfezion vera ed essenziale dell'uomo, nel suo stato primitivo,
cioè in [436]quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatamente
dalle mani di Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della ragione e del
sapere, trova il senso letterale e incontrovertibile della Genesi, profondissimo,
e conforme alla più sublime ed ultima filosofia.
(19. Dic. 1820.)
Nella Genesi non si trova nulla in favore della pretesa scienza infusa in Adamo,
eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho detto p.394. fine.
Dio, dice la Genesi, adduxit ea (gli animali) ad Adam, ut videret quid vocaret
ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, (che forse è quanto
dire: omnis enim anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens)
ipsum est nomen eius. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia, et
universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae. (Gen. 2.19. et 20.) Questo
non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di
quelle qualità degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente
di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi, all'orecchio ec.: qualità
dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli oggetti sensibili
[437]nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico e quelle parole che formano
le radici degl'idiomi.
Del resto sostengo anch'io, anzi fa parte essenziale del mio sistema la proposizione
che Adamo ebbe una scienza infusa: ma in questo modo. Ogni essere capace di
scelta, anzi tale che non si può determinare all'azione (neppure a quella
necessaria per conservarsi, eccetto le azioni che chiamano hominis, se ce ne
ha veramente) e per conseguenza non può vivere, senza un atto elettivo
e definito della sua volontà, ha bisogno di credenze, cioè deve
credere che le cose siano buone o cattive, e che quella tal cosa sia buona o
cattiva, altrimenti la sua volontà non avrà motivo per determinarsi
ad abbracciarla o fuggirla, per decidersi a fare o non fare, all'affermativo
o al negativo. E l'uomo e l'animale in questa indifferenza diverrebbe necessariamente
come quell'asino delle scuole, di cui vedi p.381. Le piante e i sassi che non
si muovono da se, nè dipendono da se nell'azione e nella vita, non hanno
bisogno di credenze, ma l'animale che dipende da se nell'azione e nella vita,
ha bisogno di credere, giacchè non c'è altro motivo [438]nè
mobile, nè altra forza, (eccetto l'estrinseche) che lo possa determinare,
e definirne la scelta. Qualunque essere non è macchina, ha bisogno di
credenze per vivere. Dunque anche gli animali, se non sono purissime macchine:
dunque hanno anch'essi il principio di ragionamento, senza cui non v'è
credenza, perchè il credere non è altro che tirare una conseguenza.
Ma io dico credenze, non cognizioni. L'oggetto della cognizione è la
verità; l'oggetto della credenza è una proposizione credibile,
e dico credibile relativamente in tutto e per tutto alle qualità generali
o individuali, essenziali o accidentali dell'essere che crede, perchè
una cosa può esser credibile a una specie o genere, e non ad un'altra;
a un individuo di quella specie o genere, e non ad un altro; a questo medesimo
individuo oggi, e non domani.
La verità dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna sapere
quali determinazioni a credere siano atte a produrre una determinazione ad operare,
vantaggiosa (e questo veramente) all'essere pensante e vivente; e perciò
quali determinazioni a credere, o sia quali credenze, sieno atte a produrre
la sua felicità.
Io dunque dico che queste credenze determinanti l'uomo bene (cioè non
altro che convenientemente alla sua propria e particolare essenza), e perciò
conducenti [439]alla felicità, sono (come negli altri animali) le credenze
ingenite, primitive, e naturali.
In questo modo io sostengo che Adamo ebbe non una scienza propriamente, ma delle
credenze infuse: non la cognizione del vero, indifferente per lui, ma delle
opinioni credute veramente vere da lui, opinioni di credere il vero (senza di
che non v'è credenza), e opinioni veramente convenienti alla sua natura,
e alla sua felicità, e quindi conducenti alla perfezione. E Adamo ne
dovette avere necessariamente, come gli altri animali, perchè senza credenze
non c'è vita per quegli esseri che dipendono nell'operare dalla determinazione
della propria volontà, come ho dimostrato.
Queste credenze ingenite, primitive e naturali, non sono altro se non quello
che si chiama istinto, idee innate ec. Gli animali ne hanno: non si contrasta:
ma non perciò non son liberi: se non fossero liberi sarebbono macchine
pure: l'istinto non è altro che quello che ho detto, cioè credenze
ingenite. Queste non tolgono la libertà, perchè non fanno altro
che determinare la volontà, e non già forzare macchinalmente gli
organi: nello stesso modo [440]che una credenza qualunque, o ingenita o acquistata,
non toglie la libertà o la scelta all'uomo. Che il ragionamento necessario
per iscegliere sia determinato da principii naturali ed innati, o da principii
acquistati colla cognizione, da principii veri, o da principii falsi ma creduti
naturalmente veri; questo è indifferente alla libertà, com'è
indifferente alla felicità relativa che ne dipende, il vero o il falso
assoluto. E il ragionamento della scelta, è ragionamento nello stessissimo
modo, da qualunque principio parta. Sicchè i bruti hanno istinto e insieme
libertà piena. L'uomo dunque che aveva libertà piena, aveva ancora
ed ha tuttavia istinto. Considerate l'uomo naturale, il fanciullo ec. e vedrete
quante sieno le sue azioni determinate da principii ingeniti, sieno principii
di sola credenza, sieno anche di vera cognizione delle cose come sono. P.e.
il bambino, applicategli le labbra alla mammella, ne succhia il latte senza
maestro. Ma è cosa già osservata, e quanto naturale ad accadere,
tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai più, e tuttavia
degnissima d'esser sempre meglio osservata, che la forza dell'istinto, scema
in proporzione che crescono le altre forze determinatrici dell'uomo, cioè
la ragione e la cognizione; e così [441]in proporzione che l'uomo si
allontana dalla natura, per la società, l'alterazione o sostituzione
di altri mezzi a quelli che la natura ci aveva dato per gli stessi fini ec.
ec. E come l'uomo perde la felicità naturale, così pure, anzi
precedentemente, perde la forza attuale dell'istinto, e dei mezzi ingeniti di
ottener questa felicità. Perciò è un vero acciecamento
il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli bisogna
per esistere: l'uomo no: e dedurne ch'egli dunque ha bisogno di ammaestramento,
di società ec. insomma ch'egli esce imperfetto dalle mani della natura,
e conviene che si perfezioni da se. Anche l'uomo aveva naturalmente tutto il
necessario; se ora non sente più d'averlo, viene che l'ha perduto; ha
perduto la perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi.
Osserviamo l'uomo primitivo, il bambino, e proporzionatamente l'ignorante, e
vedremo quanto essi o sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano
di quello che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe servito
ai nostri bisogni veramente, ed era l'istrumento che ci conveniva, e che [442]la
natura ci avea posto in mano; e sebben falso in assoluto, era vero in relativo,
e pienamente sufficiente al suo fine, cioè insomma, alla nostra esistenza
perfetta secondo la nostra particolare essenza, e quindi alla nostra felicità.
Ma bisogna ben intendere che cosa siano queste credenze ingenite, o vero istinto,
e idee innate. Idee precisamente innate non esistono in alcun vivente, e sono
un sogno delle antiche scuole. La natura influisce sulle idee o credenze di
qualunque animale, non ponendoci identicamente e immediatamente quelle tali
idee e credenze, ma mediatamente, cioè disponendo l'animale, e l'ordine
delle cose relativo a lui, in tal maniera, che l'animale si determini naturalmente
a credere questo e non quello. Così che la credenza non è neppur
essa determinata primitivamente, non più della volontà, ma deve
anch'essa determinarsi prima di determinare la volontà. Ma come le azioni
o determinazioni della volontà sono naturali quando vengono da credenze
naturali, così le credenze o determinazioni dell'intelletto sono naturali,
quando sono conformi al modo in cui la natura avea disposto e provveduto che
l'intelletto si determinasse; cioè ai mezzi di credenza che [443]la natura
ci ha dati, come nelle credenze ci ha dato i mezzi di azione.
Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze, le più
primitive, le più necessarie all'azione la più vitale, e quindi
tutte le idee o credenze moventi del bambino appena nato, (e così d'ogni
altro animale): tutte le idee o credenze determinanti o non determinanti, cioè
relative o no all'azione, non vengono altro che dall'esperienza, e quindi non
sono se non tante conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di un'operazione
sillogistica, da una maggiore ec. (E qui osservate la necessità del raziocinio
ne' bruti.)
Questa esperienza che deve necessariamente formare la base o come chiamano,
le antecedenti del sillogismo, senza il qual sillogismo non v'è idea
nè credenza, può esser di due sorte. L'una è quella che
deriva dalle inclinazioni naturali, passioni affetti ec. tutte cose veramente
ingenite, e assolutamente primitive, sebbene molte di esse possano svilupparsi
più o meno, o nulla; possono alterarsi, corrompersi ec. L'uomo che sente
fame (quest'è un'esperienza) e si sente portato dalla natura al cibo
(questa non è idea, ma inclinazione), ne deduce che bisogna cibarsi,
che il cibo è cosa buona. Ecco la conseguenza, cioè la [444]credenza.
Dunque si determina e risolve a cibarsi. Ecco la determinazione della volontà
prodotta dalla previa determinazione dell'intelletto, ossia dalla credenza.
Segue il cibarsi, cioè l'azione, che deriva dalla volontà determinata
in quel modo.
L'altro genere di esperienza, è quello che appartiene ai sensi esterni.
E l'uno e l'altro genere di esperienza sono i soli fonti della cognizione in
atto (non in potenza); i soli fonti o del credere o del sapere. Qual conseguenza
poi si debba tirare da una data esperienza, questo è ciò ch'è
relativo, perchè l'uomo naturale, ne tira una; l'uomo sociale, istruito
ec. un'altra; quell'animale di diversa specie, un'altra: e via discorrendo.
E così son relative e si diversificano le credenze.
Sicchè la credenza è naturale, quando l'animale tira da quella
esperienza, quella conseguenza che la natura ha provveduto che ne tirasse, e
viceversa. E quindi l'azione che ne deriva è naturale, quando proviene
da una credenza naturale, ossia da una conseguenza tirata naturalmente, e viceversa.
E quindi la vita è naturale quando le azioni derivano da credenze naturali,
e viceversa. E quindi finalmente l'uomo è perfetto e felice come ogni
altro vivente, quando la sua vita si compone di azioni naturali, e viceversa.
[445]Non sono dunque precisamente innate nè le idee nè le credenze,
ma è innata nell'uomo la disposizione a determinarsi dietro quella tale
esperienza, inclinazione ec. a quella tal credenza o giudizio. E in questo senso
io nomino le idee innate e l'istinto. E così appunto avviene nei bruti,
i quali non hanno altre idee innate che in questo senso, e tuttavia generalmente
parlando, tutti gli animali della stessa specie, hanno le stesse credenze cioè
si determinano a credere nello stesso modo; e operando giusta tali credenze,
sono tutti perfetti e felici relativamente alla loro essenza. Tali credenze
pertanto sono effettivamente naturali, e figlie legittime della natura, sebbene
non partono immediatamente dalla sua mano. Ma quod est caussa caussae, est etiam
caussa caussati. Nello stesso modo che le azioni conformi a dette credenze,
sono naturali, sebbene eseguite immediatamente dall'individuo, e non dalla natura:
sebben libere, e non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da
credenze religiose, filosofiche ec. le quali tuttavia, senza esser forzate,
si chiamano e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446]L'uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando
a forza di esperienze di ogni genere, ch'egli non doveva fare, e che la natura
aveva provveduto che non facesse (perchè s'è mille volte osservato
ch'ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli alla cognizione
della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione
scambievole ec. la sua ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a
confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali,
sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le credenze, o
ch'elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si
altera lo stato naturale dell'uomo; le sue azioni non venendo più da
credenze naturali non sono più naturali; egli non ubbidisce più
alle sue primitive inclinazioni, perchè non giudica più di doverlo
fare, nè più ne cava la conseguenza naturale ec. E per tal modo
l'uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla sua propria
natura, diviene infelice. (L'uomo può essere anche infelice accidentalmente
per forze esterne, che gl'impediscano di conformar le azioni alle credenze,
cioè di far quello ch'egli giudica buono per lui, o non far quello ch'egli
giudica e crede [447]cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli
da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec. ec. ec. Quest'infelicità
non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco l'infelicità
antica.)
Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non
è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l'esperienza che n'è
la madre. Perchè anche le operazioni e tutta la vita dell'uomo naturale,
e degli altri viventi, è perfettamente ragionevole, giacchè deriva
da credenze tirate in forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei tali
dati. L'esperienza, crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente
le basi di questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette
conseguenze o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi
a credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire
quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi. Ma la ragione assolutamente
in se stessa, è innocente; ed ha la sua intera azione anche [448]nello
stato naturale; vale a dire, anche nello stato naturale l'uomo (e così
nè più nè meno il bruto) è conseguente, e si determina
a credere quello che gli par vero, per via di perfetto raziocinio; e si determina
ad abbracciare o fuggire quello che crede veramente buono o cattivo per lui,
rispetto alla sua natura generale e individuale, e alle sue circostanze di quel
tal momento in cui si determina.
Del resto, come l'indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni determinazione
dell'intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera per l'animale
libero, e dipendente dalla sua propria determinazione; così anche appresso
a poco il dubbio, ch'è quasi tutt'uno col detto stato. Così anche
sarà cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi
(riferite a questo capo l'angoscia e il tormento dell'irresoluzione): e quindi
lo stato dell'uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà
maggior facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue
l'operare); cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto
maggior forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere. (s'intende
già che la credenza sia buona per lui, perchè la supposizione
contraria [449]è fuor del caso). Ora è cosa dimostrata dalla continua
esperienza, che l'uomo si determina al credere, tanto più facilmente,
prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo stato naturale,
come appunto accade negli animali, che non hanno nè difficoltà
nè lentezza nè dubbio intorno alle loro idee o credenze, innate
nel senso detto di sopra. E così il fanciullo, l'ignorante, ec. E per
lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè
quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si prova
alla determinazione dell'intelletto, e tanto minor forza, ossia certezza, ha
questa determinazione o credenza. Così che la certezza degli uomini nel
credere (e quindi la determinazione e forza nell'operare, ch'è in ragion
diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere.
Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell'antico sapiente. E questa
è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta,
la perfezione della sapienza. Laddove il fanciullo e l'ignorante, si può
dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo
tutto quello che crede. E questa è la sommità dell'ignoranza.
(Onde credendo quello ch'è conforme alla natura, e credendolo in questo
modo, ne viene a esser felice e [450]perfetto.) In maniera che, dove alla determinazione
dell'uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la
credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo,
viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione. E in
vece che l'ignoranza, tal qual è in natura, (non l'assoluta, cioè
la negazione di ogni credenza, o determinazione dell'intelletto, che in natura
non si dà) conduca l'uomo o l'animale all'indifferenza, come pretendono;
ve lo conduce anzi il sapere (e l'eterna esperienza lo prova). E l'uomo tanto
meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina,
quanto più sa. Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore
è il sapere. E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile
coll'ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll'ignoranza
che col sapere.
Se poi ancora dubitaste di quello ch'io dico, cioè che in Adamo fu primitivamente
infusa la credenza come negli altri animali, e non la scienza propria; basta
che osserviate quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato egli acquistò
la scienza del bene e del male. La scienza del bene e del male, non è
altro che la cognizione assoluta, [451]la credenza vera non più relativamente
ma assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone o cattive,
non relativamente all'uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la cognizione
della realtà, della verità assoluta che per se stessa è
indifferente all'uomo, e nociva quando il conoscerla è contrario alla
natura del conoscente. Se dunque Adamo l'acquistò dopo il peccato, non
l'aveva per l'avanti. In fatti la Scrittura dice espressamente che non l'aveva,
e il serpente persuase alla donna di peccare per acquistarla. Questo è
un argomento vittorioso, ultimo, e decisivo. Come poteva essere infusa primitivamente
la scienza in Adamo, se dopo e mediante il peccato egli acquistò la scienza
del bene e del male? E qual fosse l'effetto di questa precisa scienza, vedilo
p.446-447.
(22. Dic. 1820.)
È cosa mille volte osservata che gl'individui naturalmente son portati
a misurar gli altri individui da se stessi, cioè a creder vero assolutamente
quello ch'è vero soltanto relativamente a loro. Anzi naturalmente, l'individuo
appena può concepire formalmente un altro individuo di diverso carattere,
indole, pensare, fare ec. Al più concepirà che questo sia, perchè
lo vede, ma non il come sia, non la espressa e definita costituzione di quell'individuo,
diversa dalla sua. Neanche nelle menome e accidentali differenze, e quotidiane
e usuali. Se dunque gl'individui, quanto più naturalmente le specie e
i generi, rispetto alle altre specie e generi! se dunque le specie e i generi
di uno stess'ordine di cose, quanto più tutto quest'ordine di cose complessivamente,
rispetto a un altr'ordine, o esistente o possibile! [452]Ella è cosa
certa e incontrastabile. La verità, che una cosa sia buona, che un'altra
sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti,
e non sono altro che relativi. Quest'è una fonte immensa di errori e
volgari e filosofici. Quest'è un'osservazione vastissima che distrugge
infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni
e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale,
e appartenente ai loro rapporti. Non v'è quasi altra verità assoluta
se non che Tutto è relativo. Questa dev'esser la base di tutta la metafisica.
(22. Dic. 1820.)
In proposito della pretesa legge naturale, come in natura non esista idea nè
legge di contratto, e come non ci possa assolutamente esser contratto obbligatorio
in natura, ancorchè fatto realmente, e con tutta la possibile perfezione,
vedilo nell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, una
ventina di pagg. dopo il principio del Capo X.
(22. Dic. 1820.)
Tanto è vero che lo straordinario è fonte di [453]grazia, che
gli uomini malvagi, purchè la loro malvagità abbia un carattere
deciso, aperto, franco, coraggioso, sia una malvagità schietta forte
e costante, non timida, indecisa, nascosta, variabile ec. come quella di tutti:
questi tali fanno per lo più fortuna colle donne a preferenza dei buoni.
Non già solamente perchè i malvagi sono più furbi dei buoni,
ma propriamente per questo che sono malvagi, e perchè quel non so che
di coraggioso, di fiero ec. insomma di straordinario che ha quella tale malvagità,
picca e piace, e rende amabile. Così che lo stesso odioso diventa amabile,
perciò appunto ch'essendo decisamente odioso, viene a essere straordinario.
(22. Dic. 1820.)
Clarissimum deinde omnium ludicrum certamen, et ad excitandam (alii legunt exercitandum,
sed non probatur) corporis animique virtutem efficacissimum, Olympiorum, initium
habuit. Velleius hist. rom. l.1. c.8.
(22 Dic. 1820.)
Quale idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell'infelicità)
dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto
ciò paresse loro solido e reale, [454]si può arguire anche da
questo, che delle grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi
gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era lor cura in
tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna,
e (se ben mi ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per
dare soddisfazione agli Dei, e mitigare l'invidia loro. Deos immortales precatus
est, ut, si quis eorum invideret OPERIBUS ac fortunae suae, in ipsum potius
saevirent, quam in remp. Velleio l.1. c.10. di Paolo Emilio. E così avvenne
essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro
3 giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum. V. pure Dionigi Alicarnasseo
l.12 c.20. e 23. ediz. di Milano, e la nota del Mai al c.20. V. ancora questi
pensieri p.197. fine. Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre,
che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i
nostri, mettevano i Dei in comunione della nostra vita e de' nostri beni, e
quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i
nostri simili, [455]non dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali.
(23. Dic. 1820.). V. p.494. capoverso 1.
Come in quei popoli che non conoscono o non pregiano oro nè argento,
il più ricco de' nostri, profondendo danaio, non sarebbe in onore, anzi
se non avesse altro mezzo per esser pregiato, sarebbe posposto all'infimo di
quella gente, e per danari non otterrebbe neanche il necessario; così
dove l'ingegno o lo spirito non è in pregio, o non si sa valutare, l'uomo
il più ingegnoso, il più spiritoso, il più grande, se non
avrà altre doti, sarà dispregiato, e posposto agli ultimi. Così
s'egli avrà un certo ingegno o un certo spirito, che in quel paese non
si pregi. Così relativamente ai tempi. In ciascun luogo e in ciascun
tempo, bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa,
è povero, per molto ch'egli sia ricco d'altra moneta.
(23. Dic. 1820.).
Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur
Roma triumphati dum caput orbis erit.
Ovid. Amorum l.1.
Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,
Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
[456]Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum
Adcolet, imperiumque pater Romanus habebit.
Virg. Aen. IX. 446.
sque ego postera
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex.
Hor. Carm. III. od.30. v.7.
Roma non è più la Regina del mondo, nè il padre Romano
tiene le redini dell'imperio, nè il pontefice ascende più al Campidoglio
colla Vestale, e questo da lunghissimo tempo; e tuttavia si leggono ancora i
versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non son caduti dalla memoria degli uomini,
e dura la fama di Orazio. La fortuna giuoca nel mondo, e certo questi poeti
non s'immaginavano che il tempo dovesse penar più a distruggere i versi
loro, che l'immenso e saldissimo imperio Romano, opera di tanti secoli. Ma quelle
carte sono sopravvissute a quella gran mole, per mero giuoco della fortuna la
quale ha distrutte infinite altre opere degli antichi ingegni, e conservate
queste oltre allo spazio segnato dalla stessa speranza, dallo stesso amor proprio,
dalla stessa forza immaginativa de' loro autori.
(23. Dic. 1820.)
[457]Quanto sia vero che l'amore universale distruggendo l'amor patrio non gli
sostituisce verun'altra passione attiva, e che quanto più l'amor di corpo
guadagna in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia, si può
considerare anche da questo, che i primi sintomi della malattia mortale che
distrusse la libertà e quindi la grandezza di Roma, furono contemporanei
alla cittadinanza data all'Italia dopo la guerra sociale, e alla gran diffusione
delle colonie spedite per la prima volta fuori d'Italia per legge di Gracco
o di Druso, 30 anni circa dopo l'affare di C. Gracco, e 40 circa dopo quello
di Tiberio Gracco, del quale dice Velleio, (II. 3.) Hoc initium in urbe Roma
civilis sanguinis, gladiorumque impunitatis fuit. col resto, dove viene a considerarlo
come il principio del guasto e della decadenza di Roma. Vedilo l.2. c.2. c.6.
c.8. init. et c.15. et l.1. c.15. fine. colle note Varior. Le quali colonie
portando con se la cittadinanza Romana, diffondevano Roma per tutta l'Italia,
e poi per tutto l'impero. V. in particolare Montesquieu, Grandeur etc. ch.9.
p.99-101. e quivi le note. Ainsi Rome n'étoit pas proprement une Monarchie
[458]ou une République, mais la tête d'un corps formé par
tous les peuples du monde... Les peuples... ne faisoient un corps que par une
obéissance commune; et sans être compatriotes, ils étoient
tous Romains. (ch.6. fin. p.80. dove però egli parla sotto un altro rapporto.)
Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini;
e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò nè
Roma nè il mondo: l'amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne
indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non
fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il
mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
(24. Dic. 1820.)
Quanta parte abbia nell'uomo il timore più della speranza si deduce anche
da questo, che la stessa speranza è madre di timore, tanto che gli animi
meno inclinati a temere, e più forti, sono resi timidi dalla speranza,
massime s'ella è notabile. E l'uomo non può quasi sperare senza
temere, e tanto più quanto la speranza è maggiore. Chi spera teme,
e il disperato non teme nulla. Ma viceversa la speranza non [459]deriva dal
timore, benchè chi teme speri sempre che il soggetto del suo timore non
si verifichi.
(26. Dic. 1820.)
Osservate che la passione direttamente opposta al timore, è la speranza.
E nondimeno ella non può sussistere senza produrre il suo contrario.
Le Filippiche di Cicerone, contengono l'ultima voce romana, sono l'ultimo monumento
della libertà antica, le ultime carte dov'ella sia difesa e predicata
apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D'allora in poi la libertà
non fu più l'oggetto di culto pubblico, nè delle lodi, e insinuazioni
degli scrittori (non solo romani, ma quasi possiamo dire di qualunque nazione,
se non de' francesi ultimamente. E infatti colla libertà romana spirò
per sempre la libertà delle nazioni civilizzate.) Quelli che vennero
dopo, la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono
nel presente come un male. I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie,
nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori.
Si alzarono statue e monumenti agli antichi liberali, si citarono, condannarono
e proscrissero i moderni. L'elogio della libertà, per una strana contraddizione,
fu permesso ne' discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo.
Passato quel termine, gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei,
quello che hanno divinizzato, [460]e divinizzano allo stesso tempo, negli antenati.
Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli antichi fatti,
libertà ec. esecratore degli antichi nemici della libertà, e de'
moderni amici; lodatore di Nasica ed Opimio uccisori di Tiberio e Caio Gracchi,
(uomini per altro, secondo lui, egregi anzi sommi, se non in quanto attentarono
alla libertà) ed esecratore della congiura contro Cesare ec. Perchè
appena egli arriva a costui, si cambia scena manifestamente e tutto a un tratto,
e il suo linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene abbiettissimo e
servilissimo nel seguito. Ed è tanto improvvisa e sensibile questa mutazione,
ch'egli è anche gran panegirista di Pompeo l'immediato antagonista di
Cesare: e di Pompeo repubblicano, perchè lo biasima dovunque egli manca
ai doveri verso una patria libera.
(27. Dic. 1820.). V. p.463. capov.1.
Quelle rare volte ch'io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza,
in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia,
quanto all'esterno, sebbene l'interno fosse contento. Ma quel contento placido
e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo, e perderlo [461]col
dargli vento. E dava il mio contento in custodia alla malinconia.
(27. Dic. 1820.)
Alla p.8. capoverso 1 e p.10. fine. Non solamente nelle azioni naturali, o manuali,
insomma materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l'abbandono
o la confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura,
attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca. Se tu non
hai nulla da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo. E acquisterai
facilmente il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare:
o in proporzione. E viceversa. Che se ti troverai in un luogo, occasione ec.
dove ti prema assai di figurare, probabilmente sfigurerai. E se parlando con
una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non
perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla.
La qual cosa succede massimamente nell'amore, o anche nella galanteria, che
cercando di conservare, si perde quella stima e quell'amore di una persona che
si è guadagnato senza cercarlo. Così discorrete di cento altri
generi di cose. La natura insomma è la sola potente, e l'arte non solo
non l'aiuta, ma spesso la lega; e lasciando [462]fare si ottiene quello che
non si può ottenere volendo fare. La noncuranza dell'esito, e la sicurezza
di riuscire è il più sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa
cura, e il troppo timore di non riuscire, è cagione del contrario. Nè
si può nelle cose umane acquistar facilmente questa sicurezza, e schivar
questo timore, senza una certa noncuranza, o senza esser preparato in alterutram
partem. E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e niente
da perdere nè da conservare, riescono meglio degli altri nella vita.
Nè c'è un disperato così povero e impotente che non sia
buono a qualche cosa nel mondo, da che è disperato. E questo è
il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces fortuna iuvat.
(28. Dic. 1820.).
Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o
il poeta fra i sommi, porrà certo l'uomo fra i primi, e forse nel primo
luogo del suo tempo.
Quanto a, preposizione italiana, usata anche in latino da Tacito, come ho detto
in altro pensiero, deriva intieramente dal greco: ???? ????, ???? ??? ???? ec.
si dice nello stesso significato, e negli stessi casi.
[463]Alla p.460. Se non altro non si potè più nè lodare
nè insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente,
e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo
al presente o al moderno. Quando anche non tutti si macchiassero della vile
adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia,
e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli troverete
che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria.
Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più
de' tiranni presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani. Il più
libero è Lucano.
(28. Dic. 1820.)
L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di ciascuno. Perchè quando
nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri tutto per te solo. E quando
gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non badano al danno
tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri
tutto quello che puoi. Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non
devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il
commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se
tu cedi un passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno
per se con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno [464]contrasti agli
altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto il potere:
essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se ne deve
seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere. E l'azione essendo eccessiva,
dev'esserlo anche la reazione. E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra
dee crescere necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno
a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non
quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse
alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse
tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno
forza avesse adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è
perduto, posto il sistema dell'egoismo universale. Anche per altra parte, questo
egoismo cagiona l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma
pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità,
anzi nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia
che ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro vantaggio,
non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o no. [465]La
qual cosa cambia il carattere delle persone, e introduce non solo materialmente,
ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi più ben fatti. Anzi principalmente
in questi, perchè l'egoismo non vi entra come passione bassa e vile,
ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de'
malvagi e degl'ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris
viri esse, merito perire: diceva Ottone Imp. appresso Tacito Hist. l.1. c.21.
(2. Gen. 1821.). V. p.607. fine.
Velleio II. 76. sect.3. Adventus deinde in Italiam Antonii, praeparatusque (cioè
apparatusque substantive) Caesaris contra eum, habuit belli metum: sed pax contra
Brundisium composita. Che vuol dire contra Brundisium? Gl'interpreti si storcono,
e chi legge circa, chi difende la volgata. Leggete: sed pax contra Brundisii
composita. Contra è avverbio. Si temeva la guerra, ma all'incontro fu
fatta la pace a Brindisi. V. però gl'istorici, e le edizioni di Velleio,
posteriori a quella del Burmanno seconda e postuma, Lugd. Bat. 1744. ap. Sam.
Luchtmans.
(2. Gen. 1821.). Post Brundisinam pacem. Vel. II. 86. sect.3.
[466]Sopra ogni dolore d'ogni sventura si può riposare, fuorchè
sopra il pentimento. Nel pentimento non c'è riposo nè pace, e
perciò è la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie,
come ho detto in altri pensieri.
(2. Gen. 1821.). V. p.476. capoverso 1.
È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo però gli
antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte non premise
nessun preambolo alla ??????????????, sebbene dal secondo libro in poi, premetta
libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto
brevissimo delle cose dette prima. Vedi il Laerz. in Xenoph. Luciano, de scribenda
histor. ec. E Luciano dice che molti per imitarlo non ponevano alcun proemio
alle loro istorie. Ed aggiunge, ???????????????????????(potentiâ) ????????????????????????????????????????.
Io qui non vedo maraviglia nessuna. Esaminate bene quell'opera: non è
una storia, ma un Diario o Giornale (si può dire, e per la massima parte
militare) di quella Spedizione. Infatti procede giorno per giorno, segnando
le marce, contando le parasanghe ec. ec. infatti l'opera si chiude con una lista
effettiva o somma dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec. lista indipendente
dal resto, per la sintassi. E di queste enumerazioni ne [467]sono sparse per
tutta l'opera. Non doveva dunque avere un proemio, non essendo propriamente
in forma d'opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali.
Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare?
Il quale comincia i suoi Commentari de bello G. e C. ex abrupto, appunto come
Senofonte. E questo perchè non erano Storia ma commentari. Nè
pone alcun preambolo a nessuno de' libri in cui sono divisi. Così Irzio.
Eccetto una specie di avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib.8.
de b. G. (il quale era necessario non per l'opera in se, ma per la circostanza,
ch'egli n'era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b.
Alexandrino, nè quello de b. Africano, nè quello d'autore incerto
de b. Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia. Da
queste osservazioni deducete 1. un'altra prova che Senofonte è il vero
autore della K. A. non Temistogene ec. trattandosi di un giornale, che non poteva
essere scritto o almeno abbozzato se non in praesentia, e dallo stesso Generale
(come i commentarii di Cesare), o almeno da qualche suo intimo confidente. Questa
proprietà, di essere cioè scritta da un testimonio di [468]vista,
anzi dal principale attore e centro degli avvenimenti non è comune a
nessun'altra opera storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè
ai commentarii di Cesare. Perciò ella è singolarmente preziosa
anche per questo capo, e propria più delle altre a darci la vera idea
de' costumi, pensieri, natura degli antichi, e de' loro fatti; come le lettere
di Cicerone in altro genere di scrittura, sono la più recondita e intima
sorgente della storia di quei tempi. V. p.519. capoverso 2.
2. Che poco saggiamente Arriano volle scrivere l'???????????(?(??????(in 7.
libri perchè 7. son quelli di Senofonte) a imitazione della detta opera.
Perch'egli non poteva scrivere, nè scrisse, nè intese o pensò
di scrivere un giornale. Quindi le due opere sono essenzialmente di diverso
genere, cioè l'una un diario, l'altra una storia. Meno male Onesicrito,
in quello che scrisse d'Alessandro a imitazione pure di Senofonte. Perch'egli
fu compagno di Alessandro nella sua spedizione, come Senofonte di Ciro. V. il
Laerz. l.6. in Onesicrito. Del resto, se la storia ?????????? di Senofonte non
ha proemio, ciò viene perch'era destinata a continuare e far tutto un
corpo con quella di Tucidide. Infatti gli antichi notando la mancanza del proemio
nella K. A. non parlano di quest'altra. [469]E v. le ultime parole ??? ?????????
e Dionigi Alicarnasseo nelle testimonianze de Xenophonte.
È osservabile che Senofonte in quest'altra opera riesce minor di se stesso,
perchè si sforza d'imitar Tucidide, e ciò servilmente, volendo
che il suo stile non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero
tutt'una. E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi l'opposto
di quello ch'era proprio di Senofonte. Infatti chi ha un poco di criterio, può
facilmente notare nei libri ??? ?????????. una brevità forzata, una differenza
sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee, uno studio impotente di
esser efficace, rapido, forte ec. Cosa contraria all'indole di Senofonte: e
v. Cicerone nei testimoni de Xenophonte ec. e Dionigi Alicarnasseo parimente
nelle testimonianze de Xenophonte. Anzi nelle stesse frasi, parole, modi, insomma
nell'esterno e materiale dello stile, Senofonte abbandona spesso il suo costume
per seguir quello di Tucidide, così che anche l'esteriore dello stile
riesce alquanto nuovo a chi ha l'orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte.
Fino nell'ortografia, Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro
quello che suole nelle altre [470]opere) ??? per ???, e così nei composti
dov'entra questa preposizione: consuetudine ch'io credo familiare a Tucidide.
(2. Gen. 1821.)
Quello che si è detto di sopra intorno ai proemi particolari di ciascun
libro K. A. eccetto il primo, non è vero nel 6to... il quale non ha proemio
nessuno. Se non che il capo 3. cominciando con un breve epilogo, ho creduto
lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto
cominciasse col 3zo capo. E però vero che il detto epilogo non rinchiude
se non le cose dette ne' due capi antecedenti, e non tutto il detto nella parte
superiore dell'opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi libri.
(3. Gen. 1821.)
La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la sola natura è
grande, e fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si
accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non
è grande. Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia,
belle arti ec. nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi
ec. Un uomo perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è
mai perfetto. [471]L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni
eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno);
tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno perfetti,
quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi.
(3. Gen. 1821.)
Venga un filosofo, e mi dica. Se ora si trovassero le ossa o le ceneri di Omero
o di Virgilio ec. il sepolcro ec. quelle ceneri che merito avrebbero realmente,
e secondo la secca ragione? Che cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù,
della gloria ec. di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl'inganni, a che servirebbero?
Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno, le dispergesse
e perdesse, o profanasse disprezzasse ec. che torto avrebbe in realtà?
anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque meriterebbe
il biasimo, l'esecrazione degli uomini civili? E pur quella si chiamerebbe barbarie.
Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell'uomo sociale
e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste essenzialmente negli
errori e nelle illusioni? Lo stesso [472]dite generalmente della cura de' cadaveri,
dell'onore de' sepolcri ec.
(3. Gen. 1821.)
Velleio II. 98. sect.2. Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque
ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc expugnationibus, in
pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae securitatem, Macedoniae
pacem reddidit. Eiusque patratione a che si riporta? Spiegano eiusque pacis
Patratione (così l'indice Velleiano). Ottimamente: fatta la pace, o con
quella PACE, rendè LA PACE alla Macedonia. Leggo: eiusque belli patratione,
(4. Gen. 1821.), ovvero eiusque patratione belli. V. p.477. capoverso 2.
Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l'immaginativa
è capace dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito,
e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l'anima
non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità,
e confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè concepisce
effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più
vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente
espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio
insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua
[473]immaginazione, o concezione o idea. La quale perciò, sebbene la
riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile
in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa,
e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce
o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non
aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere
di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà,
non essendo colpevole.
(4. Gen. 1821.)
Velleio II. 90. sect.4. ut quae maximis bellis numquam vacaverant, eae sub C.
Antistio, ac deinde P. Silio legato, ceterisque, postea etiam latrociniis vacarent.
Leggo, ceterisque postea, etiam etc. Parla delle Spagne.
Velleio II. 102. sect.2. Mox in conloquium (cui se temere crediderat) circa
Artageram graviter a quodam, nomine Adduo vulneratus. Come non si ha da correggere:
in conloquio?
Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l'animo, e in genere come lo stato
dell'animo corrisponda a quello del corpo, v. alcune sentenze degli antichi
nella nota del Grutero a Velleio II. 102. sect.2.
[474]Di un francese di nazione o di costume, ch'a ogni tratto si buttava in
ginocchio avanti alle donne. Se raccontava loro, poniamo caso, una storietta
galante, o una nuova di gazzetta, e quelle non ci credevano, per dimostrazione,
per supplicarle a credere, come per impetrar fede o credenza, si buttava in
ginocchio.
(5. Gen. 1821.)
Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio nel tracciare, come suole, i caratteri
delle persone illustri che descrive, trovate spessissimo che dopo aver detto
come quel tale era pazientissimo de' travagli e de' pericoli, attivo nei negozi,
vigilante al bisogno, atto alla guerra, o ai maneggi politici, soggiunge poi,
che nell'ozio era molle ed effeminato, o almeno si compiaceva anche dell'ozio,
e dei diletti pacifici, e insomma delle frivolezze, e che tanto era pigro e
voluttuoso nell'ozio, quanto laborioso diligente e tollerante nel negozio. V.
il libro II. c.88. sect.2. c.98. sect.3. c.102. sect.3. c.105. sect.3. Dappertutto
fa menzione dell'ozio, e sempre li trova inclinati anche a questo e non poco,
sebbene sieno gli uomini più attivi di quel secolo. Cosa ignota agli
antichi Eroi romani, i quali nell'ozio non trovavano nè potevano trovare
nessun piacere. E infatti questo lineamento [475]nei ritratti sbozzati da Velleio
non si trova prima del detto tempo che fu l'epoca della decisa e sviluppata
corruzione de' Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo
proposito. (Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all'ozio,
1.13. sect.3. ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti dell'incivilimento
e della corruzione. Notate quanto ella porti per sua natura all'inazione, all'ozio,
e alla pigrizia: che anche gli uomini più splendidi e attivi, in questa
condizione della società, inclinano naturalmente all'inazione. La causa
è il piacere che nell'antico stato di Roma non si poteva trovar nell'ozio,
e perciò l'uomo desiderando il piacere e la vita si dava necessariamente
all'azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o mediocremente
incivilite. La causa è pure l'egoismo, per cui l'uomo non si vuole scomodare
a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto giova a se stesso.
La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di grandezza
di virtù di eroismo, ec. tolte le quali idee, deve sottentrar quella
di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del presente. La causa [476]per
ultimo nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle
illusioni, ma del principio di esse, non solo della vita dell'animo, ma della
vita delle cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino
queste illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi
o importanti, e di essere o considerarsi come importante; la nullità,
o piccolezza, e ristretta esistenza del suddito ancorchè innalzato a
posti sublimi. Del resto paragonate questo tratto del carattere Romano a quei
tempi, col carattere francese oggidì, nazione snervata dall'eccessiva
civiltà, col carattere de' loro uomini più insigni per l'azione;
e ci troverete un'evidente conformità.
(5. Gen. 1821). V. p.620. fine. e 629. capoverso 1.
Alla p.466. pensiero 1. Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui fortunam
mutaturus Deus, (Voss. leg. cui fortunam. al. delent ?? qui, et melius) consilia
corrumpat, efficiatq., QUOD MISERRIMUM EST, ut quod accidit, etiam merito accidisse
videatur, et casus in culpam transeat. Velleio II. 118. sect.4.
(6. Gen. 1821.)
Non punir mai l'ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita quella
che hai meritata. [477]Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore.
Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia
a ragione.
(7. Gen. 1821.)
Alla p.375. principio. In questo proposito, la differenza o dell'ingegno o del
giudizio, si può vedere in Livio, il quale è il poeta della storia,
poeta vero e grande, e degno di servir di studio e di maestro ai poeti; e nondimeno
è il modello splendidissimo della più perfetta prosa. Laddove
costoro, e pessimi prosatori, (7. Gen. 1821.) e non perciò migliori poeti
ordinariamente. V. p.526. capoverso 1.
Alla p.472. Tanto più che quella guerra, come consistente in domar popoli
affatto barbari, non pare che fosse finita con trattato, nè con altri
mezzi artifiziali, ma solamente con quel semplice fine che deriva dalla forza.
V. Floro IV. 12. sect.17. e Dione LIV. 34. p.764-765. dove nella nota 316. citandosi
questo passo di Velleio, pare che si sia letto appunto nel modo ch'io suggerisco.
(8. Gen. 1821.)
Velleio I. 2. sect.2. di Codro: Immixtusque castris hostium, de industria, imprudenter,
rixam ciens, [478]interemptus est. È vero che, secondo la storia o la
favola, Codro fu ucciso imprudenter, cioè senza sapere ch'egli fosse
il Re degli Ateniesi e v. il passo di Val. Mas. citato nelle note a questo luogo.
Ma che razza di costruzione è questa? De industria si riferisce al rixam
ciens che vien dopo l'imprudenter; l'imprudenter all'interemptus est che vien
dopo il rixam ciens. Chi traspone e legge, de ind. rix. ciens, impr. inter.
est. Chi emenda oltracciò, de ind., ab imprudente, rix. ciens, inter.
est. A me pare che il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile,
togliendo la virgola dopo de industria e dopo imprudenter, e trasportandola
dopo hostium. Giacchè il de industria, non ha nè deve aver niente
che fare coll'immixtusq. castris host. il che già s'intende ch'era fatto
de industria; ma solo col rixam ciens. Ma ille imprudenter? grida il Lipsio.
Signor sì, de industria imprudenter, con istudiata imprudenza, pensatamente
incauto. Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli Velleiani. Imprudenter
per imprudentemente, incaute, improvide si usa benissimo da ottimi scrittori.
(come imprudens, imprudentia, e così prudenter ec.) Il Forcellini cita
Terenzio, [479]Nepote, Cesare.
(8. Gen. 1821.)
Il veder morire una persona amata, è molto meno lacerante che il vederla
deperire e trasformarsi nel corpo e nell'animo da malattia (o anche da altra
cagione). Perchè? Perchè nel primo caso le illusioni restano,
nel secondo svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva
forza. La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual'era e così
amabile come prima, nella nostra immaginazione. Ma nell'altro caso, la persona
amata si perde
affatto, sottentra un'altra persona, e quella di prima, quella persona amabile
e cara, non può più sussistere neanche per nessuna forza d'illusione,
perchè la presenza della realtà, e di quella stessa persona trasformata
per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi ec. ec. ci disinganna violentemente,
e crudelmente: e la perdita dell'oggetto amato non è risarcita neppur
dall'immaginazione. Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso
eccesso del dolore, come nel caso di morte. Ma questa perdita è tale,
che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna
maniera. [480]Da ogni lato ella presenta acerbissime punte.
(8. Gen. 1821.)
Che il nostro pensare non sia altro che il pensare latino, perduto il significato
proprio, e conservato il metaforico di ponderare col pensiero, come appunto
il ponderare latino e italiano oggidì non ritiene se non la significazione
traslata di considerare o meditare; e come gli antichi latini adoperassero veramente
il loro pensare in maniera similissima alla presente italiana, vedilo in una
nota dell'Heinsio a Velleio II. 129. sect.2. Consulta ancora il Forcellini,
e l'Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i francesi lo sogliamo adoperare frequentemente:
è naturale che questo succeda; il est bien naturel ec. si adoperava anche
in latino, sebbene i Lessicografi non l'abbiano osservato (nè il Forcellini,
nè l'Appendice). Asconio in Orat. contra L. Pison. Argumento: Sed ut
ego ab eo dissentiam, facit primum, quod Piso etc. deinde, quod magis NATURALE
est, ut in ipso recenti reditu invectus sit in Ciceronem (Piso), responderitque
insectationi eius, qua revocatus erat ex provincia, quam [481](in altra edizione
trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o magis quam, nel qual significato
prius quam si trova in ottimi esempi appresso il Forcellini: e notate anche
qui la somiglianza coll'italiano prima che, avanti innanzi anzi che, per piuttosto
che; e similmente più presto che ec.) post anni intervallum. Questo esempio
è veramente notabile e forse unico ne' buoni scrittori. V. però
la nota del Burmanno alle prime parole della sezione 4. del capo 128. lib. II.
di Velleio, dove peraltro ?????????????????????.
(9. Gen. 1821.)
Quanta sia la forza d'immaginazione nei fanciulli, e com'ella sia tale che le
concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche
nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa.
Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un certo tipo
di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità
delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato
quei tali nomi. Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde
alle circostanze particolari di quelle persone relativamente [482]a noi, alle
nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un'altra persona
diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito
di quella persona un'idea conforme al detto tipo. E il nome può essere
elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato
da noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell'altra
bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo
una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere
quel soggetto diverso da quel tipo e da quell'idea ec. Così viceversa
e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche
da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo
tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti,
e proporzionatamente alla forza dell'impressione ricevuta da fanciulli, e dell'immagine
concepita. Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e
secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo una certa
ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa possa appartenere [483]ad una
giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver
questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione
e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E ordinariamente l'idea
che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome,
non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità
proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome,
conosciute o trattate da noi nella prima età. Anche però viceversa
potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal
nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute
solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce
il nome, col suono materiale, o col significato che può avere, o con
certe relazioni con altre idee. E questo ci avviene ancora da grandi, sia per
conseguenza dell'idea concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente:
perchè è certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome
di persona a noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci [484]formiamo
una tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di quella persona.
Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze;
ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene per lo più
falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall'indifferenza), secondo
questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a un certo genio o contraggenio
verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome.
(10. Gen. 1821.)
Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della
vita, laddove si legge di molti moderni, e v. il Suicidio ragionato di Buonafede.
Nè perchè questo accade oggidì massimamente in Inghilterra,
si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che
ne rimanga memoria. Dai poemi di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori
di quel paese fossero lontani dal concepire la nullità e noia necessaria
della vita assolutamente; e molto più dal disperarsi e uccidersi per
questo. Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni
[485]nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie
assolutamente all'uomo, ma come proprie dell'individuo, perciò disgraziato
e infelice, e disperantesi. La disperazione e scoraggimento della vita in genere,
l'odio della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmente
infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità
e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l'idea che la vita
nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai
entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti questi ultimi
secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l'opinione
e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire
e godere quei beni ch'essi stimavano ch'esistessero.
(10. Gen. 1821.)
[486]Il desiderio di mettere gli altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli
o dispiacevoli come ho detto in altri pensieri) si può notare massimamente,
ed ha tanto maggior forza quanto ciascun individuo è più vicino
alla natura. I fanciulli non lo possono frenare in nessun modo, tanto che per
amore, per preghiere, o per forza d'importunità, [487]non communichino
ai circostanti, o a quelli ch'essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei
dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro alquanto straordinarie,
che hanno sperimentato o sperimentano; come udendo una buona o cattiva musica,
o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca: vedendo qualunque oggetto
che faccia loro impressione ec. e tanto in bene quanto in male. Gli uomini poi
più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il volgo, non si può
tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino, vedi vedi, senti senti.
E questa esclamazione è così naturale che anche in una gran moltitudine
presente allo stesso spettacolo ec. tutti o moltissimi esclameranno lo stesso,
senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o anche curarsi precisamente
di farsi udire da questo o da quello. Ma nessuno si può tenere dall'esclamare
in quel modo, dando evidente indizio della inclinazione naturale che li porta
al desiderio e voglia di partecipare. E osservate che questa esclamazione si
pronunzia bene spesso anche [488]nella solitudine e senza nessuno uditore, quando
l'uomo provi simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti
quando anche non c'è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così
in tutti i modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere
soddisfatta realmente. E sebben questo accade tanto più, quanto l'individuo
tiene del primitivo, e tanto più frequentemente, quanto più spesso
egli è suscettibile di maravigliarsi, o di provar sensazioni forti e
vive; contuttociò è frequentissimo anche negli uomini più
colti ec. e basterebbe fare attenzione per vedere quanto spesso ci avvenga nella
giornata senza che noi ce ne accorgiamo. Ci avvenga, dico, o in solitudine e
fra noi stessi, o in compagnia. Ed io non credo che vi sia uomo sì taciturno,
e nemico del parlare, del conversare, e del communicarsi altrui, che provando
una sensazione straordinariamente forte e viva, non sia costretto quasi suo
malgrado, o senza riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni,
dinotanti il desiderio e l'intenzione di communicare e far parte altrui di ciò
ch'egli prova.
(10 Gen. 1821.)
[489]Floro I. 8. Haec est prima aetas populi Romani et quasi infantia, quam
habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria. Tam variis ingenio, ut
Reipublicae ratio et utilitas postulabat. Quel quadam fatorum industria a che
ha relazione? All'avere avuto il popolo Romano una prima età ovvero un'infanzia?
Cosa veramente straordinaria e bisognosa di molto ingegno dei destini. Leggi
continuamente, quadam fatorum industria tam variis ingenio ec. perchè
le dette parole non si possono riportare se non a queste che seguono; e queste
dipendono intieramente da quelle. V. però
le ultime ediz. di Floro.
(11. Gen. 1821.)
Floro I. 12. Veientium quanta res fuerit, indicat decennis obsidio. Tunc primum
hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua sponte iureiurando,
"nisi capta urbe remeare." Spolia de Larte Tolumnio rege ad Feretrium
reportata. Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et subterraneis
dolis peractum urbis excidium. [490]Tutto questo fa un periodo solo, e non va
distinto se non colle minori interpunzioni. L'hiematum sub pellibus, il taxata
hiberna, l'adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non istanno
da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come apparisce
sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente:
Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio mitterentur:
universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur. HOC TUNC VEII FUERE.
Le quali parole chiudono la dimostrazione dell'antica grandezza e forza di Veio.
V. però le ult. edizioni di Floro.
(11 Gen. 1821.)
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disse quella vecchia fantesca a Talete caduto in una fossa mentre andava contemplando
le stelle. (Laerz. 1.34. in Thalete.) [491]?O???? ??? ????? ?????????????, ?
???????, (dum coelum suspiceret. Ficin.) ??? ??? ????????, ??????? ??? ?????,
(in foveam. id.) ??????? ??? ??????? ??? ???????? ???????? (Thracia quaedam
eius ancilla concinna et lepida. id.) ????????? ???????, ?? ?? ??? ?? ??????
?????????? ???????,(pervidere contenderet. id.), ?? ?? ????????? ????? ??? ????
?????, ???????? ?????. ????? ?? ?????, (obiici potest. id. aptius, cadit, convenit)
?????? ??? ?????? ???? ?? ????????? ????????? (in philosophia versantur. id.)
Platone nel Teeteto, ? ???? ?????????, alquanto prima della metà. (p.127.
f. Lugduni 1590.) E v. il Menag. ad Laert. I. 34. E Diogene Cinico si maravigliava
????????... ???? ???????????( (cioè gli astronomi) ????????? ??? ????
??? ????? ??? ??? ???????, ?? ?? ?? ???? ???????? ???????? (Laerz. VI. 28. in
Diogene Cynico.).
Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale,
e compiangere non solo l'impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio
nello scegliere, cioè il [492]curarsi delle cose poste fuori della nostra
sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche
la cecità, la miseria, l'inutilità, la dannosità del sapere
umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo
sapere, sono veramente ?????????????????????????????, e finalmente la sommità,
l'ultimo grado del sapere, consiste in conoscere che tutto quello che noi cercavamo
era davanti a noi, ci stava tra' piedi, l'avressimo saputo, e lo sapevamo già,
senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo
e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo. E guardando in alto per
informarci delle cose nostre, che ci stavano tra' piedi visibilissime, chiarissime,
e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza
caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che
peggio è, di mali e infelicità. Quanto non si è studiato,
che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali
rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri [493]scoperti o cercati
di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline inventate, quante
istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec. per iscoprire la nostra
origine, i nostri destini, la natura delle cose, l'ordine universale, la nostra
felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati,
l'ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci stava
innanzi agli occhi, quello ch'esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno
fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla,
trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla:
il bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale:
i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume
al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz'avvedercene, e
senza pensare o credere di sapere. Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto
tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch'eravamo
fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra
essenza, [494]separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia,
riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali. Si è ricorso al cielo
e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in
milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente
a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s'è
trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch'ella era appunto quella
che avevamo prima di pensare a cercarla.
(12. Gen. 1821.)
Hic sive invidia deum, sive fato, rapidissimus procurrentis imperii cursus parumper
Gallorum Senonum incursione subprimitur. Floro I. 13. principio, entrando a
raccontare la prima guerra gallica.
Floro 1. 13. ed. Manhem. Adeo tum quoque in ultimis religio publica privatis
adfectibus antecellebat. Perchè tum quoque? Forse ne' tempi seguenti,
e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione pubblica
fu più a cuor de' Romani, che ne' primi tempi di Roma? O non più
tosto ella venne indebolendo a proporzione del tempo, e all'età di Floro,
era, si può dire, estinta nel fatto? [495]E non solo ai Romani, ma a
tutti i popoli è sempre avvenuto e avviene lo stesso. Questa era cosa
confessata da tutti anche allora, e la somma religiosità dell'antica
Roma era notissima e famosissima. Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora
anche nell'infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private,
laddove in seguito fu tutto l'opposto. Io credo però che in ultimis l'abbiano
inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi frangenti, e così
abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell'ultima calamità.
Male. In ultimis vuol dire negl'infimi, come apparisce dalle parole di Floro
che precedono. V. il Forcellini, e le ult. ediz. di Floro. V. p.510. capoverso
2.
Floro 1. 13. avendo detto che i Romani distrussero la gente dei Galli Senoni
in maniera che hodie nulla Senonum vestigia supersint, soggiunge con breve intervallo:
ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam urbem gloriaretur. Che
vada letto qui per quae non par da dubitare, e sarà già osservato.
Ma e così, [496]e in ogni modo, come avea da restare alcuno in quella
gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente: acciò non restasse
nessuno DI quella gente. Chiunque ha senso o di latinità o solamente
di ragione, conoscerà che la preposizione in qui non ha luogo.
(12. Gen. 1821.)
Chiunque è sommo in qualsivoglia professione per triviale o leggera o
poco rilevante ch'ella sia, certo è che poteva esser grande in altra
professione di più alto affare. Perchè non si arriva alla perfezione
in veruna cosa per piccola ch'ella sia, senza molta e singolare virtù,
forza, capacità, facilità, e idoneità d'indole e d'ingegno.
(13. Gen. 1821.)
Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano,
giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar
poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi
della disinvoltura. Voltaire consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare
o liberarsi dall'amore. [497]Ou bien buvez: c'est un parti fort sage. Non so
quanto bene. Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove, ed è
vero, sebbene inclini all'allegrezza, e sopisca i dolori dell'animo, contuttociò
dà risalto alle passioni dominanti o abituali di ciascheduno. Bensì
le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o disperato
in amore. V. p.501 capoverso 1
Favella e favellare derivano evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito
il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se dicessimo
fabella e fabellare. Qui non c'è niente di notabile o strano: la cosa
va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha da far
la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste
il singolare e l'osservabile in questa derivazione. Perocchè l'antico
e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso, da for faris,
quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia
[498]nugae, e finalmente di finzione e racconto falso. Appunto come il greco
????? nel suo significato proprio, valeva lo stesso che ?????, verbum dictum
oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred'io, adoperato se non
in questa o simili significazioni, così esso come i suoi derivati. Poi
fu trasferito alla significazione di favola. Il detto senso di fabula, fabulator,
fabulo, fabulor, confabulor etc. è evidente negli scrittori latini di
tutti i buoni secoli, massime però ne' più antichi e più
puri. V. il Forcellini in tutte queste voci. Ma dopo, e massimamente ne' bassi
tempi il significato usuale e comune di fabula nelle scritture non era altro
che favola. E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola
(la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo,
primitivo e proprio valore. Certo non è andata a pescare questo significato
nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta
significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata
e continuata senza [499]interruzione fino alla nascita e alle origini della
nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del
volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche avessero conservata
in uso la detta significazione sino all'ultimo, non avrebbero mai potuto essi
soli comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva
in una lingua nascente, quando il significato più comune di quella parola
fose stato un altro. E tale era infatti appresso gli scrittori. Del resto come
????? e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola, e da quel primo
significato fu trasferito al secondo così viceversa nella nostra lingua
novella e novellare, dal significato di favola o racconto, trasferiti a quello
di ciance o di favella, hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola
e di discorso. V. la Crusca.
(13. Gen. 1821.). V. p.871. fine.
La fecondità e istabilità e velocità della immaginazione
e concezione (vera o falsa, che [500]ciò non monta) ne' fanciulli, apparisce
ancora da una osservazione che ho fatta in quelli che trovandosi in età
di mezzana fanciullezza (6. 7. 8. anni, o cosa simile), e sapendo già
tanto e più di lingua da potere infilare un discorso, nondimeno sebbene
sieno loquaci, anzi quanto più sono loquaci, (il che è segno di
fecondità) tanto più esitano e stentano, nel fare un discorso
continuato, un racconto ec. Ho dunque notato che ciò non deriva principalmente
dalla difficoltà di trovare o combinar le parole (anzi come ho detto,
i più loquaci sono più soggetti a questo: i meno loquaci riescono
molto meglio in un discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla moltiplicità
delle idee che si affollano loro in mente. Onde non sanno scegliere, si confondono,
saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e improvvisamente soggetto;
i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo incominciato
colla testa dell'uomo, finiscono colla coda del pesce. Quanta dunque non dev'essere
l'attività interna, la moltiplicità delle occupazioni ancorchè
disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e alleggerire o spegnere
[501]i pensieri o le sensazioni dolorose, la varietà, e nel tempo stesso
la vivacità delle immagini e concezioni (giacchè ciascuna è
capace di strapparli intieramente da quella che presentemente gli occupa); in
somma la vita dell'animo, e per conseguenza la felicità de' fanciulli
anche i meno felici rispetto alle circostanze esteriori!
Alla p.497.
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Amorem sedat fames; sin minus, tempus:
Eis vero si uti non vales, laqueus.
Detto di Crate Cinico presso il Laerzio (VI. 86. in Cratete Thebano) mentovato
anche da altri scrittori, e riferito con qualche diversità da Stobeo,
e da Suida. V. il Menagio e l'Aldobrandini.
(13. Gen. 1821.).
Come gl'italiani per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra
per muoversi, andare, camminare ec. così fra' latini, oltre i citati
dal Forcellini, Floro 1. 13. Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt. Movent,
et inde certamen. Parla dei Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus,
come [502]soggiunge immediatamente. E II. 8. quum ingenti strepitu ac tumultu
movisset ex Asia (Antiochus). (14. Gen. 1821.) V. Sveton. in D. Julio c.60.1.
e quivi le note degli eruditi.
Come dice Dante Quinci si va, CHI vuole andar per pace, idiotismo assai comune
e usitato nella nostra lingua, così anche i latini. Floro II. 15. sul
principio: Atque SI QUIS trium temporum momenta consideret, primo commissum
bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est. Parla delle 3. guerre
Puniche. (14. Gen. 1821.). Più manifesto, e conforme all'uso italiano
è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzioneregolare,
anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od. 16. l. .2.
v.13. VIVITUR parvo bene, CUI paternum ec. cioè si cui (che neppur essa
sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come appunto in italiano.
Floro II. 15. Sed huius caussa belli (tertii Punici) (scil. fuit), quod contra
foederis legem (Carthago) adversus Numidas quidem semel parasset classem et
exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat. Sed huic bono socioque
regi favebatur. Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui non
conviene. Trovo però in altre edizioni territaret. Ma di più quel
quidem e quell'autem sono particelle avversative, o disgiuntive. Ma come ora
si legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono
ad altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa. [503]Laddove erano la stessa
cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che Floro
dice contro i Numidi. V. gli storici. Leggo: Masinissa (v. però gli Storici,
se ciò è vero di lui) e volentieri ancora trasferirei il quidem
dopo semel. La cagione di questa guerra fu che contro i patti Cartagine aveva
una volta preparato esercito e flotta contro i Numidi. Massinissa però
frequentemente (vedete il frequens autem opposto al semel quidem, e così
mi pare che debba essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo,
perchè l'adversus Numidas quidem che opposizione o forza disgiuntiva
ha con frequens autem?) infestava i di lei confini. Ma (notate quel ma, che
intendendo il luogo in altro senso, non istà convenientemente) i Romani
favorivano questo buono e alleato principe.
(14. Gen. 1821.)
In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non è forse
cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se
stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità
de' suoi mali, infelicità, disgrazie [504]ec. Soltanto l'uomo vile, o
debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito,
sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle
cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro
cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure,
dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi,
sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure,
e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile
che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che
potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato,
e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti
bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati,
nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi,
quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno
molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia
o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, [505]si racconta, se non fallo, come
bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non riconosciamo
nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità
personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio
e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di
noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale,
come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della
morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità
che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea
della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che
mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice,
e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava
rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi
colla considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente
da me, [506]concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità
ch'io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto
possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona
colla quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace
di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi
sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile
dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto,
non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la
vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto
nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre
miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder colpevole,
e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso
dell'infelicità indipendente [507]dagli uomini e dalle persone visibili,
spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori:
e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante
e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi
bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.
(15. Gen. 1821.)
Gli adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di essere
esclusi dalla misericordia che le generazioni future porteranno all'età
e generazioni loro. E di partecipare all'odio senza essere stati esenti dai
pericoli e dai mali, anzi tutto l'opposto, e spesso più degli altri.
(15. Gen. 1821.)
Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva l'idea che abbiamo
di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade
di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità,
dove non credevamo di meritar lode, o non tanta; [508]quella da cui partiamo
con maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi.
Tutto è amor proprio nell'uomo e in qualunque vivente. Amabile non pare
e non è, se non quegli che lusinga, giova ec. l'amor proprio degli altri.
Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi per farsi stimare
di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi desiderare e far fortuna:
nominatamente nella galanteria. Cosa ben conosciuta dai professori di quest'ultima
arte. V. quello che Lord Nelvil [dice] di Mad. d'Arbigny presso la Staël
nella Corinna. Si desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova
un pascolo un piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè,
ma si attribuisce all'amabilità delle sue maniere e del suo carattere.
La ragion vera [è] ch'egli sa fare che noi ci stimiamo da più
di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che avevamo di noi.
(15. Gen. 1821.)
Come noi diciamo in paragone, in comparazione per rispetto, appetto, verso,
appresso, così Floro II. 15. della terza Punica: et in comparatione priorum,
[509]minimum labore. Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto
uno di Curzio che la contiene materialmente, ma non equivale nel senso; quas
in comparatione meliorum, avaritia contempserat. L'Appendice nulla.
(15 Gen. 1821.)
Il Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì 'l fianco,
Che memoria de l'opra anco non langue,
Quando assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua che sangue.
Non è stato osservato, ch'io sappia, che quest'ultima iperbole è
levata di peso da Floro III. 3. nel racconto che fa di quella medesima battaglia
contro i Teutoni, della quale il Petrarca. Ut victor Romanus de cruento flumine
non plus aquae biberit quam sanguinis Barbarorum. Giacchè l'armata Romana
era assetata, e combattè quasi per l'acqua. E forse Floro ha preso questa
immagine da quel luogo di Tucidide nell'assedio di Siracusa, riferito ed esaminato
da Longino. (15. Gen. 1821.). V. p.724. principio.
[510]Floro III. 3. Iam diem pugnae a nostro Imperatore petierunt, et sic proximum
dedit. In patentissimo, quem Raudium vocant, campo concurrere. Leggerei: et
hic p. d..
(15. Gen. 1821.)
Alla p.495. Così II. 14. vir ULTIMAE sortis Andriscus. Così Velleio
I. II. sect.1 qui se Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE.
Del resto o sia sbaglio dei Codd. o proprietà di Floro, e figura grammaticale
a lui familiare, io trovo anche altre volte il quoque messo da lui piuttosto
prima che dopo quello a cui pare che si dovrebbe effettivamente riferire, considerando
il sentimento. Così II. 14. fine. Sebbene quivi si potrà forse
spiegare e tollerare. Ma III. 6. dove dice di Pompeo destinato alla guerra Piratica,
Sic ille quoque ante felix, dignus nunc victoria Pompeius visus est. Il quoque
non par che si possa riportare se non all'ante e non all'ille (quantunque i
pirati fossero stati già combattuti e vinti da P. Servilio l'Isaurico)
perchè la forza di questo luogo par che consista nella contrapposizione
dell'ante felix, col dignus nunc victoria. Onde pare che il luogo vada corretto.
V. il Forcellini dove parla del quoque congiunto coll'et [511]o etiam. V. pure
le ult. ediz. di Floro.
Alla p.96. Dalla bianchezza di quella porca si crede che derivasse il nome di
Alba dato alla città fondata da Ascanio, e questo pure può confermare
il mio sospetto, avendola fondata Ascanio quasi nuova troia.
(15 Gen. 1821.)
In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus
agmine (Tib. Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e
non ha detto, nè anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni
in partibus (III. 14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C. Gracchus), INDE
quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III. 15.) l'inde
non par che si possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec. E in questo senso
si può paragonare l'uso di questa particella fatto da Floro, a quello
che i nostri antichi fecero dell'onde, quinci, quindi. V. la Crusca. e allo
Spagnuolo donde che val sempre dove. E bisogna notare che in questo senso Floro
congiunge la particella inde col nome obvius. E non perciò pare che significhi,
o possa significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi
italiani, onde vai, per dove vai) QUO LOCO inter [512]se OBVII fuissent. Sallust.
Cui mater MEDIÂ se se tulit OBVIA SILVÂ. Virgil. Questi esempi recati
dal Forcellini fanno per l'uso di obvius in luogo. Esempi di obvius unito a
particelle o casi che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini,
nè l'Appendice, e in ogni modo qui non par che farebbero al caso. Neanche
ne hanno di obvius con particelle o casi indicanti moto a luogo, come illuc
obvius, ovvero eo obvius, ovvero ad eum obvius o simili. Solamente questo di
Virgilio: Audeo TYRRHENOS EQUITES ire obvia CONTRA. Del resto obvius negli esempi
del Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi,
mihi, ec. Nè alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o
l'Appendice non hanno questi luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno
veruno nè pur lontano di questo significato. (16. Gen. 1821) V. pur nella
Crusca altronde per altrove, ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi,
egloga 10. Melibea, verso il fine, (Versi e prose di Mons. Bern. Baldi. Venetia
1590. p.204.) Fuggiam fuggiamo altronde, Ch'a noi sen vien a volo Di vespe horrido
stuolo, E sotto aurato manto il ferro asconde. V. nel Forc. aliunde in un esempio
per alibi. V. pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde ec. se ha nulla
al caso. V. p.1421.
Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha forza di uccidere, o cagionare un'estrema
malattia, ed è più facile il fingere questi casi nei romanzi,
che trovarne esempi reali nella vita: sebbene [513]molte volte si attribuiscono
a dolor d'animo quelle infermità che vengono da tutt'altro, o almeno,
anche da altre cause. E massimamente è difficile e strano che il dolor
d'animo, una sventura non corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo
dopo nato, o avvenuta la detta sventura ec. e che in somma la vita dell'uomo
si vada consumando e si spenga a poco a poco per le sole malattie particolari
dell'animo. (non dico le generali, perchè certamente il cattivo stato
del nostro animo influisce in genere moltissimo sulla durata della vita, la
salute il vigore ec.) Qual è la cagione? Che il tempo medica tutte le
piaghe dell'animo. Ma come? Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non
già con questa sola. Una gran cagione del detto effetto, è ancora
che le illusioni poco stanno a riprender possesso e riconquistare l'animo nostro,
anche malgrado noi; e l'uomo (purchè viva) torna infallibilmente a sperare
quella felicità che avea disperata; prova quella consolazione [514]che
avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba verità,
che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più
fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della
natura che richiama gli errori e le speranze.
(16. Gen. 1821.)
Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto,
una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta,
quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci
si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni
piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione)
di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima
indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri
e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una
bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà
più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà così
intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato.
Il piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena
comprendiamo [515]qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da
fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze,
o anche in proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi
osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite
che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono
altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono
e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere,
o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere,
ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa
sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse
circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente
dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca;
una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine
antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere
quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei luoghi, spettacoli,
incontri, ec. nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel
risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù
ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo
privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano,
giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.
E osservate che anche i sogni piacevoli nell'età nostra, sebbene ci dilettano
assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello
e quel piacevole indefinito come nell'età prima spessissimo.
(16. Gen. 1821.)
Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall'amor
proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non
per ciò è la stessa cosa. Ed è quella certa sensibilissima
pena che noi proviamo nel vedere p.e. un fanciullo fare una cosa la quale noi
sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo;
una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene. [517]E
simili. Questo dei mali non ancora accaduti. Allora proviamo ancora un'assoluta
necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore.
Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente,
o non sapendo ec. il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo,
è contro natura. Nell'atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere
ec. ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all'apparenza,
contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena. E
chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale
vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna. Anche nelle cose inanimate,
o negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo
di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, utile, e che so io,
un animale ec. proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità
di esclamare, d'impedirlo potendo. ec. E ciò, quantunque quella cosa
[518]non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non danneggi
nessuno in particolare. Così che quel sentimento dispiacevole che noi
proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora
quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi. Dicono che la donna
è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza
turbarsi. Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle
cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di
un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente
dalla volontà. La radice di questo sentimento non par che si possa trovare
nell'amor proprio. Par che la natura nostra abbia una certa cura di ciò
ch'è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire,
sebbene affatto alieno da noi. V. la pagina seguente. L'orrore della distruzione
(il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par
che [519]abbia parte in questo, almeno principalmente. Noi vediamo perire tuttogiorno
senza ripugnanza, o cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto.
(17. Gen. 1821.)
Alla pagina superiore. Par ch'ella ci abbia tutti incaricati in solido, di provvedere
per parte nostra alla conservazione di tutto il buono, (osservate queste parole,
le quali potrebbero estender di molto questo pensiero, p.e. al morale, al bello
di ogni genere e immateriale ec.), e impedirne la distruzione, e che questa
danneggi positivamente ciascuno per la sua parte. In questo aspetto forse si
potrebbe riferire alla lunga all'amor proprio, e forse no.
Alla p.468. Oltre che nella Salita di Ciro l'autore parla di Senofonte con un
tale temperamento di modestia, e di amore, col quale chiunque conosca il cuore
umano, leggendo la detta opera, riconosce a prima vista che l'uomo non parla
nè può parlare se non di se stesso.
(17. Gen. 1821)
[520]L'intiera filosofia è del tutto inattiva, e un popolo di filosofi
perfetti non sarebbe capace di azione. In questo senso io sostengo che la filosofia
non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna rivoluzione, o movimento,
o impresa ec. pubblica o privata; anzi ha dovuto per natura sua piuttosto sopprimerli,
come fra i Romani, i greci ec. Ma la mezza filosofia è compatibile coll'azione,
anzi può cagionarla. Così la filosofia avrà potuto cagionare
o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di Francia, di Spagna ec. perchè
la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato
nè in Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma solo a
mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa;
non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar
movimento. E questi errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti
ad altri errori per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati
da un'ignoranza barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami
ed alle [521]credenze della natura, o primitiva, o ridotta a stato sociale ec.
Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di medicina ad
errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima analisi
dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall'eccesso dell'incivilimento,
il quale non è mai separato dall'eccesso relativo dei lumi, dal quale
anzi in gran parte deriva. E infatti la mezza filosofia è la molla di
quella poca vita e movimento popolare d'oggidì. Trista molla, perchè,
sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura,
come gli errori e le molle dell'antica vita, o della fanciullesca, o selvaggia
ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in credenze o cognizioni
non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto imperfettamente
ragionevole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza è parimente
alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione. E presto
o tardi, ci [522]deve arrivare, perchè tale è l'essenza sua, al
contrario degli errori naturali. E l'azione presente non può essere se
non effimera, e finirà nell'inazione come per sua natura è sempre
finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente
filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente sostanzialmente
e primordialmente all'uomo. Del resto la mezza filosofia, non già la
perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l'amor patrio e le azioni
che ne derivano, in Catone, in Cicerone in Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio
Prisco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo stesso tempo. Quali poi
fossero gli effetti de' progressi e perfezionamento della filosofia presso i
Romani è ben noto.
Osservate ancora che il movimento e il fervore cagionato oggidì dalla
mezza filosofia, va perdendo di giorno in giorno necessariamente tanti fautori
e promotori ec. quanti si vanno di mano in mano perfezionando nella filosofia
coll'esperienza ec. e quanti di semifilosofi, divengono o diverranno appoco
appoco filosofi.
(17. Gen. 1821.)
Nisi quod magnae indolis signum est, sperare [523]semper. Floro IV. 8.
Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est quod moriens
(Brutus) efflavit, "non in re, sed in verbo tantum esse virtutem."
Floro IV. 7.
Floro IV. 6. Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi
foederis societatem? Trasponete l'interrogativo dopo exercitus. Così
vuole il contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch'io
non so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di Antonio e
di Lepido), s'abbia da poter dire contra duos exercitus. V. le ult. ediz. di
Floro.
(18. Gen. 1821.)
Molto acutamente Floro dice di Antonio il triumviro: Desciscit in regem: nam
aliter salvus esse non potuit, nisi confugisset ad servitutem. (IV. 3.) Ottimamente
di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se non signore
o servo: libero e uguale agli [524]altri, non poteva. E così quasi tutti
i Romani di quello e de' seguenti tempi: così la massima parte degli
uomini d'oggidì. Non c'è altro stato che non convenga loro, fuorchè
l'uguaglianza e la libertà. Non saprebbero se non regnare, o come fanno,
servire. Ma servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà.
E tale è la natura degli uomini servi per carattere, e corrotti dall'incivilimento,
spogli di virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti
e passioni grandi forti e nobili, d'integrità, di coraggio, d'ingegno,
di eroismo, capacità di sacrifizi, ec. ec. Tutte cose necessarie a mantenersi
individualmente, e a mantenere relativamente e generalmente lo stato uguale
e libero di un popolo. In chi domina l'egoismo, non può che servire o
regnare. Così i nostri principi. Regnano, e saprebbero servire. (Così
i nostri magistrati, ministri, grandi. Regnano e servono. Sanno riunir l'una
cosa all'altra. Le mettono effettivamente in opera ambedue.) Ma come sarebbero
capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno,
e che son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e
di uguaglianza. Questa non può nè convenire particolarmente, nè
conservarsi in una nazione, senza le qualità e le forze della natura.
Un uomo o una nazione snaturata, non può esser libera, nè [525]molto
meno uguale: non può se non regnare o servire. La libertà richiede
homines non mancipia, ????????????????????????, e chi è schiavo o dei
padroni servendo, o di se stesso, dell'egoismo, e delle basse inclinazioni regnando,
non può comportare lo stato libero, nè uguale. L'amor di se stesso
è inseparabile dall'uomo. Questo lo porta ad innalzarsi. Dove l'innalzamento
ec. in somma la soddisfazione dell'amor proprio è impossibile, quivi
l'uomo non può vivere. Ora nello stato di perfetta libertà ed
uguaglianza, l'individuo non fa progressi senza virtù e pregi veri, perchè
la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i vantaggi ec. dipendono dalla moltitudine,
la quale non potendo giudicare secondo gli affetti e inclinazioni particolari,
perchè queste son varie e infinite, e non si accordano insieme, bisogna
che giudichi secondo le regole e le opinioni universali, cioè le vere.
Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti),
non può sopportare la libertà e l'uguaglianza, nè trovar
vita in questo stato.
(18. Gen. 1821.)
Sane quod Poematis delectari se ait, id [526]non abhorret ab huius compendii
scriptore, quando stylus eius est in historia declamatorius, ac Poetico propior,
adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat: dice G. G. Vossio di Floro. (de
Historic. latt. l.1.) Nel lib. IV. c.11. dove Floro dice di Antonio il triumviro:
patriae, nominis, togae, fascium oblitus, pare che questa sia un'imitazione
di Orazio: (Od. 5. l.3. v.10.)
Anciliorum, NOMINIS et TOGAE
BLITUS aeternaeque Vestae.
(18. Gen. 1821.). V. p.723. fine.
Alla p.477. Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell'invenzione,
nell'immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza
e nella frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella maniera, nello
stile, e nella volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità,
nobiltà, posatezza, ed ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa,
quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma
dico forse, in qualcuno de' nostri cinquecentisti. E quella stessa dose di pregi
(senza [527]i quali però non ci può esser buona nè vera
prosa) basterebbe per fare ammirare uno scrittore de' nostri tempi, e farlo
giudicare sommo ed unico. (Aggiungete tutto quello che spetta alla lingua: eleganza,
purità sufficientissima, armonia, varietà ec. forma de' periodi,
e loro disposizione e connessione ec.) Ora i migliori e sommi prosatori francesi,
in ordine a questi pregi, non sono degni di venir nemmeno in confronto con uno
de' peggiori ed infimi classici latini.
(19. Gen. 1821.)
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto. ????????????????????????????????,
????????? ??????(? ??? ????????. (Elegiae scriptor non satis probatus) ?I????3???.
(Ita enim se habet res) ??????? ??? ??? ????????????? ???????????, ??????????????
(si quid prosa oratione scribere velint, praestant) ?????????? ?? ????????????
????????, ????????. (si poeticae sibi partes vindicare velint, non assequuntur)
????? ?? ??? ?????? ????? (scil. ?? ??? ?????????) ?? ?? ?????? ?????. Laerz.
in Xenocrate, l.4. segm. [528]15. E v. se ha nulla in questo proposito il Menagio.
(19. Gen. 1821.)
Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello
stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione.
E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male.
Il bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente
all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e
comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo,
e nel primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o
anche presente; contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale
e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto
attualmente negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità
che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta
dagli altri, [529]e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non ce l'impedisse,
o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto, cioè indipendentemente
dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato
di civiltà e di sapere.
Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato
un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale
che il dolore seguente dovesse corrispondere all'aspettativa, al giubilo precedente.
E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta
speranza. Non dico alla misura del piacere provato, realmente, perchè
infatti neanche i fanciulli provano mai soddisfazione nell'atto del piacere,
non potendo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito,
come ho detto altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile,
non tanto perchè il piacere fosse passato, quanto perchè non avea
corrisposto alla speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o
pentimento, come se non avessimo goduto [530]per nostra colpa. Giacchè
l'esperienza non ci aveva ancora istruiti a sperar poco, preparati a veder la
speranza delusa, assuefatti a consolarci facilmente di tali e maggiori perdite
ec.
Insomma considerando in quella età le cose come importanti, o più
importanti di quello che le consideriamo in altra età, (così relativamente
e in particolare, come in generale e assolutamente) è naturale che come
i piaceri, così i dolori di quell'età sieno maggiori in proporzione
dell'importanza che gli oggetti del dolore o del piacere hanno nella nostra
opinione.
Così nella speranza di qualche bene, quale non era la nostra inquietudine,
i nostri timori, i nostri palpiti, le nostre angosce ad ogni piccolo ostacolo,
o apparenza di difficoltà, che si opponesse al conseguimento della detta
speranza!
E se poi l'oggetto stesso della speranza (ancorchè minimo, rispetto alle
nostre opinioni presenti) non si conseguiva, quale non era la nostra disperazione!
In maniera che forse in seguito, nelle più grandi sventure della vita,
non abbiamo provato, nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come
per quelle minime sventure fanciullesche.
[531]Lascio stare il timore e lo spavento proprio di quell'età (per mancanza
di esperienza e sapere, e per forza d'immaginazione ancor vergine e fresca):
timor di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente
di quell'età, e di nessun'altra; timor delle larve, sogni, cadaveri,
strepiti notturni, immagini reali, spaventose per quell'età e indifferenti
poi, come maschere ec. ec. (V. il Saggio sugli Errori popolari degli antichi.)
Quest'ultimo timore era così terribile in quell'età, che nessuna
sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza
in altra età, di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio
insomma paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi. L'idea degli spettri,
quel timore spirituale, soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agitava
frequentemente in quell'età, aveva un non so che di sì formidabile
e smanioso, che non può esser paragonato con verun altro sentimento dispiacevole
dell'uomo. Nemmeno il timor dell'inferno in un moribondo, credo che possa essere
così intimamente terribile. Perchè la ragione e l'esperienza rendono
inaccessibili a qualunque sorta di sentimento, quell'ultima e profondissima
[532]parte e radice dell'animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano,
e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in
ispecie il detto timore.
(20. Gen. 1821.). V. p.535 capoverso 1.
Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset
tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse,
gauderet? Cic. Lael. sive de Amicitia. Cap.6.
(20. Gen. 1821.)
Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in
quell'ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch'è sempre
futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L'atto proprio
del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi
casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura:
questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea
del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre
un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la
possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette [533]in migliori circostanze
pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all'opinione
e persuasone nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo
dietro quella prova, quel saggio fattone. ec. Io provo un piacere: come? ciascuno
individuale istante dell'atto del piacere, è relativo agl'istanti successivi;
e non è piacevole se non relativamente agl'istanti che seguono, vale
a dire al futuro. In questo istante il piacere ch'io provo, non mi soddisfa,
e siccome non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere,
ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere
crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto. Andiamo più
avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo.
Questo è il discorso, il cammino, l'occupazione, l'operazione, e la sensazione
dell'animo nell'atto di qualunque siasi piacere. Giunto l'ultimo istante, e
terminato l'atto del piacere, l'uomo non ha provato ancora il piacere: resta
dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e
poco, anzi niente persuasiva, [534]di averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi
di quello che ha sentito, e provando così un altro piacere, il di cui
oggetto è bensì passato, ma non il piacere (perchè come
può esser passato quello che non è mai stato, e che è sempre
futuro?) e l'atto di questo nuovo piacere è composto di una successione
d'istanti della stessa natura che l'altro atto; e quindi parimente futuro: o
finalmente resta con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque
non possa il suo piacere riferirsi più agl'istanti successivi di quell'atto,
ch'è già finito, si riferisce ad altri atti; l'idea del così
detto piacere provato, gli dà un'idea di quelli ch'egli crede di poter
provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno,
una risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così
prova un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro. Così p.e. se tu sei
stato lodato, o ti sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec.
L'atto di quel piacere è stato quale l'ho descritto: ma finito l'atto,
lo vai ruminando a parte a parte, e torna un altro atto di piacere composto
alla stessa guisa, e fondato o sul semplice gusto della [535]ricordanza, o sulla
relazione che quel preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che
tu (come credi) puoi dunque o devi provare, coll'idea che ti dà della
futura vita, coi disegni, coll'idea di te stesso, delle tue forze ec. colle
speranze o reali, o rispetto all'opinione e immaginazione tua; insomma tutto
futuro, tanto riguardo all'atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti
di esso piacere. Così il piacere non è mai nè passato nè
presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è, che non può
esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e infinito
in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai
essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà,
o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima,
essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama
piacere; è tutto il piacer possibile. Quindi il piacer possibile non
è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro.
(20. Gen. 1821.). V. p.612. capoverso 1.
Alla p.532. Questo si può osservare [536]anche negli effetti fisici o
esterni delle dette sensazioni interne, sieno relativi alla salute, sieno ai
moti, ai gesti, sieno alle risoluzioni e azioni alle quali strascinano i fanciulli
e i primitivi, e ciò con tale irresistibilità, e violenza infallibile,
quale non ha verun'altra sensazione interna nelle altre età e condizioni,
ma solamente alcune delle esterne e fisiche. Tant'è, l'immaginazione,
o le sensazioni interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello
stato naturale, la stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze
esterne e meccaniche in quella e nelle altre età o condizioni.
(20. Gen. 1821.)
Nihil est enim appetentius similium sui, nihil rapacius, quam natura. Cic. Lael.
sive de Amicit. c.14.
(21 Gen. 1821.)
Alla p.135. Fructus enim ingenii et virtutis, omnisque praestantiae, tum maximus
capitur, cum in proximum quemque confertur. Cic. Lael. sive de Amicit. c.19.
fine. E v. il capoverso superiore.
(21. Gen. 1821.)
È degna di esser veduta, consultata, e anche [537]tradotta e riportata
all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia c.13.
Nam quibusdam etc. sino alla fine) contro quei filosofi greci i quali dicevano
caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui non possit animus, si tamquam
parturiat unus pro pluribus: e quindi venivano a prescrivere il curam fugere,
e l'honestam rem actionemve, NE SOLLICITUS SIS, aut non suscipere, aut susceptam
deponere. La qual filosofia, è presso a poco la filosofia dell'inazione
e del nulla, la filosofia perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri
giorni. E quella disputazione di Tullio si può avere per una disputazione
contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome. Quae est enim
ista securitas? dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa porti. Ma il
principale è, che non solamente porta a mille assurdità e scelleraggini
(secondo natura, non secondo ragione, ma Cicerone chiama la natura, optimam
bene vivendi ducem. c.5.): ma non ottiene neanche il suo fine, ch'è la
felicità dell'individuo [538]in qualunque modo ottenuta. Anzi al contrario,
l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è contraddittoria e incompatibile
colla felicità dell'individuo nello stato sociale. Eccoci tutti seguaci
di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella
maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi?
Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere,
che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, e nella società,
ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli antichi
coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività,
imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza,
ordine, pace, nazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello degli
altri, o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?
(21. Gen. 1821.).
È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento,
sono i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all'operare;
i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più
tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati
e soliti a lasciar le cose [539]come stanno; i più tardi, restii, difficili
a mutar nulla del presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta.
E quanto è maggiore l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole,
tanto è maggiore la difficoltà e l'angustia di risolvere.
(21. Gen. 1821.)
Ma non perciò è segno di molto talento il soler sempre e subito
determinarsi a non credere (come anche a non fare). Anzi perciò appunto
è indizio di piccolo spirito. Il non credere, è una determinazione:
e gli uomini veramente sapienti, e profondi, ed esperti, sanno quante cose possano
essere, quanto sia difficile il negare, quanto sia vero che dall'incertezza
e oscurità delle cose, dalla difficoltà di affermare, deriva necessariamente
anche quella di negare, cioè affermare che una cosa non è, genere
anch'esso di affermazione. E però se una cosa non manca affatto di prova,
o di prova sufficiente a muover dubbio, o s'ella non è del tutto assurda,
o riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o col fatto, o colla ragione;
eccetto in questi casi, [540]il vero saggio e filosofo e conoscitore delle cose
in quanto (sono conoscibili), ???????????????????????, e ritiene come l'assenso
così anche il dissenso. Ma uomini di non molto ingegno, bensì
di molta apparenza, o desiderio di essa apparenza, credono mostrar talento quando
al primo aspetto di una proposizione o cosa non ordinaria, o difficile a credere
(o non concorde colle loro opinioni e principii, o non ben dimostrata o fondata),
si determinano subito a non credere. E se ne compiacciono seco stessi, e si
credono forti di spirito, perchè sanno determinatamente e prontamente
non credere, quando è tutto l'opposto. E se bene in questo si mescola
spesse volte l'ostentazione, non è però che non lo facciano ordinariamente
di buona fede, e con verità, e che l'interno non corrisponda alle parole.
Giacchè hanno veramente questa facilità di risolversi a non credere.
Perchè appunto sono lontani dalla vera e perfetta sapienza, e cognizione
delle cose.
(22. Gen. 1821.)
Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos, [541]ut inter omnes esset
societas quaedam; (ecco l'amore universale, notato anche da Cicerone, e naturale,
perchè la natura, e tutti gli animali tendono più che ad altro
al loro simile; preferiscono nella inclinazione, nell'amore, nella società,
il loro simile, allo straniero e diverso. Questo è il vero confine dell'amore
universale secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi. Ma
seguitiamo) maior autem, ut quisque proxime accederet. Itaque cives, potiores,
quam peregrini; et propinqui quam alieni. (Così che nel conflitto degl'interessi
di coloro che nobis proxime accedunt, cogl'interessi degli stranieri, alieni,
lontani, quelli vincono nell'animo, nella inclinazione, e nella natura nostra:
e non già nella sola parità di circostanze, ma quando anche o
il bene, o la salute e incolumità de' vicini, porti agli strani un danno
sproporzionato; quando anche si tratti di un solo o pochi vicini, e di molti
lontani; quando si tratti della sola sua patria in comparazione di tutto il
mondo. E tali sono realmente gli effetti e la misura dell'amore dei bruti verso
i loro [542]figli ec. rispetto agli altri loro simili: delle api di un alveare,
rispetto alle altre ec. E v. il pensiero seguente.) Cum his enim amicitiam NATURA
IPSA peperit. Cic. Lael. sive de Amicitia c.5. sulla fine.
(22. Gen. 1821.)
Quapropter a natura mihi videtur potius, quam ab indigentia, orta amicitia,
et applicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitatione, quantum
illa res utilitatis esset habitura. Quod quidem quale sit, etiam in bestiis
quibusdam animadverti potest; quae ex se natos ita amant ad quoddam tempus,
et ab eis ita amantur, ut facile earum sensus appareat. Quod in homine multo
est evidentius. Cic. Lael. sive de Amicitia c.8.
(22. Gen. 1821.)
Della superiorità delle forze della natura, della fortuna, dello spontaneo,
dell'amor naturale e fortuito (materia del pensiero precedente), sopra quelle
della ragione, della provvidenza (umana), dell'arte, dell'amore ragionato e
proccurato, cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti
e potenti; è degno di esser veduto un luogo insigne ed elegante di [543]Frontone
(Ad M. Caes. l.1. epist.8. ediz. principe. pag.58-61.) simile in parte ad un
altro nelle Lodi della Negligenza. (p.371.).
(22. Gen. 1821.)
La superiorità della natura su la ragione e l'arte, l'assoluta incapacità
di queste a poter mai supplire a quella, la necessità della natura alla
felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di
rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella
considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura,
le qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più
l'uomo è saggio, profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto;
più conchiude e risolve con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo
è ridotto, non già da poco, ma da lunghissimo tempo, e dall'alterazione,
depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in
poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non
racchiuda essenzialmente i germi del male e della infelicità maggiore
o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato
[544]nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui non
derivino inconvenienti, incomodi, infelicità (e non poche nè leggere)
dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque
sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la perfezione di un governo umano
è cosa totalmente impossibile e disperata, e in un grado maggiore di
quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa umana. Eppure è
certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se stessi buoni,
e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è
innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli
uomini nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo
non può camminar da se, nè per molle e macchine, nè per
ministerio d'Angeli, o per altre forze naturali o soprannaturali, ma per ministerio
d'uomini); tuttavia non è imperfezione primitiva, e inerente all'idea
del governo stesso, indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri,
nè inerente alla natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società.
Consideriamo.
[545]Il governo monarchico assoluto e dispotico, ossia giustamente e con verità,
ossia che l'uomo odia naturalmente la servitù, e soffre di miglior animo
i mali della cattiva e sregolata libertà; o che questo è il peccato,
il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e de' passati,
dall'estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per qualunque
ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e contrario
al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore di
tutti i governi. Tale sarà oggidì; non mica in principio: anzi
in principio, lo giudico e credo il più perfetto, e posso dire il solo
perfetto, e ragionevole e naturale. Cioè, posto che v'abbia ad essere
un governo, io dico che questo, nello stato primitivo della società,
non doveva nè poteva esser altro che il monarchico assoluto; e non volendo
questo, non c'era ragione di volere un governo.
L'uomo per natura è libero, e uguale a qualunque altro della sua specie.
Ma nello [546]stato di società, non è così. La ragione,
il principio, lo scopo della società, non è altro che il ben comune
di coloro che la compongono e si uniscono in un corpo più o meno esteso.
Senza questo fine, la società manca della sua ragione. E siccome ella
è non solamente irragionevole se non ha questo fine, ma è ancora
non pure inutile ma dannosa all'uomo, se sussiste senza conseguirlo; perciò
se il detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè
questa per se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all'uomo più
nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
Ora il ben commune di un corpo o società, non si può ottenere,
se non per la cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine. Così
accade in tutte le cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte cagioni,
e da molte forze, operanti ciascuna per la sua parte; non può realizzarsi
senza l'accordo e cospirazione congiunta e convenevole di tutte queste forze,
verso il detto effetto. Ecco il principio d'unità: principio che risulta
necessariamente dallo scopo della società, ch'è il ben comune.
E perciò, come nel ben [547]comune, e non in altro, consiste la ragione
della società; così questa rinchiude essenzialmente il principio
di unità. A segno che società, considerandola bene, importa per
sua natura, unità, vale a dire unione di molti: la quale unione è
imperfetta, se non è perfettamente una, in quello che concerne la sua
ragione e il suo scopo: giacchè nel rimanente, dove la società
non ha bisogno di unità, l'uomo sebbene associato, è come fuori
della società, e conserva le sue qualità naturali, vale a dire
la sua libertà, la cura di se stesso, e de' suoi negozi ec. In somma
nelle altre parti indipendenti dal ben comune, la società non sussiste,
e non è società, sebbene ella sussista nel medesimo tempo, in
quello che spetta alla sua ragione e destinazione e scopo.
Ma le volontà degl'individui riuniti in corpo, gl'interessi, o le opinioni
che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e così sopra qualunque altra cosa,
sono infinite, e diversissime. Quindi le forze di ciascuno, non possono cospirare
ad un solo fine, tra perchè non tutti si curano di proccurarlo; e perchè
le opinioni, le volontà ec. quando [548]anche si accordino nel cercarlo
assolutamente, non si accordano relativamente nel determinarlo, sia in genere
e totalmente; sia in parte, e in particolare; sia riguardo ai tempi, alle opportunità
di cercarlo e proccurarlo ec. E l'uno crede o vuole che questo sia o debba essere
il fine; l'altro che sia o debba esser quello: l'uno che questo giovi al fine
convenuto e stabilito; l'altro che noccia o non giovi: l'uno che bisogni cercare
il detto fine, oggi, o in questa maniera; l'altro che bisogni aspettare fino
a domani, o cercarlo in quest'altro modo. E così, chi non si cura del
ben comune, non corrisponde al fine della società, è inutile e
dannoso alla società. Chi se ne cura, non cospira, nè può
cospirar cogli altri, sia positivamente, sia negativamente, cioè col
fare, o coll'astenersi dal fare, secondo i bisogni, e i fini ec. Dunque neppur
egli corrisponde al fine della società, il quale non può risultare
se non dall'accordo dei membri verso il ben comune: altrimenti ciascuno poteva
senza società, proccurarlo da se; e la società era inutile.
[549]In un corpo dunque perfettamente libero e uguale, manca affatto l'unità,
solo mezzo di ottenere il solo scopo della società; anzi solo costituente
della società: e però in un corpo libero ed uguale, non esiste
se non il nome e la sembianza della società; vale a dire che più
persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.
Come dunque lo scopo della società è il ben comune; e il mezzo
di ottenerlo, è la cospirazione degl'individui al detto bene, ossia l'unità;
così l'ordine, lo stato vero, la perfezione della società, non
può essere se non quello che produce e cagiona perfettamente questa cospirazione
e unità. Giacchè la perfezione di qualunque cosa, non è
altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.
Come dunque riunire ad un sol centro le opinioni, gl'interessi, le volontà
di molti? Non c'è altro mezzo che subordinarle, e farle dipendere e regolare
da una sola opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle opinioni,
volontà, interessi di un solo. L'unità è ottenuta; ma perch'ella
sia vera unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè
possa pienamente [550]diriggere e regolare e determinare le opinioni interessi
volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di ciascuno:
in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente
da lui solo, in tutto quello che concerne lo scopo di detta società,
cioè il di lei bene comune. Ecco dunque la monarchia assoluta e dispotica.
Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma inerente all'essenza,
alla ragione della società umana, cioè composta d'individui per
se stessi discordanti.
Colla monarchia assoluta e dispotica, l'unità è, come dissi, ottenuta.
Questo è il mezzo per conseguire il bene comune. Ma esso bene, cioè
il fine, sarà ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni,
le volontà di quel solo corrisponderanno e tenderanno effettivamente
al detto fine; e quanto i suoi interessi saranno tutta una cosa cogl'interessi
comuni.
Ecco la necessità di un principe quasi perfetto: irreprensibile nei giudizi
e opinioni [551]prudenza ec. per discernere e determinare il vero bene universale
e i veri mezzi di ottenerlo; irreprensibile nelle volontà, e quindi nei
costumi, nella coscienza, nelle inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto
concerne il detto fine), per diriggere effettivamente le sue forze e quelle
de' sudditi a quel fine, nel quale egli giudica riposto il comun bene.
Se il principe non è tale, siamo da capo. Siccome egli è divenuto
l'anima e la testa, e in somma la forza movente della società, anzi si
può dire che la forza attiva e negativa della società sia tutta
riposta e rinchiusa in lui; così quanto egli non mira al ben comune (o
per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca
di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile
e dannosa. E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano
dalla servitù, dall'esser tutti destinati al bene di un solo, dall'impiegare
le loro forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure
individuale, ma per li capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può
anche volere, e spesso vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati
non solo a non proccurare il loro bene, ma il loro [552]male. In somma tutte
le calamità che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario
alla natura di tutti i viventi d'ogni specie, e quindi certa sorgente d'infelicità.
Così la società diviene un male infinito, diviene formalmente
l'infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore
o minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se
stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal di lei fine,
ch'è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio fine.
Se dunque la società non può stare, anzi non esiste senza unità;
e la perfetta unità non può stare senza un principe assoluto;
nè questo principe corrisponde al fine di essa unità, e società,
e di se stesso, se non è perfetto; perchè il governo monarchico
e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto.
Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè
fra gli animali, nè fra le cose. Ed ecco lo stato di società necessariamente
imperfetto. Ma parlando di quella perfezione che è nell'uso e nella vita
comune (Cic. de Amicit. c.5.); un principe [553]perfetto in questo senso si
poteva trovare nei principii della società. 1. Perchè la virtù,
le illusioni che la producono e conservano, esistevano allora: oggi non più.
2. Perchè la scelta può cadere sopra il più degno e il
più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per buona e retta volontà,
di corrispondere al fine del principato e della società, ossia 1°
di conoscere, 2° di proccurare il ben comune di quel corpo che lo sceglieva.
Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero al principato quell'uomo
che eminebat per doti dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta
dignità, o piuttosto uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero
quanto può l'uomo, al fine della società, vale a dire al bene
comune; e quindi alla perfezione della società.
Se questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire pel comune vantaggio ad
un solo che fosse degno e capace di conoscerlo e proccurarlo, abbia mai avuto
luogo effettivamente; non [554]appartiene al mio proposito. Questo discorso
non considera nè deve considerare altro che la ragione delle cose, e
quindi come avrebbero dovuto andare, e avrebbero potuto andare da principio,
e secondo natura; non come sono andate, o vanno. Del resto negli scarsi vestigi
storici che rimangono delle antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene
se non alle antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti
di effettiva e realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col
pubblico bene delle rispettive società. Così nei popoli Americani,
così nei selvaggi (dove la tirannia par che s'ignori, sebbene si conosca
la monarchia, o militare, o civile), così negli antichi Germani, de'
quali Tacito ed altri; così fra i Celti, de' quali Ossian; così
fra i greci Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia
posteriore al primitivo. Insomma considerando le storie de' primi tempi, si
può vedere che l'idea della tirannia, sebbene antica, non è però
antichissima: [555]bensì antichissima e primordiale nella società
è l'idea della monarchia assoluta. V. Goguet, Origine delle scienze e
delle arti. Assoluta s'intende, non mica in modo che questa parola fosse pronunziata,
e stabilita, e riconosciuta per costituente la natura di quel tale governo.
Ma senza tante definizioni, e sanzioni, e formole, e spirito geometrico, gli
antichi popoli si sottomettevano col fatto al reggimento di un solo assolutamente;
senza però neppur pensare ch'egli dovesse esser padrone della vita, dell'opera,
e delle sostanze loro a capriccio, ma in vantaggio di tutti; giacchè
le esattezze, le definizioni, le circoscrizioni, le formole chiare e precise,
non sono in natura, ma inventate e rese necessarie dalla corruzione degli uomini,
i quali oggidì hanno bisogno di stringere ed essere stretti con leggi,
patti, obbligazioni (o morali o materiali) distintissime, minutissime, specificatissime,
numerosissime, matematiche ec. perchè si tolga alla malizia ogni sutterfugio,
ogni scanso, ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e indeterminato.
E già vengo a quesa corruzione.
[556]Essendo gli uomini quali ho detto di sopra, si poteva trovare un principe
e capace e buono. Essendo la società nello stato primitivo e naturale,
senza troppe regole, senza troppa ambizione, senza impegni, senz'altre corruzioni
e impedimenti; si poteva e scegliere il detto uomo, e morto, sceglierne altro
similmente degno.
Ridotti gli uomini allo stato di depravazione (e il nostro discorso comprende
tanto l'antica, quanto la moderna depravazione, perchè anche l'antica
bastava all'effetto che dirò), non fu più possibile trovare un
principe perfetto. Quando anche si fosse trovato, non fu più possibile,
ch'egli divenuto principe, si conservasse tale: sì per la corruzione
individuale degli uomini; sì per la generale della società; i
costumi mutati, le illusioni cominciate a scoprire, la virtù cominciata
a conoscere inutile o meno utile di certi vizi, gli esempi che hanno forza di
guastare qualunque divina indole. In somma non fu più possibile che l'uomo
anche più perfetto, avuto in mano il potere, non se ne abusasse. Quando
anche [557]fosse stato possibile questo ancora, la depravazione della società,
la malizia nata e cresciuta, l'ambizione ec. e quindi la necessità di
regole fisse, strette, e indipendenti dall'arbitrio, rendevano impossibile la
scelta del successore. Bisognò dunque, perch'ella fosse certa e invariabile
commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario. E dove questo non fu stabilito,
non si guadagnò altro che un aumento di mali nelle turbolenze della scelta,
perchè la società ridotta com'era, non poteva più scegliere
nè senza turbolenza, nè un principe degno.
Dacchè il monarca non fu più o eleggibile, o bene scelto, la monarchia
divenne il peggiore di tutti gli stati. Perchè un uomo veramente perfetto
per quell'incarico, essendo raro da principio, rarissimo in seguito, com'era
possibile, che senza una scelta accurata, si potesse trovare quest'uomo rarissimo,
capace del principato? Com'era possibile che [558]l'azzardo della nascita, o
di una scelta parimente, si può dir casuale, perchè diretta da
tutt'altro che dal vero, si combinasse a cadere appunto in quest'uomo sommo
e quasi unico, difficilissimo a trovare anche mediante la più matura
considerazione e cura? Tanto più che la corruzione della società,
esigeva allora in un perfetto principe, maggiori e più difficili qualità
che per l'addietro: così che non solo il buono era più straordinario
di prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era
più sufficientemente perfetto per allora.
La perfezione dunque del principe cosa essenziale alla monarchia, non fu più
nè considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò
più nell'ordine della società. E siccome, oltre che la perfezione
era rarissima, il principe era tale in forza non della perfezione, ma del caso,
perciò, egli poteva non solo non essere il migliore, ma anche il peggiore
degl'individui: e ciò non solo per accidente, ma anche perchè
la natura della sua condizione, il potere, l'adulazione ec. contribuivano [559]positivamente,
definitamente, e necessariamente a farlo tale.
Da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto, la monarchia perdè
la sua ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo scopo,
cioè al ben comune. L'unità restava, ma non il di lei fine: anzi
l'unità in vece di condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo,
e renderlo impossibile. Così anche la società, perduta la sua
ragione e il suo scopo, cioè il comun bene, tornava ad essere inutile
e dannosa, con quel di più che risultava dall'assurdità, barbarie,
e pregiudizio sommo, dell'esser tutti nelle mani di un solo, inteso a danneggiarli.
In questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la società, o diminuire,
laxare, quell'unità, ch'essendo da principio e in natura il massimo e
più necessario de' beni sociali, così dopo la corruzione, è
il sommo de' mali, e l'istrumento e sorgente delle più terribili infelicità.
[560]Allora fu che i popoli abbandonando, e distruggendo il loro primo, vero,
e naturale governo, inerente alla vera natura della società, si rivolsero
ad altri governi, alle repubbliche ec. divisero i poteri, divisero in certo
modo l'unità; ripigliando quella parte di libertà e di uguaglianza,
che restava loro sotto la primitiva monarchia, andarono anche più oltre,
e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile colla natura e ragione della
società. Ed era ben naturale, perchè quel monarca assoluto che
doveva disporre di quest'altra porzione di libertà ec. non esistendo
più pel comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
Così le repubbliche d'ogni qualsivoglia sorta, e in ragione e in fatto
sono posteriori alla monarchia assoluta, e l'idea e l'esistenza della tirannia
non è antichissima, ma nella teoria, ed effettivamente nella storia,
precede immediatamente l'idea e l'esistenza degli stati liberi. Giacchè
l'antichissima e primitiva forma e idea di governo, non è altra che quella
dell'assoluta monarchia. Osservate la storia greca, osservate la romana. V.
Goguet loc. cit. Dovunque e sempre la monarchia [561]precede la libertà,
e la libertà nasce dalla corrotta monarchia, come dalla libertà
anche più corrotta successivamente, e più cattiva di quello che
fosse nel suo primo rinascimento, nasce una nuova monarchia: libertà
e nuova monarchia tutte due cattive, perchè tutte due derivate da cattivo
principio. Eccetto che la libertà ed uguaglianza naturale precede la
monarchia primitiva, o nello stato dell'uomo insociale e solitario, o in quella
prima infanzia della società, dov'ella è piuttosto un'adunanza
materiale d'uomini che una società.
Riprendendo il filo del discorso: coll'influenza, la forza, la viridità,
l'osservanza della natura, era finita la perfezione e l'utilità dell'assoluta
monarchia: coll'assoluta monarchia era finito lo stato vero ed essenziale della
società. Lungi dunque dalla natura, e lungi dall'essenza di se stessa,
la società non poteva esser più felice. Nè vi poteva più
esser governo perfetto, non solo perchè l'uomo era allontanato dalla
natura, fuor della [562]quale non v'è perfezione in qualunque stato;
ma anche e principalmente perchè quel solo governo che potesse da principio
esser perfetto, perchè il solo conveniente all'essenza della società,
era da circostanze irrimediabili e perpetue escluso per sempre dalla perfezione;
ed anche (presso questo o quel popolo) escluso effettivamente ed intieramente
dalla società.
La natura, sola fonte possibile di felicità anche all'uomo sociale, è
sparita. Ecco l'arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si
fanno avanti per supplire all'assenza o corruzone della natura, rimediarci,
sostituire i loro (pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura;
occupare in somma il luogo da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci;
condurre l'uomo cioè a quella felicità, a cui la natura lo conduceva.
Quante forme di governo non sono state ideate! quante messe in pratica! quanti
sogni, quante chimere, quante utopie ne' pensieri de' filosofi! certo essi erravano
ne' principii, giacchè pretendevano d'immaginare un governo perfetto,
e [563](lasciando tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità
nell'applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del
governo non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima,
e che non ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser
trovata e conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma
non può esser altro che semplicissima.
Fra tante miserie di governi che quasi facevano a gara, qual fosse il più
imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare l'infelicità
degli uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e democratico,
fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser suscettibile
in potenza ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di forza
d'animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti. L'uomo non era
più tanto naturale, da potersi trovar uno che reggesse al dominio senza
corrompersi, e senza abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza
limiti, non poteva più sussistere, nè per parte del principe che
ne [564]abusava inevitabilmente, nè per parte del popolo. Perchè
se questo non era costretto e circoscritto da freni, da leggi, da forze, in
somma da catene, non era più capace di ubbidire spontaneamente, di badare
tranquillamente alla sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino,
o il pubblico a se stesso, non aspirare all'occasione anche al principato, in
somma non era capace di non tendere alla ??????????in ogni cosa. L'ubbidienza
e sommissione totale al principe, e l'esser pronto a servirlo, non è
insomma altro che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a sacrificarsi
per gli altri, un contribuire pro virili parte al pubblico bene. Dico quando
la detta sommissione è spontanea. Ma l'egoismo non è capace di
sacrifizi. Dunque la detta sommissione spontanea non era più da sperare;
la comunione degl'interessi d'ogni individuo coll'interesse pubblico era impossibile.
Nato dunque l'egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non
era servo, nè il principe comandare senza esser tiranno. (V. p.523. capoverso
ult.) Le cose non andavano più alla buona, nè secondo natura,
e questo o quello non andava in questo o quel modo, se non per una necessità
certa e definita: ed era divenuta indispensabile, quella che ora lo è
molto più, in proporzione della maggior corruttela, cioè la matematica
delle cose, delle regole, delle forze.
[565]Ma restava ancora nel mondo tanta natura, tanta forza di credenze naturali
o illusioni, da poter sostenere lo stato democratico, e conseguirne una certa
felicità e perfezione di governo. Uno stato favorevolissimo alle illusioni,
all'entusiasmo ec. uno stato che esigge grand'azione e movimento: uno stato
dove ogni azione pubblica degl'individui è sottoposta al giudizio, e
fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come ho detto altrove, per
lo più necessariamente giusto; uno stato dove per conseguenza la virtù
e il merito non poteva mancar di premio; uno stato dove anzi era d'interesse
del popolo il premiare i meritevoli, giacchè questi non erano altro che
servitori suoi, ed i meriti loro, non altro che benefizi fatti al popolo, il
quale conveniva che incoraggisse gli altri ad imitarli; uno stato dove, se non
altro, e malgrado le ultime sventure individuali, non può quasi mancare
al merito, ed alle grandi azioni il premio della gloria, quel fantasma immenso,
quella molla onnipotente nella società; uno stato, del [566]quale ciascuno
sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e
interessato dal proprio egoismo, e come a se stesso; uno stato dove non c'è
molto da invidiare, perchè tutti sono appresso a poco uguali, i vantaggi
sono distribuiti equabilmente, le preminenze non sono che di merito e di gloria,
cose poco soggette all'invidia, e perchè la strada per ottenerle è
aperta a ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e volontà
di ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in
somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società,
è però il primitivo dell'uomo, naturalmente libero, e padrone
di se stesso, e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo
della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato
finchè restava tanta natura da sostenerlo, e quanta bastava perch'egli
fosse ancora compatibile colla società; era certamente dopo la monarchia
primitiva, il più conveniente all'uomo, il più fruttuoso alla
vita, il più felice. [567]Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche
greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
Ma come l'uguaglianza è incompatibile con uno stato il cui principio
è l'unità, dal quale vengono necessariamente le gerarchie; così
la disuguaglianza è incompatibile con quello stato, il cui principio
è l'opposto dell'unità, cioè il potere diviso fra ciascheduno,
ossia la libertà e democrazia. La perfetta uguaglianza è la base
necessaria della libertà. Vale a dire, è necessario che fra quelli
fra' quali il potere è diviso, non vi sia squilibrio di potere; e nessuno
ne abbia più nè meno di un altro. Perchè in questo e non
in altro è riposta l'idea, l'essenza e il fondamento della libertà.
Ed oltre che senza questo, la libertà non è più vera, nè
intera; non può neanche durare in questa imperfezione. Perchè,
come l'unità del potere porta il monarca ad abusarsene, e passare i limiti;
così la maggioranza del potere, porta il maggiore ad abusarsene, e cercare
di accrescerlo; e così le [568]democrazie vengono a ricadere nella monarchia.
Nè solamente la ??????????del potere, ma ogni sorta di ?????????, è
incompatibile e mortifera alla libertà. Nella libertà non bisogna
che l'uno abbia sopra l'altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima,
in somma di cose che non possano essere nè invidiate per parte degli
altri, nè abusate, e portate oltre i limiti da chi le possiede. Altrimenti
nascono le invidie negli uni, il desiderio di maggior superiorità negli
altri. Questi cercano d'innalzarsi, quelli di non restare al di sotto, o di
conseguire gli stessi vantaggi. Quindi fazioni, discordie, partiti, clientele,
risse, guerre, e alla fine vittoria e preponderanza di un solo, e monarchia.
Perciò gli antichi legislatori, come Licurgo, o i savi repubblicani,
come Fabrizio, Catone ec. proibivano le ricchezze, gastigavano chi possedeva
troppo più degli altri (come fece Fabrizio nella censura), proscrivevano
il sapere, le scienze, le arti, la coltura dello spirito, insomma ogni sorta
di ?????????. Perciò tutte le repubbliche e democrazie vere, sono state
povere e ignoranti [569]finchè ha durato il loro ben essere. Perciò
gli Ateniesi arrivavano ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della
virtù segnalata, della mera gloria, ancorchè spoglia di onori
esterni; ed è osservabile che la superiorità del merito anche
fra i Romani fu tanto più sfortunata, quanto la democrazia era più
perfetta, cioè ne' primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec. Colle
ricchezze, il lusso, le aderenze, la coltura degl'ingegni, la troppa disuguaglianza
delle dignità, ed onori esteriori, del potere ec. ed anche la sola eccessiva
sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte
le democrazie.
Ma siccome è impossibile la durevole conservazione della perfetta uguaglianza,
e la perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice
sola e indispensabile della democrazia, così questo stato non può
durar lungo tempo, e si risolve naturalmente nella monarchia, se non è
abbastanza fortunato per cader piuttosto nell'oligarchia, o nel governo degli
ottimati, cioè nell'aristocrazia, le quali [570]però non sono
ordinariamente, anzi si può dir sempre, fuori che un altro gradino alla
monarchia. V. p.608. capoverso 1.
Il solo preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato
libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le quali diriggono
l'egoismo e l'amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri,
a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell'uguaglianza, a difendere il presente
stato di cose, e rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella
dei sacrifizi, dei pericoli, e delle virtù conducenti alla conservazione
della libertà ed uguaglianza di tutti. Il solo rimedio contro le disuguaglianze
che pur nascono, è la natura, cioè parimente le illusioni naturali,
le quali fanno e che queste disuguaglianze non derivino se non dalla virtù
e dal merito, e che la virtù e l'eroismo comune della nazione, le tolleri,
anzi le veda di buon occhio, e senza invidia, e con piacere, come effetto del
merito, e non si sforzi di arrivare a quella superiorità, se non per
lo stesso mezzo della virtù e del merito. E che quelli che hanno conseguita
la detta superiorità, sia di gloria, sia di uffizi e dignità (giacchè
quella di ricchezze, e altri tali vantaggi, non ha luogo finchè dura
nella [571]repubblica l'influenza della natura), non se ne abusino, non cerchino
di passar oltre, sieno contenti, anzi impieghino il poter loro a mantener l'uguaglianza
e libertà, si comunichino agli altri, diminuiscano l'invidia de' loro
vantaggi col fuggire l'orgoglio, la cupidigia, il disprezzo o l'oppressione
degli inferiori ec. ec. ec. E tutto questo accadeva effettivamente nei primi
e migliori tempi delle antiche democrazie, cioè ne' più vicini
alla natura, e per gli effetti e le opere e i costumi, e materialmente per l'età.
Ma spente le illusioni, scemata o tolta la natura, tornato in campo il basso
egoismo fomentato dai vantaggi e dai mezzi d'ingrandimento nei superiori, irritato
negl'inferiori dalla stessa inferiorità, aggiunte le ricchezze, il lusso,
le clientele, gl'impegni, le ambitiones, la filosofia, l'eloquenza, le arti,
e le altre infinite corruzioni e ?????????? della società, le democrazie
s'indebolirono, crollarono e finalmente caddero. E qui torniamo al principio
del nostro discorso, [572]cioè come i governi che paiono e si trovano
oggi imperfettissimi, e talora insostenibili, fossero o perfetti, o buoni, ed
anche utilissimi da principio, e durante i costumi naturali. E come non vi sia
peste, nè maggiore nè più certa a qualsivoglia stato pubblico,
che la corruzione, e l'estinzione della natura. E come quei governi che durando
la natura erano buoni, cessata la natura divengono senz'altro pessimi. E come
alla natura non si può supplire, e la mancanza di lei non ha rimedio
nessuno; nè senza lei si può mai sperare perfezione o felicità
di governo fino alla fine dei secoli; ma tutto (e sia pure il governo il più
profondamente studiato, combinato, e perfettamente filosofico) sarà sempre
imperfettissimo, pieno di elementi discordanti, mal adattato all'uomo (al quale
nulla si può più adattare, quand'egli non è più
quello che dovrebb'essere), inetto alla vera felicità; e quindi o in
fatto, o certo nella vera teorica, precario, istabile, mal situato, mal piantato,
barcollante, incongruente, incoerente, [573]falso ec. Il che si potrà
anche vedere da quello che segue.
Tutti i vari governi per li quali andò successivamente o simultaneamente
errando o lo spirito umano, o il caso, o la forza delle circostanze particolari,
non servirono ad altro che a disperare i veri filosofi (certamente pochi), convinti
dall'esperienza della necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione
e sconvenienza di tutto quello che 1° mancava di natura sola norma vera
e invariabile d'ogni istituzione mondana; 2° non corrispondeva all'essenza
e alla ragione della società, la quale richiede la monarchia assoluta.
Quasi tutte però le diverse aberrazioni della società in ordine
ai governi, vennero a ricadere in questa monarchia, stato naturale della società,
e il mondo, massime in questi ultimi secoli, era divenuto, si può dir,
tutto monarchico assoluto. Specialmente poi dall'abuso e corruzione della libertà
e democrazia, nata immediatamente dall'abuso e corruzione della [574]monarchia
assoluta, era nata pure immediatamente una nuova monarchia assoluta. Ma non
già quella primitiva, quella ch'era buona ed utile e conveniente alla
società durante l'influenza della natura, e mediante questa sola: ma
quella che può essere nell'assenza della natura; cioè quella tanto
essenzialmente pessima, quanto la primitiva è sostanzialmente e solamente
ottima: Insomma la tirannia, perchè la monarchia assoluta senza natura,
non può esser altro che tirannia, più o meno grave, e quindi forse
il pessimo di tutti i governi. E la ragione è, che tolte le credenze
e illusioni naturali, non c'è ragione, non è possibile nè
umano, che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui, cosa essenzialmente
contraria all'amor proprio, essenziale a tutti gli animali. Sicchè gli
interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre infallibilmente posposti a quelli
di un solo, quando questi ha il pieno potere di servirsi degli altri, e delle
cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi, sieno anche capricci, insomma per
qualunque soddisfazione sua.
Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell'impero
romano, fino al nostro secolo. Nell'ultimo secolo, la filosofia, la cognizione
delle cose, l'esperienza, lo studio, l'esame delle storie, degli uomini, i confronti,
i paralelli, il commercio scambievole d'ogni sorta d'uomini, di nazioni, di
costumi, le scienze d'ogni qualità, le arti ec. ec. hanno fatto progressi
tali, che tutto il mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar
se stesso, e lo stato suo, e quindi principalmente [575]alla politica ch'è
la parte più interessante, più valevole, di maggiore e più
generale influenza nelle cose umane. Ecco finalmente che la filosofia, cioè
la ragione umana, viene in campo con tutte le sue forze, con tutto il suo possibile
potere, i suoi possibili mezzi, lumi, armi, e si pone alla grande impresa di
supplire alla natura perduta, rimediare ai mali che ne son derivati, e ricondurre
quella felicità ch'è sparita da secoli immemorabili insieme colla
natura. Giacchè insomma la felicità e non altro, è o dev'esser
lo scopo di questa nostra oramai perfetta ragione, in qualunque sua opera: come
questo è lo scopo di tutte le facoltà ed azioni umane.
Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al
paragone della natura, intorno al punto principale della società? Lascio
gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del passato, e nei primi anni
di questo secolo. Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d'altronde
la monarchia [576]assoluta per tutt'uno colla tirannia, la filosofia moderna
s'è appigliata (e che altro poteva?) al partito di puntellare. Non idee
di perfetto governo, non ritrovati, scoperte, forme di essenziale e necessaria
perfezione. Modificazioni, aggiunte, distinzioni, accrescere da una parte, scemare
dall'altra, dividere, e poi lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti
di questa divisione, toglier di qua, aggiunger di là: insomma miserabili
risarcimenti, e sostegni, e rattoppature e chiavi, e ingegni d'ogni sorta, per
mantenere un edifizio, che perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo,
non si può più reggere senza artifizi che non entrano affatto
nell'idea primaria della sua costruzione. La monarchia assoluta s'è cangiata
in molti paesi (ora mentre io scrivo s'aspetta che lo stesso accada in tutta
Europa) in costitutiva. Non nego che nello stato presente del mondo civile,
questo non sia forse il miglior partito. Ma insomma questa non è un'istituzione
che abbia il suo fondamento e la sua ragione nell'idea e nell'essenza o della
società in generale e assolutamente, o [577]del governo monarchico in
particolare. È un'istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli
uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente dev'essere istabile, mutabile,
incerta e nella sua forma, e nella durata, e negli effetti che ne dovrebbero
emergere perch'ella corrispondesse al suo scopo, cioè alla felicità
della nazione.
1° Tutto quello che non ha il suo fondamento nella natura della cosa, ha
un'esistenza sostanzialmente precaria. La cosa può restare, e la modificazione
perire, alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi, diversificarsi in mille guise,
non ottenere il suo scopo, restare quanto al nome e all'apparenza, non quanto
al fatto. Insomma le convengono tutte quelle proprietà, che nelle scuole
si attribuiscono all'accidente, e che lo definiscono. Di più, ancorchè
resti, e resti in tutta la sua relativa perfezione o integrità, difficilmente
può giovare, e valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione
nell'essenza e natura della cosa.
2° La ragione e l'essenza della monarchia consiste in questo, che alla società
è necessaria [578]l'unità. L'unità non è vera se
il capo o principe non è propriamente e interamente uno. Questo non vuol
dir altro se non che essere assoluto, cioè padrone egli solo di tutto
quello che concerne il suo fine, cioè il bene comune. Quanto più
si divide il potere, tanto più si pregiudica all'unità, dunque
tanto più si viola, si allontana e si esclude la ragione e la perfezione
e della monarchia e della società.
Così che lo stato costituzionale non corrisponde alla natura e ragione
nè della società in genere, nè della monarchia in specie.
Ed è manifesto che la costituzione non è altro che una medicina
a un corpo malato. La qual medicina sarebbe aliena da quel corpo, ma questo
non potrebbe vivere senza lei. Dunque bisogna compensare l'imperfezione della
malattia, con un'altra imperfezione. E così appunto la costituzione non
è altro che una necessaria imperfezione del governo. Un male indispensabile
per rimediare o impedire un maggior male. Come un cauterio in un individuo affetto
da reumi ec. Che sebbene quell'individuo vive [579]mediante quel cauterio, altrimenti
non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è
diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male,
un vizio, un'imperfezione: e sebbene non nuoce più il primo male, nuoce
il rimedio: e quell'individuo non è mica perfetto nè sano. Così
una gamba di legno a chi ha perduto la naturale. Il quale cammina bensì
con quella gamba, che altrimenti non potrebbe sostenersi: ma non perciò
resta ch'egli non sia imperfetto.
Ed ecco (per conclusione del mio discorso) come quei governi e quelle cose d'ogni
genere, che da principio e secondo natura, sarebbero ed erano perfette, tolta
la natura, non possono più esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione,
del sapere, dell'arte: e queste non possono mai riempiere il luogo della natura,
e fare perfettamente le di lei veci: anzi rimediando a un male, ne introducono
necessariamente un altro: perchè esse stesse introdotte che sono in qualunque
genere di cose, ne formano un'imperfezione, e rendono quella tal cosa imperfetta
per ciò solo che le contiene.
(22-29. Gen. 1821.)
Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario. L'uomo è naturalmente,
primitivamente, [580]ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri,
e queste qualità appartengono inseparabilmente all'idea della natura
e dell'essenza costitutiva dell'uomo, come degli altri animali. La società
è nello stesso modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale,
e senza queste qualità la società non è perfetta, anzi
non è vera società. Pertanto l'uomo in società bisogna
che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali, naturali,
ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso. Le quali egli può
ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare
un essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente
affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch'essendo
primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura
quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che
voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è
parimente indipendente dagli accidenti. In questa ipotesi, sarà un altro
[581]essere, ma non un uomo. Dunque un uomo privo della libertà e della
uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza umana, e non sarebbe un uomo,
ch'è impossibile. Nè egli si può condannare a perdere realmente
e radicalmente questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa,
contratto, volontà propria e libera, lo può mai spogliare in minima
parte del diritto di seguire in tutto e per tutto la sua volontà, oggi
in un modo, domani in un altro: e come egli ha potuto adesso volontariamente
ubbidire, e promettere di ubbidire per sempre; così l'istante appresso
egli può disubbidire in diritto, e non può non poterlo fare. V.
p.452. capoverso 1. Dunque la società, spogliando l'uomo in fatto, di
alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non
conviene all'uomo, non corrisponde alla sua natura; quindi essenzialmente e
primitivamente imperfetto, ed alieno per conseguenza dalla sua felicità:
e contraddittorio nell'ordine delle cose.
Del resto tutto quello ch'io dico della necessità dell'unità,
e quindi dipendenza [582]soggezione e disuguaglianza nella società, non
appartiene e non ha forza in quanto a quella società veramente primordiale,
che entra nell'essenza, ordine e natura della specie umana e degli animali:
società imperfetta in quanto società; perfetta in quanto all'essenza
vera e primitiva dell'uomo e degli animali, e all'ordine delle cose, dove nulla
è perfetto assolutamente, ma relativamente. Volendo appurare l'idea della
società, ne risulta direttamente la conseguenza che ho detto, cioè
la necessità dell'unità, e quindi della monarchia ec. Ma questi
appuramenti, queste circoscrizioni, queste esattezze, queste strettezze, queste
sottigliezze, queste dialettiche queste matematiche non sono in natura, e non
devono entrare nella considerazione dell'ordine naturale, perchè la natura
effettivamente non le ha seguite. E non solo non è imperfetto quello
che non corrisponde geometricamente alle dette idee, purchè però
sia naturale; ma anzi non può esser perfetto tutto quello che vien ridotto
e conformato alle dette idee, perchè non è più conforme
al suo [583]stato essenziale e primitivo. E dovunque ha luogo la perfezione
matematica, ha luogo una vera imperfezione (quando anche questa rimedii ad altri
più gravi inconvenienti e corruzioni), cioè discordanza dalla
natura, e dall'ordine primitivo delle cose, il quale era combinato in altro
modo, e fuor del quale non v'è perfezione, benchè questa non sia
mai assoluta, ma relativa. La stretta precisione entra nella ragione e deriva
da lei, non entrava nel piano della natura, e non si trovava nell'effetto. È
necessaria ai nostri tempi, dove l'ordine delle cose è corrotto, ed è
come degnissimo d'osservazione altrettanto evidente e osservato, che la stretta
precisione delle leggi, istituzioni, statuti governi ec. insomma delle cose,
è sempre cresciuta in proporzione che gli uomini e i secoli sono stati
più guasti: ed ora è venuta al colmo, perchè anche la corruzione
è eccessiva, e ha passato tutti i limiti. L'appresso a poco, il facilmente
e simili altre idee, non convengono ai sistemi presenti, dove nulla è,
se può non essere: convengono ottimamente [584]alla natura, dove infinite
cose erano, e potevano non essere, ma la natura aveva provveduto bastantemente,
quando avea provveduto che non fossero, e non erano in fatto. Altrimenti come
si sarebbe potuta corromper la natura, e l'ordine delle cose, in quel modo in
cui vediamo che ha fatto? Della qual corruzione, tutti, più o meno, bisogna
che convengano. Ma ciò non avrebbe potuto accadere se tutto quello che
era, non avesse potuto non essere, nè essere nè andare altrimenti.
Il qual effetto è lo scopo della ragione e de' presenti sistemi, sempre
diretti a rendere impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla pratica,
e a dimostrare impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla speculativa.
Questa pure è una gran fonte di errori ne' filosofi, massime moderni,
i quali assuefatti all'esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di
moda oggidì, considerano e misurano la natura con queste norme, credono
che il sistema della natura debba corrispondere a questi principii; e non credono
naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi
per lo contrario, [585]si può dir tutto il preciso non è naturale:
certo è un gran carattere del naturale il non esser preciso. Ma il detto
errore è fratello di quello che suppone nelle cose il vero, il bello,
il buono, la perfezione assoluta.
Nella natura e nell'ordine delle cose bisogna considerare la disposizion primitiva,
l'intenzione, il come le cose andassero da principio, il come piaccia alla natura
che vadano, il come dovrebbero andare; non la necessità, nè il
come non possano non andare. Ed egli è certissimo che, sebben l'ordine
delle cose andava naturalmente nell'ottimo modo possibile, e regolarissimamente,
contuttociò andava alla buona; e la massima parte delle cagioni corrispondeva
agli effetti sufficientemente (che questo si richiede alla provvidenza dell'effetto
voluto: la sufficienza della causa), non necessariamente. E ciò non solo
negli uomini, ma negli animali, e in tutti gli altri ordini di cose. E perciò
appunto si trovano e accadono tuttogiorno nel mondo tanti inconvenienti, aberrazioni,
accidenti particolari contrari all'ordine generale: e non parlo già di
quelli soli che derivano da noi, ma di quelli indipendenti [586]affatto dall'azione
e dall'ordine nostro. I quali accidenti che si chiamano mali, disastri, ec.
danno tanto che fare ai filosofi, i quali non vedono come possano aver luogo
nell'opera della natura: ed alcuni sono stati così temerari, che siccome
la ragione nelle sue piccole opere si sforza di escludere la possibilità
d'ogni accidente particolare contrario a quel tal ordine generale; così
hanno creduto che se la ragione umana avesse presieduto all'opera della natura,
questi accidenti non avrebbero avuto luogo. Ma le dette imperfezioni accidentali
non entrano nel piano della natura, (sebbene neppur questo possiamo dire non
conoscendo l'intero ordine ed armonia delle cose): non ne sono però matematicamente
e necessariamente esclusi; e sono da lei quasi permessi, in quel modo come dicono
i Teologi che Dio permette il peccato, ch'è sommo male e imperfezione,
ma accidentale: e in ogni modo il piano, il sistema, la macchina della natura,
è composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e
non risponde all'esattezza matematica.
[587]Così dunque la società veramente primordiale, e naturale
alla specie umana, come a quelle dei bruti, senza principato, senza soggezione,
senza disuguaglianza, senza gradi, senza regole, poteva benissimo corrispondere
al fine, cioè al comun bene, come vi corrisponde quella delle formiche:
al qual fine non può mai corrispondere una società più
stretta e formata, se manca di unità. Ma quella primissima società
camminava alla buona, e così alla buona conseguiva l'intento della natura,
e la sua destinazione. Nè per questo era necessario opporsi alla natura,
e introdurre una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione
nell'ordine delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità
ingenite ed essenziali dell'uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza
contrarie alla libertà ed uguaglianza naturale.
Che se le api hanno un capo, e quindi soggezione e disparità, questo
non fa obbiezione veruna. Tutto essendo relativo, la natura che ha fatto gli
uomini liberi e uguali, e così infinite altre specie di animali; poteva
far le api (e altre tali specie, [588]se ve ne ha) disuguali e soggette. E siccome
ella lo ha fatto, dando una superiorità ingenita e naturale a certi individui
di quella specie, sopra gli altri individui; perciò, come lo stato dell'uomo
e degli altri animali non può esser perfetto senza libertà ed
uguaglianza, perchè queste sono naturali in loro; così per lo
contrario lo stato delle api non è perfetto senza soggezione e disuguaglianza,
perchè la loro specie è così fatta e ordinata da natura,
e la perfezione consiste nello stato naturale.
Negli uomini dunque non c'è nulla di simile, nè si può
dedur nulla in proposito loro, dall'esempio delle api. Perchè le piccole
(certo piccole in proporzione della disparità delle api), dico le piccole
disparità o superiorità di forze, di statura, d'ingegno ec. che
s'incontrano negli uomini, sono disparità o superiorità accidentali,
e provenienti da cause subalterne; come sono inferiorità accidentali
quelle che vengono da malattie, da cadute, disgrazie d'ogni genere ec. Sono
dico accidentali queste o superiorità, o inferiorità, cioè
non sono regolari, e non appartengono all'ordine primitivo, costante, invariabile,
[589]essenzale della specie, come la disparità delle api. Che se queste
tali superiorità dessero a chi le possiede, un diritto di comandare e
di essere ubbidito, 1. dove molti le possedessero in ugual grado, o non si saprebbe
a chi ubbirire, o tutti quei tali dovrebbero comandare, ed ecco svanita l'idea
dell'unità: 2. dove non ci fosse disparità nessuna, il principato
non sarebbe naturale, dove ci fosse, sarebbe naturale: 3. e di più siccome
le disparità possono nascere accidentalmente in diversi tempi, perciò
in una stessa società anzi generazione di uomini, oggi non sarebbe naturale
il principato, domani sì: 4. il fanciullo futuro superiore di forze ec.
siccome ancora non è tale, e forse non diverrà tale, se non per
cause accidentalissime, e imprevedibili; così non avrebbe ancora nessun'ombra
di quel diritto al comando, che avrà poi per natura: 5. questo diritto
supposto naturale, non dovrebbe tuttavia durare se non quanto durasse la superiorità
in quello o in quei tali; sicchè questi perdendo il vigore del corpo,
o dell'ingegno, o dell'animo, la virtù, il coraggio ec. per malattie,
per disgrazie, per circostanze, per cangiamento e corruzione di [590]opinioni,
di costumi ec. per abuso fatto del corpo, o in ogni modo invecchiando, il che
è inevitabile; perderebbero essenzialmente non solo in fatto ma in diritto
quel comando, che si suppone avessero naturalmente e per se. V. p.609. capoverso
1. Insomma gli accidenti sono del tutto fuori d'ogni considerazione, intorno
all'ordine primitivo e stabile, e alla natura di qualunque cosa.
(29-31 Gen. 1821.)
Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea che a qualunque società,
per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla primissima forma di società,
comune si può dire a tutte le specie di viventi, è necessaria
l'unità, cioè un capo, e questo veramente uno, cioè assoluto,
si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in ogni genere di società,
pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di cacciatori, o in qualunque
compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia destinata tutta insieme a un oggetto
qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire un uomo di nessuna o coltura, o acutezza
naturale d'ingegno, il quale a una compagnia di negoziatori, che si mettevano
a girare il mondo, per far guadagno [591]mediante un capitale comune e indivisibile
(cioè un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete
un capo, e ubbiditelo in tutto. (che altro è questo se non l'idea precisa
della necessità della monarchia assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando
il suo interesse più dell'altrui, cosa contrarissima all'interesse e
allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio all'altro, e al tutto; e così
ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia (cioè il contrario
dell'unità) v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). V. p.598. capoverso 1.2.3.
Quod si hoc apparet in bestiis, volucribus, nantibus, agrestibus, cicuribus,
feris, primum ut se ipsae diligant; (id enim pariter cum omni animante nascitur)
(dunque Cicerone riconosceva le bestie per dotate di libertà) deinde,
ut requirant, atque appetant, ad quas se applicent, eiusdem generis animantes;
idque faciunt cum desiderio, et cum quadam similitudine amoris humani: quanto
id magis in homine fit natura, qui et se ipse diligit, et alterum anquirit,
cuius animum [592]ita cum suo misceat, ut efficiat paene unum ex duobus? Cic.
Lael. sive de Amicit. c.21. fine.
Della nostra naturale inclinazione di partecipare agli altri le nostre alquanto
straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v. un luogo insigne di
Cic. (Lael. sive de Amicit. tutto il c.23.) il qual passo, io credo che sia
stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai moderni.
(31. Gen. 1821.)
Cic. Lael. sive de Amicit. c. II. Quod si rectum statuerimus, vel concedere
amicis, quidquid velint, vel impetrare ab iis, quidquid velimus, PERFECTA QUIDEM
SAPIENTIA SIMUS, SI NIHIL HABEAT RES VITII; sed loquimur de iis amicis, qui
ante oculos sunt, quos videmus, aut de quibus memoriam accepimus, aut quos novit
vita communis. Leggi si perfecta q. s. simus, nihil h. r. v. come richiede evidentemente
il senso, che altrimenti zoppica, e sibi non constat.
(31. Gen. 1821.).
Communicare per particeps fieri, essere, o venire a parte, del qual significato
il Forcellini [593]non reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità
ed autorità (l'Appendice nulla) si trova presso Cicerone: (Lael. sive
de Amicit. c.7.) Itaque, si quando aliquod officium exstitit amici in periculis
aut adeundis, aut communicandis, (cioè nel prender parte ai pericoli
dell'amico) quis est, qui id non maximis efferat laudibus? V. un non so che
di simile nella Crusca.
Alla p.307. Quid autem interest, ab iis, qui postea nascentur sermonem fore
de te, cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sint, qui nec pauciores, et certe
meliores fuerunt viri? L'Affricano maggiore al minore, presso Cicerone, Somn.
Scipion. c.7. V. p.643. capoverso 3.
Quid autem est horum in voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum?
an quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese, et praedicatione effert?
(Cic. Paradox. I. c.3. fine) Oggi sibbene, o M. Tullio, nè c'è
maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera loro più
brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di
ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello [594]di seguire
e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli
altri. L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della
gioventù, non è altro che la voluttà, e il trionfo e la
gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione, e che sa e può
godere e immergersi nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà
sono lo stadio della gioventù presente: tanto che già non si cercano
principalmente per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate
e conseguite. E se non di tutte le voluttà si può gloriare colui
che le ottiene, in quel momento medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi
generi di voluttà accade tuttogiorno ancor questo) certo desidererebbe
di poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento
consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che
gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare
e vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi
l'adito a nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere
[595]ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che
cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore,
lo rende però più lodevole agli occhi della presente generazone,
il che tu o Marco Tullio, sti mavi che non potesse avvenire.
(1 Feb. 1821.)
Quella frase o metafora nostra volgarissima e familiare di cuocere per molestare,
travagliare, tormentare, e affligger l'animo (così la Crusca v. Cuocere
§.3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche
ne' più antichi.
O Tite, si quid ego adiuvero, CURAMQUE levasso,
QUAE nunc TE COQUIT, et versat in pectore fixa,
Ecquid erit pretii?
Ennio presso Cicerone (Cato maior seu de Senect. c.1.) Il Forcellini ne porta
anche altri due esempi, l'uno di Virgilio, l'altro di Stazio. L'Appendice nulla.
???????????????????????????????????????????. L'ignoranza fa l'uomo pronto, [596]la
considerazione ritenuto; L'ignoranza fa che l'uomo si risolva facilmente, la
ragione difficilmente. In latino traducono così: Inscitia quidem audaciam,
consideratio autem tarditatem fert. Sentenza di Tucidide, lib.2. nell'orazione
funebre detta da Pericle, che incomincia, ?? ??? ?????? ??? ?????? ??? ?????????.
Sentenza celebre presso gli antichi. Luciano: (in Epist. ad Nigrinum, quae praemittitur
Nigrino, seu de Philosophi moribus) ???????????? ?? (scamperò) ???????
??? ?? ?????????? ????????, ??? ? ?????? ??? ???????, ???????? ?? ?? ???????????
???????????. Imperitia audaces, res autem considerata timidos efficit. Plinio
(Epist. IV. 7.): Hanc ille vim, (seu quo alio nomine vocanda est intentio quicquid
velis obtinendi) si ad potiora vertisset, quantum boni efficere potuisset? quamquam
minor vis bonis, quam malis inest, ac sicut ?????? ??? ??????, ???????? ?? ?????
?????, ita recta ingenia debilitat verecundia, perversa [597]confirmat audacia.
S. Girolamo: (Epist. 126. ad Evagr.) (così è numerata nella mia
ediz. t.3. p.31. a.) Tuum certe spiritualem illum interpretem non recipies;
qui imperitus sermone et scientia, tanto supercilio et auctoritate Melchisedek
Spiritum Sanctum pronunciavit, ut illud verissimum comprobarit, quod apud Graecos
canitur: imperitia confidentiam, eruditio timorem creat.
Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus, ec. coi composti, non solo
si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec.
ec. ma se ben questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente,
e senza il significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come
infinite altre parole delle quali resta quasi il corpo e non l'anima, tuttavia
la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar
di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia registrata
nella Crusca.
(1. Feb. 1821.)
[598]Alla p.591 Igitur initio reges (nam in terris nomen imperii id primum fuit)
(cioè, il primo governo, le premier pouvoir, come traduce Dureau-Delamalle,
la più antica signoria, come traduce Alfieri, fu regia, vale a dire assoluta)
diversi, pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine
cupiditate agitabatur, sua cuique satis placebant. (Cioè, l'egoismo non
turbava l'ordine pubblico). Sallustio, Bell. Catilinar. c.2.
Ius bonumque apud eos, (i romani de' primi tempi della repubblica) non legibus
magis quam naturâ valebat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.9.
Regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae reipublicae
fuerat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.6. fine.
At populo romano nunquam ea copia fuit, (praeclari ingenii scriptorum) quia
prudentissimus quisque (cioè, ceux qui avaient le plus de lumières,
Dureau-Delamalle, qual più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume
erat: ingenium nemo sine corpore exercebat: (luogo degno di essere riportato
qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque facere
quam dicere, [599]sua ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare,
malebat. Sallustio, Bell. Catilinar. c.8. fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem, tanquam deum, sequimur,
eique paremus... Quid enim est aliud, gigantum modo bellare cum diis, nisi naturae
repugnare? Cic. Cato mai. seu de Senect. c.2. Sentenze attissime o congiunte
o separate, a servire di epigrafe o motto a qualche mio libro. V. p.601 capoverso
1.
Alla p.291. margine. Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vivere.
Cic. Cato mai. seu de Senect. c.7. fine. E lo dice in proposito dei contadini
che seminano ancorchè vecchissimi per l'anno futuro.
Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo
latino defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre,
nello spagnuolo defender e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure
il significato proprio e primitivo del latino defendere (admodum propria et
Latina huius verbi significatio, [600]ut ait Gell. l.9. c.1. dice il Forcellini)
è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese,
e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come
dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di
scrittori. Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione,
aveva ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre
(v. il Forcellini) così è ben verisimile che il verbo defendere
unisse (se non presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il
volgo) questo significato al sopraddetto. In ogni modo è chiaro [che]
l'uso del defendere in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva
dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale,
se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente nelle
origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza della
conservazione costante di quell'antichissimo significato, non più noto
agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e che
si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non [601]avessimo questa prova
della sua costante conservazione fino all'ultima età della lingua latina.
(2 Feb. 1821.)
Alla p.599 Omnia vero, quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis. Cic.
Cato mai. seu de Senect. c.19. in proposito della morte dei vecchi.
(3. Feb. 1821.)
Cic. Cato mai. seu de Senect. c.23. Et ex vita ita discedo, tamquam ex hospitio,
non tamquam ex domo. Il contesto vuol che si legga: At ex vita.
Quid enim habet vita commodi? quid non potius laboris? Sed habeat sane: habet
certe tamen, aut satietatem, aut modum. Non lubet enim mihi deplorare vitam,
quod multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque me vixisse poenitet; quoniam
ita vixi, ut non frustra me natum existimem. Cic. Cato mai. seu de Senect. c.23.
in persona di Catone.
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire
alcuna cosa oltre i limiti della materia. Al di là, non possiamo con
qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera di essere, una cosa
diversa dal nulla. Diciamo che l'anima nostra è spirito. La lingua pronunzia
il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea, se non
questa, ch'ella ignora che cosa e quale e come sia. Immagineremo un vento, un
etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli antichi si formarono dello
spirito, quando lo chiamarono in greco ???????da ????, e in latino spiritus
da spiro: ed anche anima presso i latini si prende per vento, come presso i
greci ???? derivante da ????, flo spiro, ovvero refrigero); immagineremo una
fiamma; assottiglieremo l'idea della materia quanto potremo, per formarci un'immagine
e una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla
sostanza medesima non arriva nè l'immaginazione, nè la concezione
dei viventi, di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè
finalmente è l'anima appunto e lo spirito che non può concepir
se stesso. In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su
tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che [603]fronte,
o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l'anima nostra è
perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire?
Chi ce l'ha detto? Noi vogliamo l'anima immateriale, perchè la materia
non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall'anima.
Sia. Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi. Che
vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo
concepir quale nè come sia, e quasi che l'avessimo sottoposta ad esperimenti
chimici, pronunziare ch'ella è del tutto semplice e indivisibile e senza
parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non
possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali
de' quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta
di elementi materiali. Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione
e l'affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo
che l'immateriale è indivisibile? Forse l'immateriale, e l'indivisibile
nella nostra mente sono tutt'uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente
ho già dimostrato come l'idea delle parti non ripugni in nessun modo
all'idea dell'immateriale. Secondariamente, se l'immateriale è indivisibile
e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze
immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque
non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una
sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l'anima, posto che sia immateriale,
non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può
perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè
non si può comporre, non potrà cominciare. Meglio quei filosofi
antichi i quali negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire,
negavano parimente che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero
state. Il fatto sta che l'anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco
appoco, come tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell'anima [605]diversissime facoltà?
la memoria, l'intelletto, la volontà, l'immaginazione? Delle quali l'una
può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la
vita, e quindi l'anima. Delle quali altri son più, altri meno forniti:
come dunque la sostanza dell'anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell'anima. Primo, l'anima stessa non
ci è nota, se non come una facoltà. Secondo, se l'anima è
perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale
alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà,
una proprietà, conservando un'altra, e continuando ad essere? Come può
accader questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet
in se quidquam admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod
si non possit, non posse interire? (Cic. Cato mai. seu de Senect. c.21. fine,
ex Platone.) V. p.629. capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza di un Padrone dell'esistenza,
non c'è ragione veruna perchè l'anima, o qualunque altra cosa,
supposta anche e non ostante l'immaterialità debba essere immortale;
non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che
non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire
ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un'altra,
una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l'incorruttibilità
o la corruttibilità.
(4. Feb. 1821.)
Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam,
praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare. Parole che Sallustio
(B. Catilinar. c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell'esortazione ai soldati
prima della battaglia. Osservate la differenza dei tempi. Questa è quella
figura rettorica che chiamano Gradazione. Volendo andar sempre crescendo, Sallustio
mette prima le ricchezze, poi l'onore, poi la gloria, poi la libertà,
[607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le
cose. Oggidì, volendo esortare un'armata in simili circostanze, ed usare
quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno
ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il più delle
persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla,
molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all'amor proprio, ma finalmente
è un vano bene; poi l'onore, del quale si suole aver molta cura, ma si
sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze, per le
quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s'ha
per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido secondo i nostri valorosi
contemporanei: il più capace anzi di tutti questi beni il solo capace
di stuzzicar l'appetito, e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.465. Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare sicuramente
inferiore. Dunque [608]tutto il mondo oggidì essendo armato di egoismo,
bisogna che ciascuno si provveda della medesima arma, anche i più virtuosi
e magnanimi, se voglion far qualche cosa.
Alla p.570. principio. Perchè come gli oligarchi e gli ottimati a forza
di fazioni, di clientele, di largizioni, di artifizi di ogni sorta, hanno vinto
la plebe in cui risiedeva il potere, e l'hanno vinta colle forze comuni: così
questi pochi nei quali risiede ora il potere; mediante l'egoismo e la ?????????,
inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo, non
si accordano neppure intorno agl'interessi comuni di questa piccola società,
il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando il ben proprio,
si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si suddivide di nuovo
per gli stessi motivi; finattanto che più presto o più tardi,
la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale essendo indivisibile,
finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609]una forma stabile. Così
accadde in Roma. Gli uomini chiari per gloria militare o domestica, per ricchezze,
potere, eloquenza ec. esercitavano già una specie di oligarchia, quando
questa, abbassati tutti gli altri, si venne a ristringere nei primi Triumviri,
finattanto che Cesare tolti di mezzo gli altri triumviri, ristrinse tutto in
lui solo. Così nel secondo triumvirato.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.590./6. Anche durando in quel tale che si suppone monarca per diritto
di natura, tutte le qualità che gli davano questo diritto; posto il caso
che un altro membro di quella medesima società, arrivasse o coll'età,
o coll'esercizio del corpo o dello spirito ec. ec. a possedere quelle stesse
qualità in maggior grado, o anche maggiori, o più numerose qualità;
il primo monarca perderebbe il suo diritto che si suppone naturale, alla monarchia,
e non solo ancora vivendo, ma essendo ancor tale, quale incominciò a
regnare, e per se medesimo in tutto e per tutto lo stesso, a ogni modo non dovrebbe
più [610]regnare.
(4. Feb. 1821.)
Neanche l'amor proprio è infinito, ma solamente indefinito. Non è
infinito, dico io non già secondo l'origine e il significato proprio
di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo
che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente
in se stesso tutta l'infinità. Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente,
si ama senza confine veruno, e l'amor proprio non ha limiti nè misura,
nè per durata nè per estensione, contuttociò l'animo umano
o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga
la totalità dell'infinito, e in questo senso dico io che l'amor proprio
non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo
che l'animo nostro abbia niente d'infinito, non più che quello di qualsivoglia
animale. E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla
infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata
[611]infinità dell'amor proprio. Nè dalla nostra infinita, o vogliamo
dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente
affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito amor del piacere,
il quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor proprio infinito,
o senza limiti nè misura.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.112. Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo,
da' pagani, non si era mai considerata la società come espressamente,
e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque individuo
il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o
la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti sino a quell'ora,
la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente
tale. Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest'idea del
mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori
moderni ancorchè profani. Anzi (ed avevano [612]ragione in quei tempi)
consideravano la società e l'esempio come naturalmente capace di stimolare
alla virtù, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma
il buono e la società, non solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente
amiche e compagne.
(4. Feb. 1821.)
Alla p.535. fine. Così anche il piacere della speranza, non è
mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l'atto del piacere
della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell'atto del piacere
presente, o della rimembranza o considerazione del piacere passato.
(5. Feb. 1821.)
Non è veramente furbo chi non teme, o presume e confida con certezza,
di non poter essere ingannato, trappolato ec.: perchè non conosce dunque
e non apprezza a dovere le forze della sua stessa furberia.
E per la stessa ragione non è sommo in veruna professione chi non è
modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente
e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe
conseguire, questi dico sono segni e [613]distintivi dell'uomo grande, o certo
sono qualità inseparabili da lui. Perchè quanto più si
possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione,
tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto
la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà
della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si
sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente
posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia
facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che
si crede perfetto. In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona
professione: e l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza
se stesso. Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri
cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione
stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall'uguaglianza,
e riabbassa sempre più l'idea di se stesso.
(5. Feb. 1821.)
[614]????????????? ???? ?????? ?? ??????????????, ??????? ????? ???????? ?????.
Isocrate, ???? ???????? ???? ????????? ?????. Detto convenientissimo a quasi
tutti i padri, le madri, e gli educatori de' nostri tempi.
(5. Feb. 1821.)
È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della
vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità,
ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non
colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar
gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi.
E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non
è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo
più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza
agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo,
e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa,
ossia scopo, e speranza, senza [615]i quali la vita non è vita, non si
conosce, manca del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova
in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è
la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della
sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma
prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone
indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto
languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace
di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato
verso il bene altrui così sensibilmente. E ciò accade anche appena
l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come
un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo.
In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente,
alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta,
come quella che non può più sperare, e non è più
capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo.
E il desiderio e la cura [616]e la speranza della felicità, che non possono
più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile,
e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo
umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente,
e senz'ombra di eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità,
è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge
e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto
lo scopo suo. Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci
di vita, che alcuni medici spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue
proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui,
o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che
non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando
la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
Ed è anche una cagione del detto effetto, quella ch'io son per dire.
L'uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene per
[617]lo più, non mica, come parrebbe, prima che l'uomo cominci ad odiarsi,
ma dopo che si è sommamente, ed inutilmente odiato, e così l'amor
proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto mortificato, e l'animo
esaurito d'ogni forza, si riduce alla calma, e alla quiete dello spossamento,
e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo) l'uomo dico il quale
senza odiarsi, solamente considera se stesso, e la vita sua come inutile, prova
una compiacenza e soddisfazione, una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar
dove adoprare se stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe più
a nulla; e l'uso qualunque di se stesso e della vita, gittata già come
cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia più
capace d'illusioni, nè di credersi buono a gran cose; tuttavia lo conforta,
rappresentandolo a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro (e
piuttosto) col pensiero di avere almeno adoprato, e non gittato affatto, quell'avanzo
di esistenza, e di forza viva e materiale.
(5. Feb. 1821.).
[618]Vedendosi esclusi essi dalla vita, cercano di vivere in certo modo in altrui,
non per amor loro, e quasi neanche per amor proprio, ma perchè, sebben
tolta la vita, resta però loro l'esistenza da occupare e da sentire in
qualche maniera.
(6. Feb. 1821.)
La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica, sanguinaria,
non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se stesso,
cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella disperazione placida,
tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni speranza di felicità,
o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue;
tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni;
cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva
dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616. fine, 617. principio,
tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della filosofia,
e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi moderni. Ed ora infatti,
si può dir che qualunque ha [619]un certo grado d'ingegno e di sentimento,
fatta che ha l'esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch'essendo
tali, e giunti a un'età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino
alla morte in questo stato di tranquilla disperazione. Stato quasi del tutto
sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima,
e sventurata. Conseguenza della prima disperazione è l'odio di se stesso,
(perchè resta ancora all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi
odiare) ma cura e stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo
e l'indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore (perchè
l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di odiarsi) che somiglia
alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non porta l'uomo ad angustiarsi,
addolorarsi, sentir compassione delle proprie sventure, e molto meno a sforzarsi,
ed intraprender nulla per se, considerando le cose come indifferenti, ed avendo
quasi perduto il tatto e il senso dell'animo, e coperta di un callo tutta la
facoltà sensitiva, desiderativa ec. insomma le passioni e gli affetti
d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi
tutta l'elasticità delle [620]molle e forze dell'anima. Ordinariamente
la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di
tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole
pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l'opposto, ma per
una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la quale porta
l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo
o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo suo
finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo
è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra
gli antichi erano frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può
facilmente vedere quanto debba guadagnare l'attività, la varietà,
la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire,
i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di
azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6. Feb. 1821.)
Floro IV. 12. verso la fine: Hic finis [621]Augusto bellicorum certaminum fuit:
idem rebellandi finis Hispaniae. Certa mox fides et aeterna; CUM IPSORUM INGENIO
IN PACIS PARTES PROMTIORE: tum consilio Caesaris. Dopo aver letto tutto ciò
che Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli II. 17. 18. III.
22. e in quel medesimo capo che ho citato, nelle cose che precedono immediatamente
il riferito passo; (notate che Floro, si crede per congettura dai critici, oriundo
Spagnuolo) considerando l'assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel
luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a
dire che la Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium dijudicari
non potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et uter populus
alteri pariturus foret; (II.90 sect.3.) dopo, dico, tutto questo e le altre
infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno,
fa maraviglia che Floro chiami l'indole [622]e l'ingegno degli Spagnuoli, promtius
in pacis partes. Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali,
famosa presso gli scrittori filosofici moderni, massime stranieri. Somma disposizione
all'attività, ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente
e disperatamente, ed a trovar piacevole e cara la pace, ed anche abusarne, ed
esserne ridotti alla mollezza, e all'inerzia. Tante risorse trovano questi popoli
nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita
è occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all'esterno.
Leur vie n'est qu'un rêve, dice la Staël. Tanta è l'attività
della loro anima, che questa come è capacissima di condurli ad una somma
attività nel corpo (anzi alla sola vera attività esterna, perchè
la sola che abbia il suo principio nell'attività interiore, come si vede
nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali, che sono operosi
piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che come viventi) così
anche li dispensa dall'attività del corpo, e ne li compensa, ogni volta
che questa manca: trovando essi bastante vita nel [623]loro interno, nel loro
individuo. Anzi questa proprietà, pregiudica bene spesso all'attività
esterna, e per una soprabbondanza di vita interiore rende il mezzogiorno rêveur,
indolente, insouciant (quantunque, offerta l'occasione, l'attività del
corpo, ch'è l'effetto dell'entusiasmo e dell'immaginazione, o che allora
è forte e viva, quando proviene da questi principii, prorompe vivamente;
eccetto se l'assuefazione non ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l'italiano).
Ailleurs, c'est la vie qui, telle quelle est, ne suffit pas aux facultés
de l'ame; ici, (parla dei contorni di Napoli) ce sont les facultés de
l'ame qui ne suffisent pas à la vie, et la surabondance des sensations
inspire une rêveuse indolence dont on se rend à peine compte en
l'éprouvant. (Staël, Corinne l. II. ch.1. Paris 1812. 5me édit.
t.2. p.176.) Così infatti vediamo accaduto negl'italiani terribili anticamente,
ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e negligentissimi, e nulla
curanti di novità e di movimento nella pace. Così negli [624]Spagnuoli,
popolo intieramente pacifico nell'ultimo secolo, e fortissimo guerriero e belligero
nei due precedenti; e così anticamente bellicosissimo, o certo valorosissimo
in difendersi fino ad Augusto; e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele,
come dice Floro: e similmente nel principio di questo secolo, passato in un
attimo da un lunghissimo e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire
spontanea, certo nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima. Così
nei francesi valorosi in guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacchè anche questo effetto deriva dalle stesse
cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò obbligati
dalle circostanze, all'inazione esterna, la suppliscono e compensano ed occupano
intieramente, con una vivissima azione interna. E per azione interna, intendo
sì nei fanciulli, come nei detti popoli, anche quella che si dimostra
al di fuori, ma che si occupa di bagattelle, e di nullità, ed in queste
ritrova bastante pascolo e vita all'anima: e per conseguenza non deriva, [625]non
si fonda, non è sufficiente all'uomo, se non in forza dell'energia, dell'immaginazione,
delle facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l'opposto accade nei Settentrionali, bisognosi di attività e di
movimento e di novità e varietà esterna, se vogliono vivere, giacchè
non hanno altra vita, mancando dell'interna. E perciò in apparenza molto
più attivi degli altri popoli, ma in realtà, e se vince la naturale
tendenza ed indole, torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred'io, mettere insieme coi meridionali in questo
punto.
(7. Feb. 1821.)
Lo scopo dei governi (siccome quello dell'uomo) è la felicità
dei governati. Forse che la felicità e la diuturnità della vita,
sono la stessa cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli
antichi stati, e pretendono che costassero all'umanità molto più
sangue e molte più vite, che non costano i governi ordinati e regolari
e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè tirannici. Sia pure:
che ora non voglio contrastarlo. [626] Orsù, ragguagliamo le partite,
dirò così, delle vite. Poniamo che negli stati presenti, che si
chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro, 70 anni l'uno:
negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero 50 soli anni,
a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno. E che quei
70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in qualsivoglia condizione individuale,
che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di attività
e varietà ch'è il solo mezzo di felicità per l'uomo sociale.
Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale dei due corrisponde
meglio allo scopo, che è la felicità pubblica e privata, in somma
la felicità possibile degli uomini come uomini? cioè felicità
relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual ella è,
non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione matematica.
Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in
quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella
vita monotona e inattiva, sarebbe (com'è realmente) esistenza, ma non
vita, [627] anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove
l'esistenza ancorchè più breve, tutta però sarebbe vera
vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e dall'altra non più
che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest'ultima?
30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? Questi
sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar
le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore. E non faccia come il secco matematico
che calcola le quantità in genere e in astratto, ma relativamente alla
loro sostanza, e qualità, e natura, e peso, e forza specifica e reale.
Aggiungo poi questo ancora. Nego che la mortalità negli stati antichi
fosse maggiore altro che in apparenza. Lascio i tiranni, lascio i capricci,
le passioni, le voglie de' principi, e non cerco se queste costino alla umanità
più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero.
Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti,
non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità,
ma da preponderare, [628] e far pendere la bilancia dalla parte della vita:
brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che
nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che
potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli
stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della
vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di
quelli o simili stati, non può esser tanta. Gli esercizi e l'attività
continua del corpo primieramente, e poi (che non poco, anzi sommamente contribuisce
al ben essere fisico, e alla durata della vita) gli esercizi ed attività
dell'anima, la varietà, il movimento, la forza delle azioni ed occupazioni,
la rarità della noia, dell'inerzia ec. conseguenze necessarie degli stati
antichi, erano cause così grandi e certe di vitalità, come sono
grandissime e certissime cause di mortalità (e mortalità ben più
vasta, insita, e necessaria che non quella che deriva dalle turbolenze) i contrari
delle predette cose, e nominatamente la mollezza, il lusso, i vizi corporali
e spirituali ec. ec. conseguenze tutte necessarie degli stati presenti: insomma
la corruzione fisica e morale, la continua noia, o mal essere [629] dell'animo
ec. Così che non è vero che le cagioni di morte (e così
dico, le cagioni di miserie, di sventure, dolori ec.) fossero maggiori anticamente,
anzi all'opposto sono maggiori oggidì. Ed intendendo anche per vita,
l'esistenza strettamente, si viene a conchiudere che la somma di questa, era
maggiore negli antichi governi, e a causa degli antichi governi, che ne' presenti,
e a causa de' presenti.
(8. Feb. 1821.)
Alla p.476. Vedi il ritratto di Silla in Sallustio Bell. Iugurthin. c.99.
Alla p.605. fine. Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice
e senza parti, non segue ch'egli non possa perire. Conosciamo noi la natura
di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s'egli è immortale
o mortale? Non c'è che una maniera di perire, cioè il disciogliersi?
Nella materia non ce n'è altra, e però noi non conosciamo se non
questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d'essere che quella
della materia. Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]
ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota
e inconcepibile all'uomo. Dico può perire, non dico perisce, perchè
non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce,
ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo,
ed ella non può perire come la materia. Dico può perire, perchè
non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di
perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all'uomo)
una tal morte, che una tale esistenza. Tutte due sono ugualmente fuori della
nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di là della
materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio
necessario d'immortalità, neanche la materia può perire. Se la
materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti.
Non cerco ora se questi elementi sieno quelli de' chimici, o altri più
remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare
e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam
admistum dispar [631] sui, atque dissimile. Queste sostanze dunque, se non c'è
altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno,
o si possono risolvere? Dunque non potranno perire. Direte, che anche queste,
essendo pur sempre materia, hanno parti, e quindi sono divisibili e risolvibili,
e possono perire, ancorchè tutte le parti sieno tra loro uguali, e di
una stessa sostanza. Bene; ma queste parti come possono perire? - Anch'esse
avranno parti, finattanto che sono materia - Or via, suddividiamo queste parti,
quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a fare ch'elle non abbiano
altre parti, e non sieno materia (come certo non si arriverà); neanche
si arriverà a fare che la materia perisca. Perchè questa ancorchè
ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può
dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa
esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio
infinito: chè dall'esistenza nel nulla, come dal nulla nell'esistenza,
non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632] Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c'è maggior
principio nè ragione d'immortalità, di quello che sia nella materia,
e nell'essere il più composto possibile.
Ma se per principio d'immortalità in un ente semplice e senza parti,
intendono l'impossibilità di cangiar natura, e per perire non intendono
l'annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente annullare,
e tanta materia esiste oggi nè più nè meno, quanta è
mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle
semplicissime sostanze delle quali la materia e qualunque cosa composta, deve
necessariamente costare, non possono neppur esse risolversi, nè cangiar
natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome si voglia. E
la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però
di quelle primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise
quanto si voglia, esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa
o congiunta che sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella
sostanza sarà sempre della stessissima natura. In maniera che anche per
questa parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può
contenere [633] maggiore immortalità, cioè immutabilità
e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono una
supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.
(9. Feb. 1821.)
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans l'idée d'autrui:
il faut établir sa réputation, et se donner une place honorable
dans l'imagination des autres, et être heureux même dans leur idée:
notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous que nous consultons,
ce sont les autres. Dans un autre âge, nous revenons a nous; et ce retour
a ses douceurs, nous commençons à nous consulter et à nous
croire. Mme. la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso la
fine: dans ses Oeuvres complètes, Paris 1808. 1re édit. complète.
p.150. Il vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérite,
qui est destiné à connoître les choses selon leur juste
valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors nous revenons aux plaisirs
simples; nous commençons à nous consulter [634] et à nous
croire sur notre bonheur. Ib. p.153. Queste riflessioni sono osservabili. Non
solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza
speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia
a contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno
consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società,
o agli affari del mondo. Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato,
o disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso,
e cerca il bene e il piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può,
cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti
alla società, e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile.
Solamente o principalmente l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è
senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità
nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua
felicità, dall'opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società,
e ch'egli non può conseguire, o sperare. Forse per questo, o anche [635]
per questo, si è detto che l'uomo che non è stato mai sventurato
non sa nulla. L'anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice,
sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la
solitudine o fisica, o morale e del pensiero. Vale a dire che se anche egli
si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti
in quello stato, sono tutti in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti
dagli altri, non mai con quelle riposte in lui solo. Non è però
che la felicità o consolazione dell'uomo sventurato o vecchio, sieno
riposte nella verità, e nella meditazione e cognizione di lei. Che piacere
o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè
il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni, forse più
savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli,
sottentrano a quelle relative alla società. E questo è in somma
quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere,
con che Cicerone (Lael. sive de Amicit. c.2.) definisce la sapienza. Un sistema,
[636] un complesso, un ordine, una vita d'illusioni indipendenti, e perciò
stabili: non altro.
(9. Feb. 1821.)
"La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie des ames."
Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153. fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher. Mme Lambert, lieu
cité ci-dessus, p.145. alla metà del Traité de la Vieillesse.
Così è. Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce,
o scema qualche illusione, che sono l'unico nostro avere. L'esperienza e la
verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.
Non si vive se non perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce,
e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più
ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo e sventuratissimo,
ha più del giovane più fortunato; il giovane è più
ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza.
Ma Mad. Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite
così dette reali, che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb.
1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può
perdere. Bensì quel detto è vero per quest'altra parte, relativamente
alla condizione presente degli uomini, e [637]dello spirito umano, e della società.
(10. Feb. 1821.)
Io non soglio credere alle allegorie, nè cercarle nella mitologia, o
nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo. Tuttavia la favola di Psiche,
cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi
di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare
un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così
profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazion vera
su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva,
che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche,
appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più
profonda sapienza, e cognizione della natura dell'uomo e di questo mondo. V.
quest'allegoria notata, e sebbene non profondamente, tuttavia bastantemente
spiegata nel morceau détaché di Mad. Lambert intitolato Psyché
en grec. Ame. (così) dans ses oeuvres complètes citées
ci-dessus p.284-285. E forse l'allegoria sopraddetta sarà stata osservata
anche dagli altri, e così credo. Certo è che, o la non la significa
nulla, o significa quel ch'io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli
antichissimi: con altro sistema la non si spiega. Del resto combinando quest'osservazione,
col racconto della Genesi, [638]dove l'origine immediata della infelicità
e decadimento dell'uomo, si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato
altrove; mi si fa verisimile che in somma queste gran massime: l'uomo non è
fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità,
la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più
moderna e profonda, e della più perfetta o perfettibile filosofia che
possa mai essere; fossero non solamente note, ma proprie, e quasi fondamentali
dell'antichissima sapienza, se non altro di quella arcana e misteriosa, come
l'orientale, e come l'egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno
in parte, la mitologia e la sapienza greca.
(10. Feb. 1821.)
Vorranno i puristi che quando manca alla lingua nostra il vocabolo di una tal
cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o adottarne uno straniero, o derivarne
uno da lingue antiche, si usino circollocuzioni. Lascio quanto le circollocuzioni
troppo frequenti (e converrebbe che fossero frequentissime) tolgano di grazia,
di forza, di proprietà, di rapidità al discorso, ed inceppino,
ritardino, [639]impaccino, infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque
caso. Ma dico primieramente che si daranno infinite occorrenze, dove una di
quelle cose che non hanno vocabolo italiano, accada di esprimerla frequentissimamente,
tratto tratto, più volte nello stesso periodo. Ora quando a grande stento
si sarà trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che sarà
spesso necessario ch'ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto, e in
un periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n'è trovata
una che equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non ha più
la stessa forza, e non dice tutto, non esprime più quella tale idea,
se non è tutta distesa ed intera? Una parola si adatta a prendere tutte
le positure, s'introduce da per tutto, si maneggia facilmente, speditamente,
e a beneplacito. Ma una circollocuzione, un corpo grosso e disadatto, che se
non ha tanto di luogo, non può entrare o giacere, come troverà
sito, dirò così, in quelle pieghe, in quei cantoni, in quegli
spicoli, in quegli spazietti, [640]in quei passaggetti, in quelle rivolte (rivolture,
rivoltatine, che in tutti questi modi si può dire, come dice il Firenzuola,
le rivolture degli orecchi) in quelle giratine, in quelle tortuosità,
in quelle angustie e stretture del discorso o del periodo, così frequenti,
dove spessissimo vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed entrerebbe
la parola, la circollocuzione non già?
Dico in secondo luogo che infinite cose vi sono, le quali non si possono esprimere
mediante veruna circollocuzione. Verbigrazia quello che i francesi intendono
così spesso per la parola génie (usata nello stesso senso dal
Magalotti, come dice il Monti nella Biblioteca Italiana). Come esprimere per
circollocuzione quello che non si può definire? Dove manca la facoltà
della definizione, manca parimente della circollocuzione. E queste tali cose
che s'intendono chiaramente, facilmente, e pienamente, per via di una parola
convenuta, ma non si potrebbero nè definire adequatamente, nè
dare ad intendere per nessuna circollocuzione, sono infinite in ogni genere,
massimamente poi nelle materie filosofiche della natura ch'elle sono oggidì,
nelle materie astratte ec. Ed è ben naturale, [641]perchè le parole
son fatte per le cose: a quella tal cosa, corrisponde quella tal parola; altre
parole, ancorchè molte non corrispondono. Sussiste la cosa, sussiste
l'idea, sussiste la maniera di significarla e definirla, ma quella maniera,
quel mezzo, e non altro.
Ogni volta che qualunque disciplina o cognizione, o speculazione umana, ma specialmente
la filosofia, e la metafisica che considera i principii e gli elementi delle
cose, i quali poco o nulla cadono nel sermone e nell'uso comune, le intimità,
i secreti, le parti delle cose rimote e segregate dai sensi e dal pensiero dei
più; ogni volta, dico, che questa ha ricevuto qualche incremento, o preso
qualche nuovo sentiero, o cercata o trovata qualche novità, è
stata necessaria, ed effettivamente adoperata la novità delle parole
in qualunque lingua. Lascio la latina che prima di Lucrezio e Cicerone era affatto
impotente nelle materie filosofiche, e che tuttavolta aveva, come abbiamo noi
nella francese, il sussidio e la miniera di una lingua sorella, ricchissima
in questo genere, come negli altri. La novità della filosofia di Platone,
domandava la novità delle parole in quella medesima [642]lingua greca,
sì ricca per ogni capo, e segnatamente nelle materie filosofiche tanto
familiari alla Grecia da lunghissimo tempo. E Platone inventava nuove parole,
e tali, che in quella stessa lingua, così pieghevole, e trattabile; così
non solamente ricca, ma feconda; così avvezza alle novità delle
parole; così facile così suscettibile così spontaneamente
adattabile alla formazione di nuove voci, riuscivano strane, assurde e ridicole
ai volgari, al comune, alla gente che considera l'effetto, cioè la novità
della voce, e non pesa la cagione, cioè la novità delle cose,
e delle speculazioni. Come ???????????che noi possiamo dire mensalità,
e ???????? calicità. (non c'è di meglio per esprimere in italiano
questa parola: così mi sono accertato.) V. Laerz. (in Diog. Cyn. l.6.
segm.53.) e il Menag. se ha nulla, e potrai anche riportare quel fatto che il
Laerz. riferisce in proposito. Tanto le astrazioni ec. sono lontane dall'uso
comune. E queste e altre tali parole le formava Platone, certo non più
lodato per la sapienza di quello che fosse per la purità ed eleganza
della favella Attica, e dello stile, e per tutti i pregi della eloquenza, [643]della
elocuzione, e del bello scrivere e dire.
(10. Feb. 1821.)
Non è bisogno che una lingua sia definitamente poetica, ma certo è
bruttissima e inanimata quella lingua che è definitamente matematica.
La migliore di tutte le lingue è quella che può esser l'uno e
l'altro, e racchiudere eziandio tutti i gradi che corrono fra questi due estremi.
(11. Feb. 1821.)
Les enfans aiment à être traités en personnes raisonnables.
Mme. de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine
de Tresnel, sur l'éducation d'une jeune demoiselle; ou Lettre III. dans
ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.) p.356.
Che rileva dunque che tu sia famoso tra coloro che nasceranno, se fosti ignoto
a coloro che nacquero prima? (tra coloro, o quei che verranno, se fosti ignoto
a coloro, o quelli che furono?) I quali non cedono alla posterità rispetto
al numero, e indubitatamente la vincono rispetto alla virtù. [644](Il
numero dei quali non cede a quello de' posteri, e la virtù indubitatamente
prevale, o senza fallo prevale.).
(11. Feb. 1821.)
Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti
nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti,
non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova,
non ti produca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore
che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta
da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso.
Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora,
o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l'unico
soggetto dove si possano esplorare, notare, e notomizzare oggidì, le
qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali. Io dunque da
fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me
indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile ch'io la rivedessi
mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla,
e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più
poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi
alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più,
o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi,
e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per
lui, o perch'egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione
ch'io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì:
tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e
nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita. E mi
poneva a riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato
ec. e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non
[646]essermi regolato secondo questo pensiero.
(11. Feb. 1821.)
Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun
secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e
l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società. Non
ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo
l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posterità,
se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente.
(12. Feb. 1821.)
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell'animo
nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite
nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene,
e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro
che il piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale,
ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale
alla [647]misura dell'amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun
piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun
piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale
relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di più,
giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto anche di
più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell'atto del
piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago
il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero
piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio
soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell'animale all'indefinito,
a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva dall'indefinito, piacere
sommo possibile, ma non pieno, perchè l'indefinito non si possiede, anzi
non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente,
perchè l'animale fosse pago, cioè felice, cioè l'amor proprio
suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria
e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera,
perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità,
e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè
la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo
desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto.
Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir
tutt'uno coll'amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della
vita, in quell'ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non
possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente.
Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi
desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza
limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può
esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere
attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro,
cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo
nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue. Le
[649]présent n'est jamais notre but; le passé et le présent
sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais
nous espérons de vivre, dice Pascal. Quindi segue che il più felice
possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla
felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura.
Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa
o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall'azione
continua, da' presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza di rendere
il vivente infelice. Quindi l'attività massimamente, è il maggior
mezzo di felicità possibile. Oltre l'attività, altri mezzi meno
universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati
nella teoria del piacere, p.e. (ed è uno de' principali) lo stupore 1.
di carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i più felici:
gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii
grande e infelice, detto di D'Alembert, Éloges de l'Académie Françoise
(così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini
sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li
tormenta: questo desiderio [650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque
innato, e continuo necessariamente. 2. derivato da languore o torpore ec. artefatto,
come per via dell'oppio, o proveniente da lassezza ec. ec. 3. derivato da impressioni
straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose
vedute, udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere:
4. dalla immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento
indefinito, dalla bella natura ec. e v. la teoria del piacere. Notate che l'immaginazione
la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità
per la parte dello stupore, giovano per la parte dell'attività. E perciò
sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello
che un danno; perchè effettivamente l'attività è il mezzo
di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole,
più frequente e generale e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1828.).
Les passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer
dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos
actions; elle doit parer et embellir [651]toute votre personne. On dit que Jupiter,
en formant les passions, leur donna à chacune sa demeure; la pudeur fut
oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit plus où
la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres. Depuis ce
temps-là, elle en est inséparable. Mme de Lambert, Avis d'une
mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées
ci-dessus, (p.633.), p.60-61. Che vuol dir questo, se non che niente è
buono senza la naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa anche alla
letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io dico del sentimento,
e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13. Feb. 1821.)
La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller
plus loin et plus vite dans le chemin de la vérité. Mme de Lambert,
lieu cité ci-dessus, p.72. Non intendo pienamente il sentimento della
marchesa, ma il fatto è questo. La curiosità o il desiderio di
conoscere, non è per la massima parte, se non l'effetto della conoscenza.
Esaminate la natura, e [652]vedrete quanto la curiosità sia piccola,
leggera e debole nell'uomo primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio
di saper quelle cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla
natura (p.e. le cose fisiche, astronomiche ec. le origini i destini dell'uomo,
degli animali, delle piante, del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere
qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa
difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle che non si dovevano conoscere,
e l'ignoranza delle quali, basta alla felicità dell'uomo, ancorchè
informato di altre cose facili ed ovvie). Piuttosto l'immaginazione sua supplisce,
e gli fa credere di sapere una causa, che realmente non è quella ec.
In somma non è niente vero, che l'uomo sia portato irresistibilmente
verso la verità e la cognizione. La curiosità, qual è oggidì,
e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo
e un andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec. buone
ed utili, anzi necessarie in [653]quel grado che la natura aveva dato loro,
ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più
del dovere, e modificatesi diversamente. Così che sebbene queste qualità
e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono naturali,
quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare
della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini
quelle conseguenze che se ne deducono.
(13. Feb. 1821.). V. p.657. capoverso 1.
Les femmes apprennent volontiers l'Italien, qui me paroît dangereux, c'est
la langue de l'Amour. Les Auteurs Italiens sont peu châtiés; il
règne dans leurs ouvrages un jeu de mots, une imagination sans règle,
qui s'oppose à la justesse de l'esprit. Mme Lambert, lieu cité
ci-dessus, p.73-74.
(13. Feb. 1821.)
Plus il y a de monde, (cioè, più gente ci sta d'intorno, più
ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent
d'autorité. Ib. p.81. Un philosophe [654]assuroit: "... que plus
il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d'autorité..."
Mme Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV. dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, p.395. Così è generalmente: ma all'uomo
veramente sventurato accade tutto il contrario. Ogni volta ch'egli si presenta
nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desideri
frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce
veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo contrario,
le sue passioni si spengono. E nella solitudine, essendo lontane le cose e la
realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano.
(13. Feb. 1821.)
Modérez votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont
dangereuses, et elles ne donnent ordinairement que beaucoup d'orgueil; elles
démontent les ressorts de l'ame... Notre ame a bien plus de quoi jouir,
qu'elle n'a de quoi connoître: (i mezzi di godere che quelli di conoscere:
questo è il senso, [655]come apparisce dal contesto, e da altri luoghi
delle sue opere paralleli a questo) nous avons les lumières propres et
nécessaires à notre bien être; mais nous ne voulons pas
nous en tenir là; nous courons après des vérités
qui ne sont pas faites pour nous... Ces réflexions dégoûtent
des sciences abstraites. Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa
fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.74-75-76.
Nous avons en nous de quoi jouir, mais nous n'avons pas de quoi connoître.
Nous avons les lumières propres et nécessaires à notre
bien être; mais nous courons après des vérités qui
ne sont pas faites pour nous... Ces réflexions dégoûtent
des vérités abstraites. La même, Traité de la Vieillesse,
l. c. p.146-147.
(13. Feb. 1821.)
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts;
il n'y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise.
La Morale n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner.
Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus,
p.84. E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna [656]imperfezione
conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y
a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque
usage. ib. p. citée. Da queste osservazioni fatte anche da molti altri,
si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè
con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano
viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino,
non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella
prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente
e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle
prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi
più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra
ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde
il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui
la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.
[657]In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale,
e primitiva dell'uomo, considerando come sieno originalmente buone anche quelle
qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per
l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa
che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione. La qual ragione,
anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò
ell'è innata. Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è
vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì.
(14. Feb. 1821.)
Alla p.653. Effettivamente la curiosità naturale, porta l'uomo, il fanciullo
ec. a voler vedere, sentire ec. una cosa o bella, o straordinaria, o notabile
relativamente all'individuo. Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per saper
la cagione di quel tale effetto che gli è piaciuto di vedere, udire ec.
Anzi l'uomo naturale ordinariamente, si contiene nella maraviglia, [658]gode
del piacere che deriva da lei, e se ne contenta. Così che la curiosità
primitiva non porta l'uomo naturalmente, se non a desiderare e proccurarsi la
cognizione di quelle cose, ch'essendo facili a conoscere (e l'uomo naturale
desidera di conoscerle fino a quel punto fino al quale son facili), e quindi
non essendo state nascoste dalla natura; la cognizione loro non nuoce all'ordine
primitivo, non altera l'uomo, non isconviene alla sua natura, non pregiudica
alla sua felicità e perfezione: non entrando quei tali oggetti nell'ordine
delle cose che la natura ha voluto fossero sconosciute e ignorate. Così
si vede anche negli altri animali.
(14. Feb. 1821.)
La ragione di quanto ho più volte osservato circa la difficoltà
anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo
impegno, e tanto più quanto queste cose sono naturali, e quanto la perfezione
loro consiste nella naturalezza, è questa. Non riesce bene e secondo
natura, se non quello che si fa naturalmente. [659]Ma i detti mezzi non sono
naturali, e il servirsi di essi non è secondo natura. Dunque ec. Non
basta che un'operazione sia naturale: ma quanto più è o dev'esser
naturale, tanto più bisogna farla naturalmente. Anzi non è naturale,
se non è fatta naturalmente.
(14. Feb. 1821.)
L'invenzione e l'uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza
presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza
della ragione e dell'arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto. Così
le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo,
il valoroso al vile, l'esercitato all'inesperto, i modi di combattere delle
varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un'uguaglianza
che sembrava contraria direttamente alla sua natura. E l'artifizio, sottentrando
alla virtù, [660]ed agguagliandola, e anche superandola, e rendendola
inutile, ha pareggiato gl'individui, tolta la varietà, spento quindi
anche nella guerra, l'entusiasmo quasi del tutto, spenta l'emulazione, e toltale
la materia, spento l'eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto
un Martano, o se anche non l'ha spento, l'ha confuso colla viltà, e reso
indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine ha contribuito
sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita. Tanto è
vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura,
e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l'arte e la ragione,
in qualunque cosa.
(14 Feb. 1821.)
Diogene, ???????????? ????? ? ???????, ???, ????, ?????, ?? ???????? ??? ???????????;
Laerz. in Diog. Cyn. 6.68. Dalla nota del Menag. si rileva ch'egli l'ha inteso
della insensibilità dell'atto della morte.
[661]Delle diverse opinioni intorno alla pretesa legge naturale, v. alcuni sentimenti
e dommi di Diogene, ap. Laert. in Diog. Cyn. VI. 72-73. e quivi il Menagio,
il quale riporta in proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera
Pyrronianarum Hypotyposeon, e l'altra Adversus Mathematicos, ossia adversus
cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a questo argomento, ed
a quello ch'io sostengo, che non c'è verità nessuna assoluta.
(14. Feb. 1821.)
Dell'influenza del corpo sull'animo, e dell'esercizio sulla virtù, v.
le sentenze di Diogene, ap. Laert. in Diog. Cyn. VI. 70. e quivi il Menag. se
ha nulla.
(14. Feb. 1821.)
On aime à savoir les foiblesses des personnes estimables, non già
solamente di quelle che si odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si
ammirano, si trattano, ci obbligano e ci giovano coi loro benefizi, consigli
ec. e in questo senso lo dice Mad. Lambert, La Femme Hermite. Nouvelle Nouvelle.
[662]dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus (p.633.), p.229.
Tu puoi però applicarti questo pensiero, e rendertelo proprio, giacchè
Mad. lo stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che
il pensiero sembra comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità.
Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali
persone: et j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des
conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus indulgens pour
celles d'autrui. Ma si può considerare questa verità molto più
in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al teatro, alla
poesia, a' romanzi ec. ed alle arti imitatrici, e confermarne quella regola
di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto.
(15. Feb. 1821.)
Je crois que son estime (si parla di una persona amata, ma da cui non si spera
nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être
le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus [663]grand cas
d'elle (de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois
lui supposer. (Quella che parla è una donna, e l'amato è un uomo).
Mme. Lambert, Lieu cité ci-dessus, p.234.
Messer tale sentendo dire che la vita è una commedia, disse che oggidì
è piuttosto una prova di commedia, ovvero una di quelle rappresentazioni,
che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli. Perchè non ci
sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone qualità
che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.
Anzi proponeva questo mezzo di fare che il mondo cessasse finalmente di essere
un teatro, e la vita diventasse per la prima volta, almeno dopo lunghissimo
tempo, un azion vera. S'ella fu mai tale, fu perchè gli uomini, se non
altro la maggior parte, erano veramente buoni, o tendevano alla virtù.
Questo ora è impossibile, e non è [664]più da sperare.
Dunque si cercasse il detto fine per un altro verso, quasi opposto. Si riformassero
il Galateo, le leggi, gl'insegnamenti pubblici e privati, l'educazione de' fanciulli,
i libri di Morale, i vocabolari ec. In maniera che quello che non è più
necessario, anzi è disutile e dannoso in sostanza, non fosse più
necessario neanche in apparenza. Così si toglierebbe agli uomini la necessità
di mentir sempre, e inutilmente, perchè non ingannano più nessuno;
l'imbarazzo in cui questa li pone tante volte; la contraddizione fra l'esteriore,
e l'interiore; la falsità ec. si ricondurrebbe la verità nel mondo;
la vita resterebbe nè più nè meno la stessa qual è
oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e queste maniere di convenzione,
e questo genere aereo ed inutile di bienséances, e di onore, e di riguardi
a un pubblico che pensa ed opera come te, si toglierebbero agli uomini molti
incomodi, e fatiche, e attenzioni, e sollecitudini [665]vane; e la vita sarebbe
un fatto e non una rappresentazione: finalmente si concorderebbero una volta
insieme quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si sarebbe stancato di tante apparenze
divenute inutili da che non servono più ad ingannare, e da che la commedia
non è più spettacolo, e tutti sono attori. Che avrebbe messo d'accordo
la sostanza coll'apparenza, non già cambiando la sostanza, che Dio ce
ne scampi, ma lasciandola intatta, e cambiando l'apparenza, les bienséances,
il linguaggio ec. cioè facendo che apparisca e si dica quello ch'è
vero. E notava che il mondo sembra che già inclini a questo, e non i
fatti coi detti, ma i detti si comincino ad accomodare, ad accordare, a pacificare
coi fatti; ed oramai vengano a trattato con questi loro nemici, e domandino
essi le condizioni di pace. E che forse [666]anche oggidì l'esteriore
coll'interiore, i detti coi fatti sono più d'accordo che non furono da
grantempo.
(16. Feb. 1821.)
Je sentis que c'étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir
ce que l'on aime attaché à quelque chose de parfait: (cioè
la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna dell'amor suo: e
in questo senso lo dice Mad. Lambert) mais loin que mon intérêt
ait pris sur la justice que je devois à mon amie, (amata da colui ch'era
amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse
et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à
mes yeux. Mme. de Lambert lieu cité ci-dessus, (p.661. fine), p.265.
fine.
Elle (l'imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui ne font rire
que l'esprit. (cioè, il bello spirito, il bell'umore). Mme de Lambert,
Réflexions nouvelles sur les [667]femmes, dans ses Oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p.633.), p.166.
(16. Feb. 1821.)
Quello che ho detto in altro pensiero intorno all'idea che i fanciulli si formano
dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente,
il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie
o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati,
dal primo tempio, l'idea di tutti i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente,
se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente
o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo
individuo. Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non
sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si
conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra
mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo
formare un'idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi.
P.e. avendo io di due anni veduto un colonnello, l'idea [668]ch'io mi formo
naturalmente della persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco
di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella
figura, quelle maniere ec. Anche da ciò si deve inferire quanto sieno
importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto
gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia probabile che
i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell'altra azione
ec. derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza,
e come i caratteri ec. e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono
le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime
circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre
se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori
conoscitori dell'uomo.
(16. Feb. 1821.). V. p.675. principio
Quella maravigliosa facilità che hanno [669]i fanciulli di passare immediatamente
dal più profondo dolore alla gioia, dal pianto al riso ec. e viceversa,
e ciò per minime cagioni; questa somma volubilità e versatilità
d'indole e d'immaginazione, non dev'ella esser causa di una molto maggiore felicità,
o molto minore miseria che nelle altre età?
(16. Feb. 1821.)
L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre
nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime
de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le
mépris universel. Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa
fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.),
p.99. fine. Così è naturalmente nella società, così
porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun
bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna [670]più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni,
sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è
diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se
stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l'egoismo
è intero, la società non esiste se non di nome. Perchè
ciascun individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto
il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere
altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera,
e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il
suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine
della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza,
e quanto alla ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre
stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto
peggiore è stata [671]la condizione della società; e quindi tanto
peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o
direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il
quale stato la Francia era divenuta la patria del più pestifero egoismo,
mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è
stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente
un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali,
e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù,
dall'onore, dall'amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al
colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e
dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata
la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo
vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la
natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione, [672]sia generalmente
alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per se
(tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui
solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle
unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono
ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti
insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli
altri qualsivoglia cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec. è
inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono
nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro,
profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così,
per togliere un esempio dal passo cit. di Mad. di Lambert, si vede nel fatto
che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come [673]una
volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad
accordarti spontaneamente, e in forza del vero, e del merito nulla, come di
nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la
conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo
del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri,
deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non
perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli
inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti.
Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i
loro difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede
tutto l'opposto. Essi profittano di te e de' tuoi riguardi verso loro, per innalzarsi,
e della tua poca resistenza quanto a te, per deprimerti. Quello che concedi
[674]loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti
arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono,
per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto ritornano effettivamente
nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima età, quando la società
non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri
o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse
o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro. Costumi che nello
stato di società son barbari, perchè distruttivi della società,
e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo. Quindi si veda quanto
sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbarie, o
vicino alla barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società
dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior
barbarie.
(17. Feb. 1821.)
[675]Alla pag.668. fine. E questa non è forse una delle minime cagioni
di quella verità Quot homines, tot sententiae, detto di Terenzio, (Phorm.
Act. 2. sc.4. ver.14.) Quot homines, tot sententiae: suus cuique mos. (Negli
adagi del Manuzio questo proverbio è riportato così, quot homines,
non capita.) E similmente Oraz. (Sat. l.2. sat.1. v.27-28.) Quot capitum vivunt,
totidem studiorum Millia. Ed Euripide (in Phoenissis):
??????????????????????????????????????
??? ?? ?? ?????????? ????????? ?????
??? ?? ???? ?????? ????? ???? ???? ???????
???? ????????? ?? ?? ????? ??? ???? ????.
Cunctis idem si pulchrum, et egregium foret,
Nulla esset anceps hominibus contentio.
At nunc simile nil, nil idem mortalibus:
Nisi verba forsan inter istos concinunt,
At re tamen, factisque convenit nihil.
[676]E Cicerone (de Fin. bon. et mal. c.5. verso il fine): sed quot homines,
tot sententiae: falli igitur possumus. Luogo omesso dal Manuzio.
Riferite le dette sentenze alla opinione comune, che si dia verità assoluta,
anche tra gli uomini.
(17. Feb. 1821.)
Non siamo dunque nati fuorchè per sentire, qual felicità sarebbe
stata se non fossimo nati?
(18. Feb. 1821.)
ENFIN ELLES AIMENT L'AMOUR, ET NON PAS L'AMANT. Ces personnes se livrent à
toutes les passions les plus ardentes. Vous les voyez occupées du jeu,
de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu.
Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs
de l'amour, di quelle che ne cherchent dans l'amour que les plaisirs des sens,
(o della galanteria dell'ambizione ec.) que celui d'être fortement occupées
et entraînées, et que celui d'être aimées; di quelle
che [677]possono associer d'autres passions à l'amour, e lasciare du
vide dans (leur) son coeur, e che après avoir tout donné, possono
non essere uniquement (occupées) occupé de ce qu'on aime; di quelle
che se font une habitude de galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE LA QUALITÉ
D'AMIE A CELLE D'AMANT; di quelle che NE CHERCHENT QUE LES PLAISIRS, ET NON
PAS L'UNION DES COEURS, e conseguentemente ÉCHAPPENT A TOUS LES DEVOIRS
DE L'AMITIÉ: in somma delle donne d'oggidì tutte quante, e in
fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie, conchiude
il discorso di questa specie, così: Voilà l'amour d'usage et d'à-présent,
et où les conduit une vie frivole e dissipée. Mme. de Lambert,
Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses oeuvres complètes,
citées ci-dessus (p.633.) p.179.
(18. Febbraio 1821.)
[678]Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes
en fait d'attachement. Il n'appartient qu'à elles de faire sentir par
un seul mot, par un seul regard, tout un sentiment. Mme. de Lambert, lieu cité
ci-dessus, p.187.
Gli esercizi della persona che egli faceva in compagnia di cotali gentili uomini,
non solamente per allora li furon cagione della fermezza e gagliardìa
del corpo, ma eziandio dell'animo. - Lo dice di Antonio Giacomini Tebalducci
Malespini, famoso militare fiorentino, ancor giovane, Jacopo Nardi, Vita d'Antonio
Giacomini Tebalducci Malespini, ediz. di Lucca, Francesco Bertini, 1818. [in]
8. p.19..
(18 Feb. 1821.)
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que nous
nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit:
nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? Mme. de
Lambert, lieu cité ci-derrière (p.677. fine) p.188. [679]La solitudine
è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali,
e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato
naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e
neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini
deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro
primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto
all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione
del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità,
nè oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in
solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè
agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del
vero. Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo
oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse
primitivamente, in quella vita occupata o da continua [680]sebben solitaria
azione, o da continua attività interna e successione d'immagini disegni
ec. ec. e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho già spiegato
più volte. Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo. La società
manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili.
Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni
civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si racconta
de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la vita, l'energia,
la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di
stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite,
col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque torna per altra
cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio
dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata
interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì
è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne
le illusioni, [681]laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine
le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva.
Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione,
o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni,
i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe:
e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche,
quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato,
stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco
si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più
o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno,
e sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la
dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per
lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane
dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi
abbellirsi. Ed egli torna a sperare [682]e desiderare, e vivere, per poi tutto
riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra
nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l'uomo quanto è più
savio e sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l'infelicità
del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo
toglie dagli occhi, laddove nello stato primitivo l'uomo amava tanto più
la solitudine, quanto maggiormente era ignorante ed incolto. E così l'ama
oggidì, quanto più è sventurato, laddove anticamente, e
primitivamente la sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini,
per fuggire se stesso. La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella
società all'uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile,
e conoscente; perchè la presenza della società, non è altro
che la presenza della miseria, e del vuoto. Perchè il vuoto non potendo
essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società
quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le
illusioni [683]sono oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute
loro contrarie e mortifere, all'opposto di quello ch'erano anticamente.
(20. Feb. 1821.)
La sua compagnia (di Antonio Giacomini) ne' collegi de' magistrati fu qualche
volta ad alcuni non molto gioconda. Nondimeno il suo parere le più volte
prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli ottanta e de' richiesti
e pratiche, nelle quali PIÙ LARGHE consultazioni l'autorità de'
PARTICOLARI cittadini cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto
più facilmente, che non fa ne' magistrati DI MINOR NUMERO D'UOMINI. Jacopo
Nardi, Vita d'Antonio Giacomini. Lucca per Francesco Bertini 1818. p.85-86.
(22. Feb. 1821.)
Nardi ec. l. cit. qui sopra p.83. Di quelle doti e di quelle virtù che
o per natura o per instituto e lezione tutte furono sue. Che ha da far qui la
lezione? oltre che lo stesso Nardi p.102. dice ch'egli non aveva dato opera
alle scienze. Leggi ed elezione, opposto a natura. Ma v. l'altra ediz. del 1597.
Firenze, Sermartelli, in 4°
(23. Feb. 1821.)
[684]Lorenzo de' Medici, Apologia ec. nel fine: Non mi sarebbe TANTA fatica.
Leggi STATA. L'errore è nell'ediz. di Lucca per Francesco Bertini dietro
il Nardi, Vita del Giacomini, p. ult. 136. Non so delle altre stampe.
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Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4. Scena 3.
(23. Feb. 1821.).
Alla p.241 ...che il mondo, o qualche buona parte del mondo sia quello che in
greco si dice diglottos, e noi possiamo dire bilingue. Come veramente oggidì
quasi tutto il mondo civile è bilingue, cioè parla tanto le sue
lingue particolari, quanto, al bisogno, la francese. Eccettuato la stessa Francia,
la quale non è bilingue, non solamente rispetto al grosso della nazione,
ma anche de' letterati e dotti, pochi sono [685]quelli che intendono bene, o
sanno veramente parlare altra lingua fuori della propria loro. Il che se derivi
da superbia nazionale, o da questo che usandosi la loro favella per tutto il
mondo, non hanno bisogno d'altra per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto
alla intelligenza ed uso de' libri forestieri, dalla facilità e copia
delle traduzioni che hanno, questo non è luogo da ricercarlo.
(23. Feb. 1821.)
La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto alle voci o locuzioni o modi
forestieri, e a tutto quello ch'è barbaro, ma anche, (e questo è
il principale) di cadere in quella timidità povertà, impotenza,
secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata
più volte nella lingua francese. In fatti da un secolo e più,
ella ha perduto, non solamente l'uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti
e tanti idiotismi, e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle
quali principalmente consisteva la facilità, l'onnipotenza, la varietà,
[686]la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio,
il gusto la proprietà ((((((((), la pieghevolezza sua. Non parlo mica
di quelle inversioni e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi
alla latina, sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal
Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati
adoperati e riconosciuti da nessun buono scrittore italiano. Ma parlo di quella
libertà, di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le
quali la lingua nostra si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile
di tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido,
nel monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima
nel genio, nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche,
e specificatamente alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle
forme particolari e speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche
nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente per la qualità
individuale de' vocaboli e delle frasi. Ma oggidì ella va a perdere,
anzi ha già perduto presso [687]il più degli scrittori, le dette
qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche presso
quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi.
(e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti scrittori facciano
pessima comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per
quanto non sia barbara, non è l'italiana: e gli antichi accidenti in
una sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la lingua nostra
si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non erro,
il Fénélon, della francese. Del che mi pare che bisogni stare
in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l'andamento
dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio
di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia
nativa (ancorchè conservi le parole e i modi, e scacci i barbarismi),
di diventare unica come la francese, laddove ora ella si può chiamare
un aggregato di più lingue, ciascuna adattata al suo soggetto, o anche
a questo [688]e a quello scrittore; e così divenuta impotente, in luogo
di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la sua natura, e quella di
tutte le belle e naturali lingue, come le antiche, non puramente ragionevoli),
ne contenga uno solo, cioè il linguaggio magrissimo ed asciuttissimo
della ragione, e delle scienze che si chiamano esatte, e non sia veramente adattata
se non a queste, che tale infatti ella va ad essere, e lo possiamo vedere in
ogni sorta di soggetti, e fino nella poesia italiana moderna de' volgari poeti.
Come appunto è accaduto alla lingua francese, perchè ancor ella
da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al secolo di Luigi 14. non
era punto unica, ma l'indole sua primitiva e propria somigliava moltissimo all'indole
della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena d'idiotismi, e di belle
e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima
allo scrittore (notate questo, che forma la difficoltà dello scrivere,
come pure dell'intendere la nostra lingua a differenza della francese) e suscettibile
di prendere quella forma e quell'abito che il soggetto richiedesse, o il carattere
dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata [689]a diversissimi stili;
piena di nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di evidenza,
di espressione; coraggiosa; niente schiva degli ardiri com'è poi divenuta;
parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi, all'intelletto;
(sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua italiana, se
vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena di sève,
di sangue e di colorito ec. ec. Delle quali proprietà qualche avanzo
se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri
scrittori di quel tempo. Talmente che s'ella fosse rimasta quale ho detto, non
sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir tutto. E s'ella prima della
sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori quanto n'ebbe l'italiana,
che l'avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d'allora, alla
perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo
ch'io dico [690]della prima e originale natura della lingua francese, la quale
ben si congettura efficacemente dalla considerazione de' loro antichi scrittori,
ma non si può pienamente sentire perch'ella non ebbe scrittore perfetto
in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta. Nè quel primo genere
prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e universale
nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni possibile
genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri esattissimamente
esposti e ordinati, che un discorso. Dove l'intelletto e l'utilità non
desidera nulla, ma l'immaginazione il bello, il dilettevole la natura, i sensi
ec. desiderano tutto.
(24. Feb. 1821.)
Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra
lingua e della nostra letteratura.
Quanto alla lingua moltissimi disconvengono da questo ch'io dico, volendo che
il suo vero secol d'oro, fosse il trecento. Ma osservino. Quasi tutti gli scrittori
del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente [691]adoperata
la nostra lingua, e tutti più o meno possono servire di norma al bello
scrivere, e sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d'oggidì che avesse
tanti pregi di lingua quanto l'infimo de' mediocri scrittori di quel tempo.
Questo è ben altro che ammirare la felicità della Francia dove
tutti appresso a poco scrivono bene quanto alla lingua. Considerate quello che
ho detto altrove del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non
vi parrà poca meraviglia che una lingua così difficile, varia,
ricca, immensa, pieghevole e subordinata allo scrittore, come l'italiana, trovasse
un secolo, dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni
sorta di soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in
quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come
lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi [692]perfetto
modello della buona lingua italiana a tutti i secoli. Diranno che anche nel
trecento accadeva lo stesso. Voglio lasciar passare questa proposizione, che
ben considerata parrà forse falsissima. Ma supponendo che sia verissima,
che maraviglia che scriva bene, chi in questo medesimo, che egli scrive, porta
inseparabilmente la ragione dello scriver bene? Giacchè noi diciamo che
i trecentisti scrivevano bene, perciò appunto ch'erano trecentisti; e
indistintamente tutto quello ch'è del trecento, o imita e somiglia la
scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perchè appartiene
al trecento. E si dà a quel secolo autorità di regolare il nostro
giudizio intorno alla bella lingua italiana, non a noi di giudicare se quel
secolo usasse una bella lingua. Io so e dico che la usava bellissima, e do ragione
e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori
del trecento i modelli [693]o il fondamento e la sorgente della buona lingua
italiana di tutti i secoli. Quest'autorità l'hanno avuta tutti i padri
di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.): e l'hanno avuta non
già per capriccio o pregiudicata opinione de' successori, ma per la forza
della natura che operava in quei padri effettivamente, e perchè la natura
è la massima fonte del bello. Ma non perciò le dette qualità
derivavano in quei padri da merito loro, nè essi ponevano (eccetto pochissimi)
veruno studio alla bellezza e all'ordine della lingua. Nel modo che Omero certamente
non sudava per seguire e praticare le regole del poema epico, le quali non esistevano,
anzi sono derivate dal suo poema, e quella maniera ch'egli ha tenuto è
poi divenuta regola. Ma Omero come ingegno sovrano ch'egli era, studiava la
natura e gli uomini e il bello per creare le regole che ancora non esistevano:
laddove i trecentisti erano quasi tutti uomini da poco e ignorantissimi, e scrivevano
quello che veniva loro nella [694]penna. E quanto è venuto loro nella
penna, tanto si è giudicato che fosse il più bel fiore della nostra
lingua, non dico ingiustamente, ma certo senza merito loro. V. p.705. Aggiungete
che fuori de' Toscani, pochissimi in quel secolo scrivevano la lingua nostra
in modo che si potesse sopportare, all'opposto del cinquecento dove tutta l'Italia
scriveva correttamente e leggiadramente, così che il trecento, quando
anche non valessero le suddette ragioni, non si potrebbe riputare il migliore
della nostra lingua, nè paragonare al cinquecento se non quanto alla
Toscana.
Quanto alla letteratura nessuno disconviene da quello ch'io dico, perchè
il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura
ma ignoranza. Quello però ch'io dico, sarebbe molto più riconosciuto
in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento,
quanto sia vero che il cinquecento [695]sia l'ottimo ed aureo secolo della letteratura
italiana, anzi in questo pregio superi non solo tutti gli altri secoli italiani,
ma anche tutti i migliori secoli delle letterature straniere; se si ponesse
mente a questo ch'io son per dire.
Primieramente la stessa universalità che ho notata in quel secolo rispetto
alla buona lingua, si deve anche notare rispetto al buono stile: e ciò
in tutti i generi e di soggetti, e di scrittori nelle scritture più familiari
e usuali ec. insomma con tutte quelle particolarità che ho notate quanto
alla lingua p.691. Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche
e latine, lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà
e dignità, e tant'altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione,
eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante
in gran parte dalla troppa lunghezza de' periodi, e dalla troppa copia [696]delle
figure di dizione, e dall'eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento
delle sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con
ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne' latini, ma
che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che
lo stesso secolo ha ottimamente adoperati): vizio ignoto si può dire
al trecento, e a tutti gli altri secoli ancorchè viziosissimi: vizio
provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è
pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni; vizio che avrebbe
potuto molto correggersi con un maggiore studio de' greci, ma principalmente
degli ottimi e primi, perchè i più moderni declinarono anch'essi
(sebbene valenti) a questo difetto, e ad un'indole di scrittura più latina
che greca: vizio che non saprei se appartenga più allo stile ovvero alla
lingua: vizio finalmente che se non togliere, certo si può moltissimo
[697]alleggerire con una diversa punteggiatura, come si è fatto da molti
presso i latini, i quali pure ne avevano gran bisogno, tanto per la lunghezza
de' periodi talvolta, i quali si sono divisi col mezzo de' punti, quanto massimamente
e sempre per la qualità della loro costruzione. La detta perfezione prima
o dopo quel secolo non si è mai veduta in nessunissimo stile nè
italiano nè forestiero, dai latini in poi (dico quanto allo stile non
ai pensieri): nessun'altra nazione ci è pervenuta in veruno de' suoi
migliori secoli; e forse quello stesso maggior grado di perfezione che lo stile
forestiero ha conseguito ne' suoi secoli d'oro, non si troverà che fosse
così universale negli scrittori nazionali di quel tempo, com'era la detta
perfezione in Italia nel cinquecento.
Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno [698]conosciuto,
e stimato assai meno del vero, perchè non si conosce la somma e singolare
ricchezza di quel secolo. Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona
parte dalla Crusca fra' testi di lingua, e perciò ricercati per farne
serie, e per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri
toscani, non adoperati dall'antica Crusca, e la massima parte de' cinquecentisti
non toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi
dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla
moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti
quanti gli stranieri. E tuttavia è somma la copia di quegli scrittori
che essendo così ignorati, sono tuttavia o più degli altri, o
quanto gli altri che si conoscono, pregevolissimi e degnissimi di considerazione,
di studio, e d'immortalità. E giacciono in quelle vecchie stampe, in
preda ai tarli, e alla polvere [699](se però sono stati mai stampati,
come p.e. la storia del Baldi, di cui parla il Perticari, è ms.), in
fondo alle librerie, scorrettissimamente, e sordidamente stampati, senza veruno
che si curi di guardarli. Da quelle poche operette insigni del cinquecento ristampate
in questi ultimi anni, e da quelle che si è proposto di ristampare, e
che si è veduto come non cedano forse a veruna delle già note
e famose, si può conoscere quanta ricchezza di quel secolo, quanta gloria
nostra, sia oscurata e sepolta dalla dimenticanza, dall'ignoranza, dalla pigrizia,
dalla noncuranza di questo secolo. Che se porrete mente quanto minore sia il
numero de' buoni cinquecentisti noti alla universalità degl'italiani,
rispetto a quelli conosciuti dai letterati, i quali pur tanti ne ignorano; e
quanto pochi fra quei medesimi conosciuti universalmente fra noi, si conoscano
fuori d'Italia; non vi farete più maraviglia se la fama del [700]cinquecento
letterato è oramai nell'Europa, piuttosto nome che fatto; piuttosto un
avanzo di antica tradizione, che opinione presente; potendosi contar sulle dita
i cinquecentisti noti fuori d'Italia. E così dico proporzionatamente
di tutta l'altra nostra letteratura. Ma gli stranieri hanno ben ragione, se
non ne sanno più, di quello che ne sappiamo noi stessi, i quali generalmente
ci troviamo appresso a poco nel medesimo caso.
Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si
deve intendere dei prosatori, non dei poeti. Anzi io mi maraviglio come quella
tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si cerchi
invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli ottimi.
I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti,
massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle
prose) ec. lasciando i più essenziali difetti di arguzie, insipidezze
ec. anche nell'Ariosto e nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca
(sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini
alla [701]perfezione che i cinquecentisti, e così lo stile poetico del
trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto
è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto
della prosa, dove l'arte può aver più luogo). E dal trecento in
poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari,
massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini
e del Monti. V. gli altri miei pensieri in questo proposito. Parlo però
del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti
il Metastasio e l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta),
quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono
piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l'Italia dal cinquecento
in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente [702]versi
senza poesia. Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del
cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in
qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di
poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
(27. Feb. 1821.)
Camillo Porzio, La congiura de' Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando
I. ediz. terza, cioè Lucca 1816. per Franc. Bertini, p.23. E vedeva ciascuno
che indugiava più l'occasione che il lor animo, ad offendersi, e che
con ogni picciola scintilla di fuoco infra di loro si poteva eccitare grandissimo
incendio. Che vuol dire, l'occasione indugiava ad offenderti? oltre che il lor
animo era già offeso, e gravissimamente, come viene dal dire. Leggi ad
accendersi, lezione confermata ancora dal seguito del surriferito passo.
Ivi, p.24. Affermando il Re essergli stato rimesso da' suoi predecessori (il
tributo alla Chiesa) [703]e che si doveva per il regno di Napoli e di Sicilia;
ma che egli allora solo quello di Napoli possedeva. Rimesso potrebbe valer condonato,
e predecessori riferirsi al Papa: potrebbe valer mandato, e predecessori riferirsi
al Re. Senso sempre oscurissimo. Io leggerei: predecessori che e' o ch'e'. V.
p.708. capoverso 2.
Ivi, p.37. Suavissima riputo e verissima la sentenza che c'insegna li costumi
de' soggetti andar sempre dietro all'usanze de' dominatori. Leggi savissima.
(27. Feb. 1821.)
Non possiamo nè contare tutti gli sventurati, nè piangerne uno
solo degnamente.
Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è necessaria la felicità
o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la sventura. Esempio me
stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva,
essendo quella in me presso ch'estinta.
(28. Feb. 1821.)
[704]L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la sua lingua, non come
i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle piazze, per non
sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo esperto ed
avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente nelle compagnie,
per cagione di questa medesima esperienza e cognizione. Laonde la libertà
nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza. La quale
debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori.
Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi
della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi. Perchè non
possedendola intieramente e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno
così legati che pare che camminino fra le uova. E quelli che si portano
liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva dall'ignoranza
della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E questi in comparazione
[705]degli altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione.
Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar
bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione);
dall'altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione. Quando anzi il dimostrarla,
non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura,
è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa incorrere. Perchè
in somma è la stessa cosa che l'affettazione; e l'affettazione è
la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà, perciò appunto che la
prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli
atti della vita umana, è la naturalezza.
(28. Feb. 1821.)
Alla p.694. Perchè la lingua non era ancora formata nè stabilita,
nè il suo corpo ordinato, e neppure la sua gramatica. Essi la formavano,
ma per forza del tempo, e [706]di circostanze accidentali ed estrinseche, non
come Omero per forza del suo proprio ingegno formava l'Epopea. (Eccettuo però
Dante Petrarca e il Boccaccio: e nel secondo massimamente ritrovo una forma
ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta
di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte.)
Quindi non è maraviglia se quel trecentista andava per una strada, quest'altro
per un'altra; se non ci è maggiore difficoltà che mettergli d'accordo
tra loro, e coll'ordine della lingua, anche in cose essenziali, e ordinare la
forma e i precetti della lingua sopra i trecentisti; se formicano d'imperfezioni
e di scorrezioni; se non sono uguali neppure, nè in verun modo a se stessi
ec. ec. ec. Formata che fu la lingua, allora divenne possibile, necessaria e
difficilissima la perfezion sua: la qual perfezione da nessun secolo è
stata portata nè in così alto grado, nè in tanta universalità
come nel cinquecento. [707]Ed ecco in qual senso e per quali ragioni io dico
che il cinquecento fu il vero ed unico secol d'oro della nostra lingua; cioè
rispetto all'adoprarla, dove che il trecento l'avea preparata; rispetto allo
spendere quel tesoro che il trecento avea magnificamente e larghissimamente
accumulato; e in tal maniera che della lingua sarà sempre poverissimo
chi non si provvederà immediatamente a quel tesoro: essendo veramente
il trecento la sorgente ricchissima inesausta e perenne della nostra lingua;
sorgente aperta e necessaria a tutti i secoli. (28. Feb. 1821.)
Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di qualunque altra disciplina,
non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra, la compone de' materiali
già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo che formò
e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento
che il trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono
dati, s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo. Ma il cinquecento [708]formò
e determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura
e nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia,
nella varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è
compatibile colla chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi,
e quindi convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non
mutò in verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò
interamente la francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia
e dal secolo di Luigi 14.
(1. Marzo 1821.)
Camillo Porzio l. cit. (p.702.) p.80. In un tratto di ciascuno il sacco, il
fuoco e la morte si temeva. Leggi da ciascuno. (1 Marzo 1821.).
Alla p.703. Che se rimesso in questo senso (di traditum che in latino viene
e metaforicamente, e quasi anche propriamente a dire la stessa cosa) paresse
strano, questo non avverrà se non a coloro che non conosceranno l'usanza
[709]e lo stile di questo scrittore.
(2. Marzo 1821.)
Alla p.120. Aggiungete che nelle monarchie, o reggimenti di un solo o di pochi
(che reggimento di pochi si può veramente chiamare ogni monarchia, dove
non è possibile che tutto effettivamente dipenda, derivi, e si regoli
secondo la volontà di uno solo, massime quanto più ella è
grande) le cagioni degli avvenimenti sono molto più menome e moltiplici
che negli stati liberi e popolari, ancorchè paia l'opposto. Perchè
le cagioni che operano in tutto un popolo, o nella massima, o in buona parte
di quello, o in somma in molti, non sono nè così piccole, nè
tante, nè così varie, nè così difficili a congetturare,
quando anche fossero nascoste, come quelle che operano in uno o in diversi individui
particolarmente. E si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de' regni,
come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi affettacci
di quel re, di quel ministro ec. da menome circostanze, da una passioncella,
da una parola, da una ricordanza, da un'assuefazione individuale, [710]da un
carattere particolare, da inclinazioni; da qualità, accidenti della vita,
amicizie o nimicizie ec. contratte dal principe o dal ministro ec. nello stato
privato. Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura
e difficile allo scrittore, e come spesso debba riuscire in gran parte falsa,
e quindi inutile ai lettori; consistendo la chiave di sommi avvenimenti, la
spiegazione di somme maraviglie, nella cognizione di aneddoti sempre difficili,
spesso impossibili a sapere. E così oggi gli scrittori di aneddoti e
bazzecole di corte, sono più benemeriti forse della storia, che i sommi
storici, e scrittori delle massime cose.
(2. Marzo 1821.)
Alla p.81. fine. L'uomo in tanto è malvagio nè più nè
meno, in quanto le azioni sue contrastano co' suoi principii. Quanto più
dunque da un lato i principii 1. sono meglio stabiliti, definiti, divulgati,
chiariti, specificati, e formati; 2. l'uomo n'è imbevuto profondamente,
e radicatamente persuaso: dall'altro lato quanto più le opere contrastano
a questi principii; [711]tanto più l'uomo è malvagio. E tanto
peggiori realmente sono i popoli e i secoli, quanto più le dette circostanze
e de' principii, e delle azioni sono universali, come per mezzo del Cristianesimo,
e ne' suoi primi secoli massimamente. Questa è la misura con cui bisogna
definire la malvagità degl'individui, e delle nazioni e de' tempi; e
considerare l'odio che meritano e che realmente ispirano. E per questa parte
il nostro secolo si può giudicare meno malvagio.
(2. Marzo 1821.)
Lettere diverse da quelle del nostro alfabeto sono pure il ?????greco, e la
zediglia spagnuola, analoghe fra loro, ma che non si possono confondere col
nostro z, o t, o s, e si pronunziano con una conformazione di organi appropriata
loro. E si troverà più differenza tra questa conformazione di
organi, e quella che si richiede per la pronunzia del nostro z, o t, o s, di
quella che si possa trovare fra la conformazione di organi nella pronunzia del
d, e l'altra nella pronunzia del t: le quali però nessuno dubita [712]che
non sieno lettere diverse, benchè la lingua e i denti le producano ambedue,
con leggerissimo e quasi insensibile divario di collocazione. Così che
dalla piccola differenza di collocazione non si può dedurre che due o
più lettere sieno le stesse, perchè basta un nulla a diversificarle,
come se ne potrebbero addurre altri esempi. Del resto dico lo stesso del thau
ebraico, e del th inglese.
(3. Marzo 1821.)
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo,
sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure
manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera
quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice;
quando anche il suo male non consista che in assenza di beni; laddove è
pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e
che l'uomo felice, non è veramente tale.
(3. Marzo 1821.)
Alla p.370. Ma osservate che spessissime volte questa impazienza pregiudica
al fine. Perchè tu, volendo veder l'esito in qualunque [713]modo, per
liberarti dal timore di non ottenere il tuo fine, perdi quello che avresti conseguito
se non avessi temuto, e se quindi ti fossi diportato più quietamente,
con meno confusione ec. Insomma avessi sostenuto di aspettare che la cosa andasse
come doveva, e nel tempo conveniente ec. Insomma spessissimo nei negozi dubbi,
ancorchè non di somma importanza, affrettando l'esito, non tanto per
ismania di conseguire, quanto per impazienza di dubitare, perdiamo il nostro
intento: e questo ci accade anche nelle menome e giornaliere e materiali operazioni
della vita. Notate quelle parole non tanto per ismania ec. nelle quali consiste
la novità e proprietà di questo pensiero, perchè il detto
effetto dell'impazienza è comunemente notato, ma si attribuisce all'impazienza
di conseguire.
(3. Marzo 1821.)
[714]Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla. Avvertono
anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà
dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita. L'eccesso delle
sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella
produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività
negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato
con Mad. di Staël, Floro ec. p.620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo
dell'entusiasmo della passione ec. non è poeta, cioè non è
in grado di poetare. All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è
occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero,
egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna:
in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle
sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero
di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica. L'infinito non si [715]può
esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i
sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito,
l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito
non lo sentiva. I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno
svenire, o uccidono. Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli
è sommo; ma la sua proprietà, è di render l'uomo attonito,
confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce
nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di
essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè si può dire,
interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti,
nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti,
come ho detto p.366-368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione,
ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria,
e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla
[716]tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la somma gioia.
Ma bisogna osservare che di rado avviene che la gioia ancorchè grande
e straordinaria, ci renda attoniti, e quasi senza senso, e che la sua grandezza
ne renda impossibile il pieno e distinto sentimento. Questo ci accadeva forse
e senza forse da fanciulli, e sarà pure senza fallo avvenuto negli uomini
primitivi; ma oggidì per poco che l'uomo abbia di esperienza e di cognizione,
è ben difficile che sia suscettibile di una gioia, la quale sia tanta
da non poter essere contenuta pienamente nell'animo suo, e da ridondare. Bensì
egli è suscettibilissimo (almeno il più degli uomini) di un tal
dolore. Ma la somma gioia dell'uomo di oggidì, è sempre o certo
ordinariamente tale che l'animo n'è capacissimo; e questo, non ostante
ch'egli vi debba necessariamente esser poco assuefatto, laddove quanto al dolore
o a qualunque passione dispiacevole, non è così. Ma il fatto [717]sta
che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale;
il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e perchè
la gioia fosse tale da superare la capacità dell'animo nostro, si richiederebbe,
come ne' fanciulli e ne' primitivi, una forza e freschezza d'immaginazione persuasiva,
e d'illusione, che non è più compatibile colla vita di oggidì.
(4. Marzo 1821.)
Porzio l. cit. (p.702.) p.126. E se egli ec. a cui fa dubbio che ec. non l'abbia
ad osservare? Leggi a cui fia.
Ivi, p.134. ed i Principi allora affermano di aver perdonato i falli quando
han potere di castigargli; ma se sopraffatti da' pericoli maggiori differiscono
la vendetta, non perciò la cancellano. Non c'è senso. Leggi quando
non han potere. (4. Marzo 1821.).
Nunquam minus solus quam cum solus. Ottimamente vero: ma (contro quello che
si usa [718]credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in
compagnia degli uomini, si trova in compagnia del vero (cioè del nulla,
e quindi non c'è maggior solitudine); chi lontano dagli uomini, in compagnia
del falso. Laonde questo detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene
molto più a' nostri secoli, e non al sapiente solo, ma alla universalità
degli uomini, e massime agli sventurati.
(4. Marzo 1821.)
L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del
corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata
un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore. Egli si slancia
fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto
l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto,
ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe
di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza,
come l'amante [719]escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata.
Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra
se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che
quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli
prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata
nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante
di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui,
ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni
di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di
sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore
di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente,
senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma [720]si
vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella
divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente
così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima,
dico la bellezza astratta, e la natura.
(5. Marzo 1821.)
Oggidì i viaggi più curiosi e più interessanti che si possono
fare in Europa cioè nel paese incivilito, sono quelli de' paesi meno
inciviliti, cioè la Svizzera, la Spagna e simili, che tuttavia conservano
qualche natura e proprietà. Le descrizioni de' costumi, de' caratteri,
delle opinioni, delle usanze di questi paesi hanno sempre della varietà,
della singolarità, della importanza, della curiosità. Quelle degli
altri paesi Europei (salvo nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come ho
detto in altro pensiero p.147. perchè il popolo è sempre più
tenace della natura) i quali non hanno oramai proprietà, cioè
carattere proprio, si rassomigliano tutte fra loro, e col carattere de' costumi,
[721]opinioni ec. di quella tal nazione, alla quale quelle altre si descrivono,
così che pochissimo possono aver di curioso, eccetto nelle minute particolarità
di usanze sociali, ec. nelle quali l'incivilimento e il commercio universale,
non è per anche arrivato ad agguagliare interamente il mondo. Ma in grosso,
e nella sostanza, e nelle cose principali, e per natura loro, non per capriccio,
importanti, possiamo oramai dire, che di queste tali nazioni, conosciuta una,
son conosciute tutte. (5. Marzo 1820.).
Dovunque l'arte tiene la principal parte in luogo della natura, manca la varietà,
sebbene sottentri una sterile curiosità. P.e. gli Stati uniti si diversificano
molto dal governo, costumi ec. degli altri paesi civili, ma quella è
una differenza d'arte, non di natura, è parto della ragione, della filosofia
del sapere, è cosa artifiziale, non naturale. [722]Quindi la curiosità
che ne deriva, è una curiosità secca, e quella varietà,
è quasi falsa, ascitizia, non propria delle cose, non sostanziale, non
inerente alla nazione, e alla natura di lei, e per così dire, una varietà
monotona. Al contrario di quella curiosità e varietà che deriva
dalla considerazione della Svizzera, della Spagna ec. curiosità e varietà,
naturale, propria, innata. V. il pensiero precedente.
(5. Marzo 1821.)
Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito,
ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi
ec. come nella vita.
(6. Marzo 1821.)
Porzio l. cit. (p.702.) p.145. principio. ciascun vedeva che quella prima dell'altre
gli anderebbe ad oppugnare. Leggi egli anderebbe, altrimenti non regge il senso.
Ivi p.155. Che se nell'altre rocche [723]de' Baroni fusse stata la metà
di provvisione ec. Manca una qualche parola, come di detta, di questa, di tale
provvisione, conforme apparisce dagli antecedenti, dove riferisce le provvisioni
che si trovarono nel castello di Sarno, quando fu avuto dal Re.
(6. Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova febrium
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
Orazio, od.3. v.29-33. l. I. Questo effetto, attribuendolo Orazio favolosamente
alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli uomini
verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla violazione e
corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione dell'incremento
che l'imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7. Marzo 1821.)
Alla p.526. Florum, perpetuum Horatii imitatorem observat Rosellus Baumon in
Massoni Hist. Critica Rei literar. Tom.14. p.222. Fabricio, B. Lat. l.2. c.23.
§.2. t.1. p.626.
[724]Alla p.509. Da questa osservazione deducete che Floro, stampato la prima
volta in 4. a Parigi in Sorbonae domo, senza nota di anno o di luogo, ma circa
il 1470. (Fabric.) era uno de' non molti classici conosciuti e letti al tempo
del Petrarca.
(7. Marzo 1821.)
L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli
non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima
di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo
indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione
di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi
che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione
altrui.
(7. Marzo 1821.)
I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella letteratura, oggidì
in Italia, non manifestano mai, si può dire, la menoma forza d'animo
(vires animi, e non intendo dire la magnanimità), ancorchè il
soggetto, o l'occasione ec. contenga [725]grandissima forza, sia per [se] stesso
fortissimo, abbia gran vita, grande sprone. Ma tutte le opere letterarie italiane
d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita
(se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come
in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio
del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, dell'Arici. Ma oltre che
questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre
che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de'
loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente
spontaneo nè di vena, e soggiungo che non solamente non è, ma
non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
La forza creatrice dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente
propria degli antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice,
e, che peggio è, l'ha conosciuto, [726]e così ha realizzata e
confermata la sua infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso
e le cose, tanto più addentro che non doveva, e dopo che il mondo è
divenuto filosofo, l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice,
fruttuosa, non è più propria se non de' fanciulli, o al più
de' poco esperti e poco istruiti, che son fuori del nostro caso. L'animo del
poeta o scrittore ancorchè nato pieno di entusiasmo di genio e di fantasia,
non si piega più alla creazaone delle immagini, se non di mala voglia,
e contro la sottentrata o vogliamo dire la rinnuovata natura sua. Quando vi
si pieghi, vi si piega ex instituto, ????????, per forza di volontà,
non d'inclinazione, per forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e
non intima sua. La forza di un tal animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo
(il che non è più così frequente) si rivolge all'affetto,
[727]al sentimento, alla malinconia, al dolore. Un Omero, un Ariosto non sono
per li nostri tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente
e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e derivante
per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde proporzionatamente
anche ai latini, eccetto Ovidio. E anche l'Italia ne' principii della sua poesia,
cioè quando ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto)
sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio alle
altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo,
e non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania
è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli,
quando noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di
voler fingere una [728]facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a creare?
di voler essere Omeri, in tanta diversità di tempi? Facciamo dunque quello
che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo, ignoriamo quello
che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli esercizi corporali
che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è impossibile, impariamo
che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche l'animo, e che la
mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e immancabile
della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e natura più
immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro.
Vorrei che così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima
giovanezza in poi, e vedo negli [729]altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano,
come in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non
mai nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè
anche l'immaginativa italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose
umane, è illanguidita e spossata in maniera, che per quel che spetta
al creare, non ha quasi più se non quella disposizione che gli deriva
dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da sua propria ed intrinseca
virtù, ed inclinazione.
Ma la vera causa per cui gl'italiani, a differenza di tutti gli altri, non conoscono
oggidì altra poesia che la immaginativa, e della sentimentale sono affatto
digiuni, ve la dirò io. In quest'ozio, in [730]questa noia, in questa
frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita,
in somma senza nè patria nè guerre nè carriere civili o
letterarie nè altro oggetto di azioni o di pensieri costanti, l'italiano
non è capace di sentir nulla profondamente, nè difatto egli sente
nulla. Tutto il mondo essendo filosofo, anche l'italiano ha tanto di filosofia
che basta e per farlo sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli
l'immaginazione, di cui la natura l'avrebbe dotato; ma non quanta si richiede
a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il cuore umano, e dipingerlo
al vivo; oltre che quando anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli,
giacchè bisogna convenire che all'italiano d'oggidì manca la massima
parte di quello studio ch'è duopo per iscriver cose, come son queste,
difficilissime. Sicchè l'italiano, ancorchè si metta a scrivere
col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova più
nulla, e non sapendo che si dire, ricorre ai generali; [731]ovvero volendo esprimere
proprio quello ch'ei sente, non sa farlo, e scrive come un fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l'italiano non essendo oggidì capace
di poesia affettuosa, ricorre e si dedica interamente alla immaginosa, non per
natura o per vocazione, ma per volontà ed elezione. E appunto perciò
o non vi riesce punto, o solamente coll'imitare, e tener dietro agli antichi,
come un fanciullo alla mamma; nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti:
il quale non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini
o greci; se agl'italiani, come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore
del vecchio stile e della vecchia lingua.
Ma gl'italiani contuttociò, e contro la natura de' tempi e della poesia,
si gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo,
e lo fanno perchè questo riesce loro molto più facile del sentimentale.
[732]1. nessuno dubita che l'imitare a certi ingegni massimamente, che hanno
pochissima o forza, o abitudine ed esercizio di forza, e d'impazienza e di calore
ec. non sia molto più facile che il creare. E gl'italiani d'oggidì,
poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non trascrivono, come
spesso fanno, e come fa l'Arici, che quello si chiama copiare. 2. Come è
più facile un racconto che un dramma, perchè nel dramma ogni errore
d'imitazione è palese, e si richiede una molto più esatta corrispondenza
alla natura ed al vero; così agl'italiani d'oggidì, persone, come
ho detto, che non sentono, e non hanno bastante cognizione del cuore umano,
è molto più facile il genere immaginativo, che alla fine è
cosa arbitraria, e dove si può anche abbagliare, come ha fatto l'Ariosto,
di quello che il sentimentale dove bisogna seguire esattamente e passo passo
la natura ed il vero, e dove il cuor di ciascuno, è prontissimo [733]e
acutissimo e rigoroso giudice della verità o falsità, della proprietà
o improprietà, della naturalezza, o forzatura, della efficacia o languidezza
ec. delle invenzioni, delle situazioni de' sentimenti, delle sentenze, delle
espressioni ec. E la facoltà immaginativa si può in qualche modo
fingere, o forzare, o almeno comandare: la sensitiva non mai. E perciò
non è maraviglia se quei moderni italiani i quali, nelle circostanze
che ho esposte di sopra, hanno pur voluto pubblicare opere sentimentali, sono
stati fischiati, o degni di esserlo. Tanto più che la imitazione, (e
questi tali si son dati tutti e totalmente alla imitazione degli stranieri)
se disdice all'immaginativo, molto più al sentimentale, per la stessa
ragione per cui il sentimento non si può nè fingere nè
proccurare, almeno forzatamente. E così tutti i sensati italiani e forestieri,
si accordano in dire che l'Italia manca del genere sentimentale. [734]Ma non
osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l'odierna Italia
manca di letteratura, certo di poesia. Quasi che il detto genere fosse proprio
di questa o quella nazione, e non del tempo. Quasi che oggidì la condizione
generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il mancare di
questo genere non fosse lo stesso che mancar di poesia.
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo
secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa
fu unicamente ed esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli
in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non è
quasi propria de' nostri tempi, e non farsi maraviglia, s'ella ora langue come
vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera
poesia. Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia,
dall'esperienza, dalla cognizione [735]dell'uomo e delle cose, in somma dal
vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal
falso. E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava,
appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia,
un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata
della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche esser più
sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle quali
non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere,
e più di quello che facciano gli stranieri.
(8. Marzo 1821.)
La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non lasciò mai di
arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non è quasi
scrittor greco di qualsivoglia secolo, che venga nuovamente in luce, il quale
non possa servire ad impinguare il vocabolario greco di qualche novità.
[736]Non è secolo della buona lingua greca (la quale si stende molto
innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S. Basilio
e S. Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui
scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che
non si osservano ne' più antichi. E questi incrementi erano tutti della
propria sostanza e del proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo
schiva d'ogni cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità
e copia de' suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava,
e di conformare la novità delle parole alla novità delle cose,
senza ricorrere ad aiuti stranieri. Insomma il tesoro e la natura, e non solamente
ricchezza, ma fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale
da bastare da per se sola, a tutte le novità che occorresse di esprimere,
come un paese così fertile che fosse sufficiente ad alimentare [737]qualunque
numero di nuovi abitatori o di forestieri. E questo si può vedere manifestamente
anche per quello che interviene oggidì. Giacchè in tanta diversità
di tempi e di costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e
di ritrovati, e fino d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente
scientifica occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca.
Nessuna lingua viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee
alle nostre cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto,
e s'invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed
enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano.
La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità
delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove
voci greche. La fisica, la Chimica, la storia naturale, le matematiche, [738]l'arte
militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di
scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e diversissime da quelle
che si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorchè nuove di pianta,
hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro
nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia subito dal trarre il
suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti secoli spenta,
resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che prima
mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire,
prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla
lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle
sue denominazioni e parole. Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni
per le ragioni che ho dette altrove, non è però che non renda
evidente e palpabile l'onnipotenza immortale di quella lingua.
[739]Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè
Vocabolari, senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare
il suo terreno ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica
delle merci straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza
sua che bastava a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva
e vegeta e copiosa, così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino
trasportando quasi l'Italia nella Grecia, e l'occidente in oriente, con quella
infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec. introducendo
e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel bel mezzo
delle provincie greche e della lingua greca, forzò quell'idioma per sì
lungo spazio indomito e vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e illeso
fra tutti i pericoli di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere,
e mescolarle colle proprie (non per bisogno, ma per uso e [740]commercio quotidiano,
e presenza di gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e finalmente imbarbarire
suo malgrado e a viva forza. V. p.981. capoverso 1. La qual mescolanza e quasi
fusione di usi costumi opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il
mondo inclinava già fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già
messo il piede, tuttavia credo che contribuisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente,
le une colle altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere
i loro primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero
fatto per l'addietro, il quale allontanamento e declinazione dal primitivo,
è l'ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che ho detto della
greca. E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà, natura,
essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente ordinata e
disposta a produrre lo stesso effetto. Ma questo [741]non seguì per le
ragioni che son per dire. Non andrò ora cercando se le radici latine
(dico primitive e pure latine) sieno così copiose come le greche. Il
commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch'essi durarono
e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di accrescer le
loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini, popolo
ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non conquistò
anche la Grecia: ma allora i progressi delle sue cognizioni, del suo dominio,
del suo commercio, non giovarono a quello delle sue radici; certamente questo
non corrispose a quell'altro, per la ragione che dirò poi. V. in questo
proposito Senofonte ????????????????????????????????.
Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa facoltà dei
composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la lingua
greca, l'aveva ancora ne' suoi principii la lingua latina, e l'ebbe per lungo
tempo, cioè per lo meno sino a Cicerone il quale principalmente [742]fissò,
ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua
latina. Ponete mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete
in quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a significare
diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti, ossia decomposti, e
derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli
stessi mezzi si rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente
e facilissimamente. Osservate per esempio il verbo duco o facio e consideratelo
in tutti i suoi derivati o composti, e sopraccomposti, e in tutti i loro e suoi
significati ed usi o propri o metaforici, ma però sempre così
usitati, che benchè metaforici, son come propri. Con ogni esame mi sono
accertato che il verbo duco e il verbo facio per la copia de' composti, sopraccomposti,
con preposizione e senza, derivati e loro composti, significati ed usi propri
e traslati, tanto di questi che suoi, è adattattissimo a servire di esempio.
(Ludifico, carnifex, sacrificium, labefacto ed altri infiniti sono i composti
del verbo facere senza preposizione nè particelle ec. ma con altri nomi,
alla greca.) E con queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura
della lingua latina fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza
di esprimer tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza,
trattabilità, duttilità ec. Come questa facoltà di servirsi
così bene delle sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare conquistare
con sì [743]poca fatica, metter così bene e a sì gran frutto
il suo proprio capitale, coltivare con sì gran profitto il proprio terreno;
questa facoltà dico, che nella lingua greca durò sino alla fine,
come venisse così presto a mancare nella lingua latina, alla quale abbiamo
veduto ch'era non meno naturale e caratteristica che alla greca, a cui poi si
attribuì e si attribuisce come esclusivamente sua, verrò esponendolo
e assegnandone le ragioni che mi parranno verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma, consistenza, ordine, e
stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non avrebbe
avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia, varietà,
importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse che la
lingua tutta fosse contenuta. L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel tempo
che ho detto, e l'ebbe in Cicerone. Questi per tutte le dette condizioni, per
l'eminenza del suo ingegno, e lo splendore [744]delle sue gesta, del suo grado,
della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma formata
e perfezionata non solo la lingua, ma la letteratura, l'eloquenza, la filosofia
latina, trasportando il tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto
il primo il sommo letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava
tanto agli altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa
nelle sue opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l'autorità
e l'esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir
di norma e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò
giunta al suo termine; gl'incrementi di essa si stimarono già finiti;
si credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè la novità;
si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo di arricchire;
le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse. ec. E così
Cicerone fra gl'infiniti benefizi fatti alla sua [745]lingua, gli fece anche
indirettamente per la troppa superiorità e misura della sua fama e merito,
troppo soverchiante e primeggiante, questo danno di arrestarla, come arrivata
già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare se fosse passata
oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e produttrice, la
fertilità, e inaridirla. Nello stesso modo che avvenne alla eloquenza
e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona (v. Velleio
nel fine del 1mo libro). Che siccome per la letteratura si stimò quasi
giunta l'ora del riposo, tanto egli l'aveva perfezionata (v. p.801. fine) (cosa
che non accadde mai nella Grecia, giacchè a nessuno scrittore in particolare
competeva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale s'intreccia
e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo, che
in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così
appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente, [746]come già
matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì. Questa può
essere una ragione. Quest'altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e sapienza
greca, certo è che la Grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere,
scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate,
e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò,
determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano
ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere
sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere
ad altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue,
nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè
nessuna lingua è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più
o meno anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre
e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando
le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747]quindi pose sempre
a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto
il tesoro della favella. Ma ai latini non accadde lo stesso. La loro letteratura,
le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un tratto, e
belle e formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate,
provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi:
in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto
le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che
quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio
non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine
e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa
naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque
i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle
e fatte, neanche ne crearono nè formarono, [748]ma riceverono parimente
il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s'era lagnato della
novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo
far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande
e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo della purità della
favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità
delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate
e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune
e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si
può dir greche popolò il latino di parole greche, certo di essere
inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima
e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime,
e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle
moderne materie filosofiche e simili. E di più erano necessarie. Così
dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose, e di
essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare
che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline,
e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi
anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti
regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente.
Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa
tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito
(come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate
dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile
straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed
usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase
o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva.
Cicerone ne aveva usato [750]da suo pari con discrezione e finissimo giudizio
e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua,
di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella
tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate
ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è
oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua
greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti,
di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione
di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro
lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della
nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo
come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella avesse o non avesse
come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, [751]davan sacco
alla lingua greca che l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola
necessità, o la difficoltà dell'uso del latino in quei casi, o
finalmente l'ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani
(come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci in iscambio delle parole e modi
latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla
favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e
la filosofia, anche la moda. Orazio già avea dato poco buon esempio.
Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l'opposto
del carattere Romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra' cortigiani,
quanto Federigo II tra i re. Non è maraviglia se la lingua romana gli
parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei
versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo costume. Egli
però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non
pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s'egli,
quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè
i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima
parte, felicissimi; ma poco [752]tempo dopo la sua morte, cioè al tempo
di Seneca ec. per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la
lingua latina impoveriva dall'un canto e dall'altro imbarbariva effettivamente
per grecismo come oggi l'italiana per francesismo. Ed è curioso come
tristo l'osservare che siccome la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie alla greca, quando già
mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto
Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende
con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo
dei Medici in Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio) restituita,
se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme
colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva
e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso
delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone
e i presenti ristoratori della lingua italiana. [753]Il qual Frontone, come
apparisce ora dalle reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un
posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della
letteratura così della lingua latina. Nel qual pregio egli forse e senza
forse, cred'io, è l'ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche
distinta rinomanza. Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare il
troppo libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde,
come appunto gran parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una
riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture,
distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla
a' suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova. Perchè
la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch'è viva,
e come è assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle
cose, così è pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre
più indietro che non bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino [754]che
avea già fatto dirittamente e debitamente. Laddove bisogna riporla nè
più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di purificare la lingua, la volle antiquare, richiamando
in uso parole e modi, per necessaria vicenda delle cose umane, dimenticati,
ignorati e stantii, e fino come pare, l'antica ortografia, volendo quasi immedesimare,
in dispetto della natura e del vero, il suo tempo coll'antico. Come che quei
secoli che son passati, e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua,
e in tutto quello che la modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo
il fare che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l'intervallo di tempo ed altro che sta fra il presente e l'antico. Nè
osservò che siccome la lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose
le quali sono istabilissime e variabilissime, così ogni secolo anche
il più buono e casto ha la sua lingua modificata in una maniera propria,
la quale allora solo è cattiva, [755]quando è contraria all'indole
della lingua, scema o distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua
bellezza e bontà naturale e propria, altera perde guasta la sua proprietà,
la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori
di questo, com'è altrettanto vano, che dannoso e micidiale l'assunto
d'impedire ch'ella si arricchisca, così è impossibile e dannoso
l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali
la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche ente immaginario,
come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E perchè
Cicerone non iscrisse come il vecchio Catone ec. non perciò resta ch'egli
non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua,
il sommo scrittor latino: nè che Virgilio non sia il primo poeta latino,
e limpidissimo specchio di latinità (riconosciuto dallo stesso Frontone
negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben diversa
[756]da quella di Ennio di Livio Andronico, ec. e anche di Lucrezio. Bisogna
però ch'io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in
quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio
e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica,
di quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo
a fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità
si rende assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la
sua lingua veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli
antichi, non però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità
a' suoi scritti, col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi,
senza osservare se la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle
parole e modi vi cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando
dal corpo della composizione. Frontone non sognò neppure la massima di
vietare la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle parole
o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto. Il che [757]fanno
i nostri per impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua;
credendo di esser buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito
e come capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi,
o non sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e
dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora
cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io
dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli
antichi scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine,
e incapacità, e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi,
e decisa insufficienza alle imprese, agli assunti ec. quanto negli odierni italiani:
e Frontone del resto non fu niente povero d'ingegno. Il suo peccato si può
ridurre all'aver considerato come modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che
Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto l'arricchì nella parte filosofica)
piuttosto Catone che Tullio; all'aver creduto che in quelli e non in questi
fosse la perfezione della lingua latina, all'avere attinto più da quelli
che da questi, e consideratili come fonti più ricchi o più sicuri
ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme però
all'ordinario rispetto per l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua.
ec. ec. Questo sia detto in trascorso e per digressione.
Tornando al proposito, cioè all'arricchire [758]la lingua del prodotto
delle sue proprie sostanze, e dalla greca e latina, passando alle vive, questa
è sempre stata e sarà sempre facoltà inseparabile dalla
vita delle lingue, e da non finire se non colla loro morte. Tutte le lingue
vive la conservano, eccetto quelli che vorrebbero che la italiana la deponesse.
La francese, la quale a differenza dell'italiana, si è spogliata della
facoltà di usare quelle delle sue parole e modi antichi e primitivi,
che le potessero tornare in acconcio (come ho detto altrove); parimente a differenza
di ciò che si esigerebbe dalla italiana, ha conservato sempre ed usato
la facoltà di mettere a frutto e moltiplico il suo presente tesoro. E
la stessa lingua latina, la quale per le ragioni che ho detto, perdè
in parte questa facoltà dopo Cicerone, non la perdè, se non in
quanto a quella felicissima ed immensa facoltà di composti e sopraccomposti
o con preposizione o particella, ovvero di più parole insieme; facoltà
che la metteva quasi [759](cioè in proporzione della quantità
delle radici e de' semplici) al paro della greca; facoltà che si può
vedere e nelle primitive parole latine composte nei detti modi, o con avverbi
(come propemodum e mille altre), in somma come le greche, e che sono durate
nell'uso della latinità sino alla fine, ma non però imitate nè
accresciute; e in quelle che poi caddero dall'uso, e si possono veder ne' più
antichi latini (come in Plauto lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille
altre, e prendo le primissime che ho incontrate subito), e servono a far conoscere
la primitiva costituzione, forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà
in fine, ch'è la massima e più ricca sorgente della copia delle
parole, e della onnipotenza di tutto esprimere, ancorchè nuovissimo;
il che si ammira nel greco, e si potè una volta notare anche nel latino.
I primi scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec. antico
(come lectisternium antica festa romana) abbondano siffattamente di parole composte
alla greca di due o più voci, che non si può forse leggere un
passo di detti autori ec. senza trovarne, ma la più parte andate in disuso.
Spesso eran proprie di quel solo che le inventava. Talvolta anche di eccessiva
lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di antico poeta riferita da
Varrone (De L. L. lib.4.) (p.3. della mia ediz. del 400.) Quest'uso ottimo e
felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata, o comunque [760]lasciata
trasandare, abbandonare, dismettere, dimenticare alla lingua latina, che era
per forza d'essa facoltà così bene istradata alla onnipotenza,
ne' suoi principii. Ma la facoltà di arricchire la propria lingua col
prodotto delle sue proprie radici in ogni altro genere, coi derivati ec. non
fu mai abbandonata finch'ella visse, e non poteva esserlo, stante ch'ella vivesse.
Non solamente i cattivi o mediocri, ma anche i buoni ed ottimi scrittori dopo
Cicerone, se ne prevalsero tutti, e tutti scrivendo aumentarono il tesoro della
lingua, e questa non lasciò mai di far buoni e dovuti progressi, finchè
fu adoperata da buoni e degni scrittori.
Così deve tenersi per fermissimo, ch'è indispensabile di fare
a tutte le lingue finch'elle vivono. La facoltà de' composti pur troppo
non è propria delle nostre lingue. Colpa non già di esse lingue,
ma principalmente dell'uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre lingue
meridionali [761](delle settentrionali non so) questa facoltà, delle
orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo. Perchè
del resto 1. le nostre preposizioni, massimamente nella lingua italiana, sarebbero
per la più parte, appresso a poco non meno atte alla composizione di
quello che fossero le greche e latine, e noi non manchiamo di particelle attissime
allo stesso uso, anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re,
tra o stra, arci, dis, o s, in negativo o privativo, e affermativo, mis, di,
de ec. E di queste abbondiamo anzi più de' latini, e forse anche dei
greci stessi, e credo certo anche de' francesi e degli spagnuoli.) V. il Monti,
Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p.2078. 2. anche ai composti di più
parole la lingua massimamente italiana, sarebbe dispostissima, come già
si può vedere in alcuni ch'ella usa comunemente (valentuomo, passatempo,
tuttavolta, capomorto, capogatto, tagliaborse, beccafico, falegname, granciporro,
e molti e molti altri); v. p.1076. e Monti, Proposta ec. v. guardamacchie ed
anche la lingua francese (emportepièce, gobemouche, fainéant coi
derivati ec.) 3. non manchiamo neppure di avverbi atti a servire alla composizione.
4. la nostra lingua benchè non si pieghi e non ami in questo genere la
novità, ha però non poco in questo genere, come i composti colla
preposizione in, tra, fra, oltra, [762]sopra, su, sotto, contra, anzi ec. ec.
e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra
lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l'ardire de' composti, de'
quali egli abbonda (come indiare, intuare, immiare, disguardare ec. ec.) massime
con preposizioni avverbi, e particelle. E così gli altri antichi nostri.
Ma a noi pure è avvenuto, come ai latini, che questa onnipotente facoltà,
propria della primitiva natura della nostra lingua, (sebbene allora pure in
minor grado che, non solo della greca, ma anche della latina) s'è lasciata
malamente e sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino
buona parte di quelli che si sono trovati in uso, e si adoprino come recentissimi,
attestando continuamente la primiera facoltà e natura della nostra lingua;
ma de' veramente nuovi e recenti non si gradiscono. E tutto questo appresso
a poco è avvenuto anche alla lingua francese. V. p.805. Dei composti
dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non
però nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor
tanta da potere, senza [763]la menoma affettazione formare e introdurre molti
nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi, mollissimi per l'una
parte; e per l'altra utilissimi; specialmente con preposizioni e particelle
ec. Quanto poi ai derivati d'ogni specie (purchè sieno secondo l'indole
e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè affettati)
e a qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella nostra
lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine
e d'indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata
nè strana ma naturalissima, di suono finalmente non disgrata all'orecchio,
non sia italiana ma barbara, e non si possa nè pronunziare ne scrivere,
per questo solo, che non è registrata nel Vocabolario? (E quello che
dico delle parole dico anche delle locuzioni e modi, e dei nuovi usi qualunque
delle parole o frasi ec. già correnti, purchè questi abbiano le
dette condizioni.) Quasi che la lingua italiana sola, a differenza di tutte
le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito, si debba, mentre ancor vive
nell'uso quotidiano della nazione, considerar come morta e morire vivendo, ed
essere a un tempo viva e morta. Converrebbe che anche questa nazione vivesse
come morta, cioè che nella sua esistenza non [764]accadesse mai novità,
divario, mutazione veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè
di cognizioni (come, e più di quello che si dice della China, la cui
lingua in tal caso potrà essere immobile): e di più che sia in
tutto e per tutto conforme alla vita e alle condizioni de' nostri antichi, e
di que' secoli dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità
delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la lingua italiana viva, e le morte,
ammesso questo pazzo principio? Che libertà che facoltà avremo
noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che nell'adoprare
la greca e latina che sono antiche ed altrui? e le cui fonti sono disseccate
e chiuse da gran tempo, restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono
aperte, e quelle lingue vissero. Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori
italiani i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da
far quasi dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno
superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua
nostra. E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di
tutta Europa) derivando, come facciamo spessissimo, [765]dal greco le parole
che ci occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime
ai parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente ignote all'antica
lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o se
non hanno per se l'autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi
in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d'ogni nostro diritto?
Il che, sebbene si facesse con buon giudizio, e coi dovuti rispetti all'indole
di quella lingua (al che per verità pochi hanno l'occhio nella formazione
di tali voci), a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la eredità
che ci è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi,
dai quali non si può nè ricavare nè pretendere altro servigio
che dell'usarli identicamente. Ma la nostra lingua propria è un'eredità,
un capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da' nostri maggiori, i quali come
l'hanno fatto fruttare, così ce l'hanno [766]trasmesso perchè
facessimo altrettanto, e non mica perchè lo seppellissimo come il talento
del Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di custodirlo,
e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la vegetazione, il
prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo come di un capitale morto
ec.
Osservo anche questo. Noi ci vantiamo con ragione della somma ricchezza, copia,
varietà, potenza della nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità,
attitudine a rivestirsi di tutte le forme, prender abito diversissimo secondo
qualunque soggetto che in essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili;
insomma della quasi moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi
nella nostra favella. Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei
queste qualità? Forse dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza?
Così ordinariamente si dice, ma c'inganniamo di gran lunga. Le dette
qualità, le lingue non [767]le hanno mai per origine nè per natura.
Tutte a presso a poco sono disposte ad acquistarle, e possono non acquistarle
mai, e restarsene poverissime e debolissime, e impotentissime, e uniformi, cioè
senza nè ricchezza, nè copia, nè varietà. Tale sarebbe
restata la lingua nostra, senza quello ch'io dirò. Tutte lo sono nei
loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi nascimenti, ma finattanto
che non sono coltivate, e con molto studio ed impegno, e da molti, e assiduamente,
e per molto tempo. Quello che proccura alle lingue le dette facoltà e
buone qualità, è principalmente (lasciando l'estensione, il commercio,
la mobilità, l'energia, la vivacità, gli avvenimenti, le vicende,
la civiltà, le cognizioni, le circostanze politiche, morali, fisiche
delle nazioni che le parlano) è, dico, principalmente e più stabilmente
e durevolmente che qualunque altra cosa, la copia e la varietà degli
scrittori che l'adoprano e coltivano. (V. p.1202.) Questa siccome, per ragione
della maggior durata, e di altre molte circostanze, fu maggiore nella Grecia
che nel Lazio, perciò la lingua greca possedè le dette [768]qualità,
in maggior grado che la latina; ma non prima le possedè che fosse coltivata
e adoperata da buon numero di scrittori, e sempre (come accade universalmente)
in proporzione che il detto numero e la varietà o de' soggetti o degli
stili o degl'ingegni degli scrittori, fu maggiore, e s'accrebbe. La lingua latina
similmente non le possedè (sebben meno della greca, pure in alto grado)
se non quando ebbe copia e varietà di scrittori. Tutte le lingue antiche
e moderne che hanno mancato di questo mezzo, hanno anche mancato di queste qualità.
Per portare un esempio (oltre le lingue Europee meno colte) la lingua Spagnuola,
nobilissima, e di genio al tutto classico, e somigliantissima poi alla nostra
particolarmente, sì per lo genio, come per molti altri capi, e sorella
nostra non meno di ragione che di fatto, e di nascita che di sembianza, costume,
indole, non è inferiore alla nostra nelle dette qualità, se non
perchè l'è inferiore principalmente nella copia e varietà
degli scrittori. Se la lingua francese, non ostante la gran quantità
degli scrittori, e degli [769]ottimi scrittori, si giudica ed è tuttavolta
inferiore alla nostra ed alle antiche per questo verso, ciò è
avvenuto per le ragioni particolari che ho più volte accennate. La riforma
di essa lingua, la regolarità prescrittale, la figura datale, avendo
uniformato tutti gli stili, la poesia alla prosa; impedita la varietà
e moltiplicità della lingua, secondo i vari soggetti e i vari ingegni;
tolta la libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori, in questo
particolare; tolto loro l'ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e timidi
ec. ec. la Francia è venuta a mancare della varietà degli scrittori,
non ostante che n'abbia la copia, ed abbia la varietà de' soggetti, perchè
tutti i soggetti da tutti gl'ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo
modo. E ciò deriva anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà
di quella nazione, e della influenza della società: così stretta
e legata, che tutti gl'individui francesi fanno quasi un solo individuo. E laddove
[770]nelle altre nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi, in quello
è pregio e necessità il rassomigliarsi anzi l'uguagliarsi agli
altri, e ciascuno a tutti e tutti a ciascuno. Queste ragioni rendendogli timidi
dell'opinione del ridicolo ec. e scrupolosi osservatori delle norme prescritte
e comuni nella vita, li rende anche superstiziosi, timidi, schivi affatto di
novità nella lingua. Ma tutto ciò quanto alle sole forme e modi,
perchè questi soli, sono stati fra loro determinati, e prescritti i termini
(assai ristretti) dentro i quali convenga contenersi, e fuor de' quali sia interdetto
ogni menomo passo. E così quanto allo stile uniforme si può dire
in tutti, e in tutti i generi di scrittura, anche nelle traduzioni ec. tirate
per forza allo stile comune francese, ancorchè dallo stile il più
renitente e disperato; e quanto in somma all'unità del loro stile, e
del loro linguaggio che ho notata altrove. Ma non quanto alle parole, nelle
quali, restata libera in Francia la facoltà inventiva, e il derivare
novellamente dalle proprie fonti, sempre aperte sinchè la lingua vive;
la lingua francese cresce di parole ogni giorno e crescerà. Che se le
cavassero sempre dalle proprie fonti, o con quei rispetti che si dovrebbe, non
avrei luogo a riprenderli, come ho fatto altrove, e della corruzione e dell'aridità
a cui vanno portando la loro lingua. [771]La quale inoltre, da principio, era,
come la nostra, attissima alla novità ed al bell'ardire, anche nei modi,
secondo che ho detto altrove. La lingua tedesca, rimasa per tanti secoli impotente
ed umile, ancorchè parlata da tanta e sì estesa moltitudine di
popoli, non per altro che per avere avuto nell'ultimo secolo e ne' pochi anni
di questo, immensa copia e varietà di scrittori, è sorta a sì
alto grado di facoltà e di ricchezza e potenza.
La lingua italiana dunque, scritta per sei secoli fino al 18vo. inclusivamente,
e scritta da una infinità di autori d'ogni soggetto, d'ogni stile, d'ogni
carattere, d'ogni ingegno, oltracciò abbondantissima, quanto e più,
certo prima di qualunque altra lingua viva, non solo di scrittori comunque,
ma scrittori peritissimi nel linguaggio, coltivatori assidui, ed espressamente
dedicati allo studio della lingua, maestri e modelli del bel parlare, studiosissimi
delle lingue antiche per derivarne nella nostra tutto il buono e l'adattato,
liberi, coraggiosi, e felicemente arditi nell'uso della lingua; questa lingua
[772]dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi principii, come tutte le altre,
e da barbare origini; di più, cresciuta e fatta se non matura certo adulta
e vigorosissima fra le tenebre dell'ignoranza, della superstizione, degli errori
della barbarie; non per altro che per li detti motivi, e prima e sola fra le
viventi, è venuta in tal fiore di bellezza, di forza, di copia, di varietà,
ec. che giunge quasi a pareggiare le due grandi antiche (chi bene ed intimamente
e in tutta la sua estensione la conosce), non avendo rivale fra le moderne.
Se dunque abbiamo veduto come le doti delle lingue, e in ispecie la copia e
la varietà, non derivano principalmente se non dalla copia e varietà
degli scrittori, e non da natura di essa; ne segue che quando gli scrittori
lasceranno per trascuraggine o ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno
impediti di farlo, la lingua non arricchirà, non crescerà, non
monterà più, e siccome le cose umane, non si fermano mai in un
punto, ma vanno sempre innanzi o retrocedono, così la lingua non avanzando
più, retrocederà, [773]e dopo essere isterilita, impoverirà
ancora, perderà quello che avea guadagnato, e finalmente si ridurrà
a tal grado di miseria e d'impotenza, che non sarà più sufficiente
all'uso e al bisogno, e allora sì che le converrà domandare soccorso
alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel motivo appunto il quale
si credeva doverla preservare dalla corruzione, e mantenerla pura e sana. Forse
che non vediamo già accadere tutto questo? Quante ricchezze delle già
guadagnate, e per così dire, incamerate, ha ella perduto quasi e senza
quasi del tutto! Ma di questo dirò poi.
Vogliamo noi dunque ridurre la lingua italiana e nelle parole e nei modi, a
quella stessa paura, scrupolosità, superstizione, schiavitù, grettezza,
uniformità della lingua francese nei soli modi? Almeno i francesi hanno
una scusa nella natura della loro nazione, a cui la società è
vita, alimento, diletto, e spavento, sanguisuga, tormento, morte. [774]A noi
manca questa scusa, se già non vogliamo infrancesire interamente anche
nei costumi, usi, vita, gusti, idee, inclinazioni ec. e perdere fino alla sembianza,
aspetto, forma d'italiani, come abbiamo più che incominciato.
Diranno che la lingua, benchè per lo mezzo, e l'ardire e libertà
degli scrittori, è giunta però a quella perfezione, la quale non
possa oltrepassare senza guastarsi. Vi giunse, cred'io, nè più
nè meno in quel punto in cui finì di pubblicarsi l'ultimo Vocabolario
della Crusca, giacchè in questo o certo nei precedenti, sono riportate
moltissime parole coll'autorità di scrittori ancora viventi e scriventi.
Anzi il Buonarroti scrisse la Fiera appostatamente per somministrar parole al
Vocabolario. L'ultimo tomo dunque di questo, e quell'anno, quel mese, quel giorno
in cui fu pubblicato chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, state
aperte da cinque secoli. Ma lasciando le burle, do e non concedo che la lingua
italiana, sia stata già [775]portata dagli scrittori a quella somma perfezione
a cui possa pervenire in ordine a tutte le altre qualità, (errore manifestissimo,
ma lasciamolo passare). Nella ricchezza, copia, e varietà nego che veruna
lingua del mondo, o attuale o possibile, possa mai essere perfetta finchè
non muore. E ciò nasce che le cose ancora vivono sempre, e si modificano
sempre novellamente, e si moltiplicano le conosciute: ora una lingua non è
mai perfettamente ricca, anzi perfettamente fornita del necessario, finch'ella
non può esprimere perfettamente, e convenientemente tutte le cose, e
tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo. Sicchè una
lingua non avrà più mestieri di accrescimento, allora solo quando
o essa o il mondo sarà finito.
Quali effetti produca poi, e quanto sia pericoloso il volere arrestare una lingua,
come già perfetta, e lo scoraggirsi di accrescerla, per la persuasione
[776]che ciò non sia più necessario, nè lecito e giovevole,
nè possibile, si può vedere in quello che ho detto della lingua
latina.
E prima di partire da questo soggetto della ricchezza e copia e bontà
generale e potenza delle lingue proccurata principalmente dalla copia e varietà
ed ingegno degli scrittori, osserverò che quella medesima superiorità
di circostanza ch'ebbe la lingua greca sulla latina, e che fu seguita dall'effetto
di restarle realmente e sempre superiore nella sostanza, l'abbiamo noi pure
sopra tutte le altre lingue viventi, e colte. Perchè siccome la coltura
della lingua greca, e gli scrittori suoi, incominciati assai per tempo, abbracciarono
lunghissimo spazio, e il loro numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in
proporzione di questo spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà
e potenza della lingua greca, crebbe in modo che non potè mai essere
agguagliata dalla latina: così la lingua italiana [777]scritta già
come ho detto da sei secoli in qua, e, si può dire, in ciascun secolo,
abbondantissima di diversissimi scrittori e cultori, ha su tutte le altre lingue
moderne e colte quello stesso vantaggio di circostanza ch'ebbe la greca sulla
latina. Vantaggio che per nessuno ingegno e nessuno sforzo e studio di nessuna
nazione ci potrà mai esser levato, se noi non vorremo. Ma ecco che noi
siamo fermati, e la lingua nostra non fa più progressi. La lingua francese
infaticabilmente si accresce di tutte le parole che le occorrono. La lingua
tedesca avanza e precipita come un torrente, e guadagna tuttogiorno vastissimi
spazi, in ogni genere di accrescimento. Noi da qualche tempo arrestati, neghittosi,
ed immobili, manchiamo del bisognevole per esprimere e per trattare la massima
parte delle cognizioni e delle discipline e dottrine moderne, ed usi e opinioni
ec. ec. oggi più rapide nel crescere e propagarsi, e variare ec. di quello
che mai [778]fossero, e in proporzione che la nostra indolenza e infingardaggine
presente, è opposta alla energia ed attività passata. Così
la lingua italiana perde il vantaggio dello spazio che avea guadagnato per valore
de' suoi antichi e primi padri, sopra le altre lingue, e queste correndo più
velocemente che mai, fra tanto che la nostra siede e dorme, riguadagneranno
tutto lo spazio perduto per la inerzia de' loro antichi, arriveranno ben presto
la nostra e la passeranno. E la nostra non solo non sarà più nè
superiore nè uguale alle altre colte moderne, ma tanto inferiore, che
divenuta impotente, e buona solo a parlare o scrivere ai bisavoli; o non saprà
esprimer niente del bisognevole, nè parlare e scrivere in nessun modo
ai contemporanei; o lo farà (come già lo fa per quel poco che
parla e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello che ne dice non
del suo, ma copiando o seguendo gli stranieri) invocando l'altrui soccorso,
servendosi degl'istrumenti e mezzi altrui, e quasi trasformandosi [779]in un'altra,
o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno straniero (come i
piccoli e deboli confederati de' grandi e potenti) essa ch'era capo di tutte
le lingue viventi. Laddove siccome le altre lingue (come anche le altre letterature,
e repubbliche scientifiche) raddoppiano l'energia e la veemenza e gagliardia
del loro corso, così che in breve riguadagneranno lo spazio perduto da'
loro maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo, ci pareggeranno
finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a moltissimi rami
del sapere è già accaduto): così conviene che ancor noi
pareggiamo i nostri ai loro sforzi, e così non perdendo il vantaggio
acquistato, restiamo perpetuamente superiori a tutti, se non nel presente valore,
certo pel detto vantaggio acquistato dagli avi, e mantenuto da noi.
Conchiuderò con una osservazione che benchè fatta, io credo, da
altri, tuttavia merita di essere ripetuta, perchè sia sempre più
[780]considerata e sempre meglio svolta. Non solamente i bisogni della lingua
aumentano e si rinnuovano tuttogiorno, ma i mezzi della lingua, senza la novità
delle parole, tuttogiorno diminuiscono. Quante voci e modi e frasi che una volta
erano e usitatissime, e naturalissime, e chiarissime, e comunissime, ed utilissime
efficacissime espressivissime frequentissime nel discorso, ora per essere antiquate,
o non son chiare, o anche potendosi intendere, anche essendo chiarissime, non
si debbono nè possono usare perchè non riescono e non cadono naturalmente,
e manifestano e sentono quello che sopra ogni cosa si deve occultare, lo studio
e la fatica dello scrittore. Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando,
cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni.
Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non
crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le
lingue colte o non colte, e come si è sempre inculcato a tutte le lingue
[781]colte, ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà,
e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o
non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà
alle straniere; ed eccoti per un altro verso che quello stesso preteso preservativo
contro la barbarie, cioè la intolleranza della giudiziosa novità,
la condurrebbe alla barbarie a dirittura. E per parlare particolarmente della
lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1. quanto le lingue sieno soggette
a perdere delle ricchezze loro: 2. come perdendo da una parte e non guadagnando
dall'altra, la lingua non più per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo
è fuggito, anzi temutone da tutti gli scrittori italiani il biasimo e
il ridicolo) ma per decisa povertà e necessità imbarbarisca? Prendiamoci
il piacere di leggere a caso un foglio qualunque del Vocabolario e notiamo tutte
quelle parole e frasi ec. che sono uscite fuor d'uso, e che non si potrebbero
usare, o non senza difficoltà. Io credo che nè meno due terzi
del vocabolario [782]sieno più adoperabili effettivamente nè servibili
in nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile. Queste perdute,
infinite altre che sebbene dimenticate e fuor d'uso, sono però ricchezza
viva e realissima (come spesso necessarissima) perchè chiare a chiunque,
e ricevute facilmente e naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si
voglia, ma tuttavia sono abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la
quale in chi maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova, perchè
il pieno possesso dell'immenso tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno
neanche de' più stimati per questo); finalmente la mancanza delle voci
nuove adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono gli scrittori
d'oggidì a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua loro del tutto
insufficiente ai loro concetti, benchè sempre poverissimi, triti, ordinari,
triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè spesso anzi per lo più
vecchissimi e canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può
derivare dalle nostre stesse fonti) l'arruolare al nostro esercito [783]nuove
truppe, l'accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo
che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità
della lingua, è anzi l'unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa,
di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente
a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi
parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più,
o sono impedite di più camminare nè progredire, nè muoversi
in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella
stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini e le cose
umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in
ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente
novità, non è preservarle, ma tutt'uno col guidarle per mano,
e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie.
(8-14. Marzo 1821.)
[784]Da torvo parola italianissima e di Crusca, il Caro nell'Eneide (l.2. dove
parla del simulacro di Pallade) fece torvamente, parola che non si trova nel
Vocabolario. Ci può esser voce più chiara, più naturale,
e ad un tempo più italiana di questa? Ma perchè non istà
scritta nella Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre
la famosissima Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però
quella voce non si potrà usare? Questo lo dico per un esempio, ?? ??
????. Del resto questo è un derivato senza ardire nessuno, e sebbene
anche di questa specie se ne danno infiniti, e così anche giovano moltissimo
alla lingua, sì per la moltitudine, sì anche individualmente;
nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi nuovi di parole o modi
già correnti, fatti con un certo ardire. Ma ho portato questo esempio
per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre proprie radici,
che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole vecchie e usitate,
sì per la chiarezza che per la naturalezza, per la forma, suono ec. e
quindi sieno tanto italiane quanto la stessa Italia. Del qual genere se ne danno,
come ho detto, infiniti a ogni passo.
(15. Marzo 1821.)
[785]Tutto quello che ho detto della derivazione di nuove parole o modi ec.
dalle proprie radici, o dei nuovi usi delle parole o modi già correnti,
lo voglio estendere anche alle nuove radici, non già straniere, non già
prese dalle lingue madri, ma italiane, e non già d'invenzione dello scrittore,
ma venute in uso nel linguaggio della nazione, o anche nelle scritture anche
più rozze ed impure, purchè quelle tali radici abbiano le condizioni
dette di sopra in ordine ai nuovi derivati ec. E queste nuove radici possono
esser nuove in due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell'uso quotidiano;
o nuove ancora in questo. V. p.800. fine. Qui non voglio entrare nelle antichissime
quistioni, qual popolo d'Italia, qual classe ec. abbia diritto di somministrar
nuovi incrementi alla lingua degli scrittori. Osserverò solamente 1.
quel luogo di Senofonte circa la lingua attica che ho citato p.741. in marg.
notando che la Grecia si trovava appunto nella circostanza dell'Italia per la
varietà dei dialetti, e che quello che prevalse [786]fu quello che tutti
gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè l'attico, come
quello che fra noi si chiama propriamente italiano. Giacchè c'è
gran differenza tra quell'attico usitato da' buoni scrittori greci, divulgato
per tutto, quello di cui parla Senofonte ec. ec. e l'attico proprio. Nello stesso
modo fra il toscano proprio, e il toscano sinonimo d'italiano. V. p.961. capoverso
1. 2. Che senza entrare in discussioni è ben facile il distinguere (almeno
agli uomini giudiziosi, perchè già senza buon giudizio non si
scriverà mai bene per nessun verso) se una parola usitata in questa o
quella parte d'Italia, non però ammessa ancora o nelle scritture o nel
vocabolario, ec. abbia le dette condizioni, cioè sia chiara, facile,
inaffettata, di sapore di suono di forma italiana. (Giacchè di origine
italiana, è sempre ch'ella è usata in Italia da molti, purchè
non sia manifestamente straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite
sono le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra
lingua.) In questo caso qualunque sia la parte d'Italia che la usa, una voce,
una frase qualsivoglia sarà sempre [787]italiana, e salva quanto alla
purità, restando che per usarla nelle scritture si considerino le altre
qualità necessarie oltre la purità ad una voce o frase per essere
ammessa nelle scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o
quella occasione ec. 3. Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè
coll'accogliere, e porre nel loro tesoro le nuove voci create dall'uso della
nazione; e che come quest'uso è sempre fecondo, così le porte
della scrittura e della cittadinanza, sono sempre aperte, per diritto naturale,
a' suoi novelli parti, in tutte le lingue, fuorchè nella nostra, secondo
i pedanti. E questa è una delle massime, e più naturali e legittime
e ragionevoli fonti, della novità, e degl'incrementi necessari della
favella. Perchè cogl'incrementi delle cognizioni, e col successivo variar
degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o estrinseche ec. ec. crescono
le parole e il tesoro della lingua nell'uso quotidiano, e da quest'uso debbono
passare nella scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da contemporanea,
e delle cose del tempo ec. Così cresce ogni momento di parole proprissime
e francesissime [788]la lingua francese, mediante quel fervore e quella continua
vita di società e di conversazione, che non lascia esser cosa bisognosa
di nome, senza nominarla; massime se appartiene all'uso del viver civile, o
alle comuni cognizioni della parte colta della nazione: e per l'altra parte
mediante quella debita e necessaria libertà, che non fa loro riguardare
come illecita una parola in ogni altro riguardo buona, e francese, ed utile,
e necessaria, per questo solo che non è registrata nel vocabolario, o
non anche adoperata sia nelle scritture in genere, sia nelle riputate e classiche.
4. Ripeterò quello che ho detto della necessità di ammettere la
giudiziosa novità a fine appunto di impedire che la lingua non diventi
barbara. Perchè la novità delle cose necessitando la novità
delle parole, quegli che non avrà parole proprie e riconosciute dalla
sua lingua, per esprimerle; forzato dall'imperioso bisogno ricorrerà
alle straniere, e appoco appoco si romperà ogni riguardo, e trascurata
la purità della lingua, si cadrà del tutto nella barbarie. [789]Il
che si può vedere, oltre l'esempio nostro, per quello della lingua latina,
perchè questa parimente, dopo Cicerone, mancata, o per trascuraggine
e ignoranza, come ho detto altrove, e per non trovarsi nè così
perfetti possessori, e assoluti padroni della lingua, nè così
industriosi, oculati, giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di lei
fondo, e negoziatori della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità,
scoraggimento, falsa e dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse
già perfetta, o ch'ella in quanto a se non fosse più da crescere
nè da muovere, nè da toccare; o per superstizione di pedanti che
sbandissero le nuove voci tratte dall'uso, o dalle radici della lingua, come
mancanti di autorità competente di scrittori (il che veramente accadeva,
come si vede in Gellio); o anche per falsa opinione che le radici o l'uso, o
insomma il capitale proprio della lingua non avessero effettivamente più
nulla da dare, che facesse al caso, o convenisse alle scritture ec. ec.: mancata
dico per tutte queste ragioni alla lingua latina la debita libertà, e
la [790]giudiziosa novità, ebbe ricorso, per bisogno, allo straniero,
e degenerò in barbaro grecismo. E come, per fuggir questo male, è
necessario dar giusta e ragionata (non precipitata, e illegittima, e ingiudicata
e anarchica) cittadinanza anche alle parole straniere, se sono necessarie, molto
più bisogna e ricercare con ogni diligenza, e trovate accogliere con
buon viso, e ricevere nel tesoro della buona e scrivibile e legittima favella,
sì i derivati delle buone e già riconosciute radici, sì
le radici che non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per
l'uso della nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le
cerchi, le chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti,
e a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua. 5. In ultimo
osserverò che non si hanno da avere per forestiere quelle voci o frasi,
che benchè tali di origine hanno acquistato già stabile e comune
domicilio nell'uso quotidiano, e molto più se nelle scritture di vaglia.
Queste voci o frasi sono [791]come naturalizzate, e debbono partecipare ai diritti
e alle considerazioni delle sopraddette. Altrimenti siamo da capo, perchè
una grandissima parte delle nuove voci e frasi di cui s'accresce l'uso quotidiano,
vengono dallo straniero. E tutte le lingue ancorchè ottime, ancorchè
conservate nella loro purità, ancorchè ricchissime, si accrescono
col commercio degli stranieri, e per conseguenza con una moderata partecipazione
delle loro lingue. Le cognizioni, le cose di qualunque genere che ci vengono
dall'estero, e accrescono il numero degli oggetti che cadono nel discorso, o
scritto o no, e quindi i bisogni della denominazione e della favella, portano
naturalmente con se, i nomi che hanno presso quella nazione da cui vengono,
e da cui le riceviamo. Come elle son nuove, così nella lingua nostra,
non si trova bene spesso come esprimerle appositamente e adequatamente in nessun
modo. L'inventar di pianta nuove radici nella nostra lingua, è impossibile
all'individuo, e difficilissimamente e rarissimamente accade nella nazione,
come si può facilmente osservare: [792]e questo in tutte le lingue, perchè
ogni nuova parola deve aver qualche immediata e precisa ragione per venire in
uso, e per esser tale e non altra, e per esser subito e generalmente e facilmente
intesa e applicata a quel tale oggetto, e ricevuta in quella tal significazione;
il che non può avvenire mediante il capriccio di un'invenzione arbitraria.
Di più, c'è forse lingua che ne' suoi principii e di mano in mano
non sia stata composta di voci straniere e d'altre lingue? Quante ne ha la lingua
nostra prese dal francese, dallo spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia
riconosciute, e necessariamente, e legittimamente divenute da gran tempo italiane?
Come in fatti si formerebbe una lingua senza ciò? colla sola invenzione
a capriccio, o mediante un trattato, un accordo fatto espressamente, e individuo
per individuo, da tutta la nazione? Perchè dunque quello ch'era lecito
anzi necessario ne' principii e dopo, non sarà lecito ora nel caso della
stessa necessità relativamente a questa o quella parola? Così
fa tuttogiorno la lingua francese, così [793]hanno fatto e fanno necessariamente
e per natura tutte le lingue antiche e moderne. E sebbene la lingua greca fosse
così schiva d'ogni foresteria, anche per carattere nazionale, come si
è veduto dall'aver essa mantenuta la sua purità forse più
lungo tempo di tutte le altre, e anche in mezzo alla corruzione totale della
sua letteratura, ec. e alla schiavitù straniera della nazione, al commercio
ai viaggi antichi e moderni, alla dimora di tanti suoi nazionali in Roma ec.
ec. (come Plutarco) nondimeno la lingua attica, riconosciuta più universalmente
di qualunque altra dagli scrittori per lingua propriamente greca, e fra le greche
elegantissima, bellissima e purissima, attesta Senofonte nel luogo citato da
me p.741. ch'era un misto non solo di ogni sorta di voci greche, ma anche prese
da ogni sorta di barbari, mediante il commercio marittimo degli Ateniesi, e
la cognizione ed uso di oggetti stranieri, che questo commercio proccurava loro,
come dice pure Senofonte. Che se la necessità, naturale come ho [794]detto,
e comune a tutte le lingue, porta a ricevere per buone anche le voci straniere,
entrate recentemente nell'uso quotidiano, o non ancora entratevi nemmeno (purchè
siano intelligibili), tanto più quelle che colla molta dimora fra noi,
si sono familiarizzate e domesticate co' nostri orecchi, ed hanno quasi perduto
l'abito, e il portamento, e la sembianza, e il costume straniero, o certo l'opinione
di straniere. Anzi queste pure vanno cercate sollecitamente, ed accolte, e preferite,
per sostituirle, quanto sia possibile alle intieramente estranee. Giacchè
ripeto che con ogni cura bisogna arricchir la lingua del bisognevole, e farlo
con buon giudizio, ed esplorate le circostanze e la necessità ec. ec.
acciocchè non sia fatto senza giudizio, e senza previo esame, ma alla
ventura e illegittimamente; perocchè quella lingua che non si accresce,
mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade inevitabilmente, e a corto
andare nella barbarie.
Per aver poco bisogno [795]di voci straniere, è necessario che una nazione,
non solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni e nel tempo stesso diligenti,
studiosi e coltivatori della lingua, ed in se stessa una vita piena di varietà,
di azione, di movimento ec. ec. ma ancora ch'ella sia l'inventrice o di tutte
o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti gli oggetti della vita che cadono
nella lingua, e non solo pura inventrice, ma anche perfezionatrice, perchè
dove le discipline, e le cose s'inventano, si formano, si perfezionano, quivi
se ne creano i vocaboli, e questi con quelle discipline e con quegli oggetti,
passano agli stranieri. Così appunto è avvenuto alla Grecia, e
però appunto la sua lingua si fe' così ricca, e potè mantenersi
così pura, a differenza della latina. Perchè la greca abbisognava
di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna disciplina (si può
dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto che la
lingua diveniva tale): la latina viceversa. All'Italia da principio veniva ad
accader quasi lo stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline
che si conobbero in quei tempi, [796]abbondandone nel suo seno i coltivatori,
e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita
e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito,
pure e forse anche più valevole, a fornirla di molti oggetti di lingua.
Ma essendosi fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero,
e tutte portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo
intervenuta per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto
nel perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo
nello stesso tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in
maniera che anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e
ben poco, e pochi) col resto dell'Europa, al progresso ultimo delle cognizioni,
non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non italiano,
ma barbaro, ed avendo adottate di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi
che aveano trovate presso gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili
al loro (se per avventura essi ne fossero stati gl'inventori): è doloroso,
ma necessario il dire, che s'ella d'ora innanzi non vuol esser la sola parte
d'Europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto le nuove universalissime
cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei, e di cose adattate al tempo,
come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna pur fare in ogni modo;
le conviene ricevere [797]nella cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo)
non poche, anzi buona quantità di parole affatto straniere. Si consoli
però che tutte le nazioni, quando più quando meno hanno avuto
il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in un altro; l'ha avuto anche
la sua antica lingua, cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei
principii della nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità
che si prova nei principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara,
se saprà far quello ch'io dico con retto e maturo e accurato e posato
giudizio. Anzi si dia fretta a introdurre e scegliere queste medesime voci straniere
se non vuole che la lingua imbarbarisca del tutto, e senza rimedio. Perchè
l'unica via di arrestare i progressi della corruttela è questa. Proclamare
lo studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà
che ciascun scrittore impadronitosi bene della lingua e conosciutone a fondo
l'indole e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre, e impiegare e spendere
la novità necessaria, anche straniera. Finchè uno scrittore qualunque
(che non sia da bisavoli) [798]sarà privo di questa libertà, sarà
stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità si vedrà
costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e prescrive
come purità di lingua, e tra la facoltà di trattare il suo soggetto
e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o no, ma solamente moderni):
disperando di una purità nella quale sia non solamente difficile, (come
sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile di esprimere i
suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora
la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella
barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere.
Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori
vuotissimi e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun
de' due può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i primi,
senza riunire le due qualità e i due pregi che consistono nelle parole
e nelle cose. Disordini però tutti già tanto inoltrati in Italia,
e bisognosi di sì lunga opera, e di tanto ingegno e [799]giudizio, e
di tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se
ne verrà certo a capo in questa generazione, e chi sa quando. (Giacchè
per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma
rimettere in piedi l'Italia, e gl'italiani, e rifare le teste e gl'ingegni loro,
come lo stesso bisognerebbe per la letteratura, e per tutti gli altri pregi
e parti di una buona e brava e valorosa nazione; che con questi ingegni, con
queste razze di giudizi e di critica, faremo altro che ristaurare la lingua.)
Perchè se si presume di averlo conseguito collo sbandire e interdire
e precludere affatto la novità delle cose e del pensiero, lasciando stare
che in fatti non si è conseguito un fico, perchè eccetto pochissimi
i più puri e vuoti scrivono barbarissimamente, dico, non ostante l'amore
ch'io porto a questa purità, e lo stimarla necessarissima, che il rimedio
è peggio del male. Vero è che da gran tempo gli scrittori italiani
puri ed impuri si sono egualmente dispensati dal pensare, e anche dal [800]dire,
talmente che se alcuno de' nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare
di là da' monti o dal mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente
come, in questo secolo, in una nazione posta nel mezzo d'Europa si possa scrivere
in modo, che l'aver letto, si può dire, qualunque de' libri italiani
che ora vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che
non aver letto nulla. Del resto il punto sta che la novità ch'io dico
(e parlo in particolare della straniera) si sappia convenevolmente introdurre.
Perchè tutte le lingue antiche e moderne sono composte di elementi stranieri,
e pur tutte hanno avuto il tempo della loro purità e naturalezza; e potrà
riaverlo anche l'italiana, non ostante l'aggiunta de' molti nuovi e necessari
elementi stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si
coltivi profondamente, e sempre più il proprio terreno.
(16. Marzo 1820.)
Alla p.785. Oltre di queste due sorte di novità ce ne sono altre simili
delle quali intendo pur di parlare. Cioè una voce italianissima e di
buona lega può esser nuova per questo [801]solo, che non si trova nel
vocabolario trovandosi ne' testi; o non trovarsi nè in questi nè
in quello, ma bensì ne' buoni libri di lingua non citati (che sono infiniti,
massime de' buoni tempi ed hanno in diritto la stessissima autorità che
i citati) o finalmente trovarsi solo nelle scritture mediocri o pessime in lingua,
ma pure aver tutte le condizioni richieste per esser legittima. E di queste
parole o frasi ce ne ha moltissime. Massimamente poi se si trovino nelle scritture
non buone de' buoni tempi, dove a ogni modo la natura e l'indole vera e prima
della lingua italiana la conosceva e la sentiva ciascun italiano molto meglio
che oggidì, e l'Italia aveva la mente e le orecchie molto meno inclinate
e meno avvezze alle parole ai modi al genio straniero delle lingue.
(16. Marzo 1821.)
Alla p.745. Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione una qualunque
letteratura abbia avuto in due diversi tempi (eccetto se il tempo e la nazione
è del tutto rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori
eccellenti e sommi in [802]uno stesso genere. Da che quel genere ne ha avuto
uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere possa
avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non poter
essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la naturale
modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle
imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è
manifesta, sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti
e nei propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni
de' quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo,
spronati dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità,
quasi fosse facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla
sua difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che
era proposto al buon successo. Un'altra ragione, e fortissima è, che
quando il genere ha già avuto uno sommo, il genere non è più
nuovo; non vi si può più essere originale, senza che, è
impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale, v'è
quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada
già fatta, in un modo o in un altro s'imbattono in quella; o confondono
il genere con quella tale strada, quasi fosse l'unica a convenirgli, benchè
mille ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai. La stessa Grecia in
tanta copia di scrittori e poeti d'ogni genere, [803]e di buoni secoli letterati
dopo Omero, e, quel ch'è forse più, in tanta distanza da lui,
non ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio.
E lo stesso Omero (se è vero che l'Odissea è posteriore all'Iliade,
come dice Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando l'Odissea.
Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che l'Iliade e
l'Odissea non sieno di uno stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla
lingua, dal fare, e dall'Argomento di quella, con quel languore, e sovente noia
che ognuno può vedere. La qual congettura io rimetto a quei critici che
sono profondamente versati nelle antichità omeriche, e di quei tempi
antichissimi, e conoscono intimamente i due poemi: purchè oltre a questo,
siano anche persone di buon gusto e giudizio. Taccio de' latini e degl'infelici
loro tentativi di Epopea dopo Virgilio, così prestante ed eminente in
essa fra loro, come Cicerone nell'eloquenza. Sebbene il Tasso non si può
veramente nel [804]suo genere dire perfetto, neppur sommo come Omero (che sommo
fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò l'Italia
dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri
ingegni, tentassero la stessa carriera. Anzi quantunque vi sia tanta differenza
fra il genere del poema dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò
strano ch'egli si accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la
Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla,
di accusare il Tasso di temerità ec. Dopo Molière la Francia non
ha avuto grandi comici, nè l'Italia dopo Goldoni. Tutto questo, sebbene
apparisca forse principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare
a molti altri rami del sapere, o di altri pregi umani. Si possono però
citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche
tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza
e fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante,
sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori.
(17. Marzo 1821.). V. p.810. capoverso 1.
[805]Alla p.762. Per poco che si osservi facilmente si scuopre che tutte le
lingue colte, da principio hanno avuto e adoperato estesamente la facoltà
dei composti, come poi tutte, cred'io, (eccetto la greca che la conservò
fino alla fine) l'hanno quale in maggiore quale in minor parte perduta. Tutte
però hanno conservato o tutti, o maggiore o minor parte dei loro primi
composti, divenuti bene spesso così familiari, che han preso come apparenza
e opinione di radici, e forse così hanno servito di materia essi stessi
a nuove composizioni. La lingua Spagnuola ha composti, e derivati da' composti
(come pure le altre lingue, chè anche questi derivati sono un bellissimo
e fecondissimo genere di parole): ed alcuni bellissimi e utilissimi e felicissimi
altrettanto che arditi, come tamaño, demàs, e da questo ademàs,
demasìa, demasiado, demasiadamente, sinrazon, sinjusticia, sinsabor,
pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità, ec. che sono
di grande uso e servigio. Tutte le lingue colte hanno ancora avuto delle particelle
destinate espressamente alla composizione e che non si trovano fuor de' composti.
Così la greca, così la latina, così la francese, la spagnuola
(des ec. ec.), l'inglese [806](mis ec. ec.) ec. Ed è tanta la necessità
de' composti che senza questi nessuna lingua sarebbe mai pervenuta a quello
che si chiama o ricchezza, o coltura, o anche semplice potenza di discorrere
di molte cose, o di alcune cose particolarmente e specificatamente. Perchè
le radici converrebbe che fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti,
e tutte le piccole gradazioni, e differenze e nuances e accidenti di una cosa,
per ciascuna delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice,
altrimenti il discorso non sarà mai nè espressivo nè proprio,
e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco, improprio, dubbio, oscuro,
generico, indeterminato. Così appunto avviene alla lingua ebraica (la
quale non par che si possa mettere fra le colte) perchè con bastanti
radici e derivati, è priva di composti: o quasi priva: non avendo che
fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come casi o inflessioni
o accidenti o affezioni (????) de' nomi e de' verbi, o segnacasi ec. e non variando
punto il significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso
noi batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec. che non si chiamano, nè
sono composti nel nostro senso. Dal che segue ch'ella ed è soggetta alle
dette difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale
ci parrebbe eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri,
oltre la Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de' composti.
Ci vorrebbero, ho detto, infinite radici. Ora [807]una più che tanta
moltitudine di radici, è difficilissima per natura, giacchè un
composto, subito s'intende, ma perchè una radice, sia subito e comunissimamente
intesa (com'è necessario), e passi nell'uso universale, ci vuol ben altro.
Perciò la invenzione delle radici in qualunque società d'uomini
parlanti, o primitiva o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella
lingua che non può esprimersi senza radici, perch'ella non si esprimerà
mai se non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell'Ebraico) avrà
una quantità di significati. V. se vuoi, Soave, append. al Capo 1. Lib.3.
del Compendio di Locke, Venezia 37a ediz. 1794. t.2. p.12. fine-13. e Scelta
di opusc. interess. Milano 1775. volume 4. p.54. e questi pensieri p.1070. capoverso
ult. E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua appena è
cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere molte cose,
e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e le loro differenze
ec. perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i composti, osservate.
Che sarebbe l'aritmetica se ogni numero si dovesse significare con cifra diversa,
e non colla diversa composizione di pochi elementi? Che sarebbe la scrittura
se ogni parola dovesse esprimersi colla sua cifra o figura particolare, come
dicono della scrittura Cinese? La stessa [808]facilità e semplicità
di metodo, e nel tempo stesso fecondità anzi infinità di risultati
e combinazioni, che deriva dall'uso degli elementi nella scrittura e nell'aritmetica,
anzi in tutte le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè,
secondo i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono
di un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo
così composti e fatti anche nell'ordine morale come ho dimostrato in
molti pensieri sulla semplicità del sistema dell'uomo); deriva anche
dall'uso degli elementi nella lingua. Al che si ponga mente per giudicarne quanto
sia necessario anche oggidì ritenere più che si possa, e nella
nostra e in qualunque lingua, la facoltà de' nuovi composti, atteso l'immenso
numero delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella lingua nostra);
numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente si accresce: e d'altra
parte l'impossibilità della troppa moltiplicità delle radici,
sì al fatto, o all'invenzione, sì all'uso, intelligenza, e diffusione,
sì anche alle facoltà della memoria e dell'intelletto umano, ed
alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola, chiarezza quasi
incompatibile colle nuove radici (v. p.951.), e compatibilissima coi nuovi composti;
oltre alla mancanza di gusto che deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre
termini, come ho spiegato altrove: non così i composti derivati dalla
propria lingua. Lo dico senza dubitare. La lingua più ricca sarà
sempre quella che avrà conservata [809]più lungamente, e più
largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella
che la conserverà maggiore, e maggiormente l'adoprerà. L'esempio
della lingua greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre
e anche oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia sentenza,
già sì evidente in ragione. E d'altra parte la mia teoria serve
a spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla copia
qualunque delle cose. Se dunque vogliamo che una lingua sia veramente onnipotente
quanto alle parole, conserviamole o rendiamole, e se è possibile, accresciamole
la facoltà de' nuovi composti e derivati, cioè l'uso degli elementi
ch'essa ha, e il modo, la facoltà di combinarli quanto più diversamente,
e moltiplicemente si possa. Questo, e non la moltiplicità degli elementi
forma la vera e sostanziale ricchezza copia e onnipotenza delle lingue (quanto
alle parole) come la forma di tutte le altre cose umane e naturali. Generalizziamo
un [810]poco le nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch'io dico,
e come, per natura universale delle cose umane, la detta facoltà sia
non solo la principale e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente
della ricchezza copia e potenza di qualunque lingua, e della proprietà,
definitezza, e chiarezza dell'espressione: dico quanto alle parole.
(18. Marzo 1821.)
Alla p.804. Bisogna osservare che quanto agli autori drammatici la cosa va diversamente,
sì perchè infinite e diversissime sono le circostanze che decidono
de' successi del teatro, massime in certe nazioni, e secondo la differenza di
queste; sì massimamente perchè il teatro di qualunque nazione
benchè abbia già il suo sommo drammatico, vuol sempre novità,
anzi non domanda tanto la perfezione quanto la novità degli scritti;
questa richiede sopra ogni altra cosa, a questa fa bene spesso più plauso
che ai capi d'opera dei sommi autori già conosciuti. Così che
ad un drammatico resta sempre [811]il suo posto da guadagnarsi, la sua parte
di lode da proccurarsi, il suo eccitamento all'impresa, e il suo premio proposto
al buon successo, e tutte queste cose son tali, che anche un autore di grande
ingegno ne può essere soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli incidenti
di società che eccitano a composizioni teatrali, oltre coloro che per
mestiere ed interesse ricercano e stimolano scrittori di tal genere, oltre gl'interessi
o i bisogni degli autori, gl'impegni, il desiderio di certe lodi di certi successi
diremo così cittadineschi, o di partito, o di conversazione, e di amici
ec. oltre massimamente la varietà successiva de' costumi e delle usanze
non meno teatrali e appartenenti alle rappresentazione quanto di quelle che
occorrono nella vita e nelle cose da rappresentarsi. Così che allo scrittore
drammatico, resta sempre un campo sufficiente. E la gran fama di Sofocle non
impedì che gli succedesse un Euripide. La differenza tra questo e gli
altri generi di componimento, consiste che gli effetti, l'uso, la destinazione
di questo è come viva, [812]e sempre viva, e cammina, laddove degli altri
è come morta ed immobile. Non sarebbe così se esistessero come
anticamente quelle radunanze del popolo, dove Erodoto leggeva la sua storia,
e se le poesie fossero scritte come i poemi d'Omero per esser cantati alla nazione,
e se i tempi de' Tirtei e de' Bardi non fossero svaniti. Perchè tali
componimenti non essendo più di uso, ci contentiamo di quello che in
quel tal genere è già perfetto, e appena desideriamo altro nuovo
modello di perfezione. Altrimenti accade di quello che è sempre di uso
vivo, e se tale avesse continuato ad essere l'eloquenza latina dopo Cicerone
ella avrebbe forse avuto nuovi sommi oratori.
(18. Marzo 1821)
In quelle parole che incominciano per s impura, la lingua par che abbia bisogno
di un appoggio avanti la s, ossia avanti la parola. La lingua francese e la
spagnuola amano questo appoggio nelle così fatte parole che hanno ricevute
da' latini o da chicchessia, ovvero formate da loro. E la spagnuola principalmente
che non ha se non pochissime parole cominciate da s impura. [813](Il Franciosini
ne riporta solo 16, e tutte cominciate da sc con dietro varie vocali). Ora dovendo
dare alla lingua questo appoggio di una vocale non si è scelta altra
che la e. Così da sperare gli spagnuoli hanno fatto esperar, i francesi
espérer, da species gli spagnuoli especie, i francesi espèce,
da spiritus gli spagnuoli espiritu i francesi esprit, da studium gli spagnuoli
estudio i francesi estude che poi tolta via la s hanno fatto étude, da
scribere gli spagnuoli escrivir, gli antichi francesi escrire, da stomachus
estomago estomac ec. ec. Tanto è vero che dove la lingua ha bisogno di
un appoggio o gradisce un appoggio per pronunziare una consonante, e riposarla
nella vocale, senza che questa sia determinata, la lingua sceglie naturalmente
e cade e si riposa nella e. E così anche, come si vede per la detta osservazione,
quando questa vocale le ha da servire come di gradino alla pronunzia di consonanti.
L'Italia quanto alla s impura non è stata più delicata dei latini
e de' latini. [814]Vero è però che quando la s impura, sarebbe
preceduta da consonante, l'Italia per usanza non naturale, ma gramaticale, artifiziale,
acquisita, e particolare sua, v'interpone la i non la e (in ispirito ec.). Credo
però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani. Del resto
riferite alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec. e non if il.
(18. Marzo 1821.)
La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de' bruti anche
per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno
per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla
morte, o avrebbe il coraggio di proccurarsela. La natura che in loro conserva
tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se
qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl'impedirebbe
questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi.
Noi desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente
e calcolato rimedio delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo
spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla [815]e considerarla
come il sommo nostro bene. Ora stando così la cosa ed essendo noi ridotti
a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior
miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che siccome
è sommo, così d'altra parte sarebbe intieramente in nostra mano;
impediti, dico, o dalla Religione, o dall'inespugnabile, invincibile, inesorabile,
inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello
che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte
le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più
gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del
tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la
felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre,
e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte,
che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura,
e per forza di ragione, s'è anzi impossessato di noi; [816]perchè
questa stessa ragione c'impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell'unico modo
possibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è
cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di
noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov'elle ci avrebbero
giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci nocciono,
e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la
natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all'infelicità
nostra, coll'impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè
la ragione va d'accordo colla natura in questo solo, che forma l'estremo delle
nostre disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli
estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè dunque debbono astenersi
dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo. Se la Religione
non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla [817]nostra
misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser
nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso della ragione il più
spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico
la ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall'immaginativa e dal
cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati; questa
sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un
intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta
la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la
certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell'infelice.
La nostra sventura il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia
nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia. L'idea della religione
ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e irrimediabilmente, perchè
nata una volta quest'idea nella mente nostra, come [818]accertarsi che sia falsa?
e anche nel menomo dubbio come arrischiare l'infinito contro il finito? Non
è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo
con quella che è tra l'infinito e il finito, ancorchè questo certo,
e quello quanto si voglia dubbio. Così che siccome l'infelicità
per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo
sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo,
e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper
di certo ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia;
così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità
dell'uomo misero, ma non istupido nè codardo, è l'idea della Religione,
e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male
dell'uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche
e ragionamenti e meditazione; o i suoi pregiudizi.
(19. Marzo 1821.)
[819]Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che si oppone all'uso
corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai, perchè ogni
volta ch'ella imbarbarisse, quella barbarie non potendo essere in altro che
nell'uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di questo o di quello,
e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo conforme all'uso. Barbaro
nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all'indole
sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in questo: giacchè
in fatti una parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi
all'uso di quel tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade oggidì
nella lingua italiana. Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe [820]mai
stato barbaro per nessuna lingua. Al più si potrebbe dire se quella lingua
di quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec. confrontando
fra loro i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue
fra loro, delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò
si giudica barbara. Anzi si chiamerebbe barbara se contro l'indole sua, volesse
adottare e accomodarsi all'andamento di una lingua migliore più bella
ec. come se la lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec. Insomma
barbarie in qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia
pregio, nè quello che contraddice all'uso corrente, ma quello solo che
contraddice all'indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi
anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perchè i pregi
essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch'è virtù
e bellezza in un'altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion
vera [821](benchè relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa
che sia.
Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono,
salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti,
e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono. Che cosa
è barbarie nell'uomo? Quello che si oppone all'uso corrente? Dunque nessun
popolo, nessun secolo barbaro. Barbarie è quel solo che si oppone alla
natura primitiva dell'uomo. Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni
ec. presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura. Come potevano
esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli?
Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è così
manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì
de' fanciulli, selvaggi, ignoranti ec. ec. che non ha bisogno di dimostrazione.
Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano.
Dunque? dunque son barbari. [822]Che sieno conformi all'uso e all'abitudine,
non val più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo
depravato nella lingua. Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni
de' naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia
nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è
erronea, e deriva dall'inganno parte dell'abitudine, parte della immaginaria
perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e
vizio tutto ciò che si oppone all'indole e natura particolare e primitiva
di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in
altra specie.
(20. Marzo 1821.)
Non solamente ciascuna specie di bruti stima o esplicitamente e distintamente,
o certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e più perfetta
nella natura, e nell'ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche
nello stesso modo ciascun individuo. E così accade tra gli uomini, che
implicitamente [823]e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v'è popolo sì barbaro che non si creda implicitamente
migliore, più perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il
modello delle nazioni.
Parimente non v'è stato secolo sì guasto e depravato, che non
si sia creduto nel colmo della civiltà, della perfezione sociale, l'esemplare
degli altri secoli, e massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli
passati, e nell'ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito
umano.
Con questa differenza però, che sebbene tutto è relativo in natura,
è relativo peraltro alle specie, così che le idee che una specie
ha della perfezione ec. appresso a poco sono comuni agl'individui tutti di essa
(massime se sono le idee naturali alla specie). Quindi è naturale e conseguente
che un individuo, sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto
della sua specie, e tutto il mondo destinato all'uso [824]e vantaggio suo, contuttociò
con poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di
altri individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua
specie intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti,
e l'apice della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e
parlo degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri
viventi) o qualche individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità
di altri popoli e secoli, perchè le idee relative del bello e del buono
sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando
non derivino da pregiudizi, da circostanze particolari, o da alterazione qualunque
di questa o di quella parte della specie, com'è avvenuto fra gli uomini,
essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate
le idee naturali, e diversificate le opinioni ec.
Questo, dico, accade facilmente all'individuo umano, rispettivamente alla sua
propria specie. Ma rispetto ad un'altra specie non [825]così. 1. Perchè
le idee che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna
specie di viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente:
quello ch'è buono e perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente;
e quindi misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori
d'assai; nè possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra
ci sia tanta bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè
la perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma
universale. 2. Perchè non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente
di un'altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch'essa ha del
buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee,
le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacità
della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà nè intellettiva,
nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva [826]ec.
ec.
(20. Marzo 1821.)
An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos
nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam
meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam
aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? SED, NESCIO
QUOMODO, ANIMUS ERIGENS SE, POSTERITATEM SEMPER ITA PROSPICIEBAT, QUASI, CUM
EXCESSISSET E VITA, TUM DENIQUE VICTURUS ESSET; quod quidem ni ita se haberet,
ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem
gloriae niteretar. Catone maggiore appresso Cic. Cato maior seu de Senect. c.
ult. 23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai
presente, come ho detto in altri pensieri. Con la quale osservazione io spiego
questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa
ambizione; dico quella speranza riposta [827]nella posterità, quel riguardare,
quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode
ec. di coloro che verranno dopo di noi. L'uomo da principio desidera il piacer
della gloria nella sua vita, cioè presso a' contemporanei. Ottenutala,
anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non
solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse
stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto,
ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da
conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non
è mai se non futuro, non mai presente); allora l'animo suo erigens se
quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique
victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale
della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito
ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa
vita; allora la speranza del piacere, non avendo [828]più luogo dove
posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a' confini di questa
vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne' posteri, sperando l'uomo
da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi,
sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E
si riduce l'uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è
la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d'altra parte
una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe
se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più
dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei,
colla illusione della posterità. Illusione appunto più comune
negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose,
o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni
e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi
al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati
dell'attuale e vero piacere in questa vita, e d'altronde [829]bisognosi di scopo,
e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo alle grandi
azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell'esistenza,
e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte
o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra da quella che
possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere
della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i contemporanei,
quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo nostro e del piacere) ci
riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e vuota, e incapace
di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico un piacere attuale
e presente. (20. Marzo 1821.). Applicate questi pensieri alla speranza di felicità
futura in un altro mondo.
La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, ma negli
alti il desiderio di punirla.
(20. Marzo 1821.)
Desiderar la vita, in qualunque caso, e in tutta l'estensione di questo desiderio,
[830]non è insomma altro che desiderare l'infelicità; desiderar
di vivere è quanto desiderare di essere infelice.
(20. Marzo 1821.)
Non solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilità dell'uomo,
in quanto alla mente, o a quello che vi ha riguardo, come ho detto in altro
pensiero, ma anche in quanto ai comodi corporali6. Paiono oggi così necessari
quelli che sono in uso, che si crede quasi impossibile la vita umana, senza
di questi, o certo molto più misera, e si stimano i ritrovamenti di tali
comodità, tanti passi verso la perfezione e la felicità della
nostra specie, massime di certe comodità che sebbene lontanissime dalla
natura, contuttociò si stimano essenziali e indispensabili all'uomo.
Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver tanto
tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di selvaggi;
parecchi ancora de' nostrali e sotto a' nostri occhi, tuttogiorno. (anzi ancora
quegli stessi più che mai assuefatti a tali cose pretese indispensabili,
quando per mille diversità di accidenti, si trovano in circostanza di
mancarne, alle volte anche volontariamente.) I quali tutti, in luogo di accorgersi
della loro infelicità, hanno anzi creduto [831]e credono e si accorgono
molto meno di essere infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro:
e molto meno lo erano e lo sono, sì per questa credenza, come anche indipendentemente.
Non chiamerò in mio favore la setta cinica, e l'esempio e l'istituto
loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni
e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell'uomo. Non ripeterò che,
siccome l'abitudine è una seconda natura, così noi crediamo primitivo
quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione. E che molti anzi infiniti bisogni
nostri sono oggi reali, non solamente per l'assuefazione, la quale, com'è
noto, dà o toglie la capacità di questo o di quello, e di astenersi
da questo o da quello; ma anche senza essa per lo indebolimento ed alterazione
formale delle generazioni umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti,
soggette a certi inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi, che non
avevano alcun luogo nella umanità primitiva. Così la medicina,
così l'uso di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni,
di [832]preservativi contra il caldo, il freddo ec. di chirurgia ec. ec. Lascerò
tutte queste cose e perchè sono state dette da altri, e perchè
potrebbero deridermi come partigiano dell'uomo a quattro gambe. Solamente ripeterò
quel ragionamento che ho usato nella materia della perfettibilità mentale.
Dunque se tutto questo era necessario o conveniente alla perfezione e felicità
dell'uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo
ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la
natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a
lui che con queste facoltà ritrovasse e si procacciasse il bisognevole,
e che all'uomo ha lasciato più che al bruto, perchè a lui diede
maggiori facoltà, e così proporzionatamente ha fatto secondo le
maggiori o minori facoltà negli altri bruti. Altro è questo, altro
è mettere una specie di viventi in una infinita distanza da quello che
si suppone necessario al suo ben essere, e alla perfezione della sua esistenza.
Altro è permettere anzi volere e disporre che infinito [833]numero, che
moltissime generazioni di questi viventi restassero prive o affatto o in massima
parte di cose necessarie alla loro perfezione. Altro è mettere nel mondo
il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero, col solo
compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran numero
di secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a minorare
l'infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente altro
che la felicità. Altro è ordinare le cose in modo che gran parte
di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi) dovesse
restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco nella
stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può applicare
anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie facoltà
dell'uomo). E tutto ciò in una specie privilegiata, e che si suppone
la prima nell'ordine di tutti gli esseri. Bel privilegio davvero, ch'è
quello di veder tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa
perfezione [834]e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed essa intanto
per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade, sbagliare mille volte,
e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare lunghissimo ordine di secoli,
per conseguire in parte il detto fine. Osserviamo quanti studi, quante invenzioni,
quante ricerche, quanti viaggi per terra e per mare a remotissime parti, e combattendo
infiniti ostacoli, sì della fortuna, sì (ch'è più
notabile) e massimamente della natura, per ridurci, quanto al corpo, nello stato
presente, e proccurarci di quelle stesse cose che ora si stimano essenziali
alla nostra vita. Osserviamo quante di queste, ancorchè già ritrovate,
abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli infiniti per esserci procacciate.
Osserviamo quanto ancora ci manchi, quanto sia di scoperta recentissima o assolutamente
o in comparazione dell'antichità della specie umana; quanto ogni giorno
si ritrovi, e quanto si accrescano le cognizioni pretese utili alla vita, anche
delle più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.); quante cose si
ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e che i nostri
[835]posteri giudicheranno tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle
che abbiamo. Domando se tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti
al fine primario della natura ch'è la felicità e perfezione delle
cose esistenti e il loro ben essere, e massime de' viventi, e de' primi tra'
viventi, entravano nel sistema, nel disegno, nel piano della natura, nell'ordine
delle cose, nella primordiale disposizione e calcolo relativamente alla specie
umana. Domando se nel piano nell'ordine nel calcolo de' mezzi conducenti al
fine essenziale e primario, ch'è la felicità e perfezione, mezzi
per conseguenza necessari ancor essi, v'entrava anche il caso. Ora è
noto quante scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell'uso
il più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le
debba l'uomo se non al puro e semplice caso. Dunque il puro e semplice caso
entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come
mezzo necessario; dunque [836]ella ne ha fatto dipendere il fine essenziale
e primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e tale altro
caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o accadendo bensì quello
ma non questo ec. la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse imperfetta
e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte quelle
parti dell'ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione colla
specie umana.
Bisogna osservare che la sfera del caso si stende molto più che non si
crede. Un'invenzione venuta dall'ingegno e meditazione di un uomo profondo,
non si considera come accidentale. Ma quante circostanze accidentalissime sono
bisognate perchè quell'uomo arrivasse a quella capacità. Circostanze
relative alla coltura dell'ingegno suo; relative alla nascita, agli studi, ai
mezzi estrinseci d'infiniti generi, che colla loro combinazione l'han fatto
tale, e mancando lo avrebbero reso diversissimo (onde è stato detto che
l'uomo è opera del caso); relative alle scoperte e cognizioni acquistate
da altri prima [837]di lui, acquistate colle medesime accidentalità,
ma senza le quali egli non sarebbe giunto a quel fine; relative all'applicazione
determinata della sua mente a quel tale individuato oggetto ec. ec. ec. Nello
stessissimo modo discorrete di una scoperta fatta p.e. mediante un viaggio,
mediante un'Accademia, una intrapresa pubblica, o regia ec. la quale scoperta
si suol mettere del tutto fuori della sfera degli accidenti. E vedrete che siccome
da una parte la sfera del caso, in tutte le cose, massime umane, si stende assai
più che non si crede, così d'altra parte, o tutte o il più
di quelle invenzioni ec. che ora sono d'uso creduto di prima necessità,
ed essenziale alla vita umana, sono effettivamente dovute al caso. Paragonate
ora questa incredibile negligenza della natura, nell'abbandonare a un mezzo
sì incerto lo scopo primario della primaria specie di viventi, cioè
la felicità dell'uomo; con quella certezza e immancabilità di
mezzi che la natura ha adoperata per tutti gli altri suoi fini, ancorchè
di minore importanza: e giudicate se si possa mai supporre [838]per vera.
(21. Marzo 1821.). V. p.870. fine.
Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una lingua, è
conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella
lingua è adattata alla universalità. E per lo contrario tanto
meno, quanto più ella è figurata, composta, contorta, quanto più
v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi
scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le prime qualità spettano
per eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda
molto più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente)
cede alla francese, come tutte le lingue moderne Europee, quantunque nessuna
di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di gran lunga,
e neppure alla greca.
Come queste qualità giovino alla universalità di una lingua, è
manifesto già per se stesso, ma lo sarà anche più per le
segg. considerazioni. Un effetto naturale di dette qualità, è
che il linguaggio degli scrittori, o nulla [839][o] poco differisca dal familiare,
e comune alla nazione. Così accade alla Francia, il contrario in Italia,
il contrarissimo nel latino. Questo effetto cagiona che, quella stessa lingua
che si parla trovandosi scritta, 1. se ne dimezzi per così dire la difficoltà:
2. le persone volgari, o la conversazione qualunque alta o bassa dei parlatori
di quella lingua, sia tanto buona maestra e propagatrice di essa presso gli
stranieri, fuori o dentro il paese, come lo possano essere gli scrittori: 3.
e per lo contrario gli scrittori lo siano tanto, quanto i negozianti, i viaggiatori,
e chiunque parla quella lingua cogli stranieri, sì nel suo proprio paese
come fuori: 4. quindi e i parlatori e gli scrittori propaghino tutti unitamente
una sola e stessa lingua ovvero linguaggio; o vogliamo dire due linguaggi così
poco differenti, che inteso qualsivoglia de' due, senza nessuna fatica s'intenda
e si parli anche l'altro. Effetto notabilissimo: perchè l'influenza degli
scrittori è somma nel propagare una lingua; ma d'altra parte per mezzo
degli scrittori, non può mai divenire [840]universale, se da essi non
s'impara a parlarla cioè usarla; ed allora potrà esser divulgata
per solo studio e ornamento, com'era una volta l'italiana: l'influenza de' parlatori
è somma, ma minore assai, se non cospira con quella degli scrittori,
se per mezzo di essa non si viene a capo di mettersi in relazione col resto
della nazione, colla totalità per così dire di essa, il che non
si può fare se non per mezzo degli scrittori, e tanto più, quanto
più questi sono divulgati intesi e letti dalla totalità della
nazione, e non dalla sola classe letterata. La unione di queste due influenze,
partorisce dunque un effetto massimo. Lo straniero di qualunque condizione,
per qualunque circostanza, per qualunque inclinazione, per qualunque professione,
per qualunque mezzo, per qualunque fine, abbia dovuto, abbia voluto, si sia
abbattuto ad apprendere quella lingua, è padrone di tutta quanta ella
è, di parlarla e intender chi la parla, di leggerla, di scriverla, di
usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel commercio, e al tavolino;
di mettersi in communicazione con tutta [841]quella nazione che la parla o scrive,
e con tutti quegli stranieri che l'adoprano in qualunque modo e per qualunque
motivo. Il letterato che l'ha appresa per istruirsi, e per conoscere quella
letteratura; il negoziante che l'ha appresa per usi di mercatura; quegli che
l'ha appresa senza studio, e per sola pratica o de' nazionali, o de' forestieri
ec. ec. tutti sono appresso a poco nello stesso grado, ed hanno gli stessi vantaggi.
Questi effetti risultano dalla parità di linguaggio fra gli scrittori
e la nazione, e risultano in maggiore o minor grado, in proporzione che la causa
è maggiore o minore. In Francia è grandissima, e non solo la detta
parità di linguaggio, ma anche la effettiva popolarità e nazionalità
degli scrittori e della letteratura. In Italia oggidì (che nel trecento
era tutto l'opposto) la lingua scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla
parlata molto meno che fra' latini, tuttavia differisce, credo, più che
in qualunque altro paese culto, certamente Europeo. [842]E questo forse in parte
cagiona la nessuna popolarità della nostra letteratura, e l'essere gli
ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorchè
pel soggetto non abbiano a far niente con lei. Il che però deriva ancora
dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi
anche piacevoli, che regna nelle altre classi d'Italia; noncuranza che deriva
finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni attività,
ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli
scrittori ec. Queste cagioni influiscono parimente l'una sull'altra, e nominatamente
sulla disparità della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli
effetti contribuiscono sì a tener lontano dall'Italia ogni spirito di
patria, ogni vita, ogni azione; sì ad impedire ogni originalità
degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione che sussiste
fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana.
Nel cinquecento, e anche durante il seicento, sebbene la lingua scritta italiana,
si [843]fosse allontanata dalla parlata, molto più che nel trecento (non
però quanto oggidì), tuttavia la letteratura continuava ancora
in grandissima relazione colle classi, se non volgari, certo non di professione
letterata, e quindi anche passava agli stranieri. E ciò, parte perchè
la nazione conservava ancora un sentimento, uno spirito patrio, un'azione, una
vita, e gli scrittori bastante libertà ed originalità; parte perchè
l'italiano che si parlava, era italiano ancora, più o meno, e non barbaro,
come oggidì, che volendo scrivere come si parla, non si scriverebbe italiano,
anzi appena si riuscirebbe a farsi intendere alla stessa nazione. Ed allora
lo studio della lingua era più diffuso, e la letteratura parimente, e
più viva e in movimento, e maggiore il numero dei letterati di professione,
e degli scrittori buoni, e di quelli che senza esser letterati, aveano tanta
letteratura quanto basta per essere buon lettore, e per curarsi di leggere.
E gli argomenti che si trattavano erano più nazionali, più importanti,
più nuovi, [844]più propri dello scrittore ec. brevemente c'era
un altro spirito letterario e negli scrittori e nella nazione.
Dall'applicazione di questi principii alle lingue moderne, passiamo alle lingue
antiche. Che la forma e struttura di una lingua fosse così ragionevole,
così conforme alla stretta verità ed ordine delle cose, come lo
può essere in qualche lingua moderna, non era possibile fra gli antichi,
dove regnava molto più l'immaginazione, che la secca e infelice ragione.
Non bisogna dunque nelle ragioni della universalità di una lingua antica,
ricercar troppa conformità, con quelle che richiedonsi allo stesso effetto
in una lingua moderna. Una lingua antica poteva essere adattata alla universalità
fino a un certo segno, e conseguirla, ma non mai quanto una moderna. La lingua
greca sebbene più figurata non solo della francese, ma della italiana
(dico della italiana che non pecchi di troppa, e a lei non naturale conformità
col latino andamento, come peccò alle volte nel 500. al contrario [845]del
300, e della sua vera indole) contuttociò era nella sua primitiva qualità,
di una forma, se non ragionevole, naturalissima però, e semplicissima,
e facilissima. Sino a tanto ch'ella mantenne il suo vero genio, mantenne anche
queste proprietà. Le mantenne in Erodoto, in Senofonte, negli Oratori
Attici, e generalmente più o meno in tutti gli scrittori degli ottimi
suoi secoli sempre appresso a poco, in proporzione dell'antichità rispettiva.
Gli scrittori che successero a questi, benchè buoni ancor essi, benchè
lontani dalla turgidezza, dall'arguzia, dalla decisa oscurità, dalla
soverchia intralciatura, dalla immodestia dello stile e della lingua, allontanarono
però moltissimo la lingua greca, da quella nativa, nuda, schietta, spontanea,
facile bellezza e grazia de' suoi ottimi e primi scrittori, e sforzarono la
sua primitiva natura ed indole, accostandola piuttosto alla struttura latina,
che alla propria sua. Questo si nota in Polibio, in Dionigi d'Alicarnasso, ma
molto più ne' susseguenti, come in Luciano, molto più e soprattutto
in Longino. Scrittori elegantissimi, [846]di eleganza non affettata, non impura,
non corrotta, non malsana, ma diversa da quella semplicissima eleganza dell'antica
lingua greca, e se non contraria e ripugnante, certo rimota dall'indole e dal
costume suo primitivo: nello stesso modo che si può dire di alcuni cinquecentisti
modellatisi forse troppo sui latini, e non perciò corrotti, nè
affettati, nè ripugnanti all'indole della lingua italiana, ma diversi
dal di lei primitivo costume manifestato nei trecentisti; appresso i quali la
lingua italiana, come somiglia moltissimo nell'andamento alla greca, così
ebbe poi a patire quella stessa, benchè per se medesima non cattiva,
diversificazione che patì, come ho detto, la lingua greca; e come questa,
cessare appoco appoco da quella parità di linguaggio ch'era tra gli scrittori
e la nazione, nell'una e nell'altra lingua, come della greca lo dirò
poi. Di facilissima ch'era l'antica scrittura greca, divenne appoco a poco,
se non oscura, certo difficile, essendo declinata in quell'idioma lavorato ed
ornato, che o nello stesso [847]tempo, o poco prima o dopo, divenne proprio
de' latini, da' quali io non discrederei che fosse passato quel costume e quel
gusto ai greci (ma bisognerebbe esaminare gli scrittori greci intermedii fra
Demostene, e quelli che furono ai tempi Romani); sebben potesse molto naturalmente
nascere dallo studio, dagli Atticisti che uscivan fuori, dal ridursi la cosa
a regola, e la eleganza a misura e meditazione, e ricerca ec. Longino, sebbene
fioritissimo delle possibili eleganze e gentilezze della lingua greca, le ricerca
tanto, e le accumola (senza però affettazione), che si trovano più
frasi e modi figurati in lui che in dieci antichi greci tutti insieme; e sì
per questo sì per la struttura intrecciata, composta, manipolata dell'orazione;
la lunghezza, e strettissima e fortissima legatura de' periodi, le ambagi ec.
riesce tanto difficile quanto i più difficili e lavorati scrittori latini.
Ai quali egli somiglia tanto, che, massime vedendolo studioso di Cicerone, non
dubito, quanto a lui, che quello scrivere non gli sia derivato dai latini, e
ch'egli non abbia o voluto trasportare, [848]o (come si fosse) trasportato l'indole
e gli spiriti latini nella lingua greca, quanto però questa lo comportava;
perchè a ogni modo, come faranno sempre tutte le lingue, ella conserva
anche presso lui, il suo sembiante diverso dall'altrui. Non dirò niente
de' Sofisti, e degli altri scrittori dell'infima letteratura greca, anche di
quella letteratura già moriente e disperata (come ai tempi di Teofilatto
Arcivescovo di Bulgaria). I quali quando volevano stare davvero sull'attillato,
scrivevano in modo che unita alla viziosa e corrotta ricercatezza, arguzia,
e oscurità dello stile, la ricercatezza, e attortigliamento, e tortuosità
della lingua, sono di tanta difficoltà ad intenderli, di quanto poco
uso ad averli intesi.
Questa declinazione della lingua greca dal suo primo sentiero, e costume ed
indole, si può far manifesto ancora considerando la lingua d'Isocrate.
Il quale è tanto famoso per la delicatissima cura che poneva nella scelta
e collocazione delle parole, nella struttura ed armonia de' periodi, che si
potrebbe credere ch'egli, quantunque pel tempo appartenga a quegli [849]antichi
scrittori ch'io ho distinto da' più moderni, pel carattere però
della sua lingua appartenesse piuttosto a quegli ultimi. E pure la sua cura,
qualunque fosse, è così nascosta, la sua lingua, la collocazione
e l'ordine delle sue parole, la struttura de' periodi, e dell'orazione, così
facile, piana, semplice, naturale, spontanea, che non solo non si allontana
dalla primitiva indole della sua lingua, ma riesce anche più chiaro e
facile e stralciato di parecchi altri degli ottimi; e certo non meno di veruno
di essi. Tanto che a paragonare Isocrate stimato l'elegantissimo e l'accuratissimo
degli ottimi scrittori greci, col meno elegante e lavorato de' buoni, si troverà
questo, molto più difficile, e men piano e svolto di lui. Sicchè,
come da Senofonte ed Erodoto conosciamo qual fosse la semplicità e la
soavità, da Tucidide e Demostene la forza e il nervo di quella antica
lingua greca, così da Isocrate conosciamo qual ne fosse la eleganza,
e la galanteria; e quanto diversa da quella che sotto questo nome fu introdotta
[850]ne' secoli e dagli scrittori ancor buoni e notabilissimi, ma non ottimi,
della greca letteratura.
Finchè questa dunque durò nel suo primo ed ottimo stato, la diversità
fra la lingua parlata e scritta, fu piccola, e, credo io, non molto maggiore
di quella che ora sia in Francia. Prova ne può essere fra le altre molte
l'aver letto Erodoto la sua storia al popolo, e averne riscosso quegli applausi
nazionali che tutti sanno. Cosa che non sarebbe avvenuta, se (posta nel rimanente
la parità delle circostanze) il Guicciardini avesse letta la sua storia
alla moltitudine. E se T. Livio o Tacito avessero fatto lo stesso, non al cospetto
di giudici scelti e intelligenti, ma avendo per giudice, o anche avendo ad esser
giudicati da alcuni pochi, ma applauditi però con entusiasmo dalla moltitudine,
crediamo noi che vi sarebbero riusciti? Quanto alle Orazioni de' famosi oratori
latini, dette nella concione, ognuno sa, che le scritte erano diverse dalle
recitate, e però da quelle che abbiamo di Cicerone non possiamo argomentare
che [851]quello stesso linguaggio egli usasse col popolo.
Sì dunque la naturalezza, semplicità e facilità di forma
della lingua greca, tanto negli antichi scrittori, quanto nella nazione; sì
la quasi uniformità di linguaggio che ne seguiva fra i detti scrittori,
e il popolo, come questa era effetto di quella, così ambedue unitamente
contribuivano a rendere la lingua greca adattata alla universalità; adattata
dico in proporzione dei tempi, non quanto bisognerebbe esserlo oggidì,
nè quanto lo è la francese, chè oggidì una lingua
per essere universale, ha bisogno di essere arida e geometrica, e la greca era
floridissima e naturalissima; di essere ristretta, e la greca era larghissima
e ricchissima; di essere non bella, e la greca era bellissima. Perciò
la greca non era, e nessuna bella e naturale lingua lo potrà esser mai,
pienamente nè stabilmente universale; ma, sì per le dette ragioni,
sì per le recate in altro pensiero, serviva a quella universalità
lassamente [852]considerata, e non assolutamente, che poteva convenire ad un
tempo, dove nè la ragione, nè le cognizioni esatte, nè
la filosofia, nè l'esattezza assolutamente, nè il commercio scambievole
delle nazioni, e de' loro individui fra essi, avevano fatto progressi paragonabili
in grandezza nè in estensione agli odierni. E si può anche notare,
che siccome erano ancora i tempi della immaginazione e non della ragione, così
(sebben quella è varia, e questa monotona, e uniforme dappertutto) contuttociò
quella stessa immaginazione che regolava quella lingua fra i greci, poneva anche
gli altri popoli, ancora governati dalla immaginazione, in grado di adattarsi
senza troppa difficoltà a quella lingua, come conforme al carattere di
que' secoli, e di trovare corrispondente alla propria inclinazione, la naturalezza
di quella lingua (parola che io intendo qui di opporre alla ragionevolezza e
geometria, e di adoperarla in questo senso).
Egli è evidente che quanto più l'andamento di una lingua è
naturale semplice facile, e non capriccioso presso gli scrittori, [853]tanto
più si conforma al carattere della favella usuale e popolare. E che siccome
queste qualità di una lingua, la rendono più o meno atta alla
universalità, così anche alla detta conformità fra il parlato
e lo scritto, conformità dalla quale di nuovo nasce una grande attitudine
alla universalità. Perchè la favella del popolo, sebbene immaginosa
ordinariamente e in qualunque nazione, è però sempre semplice,
piana, facile, o inclina sempre a queste qualità, ed alla naturalezza
dell'ordine, e si allontana dal lavorato, dall'arbitrario, da tutto quello che
deriva puramente dall'individuo o da una data classe d'individui, e non dalla
natura e delle cose e del popolo: natura che sebben diversa dalla ragione, e
molto più varia e copiosa e rigogliosa della ragione; tuttavia presso
a poco si rassomiglia da per tutto e in tutti i popoli. Onde il linguaggio comune
di qualunque popolo, massime relativamente a quelle nazioni che appartengono
ad una stessa classe (come le nazioni colte di Europa) e formano quasi una famiglia;
un tal linguaggio [854], dich'io, per lo meno dentro i limiti di quella tal
famiglia di nazioni, è sempre per se medesimo, e astraendo dalle circostanze
particolari, adattato più o meno alla universalità. Non così
quello degli scrittori, i quali bene spesso allontanandosi appoco appoco dall'andamento
popolare della loro lingua, si allontanano altresì dal carattere universale.
E così la lingua scritta di questa o quella nazione, prendendo appoco
appoco un andamento proprio, e qualità proprie e speciali, per questa
proprietà e specialità, si viene allontanando più o meno
dalla linea universalmente riconosciuta, ed allontana dalla universalità
la loro lingua che vi era naturalmente adattata. Giacchè siccome la lingua
della nazione influisce su quella dello scrittore, così anche la scritta
sulla parlata. Talmente che anche la lingua popolare di una nazione, sebbene
senza fallo adattata da principio alla universalità, può e viene
effettivamente perdendo più o meno, o scemando la sua disposizione a
questa qualità.
[855]Il detto effetto degli scrittori, e diversificazione della lingua scritta,
dall'andamento naturale della lingua, accadde in Grecia, ma tardi, e dopo i
loro sommi scrittori. Non è accaduto in Francia. È seguito in
Italia dal cinquecento in poi. Seguì in Roma, nella prima stabile formazione
della lingua latina scritta, e per opera de' primi veramente classici di quella
nazione. Del che resta a parlare.
I primi scrittori latini, ancorchè perduti, pur si conosce dai loro frammenti,
o da quel poco che ne resta comunque, che, al pari di tutti i primi scrittori
di qualunque lingua, avevano un andamento naturale e semplice, che si accosta
al vero e antico genio della lingua greca, a quello dell'antica lingua italiana,
ossia del trecento; e per conseguenza anche al loro linguaggio nazionale e parlato.
Il che si dimostra anche per altre ragioni, quando non bastasse la semplice
e facile loro andatura per convincere che non si scostavano molto dal latino
volgare. [856]Una delle quali ragioni, o argomenti e conghietture (giacchè
del latino non ci resta il parlato, ma il solo scritto), si è il trovare
in essi buon numero di parole, modi, forme, che non si trovano negli autori
dell'aurea latinità, e che pure son passate, o somigliano alle passate
nella nostra lingua, derivata in gran parte (come con grandi ragioni si prova)
dal volgare latino. E in genere si trova ne' detti antichi latini gran conformità
(anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia) coll'italiano,
e molto maggiore, che ne' seguenti latini scrittori.
Ma o provenisse dalla differenza dei tempi fra l'ottima letteratura greca e
la latina (che certo la greca venne a tempi di maggior naturalezza, anzi gli
ottimi suoi secoli furono compagni degli ottimi tempi della greca repubblica,
laddove quelli della latina furono contemporanei precisamente della declinazione
e corruzione morale e politica del popolo romano, avvenuta per l'eccesso di
civiltà, e questo per l'eccesso di potere); o provenisse da [857]questo
che i greci formarono da se la loro letteratura e il loro gusto, e quindi più
naturalmente, laddove i latini la formarono sopra quella dei greci (onde ella
fu tutto parto di studio, trovò al suo stesso nascere l'arte già
formata e insignorita dello scrivere, e fece per l'aiuto l'esempio, e l'insegnamento
di una nazione straniera, così rapidi progressi, che la natura appena
ebbe scarsissimo tempo di precedere l'arte, e la letteratura latina fu subito
e intieramente in balia delle regole, e dichiaratamente artifiziale, e polita:
oltre che la stessa arte anche in Grecia, piuttosto declinava già all'eccessivo,
di quello che lasciasse più niente alla natura: onde la letteratura latina
superò immantinente a gran distanza, quella della Grecia contemporanea,
com'è naturale che in un paese dove la letteratura è recente,
ella non declini prima di essere stata ottima, e l'eccesso dell'arte non abbia
luogo, prima [858]che lo abbia avuto il di lei giusto grado: nel quale però
durò poco appo i latini, e la loro letteratura come fu rapida in salire,
così nello scendere: e ciò per la condizione de' tempi già
precipitanti lungi dalla natura, il torrente della civiltà che ingrossava
e tagliava i nervi alla grandezza e alla forza della specie umana; il contagio
dell'arte già passata nella Grecia al di là della maturità,
sì nel resto, come nello scrivere; e la circostanza che la letteratura
latina tardò tanto da cominciare quando restava poco tempo a poter durare
in buon essere, poco tempo alla forza alla grandezza, alla vera vita degli uomini,
poco tempo all'imperio della natura, e delle facoltà vitali dell'uomo,
quando era imminente la corruzione e il precipizio della società, di
Roma, delle nazioni civili, della libertà, del mondo) da quale di queste
cagioni provenisse, o da ambedue insieme, il fatto sta che appena la lingua
latina scritta prese forma stabile, e acquistò [859]perfezione, si allontanò
dalla parlata più di quello che mai facesse lingua colta del mondo; pose
e creò una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella
del popolo; si allontanò quanto mai si possa dire dall'andamento e struttura
naturale e comune e universale del discorso (senza però opporsi alla
natura): e per tutte queste ragioni la lingua latina, non ostante l'estesissima
diffusion della nazione, divenne la meno adattata alla universalità che
mai si vedesse: e non ottenne, seppur vogliamo credere o dire che mai l'ottenesse,
questa universalità, se non quando fu imbarbarita; e perduta la sua proprietà,
la lingua scritta si confuse un'altra volta colla parlata, prese tante forme
e caratteri, quanti popoli e scrittori l'adoperarono, e divenne piuttosto una
famiglia di lingue tutte barbare, che una lingua universale nè colta.
Il che presto accadde, e durò fino al nascere [860]delle sue figlie,
o piuttosto fino al crescere che queste fecero, e al separarsi da lei, perchè
per lungo tempo (siccome accade in tutte le lingue figlie) non si poterono considerare
se non come parte di quella famiglia di lingue barbare contenute nella latina,
smembrandosi questa e facendosi in brani, come il grande imperio della sua nazione,
e contemporaneamente al di lui misero diflusso.
Del resto la lingua latina scritta ne' primi veri e formati classici di essa,
fu ridotta a tale artifizio, squisitezza, tortuosità, intrecciatura,
composizione, lavoro, circuito, tessitura di periodi, obliquità di costruzione
ec.; acquistò subito così stretta proprietà di modi, di
frasi, di voci, proprietà inviolabile senza offesa formale della lingua;
tanto precisa distinzione nell'uso de' suoi sinonimi, ossia delle innumerabili
voci destinate alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che
quella lingua contenne il più di eleganza arbitraria che mai si vedesse,
fu opera espressa dello scrittore più che qualunque altra; abbisognò
di sì [861]profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata cognizione
non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a volerla trattare
senza offendere la sua sì propria e individuale e arbitraria altrettanto
che definita proprietà; che allontanandosi estremamente dal volgare,
e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata,
s'impossibilitò ancora, sì per questa, sì per quelle ragioni,
alla universalità. Alcuni scrittori latini, che anche nel tempo della
perfezionata loro lingua letterata, si accostarono un poco più degli
altri ai loro antichi scrittori, o al popolo, e conservarono maggiormente l'antico
carattere della lingua; si accostarono altresì più degli altri
agli ottimi greci, furono più semplici, più facili e piani, meno
contorti e lavorati ec. e si avvicinarono ancora al genio futuro della lingua
italiana. Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti Celso, del quale
vedi quello che ho notato altrove, [862]della gran somiglianza che ha, sì
col greco, sì massimamente coll'italiano, tanto nell'andamento, come
nelle minute forme, frasi, voci. E dovunque si trova nei latini scrittori, un
tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio della
loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti scrittori); si trova altresì
maggiore e notabile somiglianza col carattere della lingua greca, e della nostra,
e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e a cui
non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e più che ogni altro
Classico conosciuto del secolo d'oro o d'argento. Tuttavia anche in questi scrittori
medesimi, si trova sempre un'aria di maggior coltura, una lingua più
lavorata, più nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella
degli ottimi greci, anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli
con questi. E certo quel candore, quella nuda venustà de' greci, e anche
[863](ma quanto alla sola lingua) de' nostri trecentisti, non fu mai propria
della scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva. E verisimilmente
non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave
che graziosa, e quantunque naturale e semplice anch'essa (come tutte le antiche,
non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere
e forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante
e vagheggiatrice, come la nazione greca.
(21-24. Marzo 1821.)
Come la proprietà delle parole è ben altro che la secchezza
e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza
e facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben
altro che l'aridità e geometrica esattezza di esso. Così distinguete
il carattere dell'ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e
riformata francese. Così quello dell'ottima e antica e propria lingua
e scrittura italiana, sì da quello della [864]francese, sì da
quello dell'odierna italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le
parole, modi ec. è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento
e del carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente
all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra
lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali ancorchè
straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta
di barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente
barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può
non esser barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere
e dall'indole sua. E tanto più barbaro è l'odierno italiano scritto,
quanto il sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati
ed antichi, e la cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta
colla innazionalità ed anche coll'assoluta differenza del carattere totale
della scrittura.
(24. Marzo 1821.)
[865]Lodo che si distornino gl'italiani dal cieco amore e imitazione delle cose
straniere, e molto più che si richiamino e invitino a servirsi e a considerare
le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro quello spirito nazionale,
senza cui non v'è stata mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza
nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso lodare che le nostre
cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente letteratura, la massima
parte de' nostri scrittori, ec. ec. si celebrino, si esaltino tutto giorno quasi
superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono inferiori agli ultimi: che
ci si propongano per modelli; e che alla fine quasi ci s'inculchi di seguire
quella strada in cui ci troviamo. Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e
riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev'essere, non la superbia
nè la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve
spronare a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò
non faremo [866]mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo
alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all'ignavia,
e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione. Oltre che
questo serve ancora ad alimentare e confermare e mantenere quella miseria di
giudizio, o piuttosto quella incapacità d'ogni retto giudizio, e mancanza
d'ogni arte critica, di cui lagnavasi l'Alfieri (nella sua vita) rispetto all'Italia,
e che oggidì è così evidente per la continua esperienza
sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno
per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.
(24. Marzo 1821.)
Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati
se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato
de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci
de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della civiltà,
i settentrionali de' Romani nello [867]stesso caso? Anzi che vuol dire che i
Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol
dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà,
la scienza ec. e l'impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare
non è proprio nè facoltà che della natura, e non della
ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa,
così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno
sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano. Non dubito
di pronosticarlo. L'Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi
barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma finattanto
però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene
e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili
saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà
divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà
più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e
se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta
al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi
tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà
aspettare. Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi un'altra
essenza ed esistenza.
(24. Marzo 1821.)
[868]Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi in tutti i tempi
e paesi, non è vera se non in questo senso. I periodi che l'uomo percorre,
e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra
loro, sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche
che compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli
uomini di quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, e questa nazione oggi
trovandosi in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in altra
epoca. Come chi dicesse che l'orbita de' pianeti è sempre la stessa,
non però verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi si trovano,
fosse sempre una. I periodi della società si rassomigliano in tutti i
tempi. Questo è un vero assioma. E l'eccessiva civiltà avendo
sempre condotto i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi
partecipato di essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma
riuscirà falso per la prima volta. Del resto che gli uomini sieno gli
stessi in tutti i tempi, a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è
proposizione o falsa o ridicola. Falsa se si vuole estendere agli effetti delle
facoltà umane, che ora sviluppate, ora [869]no, ora più, ora meno,
ora attivissime, ora così sepolte nel fondo dell'animo da non lasciarsi
scoprire nemmeno ai filosofi (come p.e. la sensibilità odierna negli
antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione ec. ec.), hanno diversificato la
faccia del mondo in maniera infinita, e in moltissime guise. Domando io se questi
italiani d'oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo presente
si rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della Troiana. Domando
se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci riconoscerebbe per uomini,
e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole significare fuorchè questo,
che l'uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in tutti
i tempi. (ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici, così
i morali). Cosa che tutti sanno. Le qualità essenziali non sono mutate,
nè mutabili, dal principio della natura in poi, in nessuna creatura,
bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione delle essenziali,
che partorisce una diversità [870]rilevantissima, e quanto possa esser,
notabile, in quelle cose, che sole naturalmente, possono variare. Questa proposizione
dunque in quest'ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il
mare, il sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una
fisica trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com'è
conforme all'opinione universale).
(25. Marzo 1821.)
Intorno alla ragione proclamata, e alla tentata geometrizzazione del mondo,
nella rivoluzione francese v. anche parecchie cose notabili, e qualche notizia
e fatto nell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion nell'ultima
parte del capo 10. (che abbraccierà una 20na di pagg.) dove riduce le
dottrine che ha esposte, all'esempio formale della rivoluzione francese, da
quel periodo che incomincia Esisteva, sono già trent'anni, una nazione
governata da una stirpe antica di re ec. sino alla fine del capo.
(26. Marzo 1821.)
Alla p.838. principio. Osservate ancora [871]quanti di quei mestieri che servono
alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate necessarie alla vita
oggidì, sieno per natura loro nocivi alla salute e alla vita di coloro
che gli esercitano. Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto
alla sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un'altra
specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale.
Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della
stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell'altra parte (certo
niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte
sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri,
ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita,
non saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che
li richiede e li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non
verrà dunque ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà
dunque barbara?
(30. Marzo 1821.)
Alla p.499. fine. A quello che ho detto della derivazione di favellare ec. da
fabulari ec. aggiungete lo spagnuolo hablar, habla ec. cioè fablar, [872]fabla
ec. da fabula ec. secondo il costume spagnuolo di scambiare la f nell'h, come
in herir per ferir, in hembra per fembra, in hazer o hacer per facer, e mille
altre parole.
(30. Marzo 1821.)
L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è
un amore di preferenza. Cioè l'individuo amandosi naturalmente quanto
può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli
in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro individuo,
e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell'amore
di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene ad essere
innato in ogni vivente. V. p.926. capoverso 1.
Dal che segue per primo corollario, che dunque nessun vivente, è destinato
precisamente alla società, il cui scopo non può essere se non
il ben comune degl'individui che la compongono: cosa opposta all'amore esclusivo
e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente [873]ed essenzialmente porta
a se stesso, ed all'odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge
per essenza la società. Così che la natura non può nel
suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società
nella specie umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in
altre specie, vale a dire una società accidentale, e nata e formata dalla
passeggera identità d'interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero
durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di tal
natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno
tutti di comune, non pregiudichi agl'interessi o inclinazioni particolari in
quello che si oppongono ai generali. Cosa che accade nelle società de'
bruti, e non può mai accadere in una società, così unita,
ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli
uomini.
È cosa notabilissima che la società tanto più per una parte
si è allargata, quanto più si è ristretta, dico fra gli
uomini. E quanto più si è ristretta, tanto più è
mancato [874]il suo scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè
la cospirazione di ciascuno individuo al detto fine. Conseguenza naturale, ma
niente osservata, del corollario precedente, e della proposizione da cui questo
deriva. Osservate.
Ridotto l'uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società
furono larghissime. Poco ristrette fra gl'individui di ciascuna società,
e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette
fra le diverse società. Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società
era effettivamente cercato dagl'individui, perchè da un lato non pregiudicava,
dall'altro favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio. E il ben comune
risultava effettivamente da dette società, simili più o meno alle
naturali, e conforme alle considerazioni fatte nel precedente corollario. Le
società si sono ristrette di mano in mano che veniamo giù discendendo
dai tempi naturali; e ristrette per due capi: 1. tra gl'individui di una stessa
società: 2. tra le diverse società. Oggi questa ristrettezza è
al colmo in tutti due questi capi. Ciascuna società è così
vincolata 1. dall'obbedienza che deve per tutti i versi, in tutte le minuzie,
con ogni matematica esattezza al suo capo, o governo, 2. dall'esattissimo [875]regolamento,
determinazione, precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche,
religiose, civili, pubbliche, private, domestiche ec. che legano l'individuo
agli altri individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta,
che maggior precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa
parte. Le diverse società poi, sono così strette fra loro (dico
le civili massimamente, ma non solamente), che l'Europa forma una sola famiglia,
tanto nel fatto, quanto rispetto all'opinione, e ai portamenti rispettivi de'
governi, delle nazioni, e degl'individui delle diverse nazioni. In questo momento
poi, l'Europa è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta;
o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire
comandati da diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva
e risiede nel corpo intero di essi ec. di quello che si possa chiamare composta
di diverse nazioni.
Che è derivato e deriva da tutto ciò? [876]1. L'incamminamento
espresso della società ad un senso tutto e diametralmente opposto al
sopraddetto, cioè ad allargarsi tanto anzi sciogliersi per una parte,
ch'è la più importante, quanto per l'altra si stringe. Cosa ch'è
sempre accaduta dal principio della società in poi, in proporzione del
maggiore stringimento di essa. Considerate le antiche lassissime società,
e vedrete che amor di patria, ossia di essa società, si trovava in ciascun
individuo, che calore in difenderla, in proccurare il suo bene, in sacrificarsi
per gli altri ec. Venite giù di mano in mano, e troverete le società
sempre più ristrette e legate in proporzione dell'incivilimento. Ma che?
Osservate i nostri tempi. Non solo non c'è più amor patrio, ma
neanche patria. Anzi neppur famiglia. L'uomo, in quanto allo scopo, è
tornato alla solitudine primitiva. L'individuo solo, forma tutta la sua società.
Perchè trovandosi in gravissimo conflitto gl'interessi e le passioni,
a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l'utile della società
in massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale
l'uno individuo, e gl'interessi [877]suoi, nocciono a quelli dell'altro, e non
essendo possibile che l'uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso
ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società)
e prevalendo naturalmente l'amor proprio, questo si converte in egoismo, e l'odio
verso gli altri, figlio naturale dell'amor proprio, diventa nella gran copia
di occasioni che ha, più intenso, e più attivo. 2. Si è
perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società,
ch'è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se n'è
perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl'individui al detto fine.
Dilatiamo ora queste considerazioni, e seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla
storia dell'uomo, paragoniamo principalmente gli antichi coi moderni, cioè
la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi,
con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi.
Ho detto che l'amor proprio è inseparabile [878]dall'uomo, e così
l'odio verso gli altri ch'è inseparabile da esso, e che per conseguenza
esclude primitivamente ed essenzialmente la stretta comunione e società
sì degli uomini, che degli altri viventi. Ma siccome l'amor proprio può
prendere diversissimi aspetti, in maniera, ch'essendo egli l'unico motore delle
azioni animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e
da lui derivano tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così
nelle antiche e poche ristrette società (come pure accade anche oggi
in parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando furono scoperte,
come alcune Americane) l'amor proprio fu ridotto ad amore di quella società
dove l'individuo si trovava, ch'è quanto dire amor di corpo o di patria.
Cosa ben naturale, perchè quella società giovava effettivamente
all'individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e dovuto, così
che l'individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in lei, trasformava
l'amor di se stesso nell'amore di lei. Come appunto accade nei partiti, nelle
congregazioni, negli ordini ec. massime quando sono nel primitivo [879]vigore,
e conservano la prima lor forma. Nel qual tempo gl'individui che compongono
quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e considerano i suoi vantaggi, gloria,
progressi, interessi ec. come propri: e quindi amandolo, amano se stessi, e
lo favoriscono come se stessi. Che questo in ultima analisi è l'unico
principio dell'amor di corpo, di patria, di Religione, universale o dell'umanità,
e di qualunque possibile amore in qualunque animale.
Dunque l'amor proprio si trasformava in amor di patria. E l'odio verso gli altri
individui? Non già spariva, ch'è sempre ed eternamente inseparabile
dall'amor proprio, e quindi dal vivente: ma si trasformava in odio verso le
altre società o nazioni. Cosa naturale e conseguente, se quella tal società
o patria, era per ciascuno individuo come un altro se stesso. Quindi desiderio
di soverchiarle, invidia de' loro beni, passione di render la propria patria
signora delle altre nazioni, ingordigia altresì de' loro beni e robe,
e finalmente odio ed astio dichiarato; tutte cose che nell'individuo trovandosi
verso gli altri individui, lo rendono per natura, [880]incompatibile colla società.
Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello
straniero: dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si
ama. Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo
dell'antico patriotismo.
Ma quest'odio accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva
al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perchè
l'individuo non fa parte della nazione se non materialmente. L'opposto succede
nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi
tutt'uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa,
come uno per uno.
Con queste osservazioni spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera
antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni, paragonata
colla maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l'opinione,
l'amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più
colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche
illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora (che dava molto più
nel segno della presente) insegnava e inculcava l'odio nazionale e individuale
dello straniero, come di prima necessità alla conservazione [881]dello
stato, della indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non
era considerato come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri,
della giustizia, dell'onesto, delle virtù, dell'onore, della gloria stessa,
e dell'ambizione; delle leggi ec. tutto era rinchiuso dentro i limiti della
propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città.
Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte, e per certi rapporti
necessari, e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell'interno, e rispetto
a' suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso
questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non
verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare
lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in
tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la
conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre,
spesso nell'apparenza ingiuste, co' forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei
conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato
l'ingannare, o far male comunque all'esterno, che chiamano (e specialmente il
Cristiano) Goi ywg [882]ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che
ai greci barbaro: (v. il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però
si deve intendere, chiamano oggi i Cristiani \ywg goiìm) riputando peccato,
solamente il far male a' loro nazionali.
E con queste osservazioni si deve spiegare una cosa che può far maraviglia
nella Ciropedia. Dove Senofonte vuol dare certamente il modello del buon re,
piuttosto che un'esatta istoria di Ciro. E nondimeno questo buon re, dopo conquistato
l'impero Assirio, diventa modello e maestro della più fina, fredda, e
cupa tirannide. Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri, laddove
verso i suoi Persiani, Senofonte lo fa sempre umanissimo e liberalissimo. Ma
egli stima che sia tanto da buon re l'opprimere lo straniero, e l'assicurarsi
in tutti i modi della sua soggezione, come il conservare una giusta libertà
a' nazionali. Senza la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere
Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera
intenzione, e all'idea ch'egli ebbe del buon Principe. Nel qual proposito osserverò
che la regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per
tutto i Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella, [883]nazion
dominante, e queste, soggette e dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il
quale anzi a costo d'inimicarsi i Macedoni, pare che tra' suoi sudditi di qualunque
nazione volesse stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i
conquistati adottando le vesti e le usanze loro. Il suo scopo fu certo quello
di conservarli piuttosto coll'amore che col timore, e colla forza: e non li
stimò schiavi (secondo il costume di quei tempi), ma sudditi. E quanto
ai Romani, vedi in questo particolare la fine del Capo 6. di Montesquieu, Grandeur
etc. Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri
conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti:
ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com'è noto, e come
ho detto in altro pensiero p.457.
Tornando al proposito, Platone nella Repubblica l.5. (vedilo) dice: i Greci
non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le
campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto
questo ai Barbari. E le Orazioni d'Isocrate tutte piene di misericordia verso
i mali de' Greci, sono spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente
la nazione e Filippo, a sterminarli. Sono notabilissime in questo proposito
le sue due Orazioni ???????????, e ???? ????????, dove inculca di proposito
l'odio de' Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che l'amore dei
greci, e come conseguenza di questo. V. specialmente quel luogo del panegirico,
che comincia ?????????? ?? ??? ???????, e finisce ??? ????? ????? ???????? ??????????,
dove parla di Omero e de' Troiani, p.175-176. della ediz. del Battie, Cambridge
1729. molto dopo la metà dell'orazione ma ancor lungi dal fine. E questa
opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia
verso gli stranieri, è il [884]carattere costante di tutti gli antichi
greci e romani, e massime de' più cittadini, e assolutamente de' più
grandi e famosi: nominatamente poi degli scrittori, anche i più misericordiosi,
umani e civili.
È insigne a questo proposito un luogo di Temistio nell'Orazione scoperta
dal Mai ???????? ????????????? ??? ?? ???????? ??? ????? In eos a quibus ob
praefecturam susceptam fuerat vituperatus cap.25. Eccolo ??? ?????? ?? ??? ??
???? ????????? ??? ??????????? ??????. ??? ?? ????? ????? ??? ?????????? ?????,
???? ?? ???????????. ??????????? ? ????????????, ???? ?? ???????????? ?????????
?? ?????????, ??? ??? ???????? ???????????, ????? ?? ????? ?????? ? ?????? ???????
? ??? ???????? ????????. (regium dominatum exercuit. Maius.) ??????????? ??
????? ??? ???????? ?????, ? ????? ????? ????? ?? ???????? ? ?????????????????
(qui clementia indiget. Maius.) ??? ?? ?? ?????? ? ?????????, ? ?? ??? ?? ??????????
(Mediol. regiis typis. 1816. inventore et interprete Angelo Maio p.66. V. tutto
quel capo, e parte del resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo
riferito principalmente, e dà gran luce e tutta appropriata, al mio discorso.
V. anche l'oraz.10. di Temistio dell'ediz. Harduin. p.132. B-C. e l'Oraz. 1.
p.[885]6. B. citt. qui in margine dal Mai, come contenenti luoghi paralleli
al riportato.) Così egli lodando Teodosio magno. E infatti la filantropia,
o amore universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell'uomo
nè de' grandi uomini, e non si nominò se non dopo che parte a
causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto
l'amor di patria, e sottentrato il sogno dell'amore universale, (ch'è
la teoria del non far bene a nessuno) l'uomo non amò veruno fuorchè
se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più
i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente
essere (com'è oggi) meno odioso, perchè si oppone meno a' suoi
interessi, e perch'egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i lontani,
quanto i vicini.
Da tutte queste osservazioni e fatti, risulta un'altra osservazione e un altro
fatto conosciutissimo, e caratteristico dell'antichità; o piuttosto risulta
la spiegazione di questo fatto. Perchè amando l'individuo la patria sua,
e conseguentemente odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre fossero sempre
nazionali. E tanto più accanite, quanto l'individuo era da ambe le parti
più infiammato della sua causa, cioè dell'amor patrio. Massimamente
dunque lo erano quelle de' popoli liberi, o fatte a un popolo libero, [886]per
la stessa ragione, per cui, come ho detto, un popolo libero ama maggiormente
la patria, e maggiormente odia lo straniero. Così che sì la nazione
e l'armata straniera, sì l'individuo straniero, era come nemico privato
dell'individuo che combatteva pel suo popolo libero, e per la sua patria. E
questa è una delle principali e più manifeste ragioni per cui
i popoli più amanti della patria loro, e fra questi i liberi, sono stati
sempre i più forti, i più formidabili al di fuori, i più
bellicosi, i più intrepidi, i più atti alle conquiste, ed effettivamente,
per così dire, i più conquistatori.
Dall'esser le guerre, nazionali, dovea risultare quest'altro effetto, che avea
luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e
proporzionatamente in quelle che conservano maggiore spirito di nazione, e maggior
primitivo, come gli Spagnuoli. Cioè le guerre dovevano essere, a morte,
e senza perdono (giacchè tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza
distinzione ec. E l'effetto della vittoria doveva essere il cattivare intieramente
non solo il governo, ma la nazione intiera; (come si vide principalmente in
Asia a tempo de' monarchi Assiri nelle lor guerre co' Giudei ec. e al tempo
di Tito Vespasiano) [887]o certo spogliarla de' costumi, leggi, governatori
propri, dei tempii, de' sepolcri, della roba, del danaio, delle proprietà,
delle mogli, dei figli ec. e ridurla se non in ischiavitù, come si costumò
antichissimamente, spogliando il vinto anche del suo paese; certo però
in servitù: e considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non partecipe
di nessun vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei, se non
come suddita, nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè
ec. come se fosse di altra razza d'uomini. E conseguentemente e congruentemente:
perchè insomma tutta quanta la nazione essendo stata ed essendo nemica
del vincitore, tutta si trattava come nemica vinta e domata, e tutta era preda
del nemico trionfante. Quindi la disperazione delle guerre l'ostinazione delle
resistenze le più inutili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni
intiere, piuttosto che aprir le porte al nemico, perchè in fatti il vinto
andava nelle mani e nell'assoluta balìa di un nemico mortale, com'egli
lo era del vincitore. Quindi anche il combattere le nazioni intere, e l'essere
tutti soldati, quanti potevano portar armi, e ciò sempre: cioè
tanto in guerra quanto (se non in atto certo in potenza e disposizione) nel
tempo di pace. Perchè le nazioni, massime vicine, erano sempre in istato
di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando l'una di sorpassar l'altra
in [888]qualunque modo per conseguenza necessaria del vero amor patrio. (V.
in questo proposito, se però vuoi, l'Essai sur l'indifférence
en matière de Religion ch.10. dove discorre di proposito in questa materia,
sebbene in senso opposto al mio, durante 9. pagg. della traduz. di Bigoni cioè
dalla p.160. alla 169. ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è
tutto ancora. Quando i rapporti sociali ec. sino a quello che incomincia: INCEDO
PER IGNES. Egli trova anche una conformità di quest'ultimo costume nella
moltitudine delle armate odierne, che fa derivare dalla nazionalità delle
guerre di questi ultimi anni. Osservo però che questo derivò in
principio dalla sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
Conchiudo che l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza di un popolo
antico, non solo non importava l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza
degli altri popoli, rispetto a lui, e per quanto era in lui; ma per lo contrario
importava la soggezione e servitù degli altri popoli, massime vicini,
e l'obbedienza de' più deboli. E un popolo libero al di dentro era sempre
tiranno al di fuori, se aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente
dalla sua libertà. Nel modo stesso che un principe, per esser egli indipendente
e libero, e non aver legami nè ostacoli alla sua volontà, non
perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo. Anzi quanto più
è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a' sudditi,
o a' più deboli di lui. Così quanto [889]più una nazione
sentiva ed amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto
più era nemica delle straniere, e desiderosa di elevarsi sopra loro,
di farsene ubbidire, e conquistate, opprimerle; tanto più invidiosa de'
loro beni, ingorda del loro ec. effetto naturale dell'amor nazionale, come lo
è dell'amor proprio rispetto agl'individui: essendo insomma l'amor patrio,
non altro che egoismo nazionale, e rispetto alla nazione intera, egoismo della
nazione. E così dite di qualunque amore o spirito di corpo, di parte
ec. Quella nazione dove regna fortemente e vivacemente ed efficacemente l'amor
nazionale, è come un grande individuo: e alla maniera dell'individuo,
amando se stessa, si ama di preferenza, e desidera, e cerca di superare le altre
in qualunque modo. E quanto all'essere un popolo tanto più tiranno di
fuori, quanto più geloso della libertà propria, e nemico della
tirannia di dentro, v. l'esempio moderno, che pare all'autore dell'Essai ec.
di vedere nell'Inghilterra rispetto a' suoi stabilimenti fuor d'Europa. Vedilo,
dico, al luogo citato nella pagina precedente.
Questi quadri paiono non solamente disgustosi, anzi terribili, ma tali che nessun
male, nessun cattivo stato si possa paragonare col detto stato delle nazioni
antiche. E ciò avverrà massimamente a quelli che considerano la
vita come un bene per se stessa, qualunque ella sia. Ma passiamo ora ai moderni,
e consideriamo il rovescio della medaglia.
1. L'uomo non si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell'amor
di se stesso, nè questo dell'odio verso [890]altrui. Riconcentrato il
potere, tolto agl'individui quasi del tutto il far parte della nazione, di più,
spente le illusioni, l'individuo ha trovato e veduto il ben comune come diviso
e differente dal ben proprio. Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello
per questo. E non poteva altrimenti, essendo uomo, e vivendo. Sparite effettivamente
le nazioni, e l'amor nazionale, s'è spento anche l'odio nazionale, e
l'essere straniero non è più colpa agli occhi dell'uomo. S'è
perciò spento l'odio verso altrui, l'amor proprio? allora si spegnerà
quando la natura farà un altro ordine di cose e di viventi. La fola dell'amore
universale, del bene universale, col qual bene ed interesse, non può
mai congiungersi il bene e l'interesse dell'individuo, che travagliando per
tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno, come la natura
vuol ch'ei travagli; ha prodotto l'egoismo universale. Non si odia più
lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l'amico, il padre, il
figlio; ma l'amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia,
l'amicizia, l'eroismo, ogni virtù, fuorchè l'amor di se stesso.
Non si hanno più nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti
quanti son gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, nè
doveri se non verso se stesso. Le nazioni sono in pace al di fuori? [891]ma
in guerra al di dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d'ogni giorno,
ora, momento, e in guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l'apparenza
della giustizia, e senz'ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma
senz'una goccia di virtù qualunque, e senz'altro che vizio e viltà;
in guerra senza quartiere; in guerra tanto più atroce e terribile, quanto
è più sorda, muta, nascosta; in guerra perpetua e senza speranza
di pace. Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano,
si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti;
si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che
convivono, non c'è un istante di calma, nè di sicurezza per nessuno.
Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha co' lontani,
e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch'essendo
co' vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue sono le
occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla
società? Gl'interessi de' lontani non sono in tanta opposizione coi nostri
(e per quanto lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente,
bensì meno apertamente e più vilmente). Ma gl'interessi de' vicini
essendo co' nostri in continuo urto, la guerra più terribile è
quella che deriva dall'egoismo, e dall'odio naturale verso altrui, rivolto non
più verso lo straniero, [892]ma verso il concittadino, il compagno ec.
2. Per qual cagione l'amore universale sia un sogno, non mai realizzabile, risulta
dalle cose dette in questo discorso, e l'ho esposto già in altri pensieri.
Ora non potendo il vivente senza cessar di vivere, spogliarsi nè dell'amor
proprio, nè dell'odio verso altrui, resta che queste passioni prendano
un aspetto, quanto si può migliore; resta che l'amor proprio dilati quanto
più può il suo oggetto (ma non può troppo dilatarlo senza
perdersi il se stesso ch'è indivisibile dall'uomo, e quindi ricadere
inevitabilmente nell'amor di se solo); e che l'odio verso altrui si allontani
quanto più si può, cioè scelga uno scopo lontano. Questo
avviene per la prima parte, quando l'individuo trova una comunione e medesimezza
d'interesse con quelli che lo circondano; e per la seconda, quando egli non
trova la principale opposizione a questo interesse se non ne' lontani. Ecco
dunque l'amor patrio, e l'odio degli stranieri. E per tutte queste ragioni,
io dico, che stante l'amor proprio, e l'odio naturale dell'uomo verso altrui,
passioni che lo rendono per natura indisposto alla società, una società
non può sussistere veramente, cioè essere effettivamente ordinata
al suo scopo ch'è il ben comune di tutta lei, se le dette passioni non
prendono il detto aspetto; cioè: la società non può sussistere
senz'amor patrio, ed odio degli stranieri. Ed essendo l'uomo essenzialmente
ed [893]eternamente egoista, la società per conseguenza, non può
essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con verità, se
l'uomo non diventa egoista di essa società, cioè della sua nazione
o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre. E per tutte queste ragioni,
ed altre che ho spiegato altrove, dico, e segue evidentemente, che la società
ed esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
3. Come senz'amor patrio non c'è società, dico ancora che senz'amor
patrio non c'è virtù, se non altro, grande, e di grande utilità.
La virtù non è altro in somma, che l'applicazione e ordinazione
dell'amor proprio (solo mobile possibile delle azioni e desiderii dell'uomo
e del vivente) al bene altrui, considerato quanto più si possa come altrui,
perchè in ultima analisi, l'uomo non lo cerca o desidera, nè lo
può cercare o desiderare se non come bene proprio. Ora se questo bene
altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai
col ben proprio, l'uomo non lo può cercare. Se è il bene di pochi,
l'uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca estensione, poca
influenza, poca utilità, poco splendore, poca grandezza. Di più,
e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così che è
rara e difficile; giacchè siamo da capo, mancando allora o essendo poco
efficace lo sprone che muove l'uomo ad abbracciar la virtù, cioè
il ben proprio. Talchè anche per questo capo [894]è dannosa la
soverchia ristrettezza e piccolezza, o poca importanza e pregio delle società,
dei corpi, dei partiti ec. E riguardo all'altro capo, cioè la poca utilità
delle virtù che si rapportano al bene o agl'interessi qualunque di pochi,
o poco importanti ec. questa è la ragione per cui non sono lodevoli,
anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini, partiti, corporazioni,
e l'amore e spirito di questi negl'individui. Giacchè le virtù
e i sacrifizi a cui questi amori conducono l'individuo, sono piccoli, ristretti,
bassi, umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità. In oltre nuocono
alla società maggiore, perchè siccome l'amor di patria produce
il desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l'amore de'
piccoli corpi, essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione
degl'individui verso quelli che non appartengono a quella tal corporazione,
e il desiderio di superarli in qualunque modo. Così che nasce la solita
disunione d'interessi, e quindi di scopo, e così queste piccole società,
distruggono le grandi, e dividono i cittadini dai cittadini, e i nazionali dai
nazionali, restando tra loro la società sola di nome. Dal che potete
intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere, come particolarmente
di queste famose moderne e presenti, le quali ancorchè studiose o in
apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene di tutta la patria, si vede
per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene, e sempre gran male, e maggiore
ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire i loro intenti; e ciò
per le dette ragioni, e perchè l'amor della setta (fosse pur questa purissima)
nuoce all'amore della nazione ec. V. p.1092. principio. Resta dunque che l'egoismo
sociale, abbia per oggetto una società di tal grandezza ed estensione,
che senza cadere negl'inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che
l'uomo per cercare il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso;
[895]il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell'egoismo individuale.
L'egoismo universale (giacchè anche questo non potrebb'essere altro che
egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori dei viventi) è contraddittorio
nella sua stessa nozione, giacchè l'egoismo è un amore di preferenza,
che si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l'universale
esclude l'idea della preferenza. Molto più poi è stravagante l'amore
sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i viventi,
e quanto si possa, di tutto l'esistente: cosa contraddittoria alla natura, che
ha congiunto indissolubilmente all'amor proprio una qualità esclusiva,
per cui l'individuo si antepone agli altri, e desidera esser più felice
degli altri, e da cui nasce l'odio, passione così naturale e indistruggibile
in tutti i viventi, come l'amor proprio. Ma tornando al proposito, la detta
società di mezzana grandezza, non è altro che una nazione. Perchè
l'amore delle particolari città native è dannoso oggi, come l'amore
de' piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non dà eccitamento
nè premio a virtù grandi; e d'altra parte, staccando l'individuo
dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte
intente a superarsi l'una coll'altra, e quindi nemiche scambievoli. Del che
non si può dare maggior pregiudizio. Le città antiche, se anche
erano piccole come le moderne, e tuttavia servivano [896]di patria, erano però
più importanti assai, per la somma forza d'illusioni che vi regnava,
e che somministrando grandi eccitamenti, e premi grandi ancorchè illusorii,
bastava alle grandi virtù. Ma questa forza d'illusioni non è propria
se non degli antichi, che come il fanciullo, sapevano trar vita vera da tutto,
ancorchè menomo. La patria moderna dev'essere abbastanza grande, ma non
tanto che la comunione d'interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse
dare per patria l'Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla
natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor
nazionale non si dà virtù grande. Da tutto ciò deducete
il gran vantaggio del moderno stato, che ha tolto assolutamente il fondamento,
anzi la possibilità della virtù, certo della virtù grande,
e grandemente utile; della virtù stabile e solida, e che abbia una base
e una fonte durevole e ricca.
4. Lascio la gran vita che nasce dall'amor patrio, e in proporzione della sua
forza, ch'è massima ne' popoli liberi, e che gli antichi godevano mediante
questo; e la morte del mondo, sparito che sia l'amor patrio, morte che noi sperimentiamo
da gran tempo.
5. Le guerre moderne sono certo meno accanite delle antiche, e la vittoria meno
terribile e dannosa al vinto. Questo è naturalissimo. Non esistendo più
nazioni, [897]e quindi nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno
vincitore. Chi vince non vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I soli
governi sono nemici fra loro. Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione
(la quale come l'asino di Fedro cambia solamente la soma, o l'asinaio); ma sopra
il solo governo. Una nazione conquistata perde il suo governo, e ne riceve un
altro che presso a poco è il medesimo. Non essendo nemica della conquistatrice,
non avendo avuto guerra con essa, nè questa con lei, partecipa ai di
lei vantaggi, alle cariche pubbliche ec. Non perde le proprietà, nè
la libertà civile, nè i costumi ec. (Alle volte non perderà
neppure le sue leggi). Ma come tutto il suo, non era suo, ma del suo padrone,
così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui, come presso
gli antichi, passa di peso e senza scomporsi ad essere di un altro padrone.
Anticamente il privato perdeva individualmente le sue proprietà perchè
individualmente ne aveva. Ora non egli che non le ha individualmente, e non
le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte insieme le proprietà
de' suoi sudditi, ch'erano generalmente ed unitamente sue; e questo per conseguenza
accade senza cangiamenti nello stato de' particolari, e senza nuove violazioni
de' diritti privati e individuali. S'ella diviene dipendente al di fuori, lo
era già al di dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di
nome, perchè la sua indipendenza era pur tale. E se ora dipende dallo
straniero, lo straniero è per lei tutt'uno che il nazionale; perchè
la nazione non esisteva neppur prima della conquista; ed ella non amando se
stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo straniero, se non come il
nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo. Il diritto delle nazioni [898]è
nato dopo che non vi sono state più nazioni. Ella dunque gode gli stessi
diritti, che godeva prima della conquista, e gli gode ora come la conquistatrice.
Quanto alle guerre, elle non sono già nè meno frequenti, nè
meno ingiuste delle antiche. Perchè la sorgente delle guerre, che una
volta era l'egoismo nazionale, ora è l'egoismo individuale di chi comanda
alle nazioni, anzi costituisce le nazioni. E questo egoismo, non è nè
meno cupido, nè meno ingiusto di quello. Dunque, come quello, misura
i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e la forza è
l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia,
perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti. Questi
che esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del Cristianesimo,
del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra che abbiano
bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli Cristiani fino
a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie, le
stesse guerre, lo stesso trionfo della forza ec. nè il Cristianesimo
ha migliorato in ciò il mondo di un punto; colla differenza che allora
le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora gl'individui, o vogliamo
dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o gl'ingiusti, erano giusti
e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii, adesso verso nessuno;
allora le nimicizie [899]partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in
ciascuna nazione, adesso i grandi vizi e la viltà; allora una nazione
opprimeva l'altra, adesso tutte sono oppresse, la vinta come la vincitrice;
allora serviva il vinto, adesso la servitù è comune a lui col
vincitore; allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte
le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno anche
i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda; allora chi moveva la guerra,
era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso chi la muove è
ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella
per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla, quanto in tutto
il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi tra loro, sono in istato
di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni anticamente.
Lascio le atrocità commesse anche ne' primi e più fervorosi tempi
Cristiani sopra i Capi delle nazioni vinte: cosa conseguente, perch'essi erano
i vinti, e non le nazioni. E così costumavasi, per naturale effetto,
anche anticamente, nella vittoria di nazioni serve al di dentro e monarchiche.
Nè mancano esempi più recenti nelle storie, di questa naturale
conseguenza dello stato presente dei popoli, cioè dell'odio privato o
pubblico fra' loro capi, e delle sevizie usate sopra i principi vinti o prigioni
ec.
Vengo all'atto della guerra. Anticamente, dicono, combattevano le nazioni intere:
le guerre de' tempi [900]Cristiani fatte con piccoli eserciti, hanno meno sangue,
e meno danni. Ma anticamente combatteva il nemico contro il nemico, oggi l'indifferente
coll'indifferente, forse anche coll'amico, il compagno, il parente; anticamente
nessuno era che non combattesse per la causa propria, oggi nessuno che non combatta
per causa altrui; anticamente il vantaggio della vittoria era di chi avea combattuto,
oggi di chi ha ordinato che si combatta. È in natura che il nemico combatta
il suo nemico, e per li suoi vantaggi; e ciò si vede anche nei bruti,
certo non corrotti, anche dentro la loro propria specie, e co' loro simili.
Ma non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che un individuo senza
nè odio abituale, nè ira attuale, con nessuno o quasi nessuno
vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che certo non ama gran fatto,
e probabilmente non conosce, uccide un suo simile che non l'ha offeso in nessuna
maniera, e che, per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto
dall'uccisore. Anzi di più, un individuo ch'egli odia per lo più
molto meno di quello che gli comanda di ucciderlo, e certo molto meno di gran
parte fra' suoi stessi compagni d'arme, e fra' suoi concittadini. Perchè
oggi gli odi, le invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente
coi lontani: l'egoismo individuale ci [901]fa nemici di quelli che ci circondano,
o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e massime di quelli che battono
la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso scopo che noi cerchiamo, e
dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo più elevati di noi,
destano per conseguenza l'invidia nostra, e pungono il nostro amor proprio.
Lo straniero al contrario ci è per lo meno indifferente, e spesso più
stimato dei conoscenti, perchè la stima ec. è fomentata dalla
lontananza, e dalla ignoranza della realtà, e dallo immaginario che ne
deriva: ed infatti in un paese dove non regni amor patrio, il forestiero è
sempre gradito, e i costumi, i modi ec. ec. tanto suoi, come di qualunque nazione
straniera, sono sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente.
Così che il soldato oggidì è molto più nemico sì
di quelli in cui compagnia combatte, sì di quelli in cui vantaggio, per
cui volere, sotto di cui combatte, che di coloro ch'egli combatte ed uccide.
E tutto ciò per natura delle cose, e non per capriccio. Talchè,
se vorremo una volta considerar bene le cose, non le apparenze, troveremo molta
più barbarie oggidì nella uccisione di un nemico solo, che anticamente
nel guasto di un popolo: perchè questo era del tutto secondo natura;
quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902]Voglio andare anche più avanti, e mostrare che questo preteso vantaggio
del poco numero de' combattenti, ha sussistito finora non per altro se non perchè
le nazioni hanno conservato qualche cosa di antico, e continuato ad essere in
qualche modo nazioni; e che ora che hanno cessato affatto di esserlo, il detto
vantaggio non può più sussistere.
Certo che le nazioni non essendo più nemiche l'una dell'altra, e gli
eserciti essendo come truppe di operai pagati perchè lavorino il campo
del padrone, e il numero di un esercito non richiedendosi che sia se non quanto
è quello dell'altro, le guerre si potrebbero sbrigare con pochissimo
numero di combattenti, e anche con un compromesso, dove due sole persone pagate
combattessero insieme per decider la causa. Ma l'egoismo dell'uomo porta ch'egli
impieghi ad ottenere il suo fine tutte quante le forze ch'egli può impiegare
a tale effetto.
Un grand'esercito, sì per se stesso, sì per le imposte che bisognano
a mantenerlo, non si mantiene senza incomodo e danno e spesa dei sudditi. Finchè
i sudditi non sono stati affatto servi, finchè la moltitudine è
stata qualche cosa, finchè la voce della nazione si è fatta sentire,
finchè la carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è
stata ad intierissima disposizione di questo solo che comanda, e come la carne,
così tutto il resto, e la nazione per tutti i versi; fino, dico, [903]ad
un tal punto, il principe non potendo adoperare la nazione a' suoi propri fini,
se non sino ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose.
La nazione, che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente
1. di guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2.
le leve forzate, o almeno eccessive, 3. l'eccesso delle imposte per far la guerra.
Non tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe in gravissimi pericoli
e disturbi al di dentro. Così che era dell'interesse del principe di
risparmiare la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e risparmiarla,
sì nelle altre cose, sì massimamente dove si trattava del suo
sangue, e delle sue proprietà più care, che sono i figli, i congiunti
ec. Dal tempo della distruzione della libertà, fino ai principii o alla
metà del seicento, i sovrani se anche erano più tiranni d'oggidì,
cioè più violenti e sanguinarii, appunto per l'urto in cui erano
colla nazione, non sono stati però mai padroni così assoluti de'
popoli, come in appresso. Basta legger le storie e vedere come fossero frequenti
e facili e pericolose in quei tempi le sedizioni, i tumulti popolari ec. che
per qualunque cagione nascessero, mostravano pur certo che la nazione era ancor
viva, ed esisteva. E non era strano in quei tempi, come dopo, [904]il vedere
scorrere il sangue de' principi per mano de' suoi soggetti. Di più il
potere era assai più diviso, tanto colle baronie, signorie, feudi, ch'era
il sistema monarchico d'allora, quanto colle particolari legislazioni, privilegii,
governi in parte indipendenti delle città o provincie componenti le monarchie.
Così che il re, non trovando tutto a sua sola disposizioine, e non potendo
servirsi della nazione per le sue voglie, se non con molti ostacoli, le armate
venivano ad esser necessariamente piccole: ed è cosa manifesta che quando
la signoria di una nazione è divisa in molte signorie, il signore di
tutte, non può prendere da ciascuna se non poco, e infinitamente meno
di quello che prenderebbe s'egli fosse il signore immediato, e se tutto dipendesse
intieramente dall'arbitrio suo. Cosa dimostrata dalla storia, ed osservata dai
politici. Ed anche per questo si stima nella guerra come principalissimo vantaggio,
l'assoluta padronanza di un solo, e la intera monarchia, come quella di Macedonia
in mezzo alla Grecia divisa ne' suoi poteri. (Il che però ne' miei principii
si deve intendere solamente nel caso che quelle nazioni combattute da una potenza
dispotica non siano dominate da vero amor di patria, o meno, se è possibile,
di quella nazione soggetta al dispotismo. E tale era la Grecia ai tempi Macedonici,
laddove la sola Atene aveva una volta resistito alla potenza dispotica della
Persia, e vintala. Perchè del resto è certo che un solo vero soldato
della patria, val più di dieci soldati di un despota, se in quella nazione
monarchica non esiste altrettanto o simile patriotismo. E appunto nella battaglia
di Maratona, uno si trovò contro dieci, cioè 10.m contro 100.m
e vinsero.) Sono anche note le costituzioni di quei tempi, le carte nazionali,
l'uso degli stati generali, corti ec. come in Francia, in Ispagna ec. con che
o la moltitudine faceva ancora sentir la sua voce, o certo il potere restava
meno indipendente ed uno, e il monarca più legato.
[905]Ma da che il progresso dell'incivilimento o sia corruzione, e le altre
cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine,
fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se
stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca,
e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque
modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son
divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute. Ed è
cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta
della natura delle cose e dell'uomo. Perchè quanto un uomo può
adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può
adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto
quanto può la nazione, segue ch'egli l'adopri effettivamente senz'altri
limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo prova.
Luigi 14. o primo, o uno de' primi di quei regnanti che appartengono all'epoca
della perfezione del dispotismo, diede subito l'esempio al mondo, della moltitudine
delle armate. Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario. Perchè
siccome oggi la grandezza di un'armata è arbitraria bensì, ma
dipende, e deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906]così
se quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè
non voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza
la nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per
le stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p.902. Infatti l'esempio
di Luigi 14. fu seguito sì da' principi suoi nemici, sì da Federico
secondo, il filosofo despota, e l'autore di molti nuovi progressi del despotismo,
da lui felicemente coltivato e promosso. Ed egli parimente obbligò alla
stessa cosa i suoi nemici. Finalmente la cosa è stata portata all'eccesso
da Napoleone, per ciò appunto ch'egli è stato l'esemplare della
forse ultima perfezione del despotismo. Non però quest'eccesso è
l'ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.
Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del
presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l'andamento dei tempi,
il sapere che regna ec. non pare che per ora, possano far altro che nuovi progressi,
o pigliar nuove radici. E in questo caso, dico inevitabilmente, sì per
l'egoismo naturale dell'uomo, e conseguentemente del principe, egoismo il cui
effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell'egoista;
sì ancora perchè dato che sia l'esempio, e preso il costume questo
andamento, la cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse. E [907]che
ciò sia vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume,
ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà?
Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare?
Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse
o proponesse al Congresso di Vienna. E certo l'occasione era l'ottima che potesse
mai darsi, ed altra migliore non si darà mai. So però che nulla
se n'è fatto. Forse avranno conosciuta l'impossibilità, che realmente
vi si oppone. Primo, qual è oggi la guarentia de' trattati, se non la
forza o l'interesse? Qual forza dunque o quale interesse vi può costringere
a non cercare il vostro interesse con tutte le forze che potete? Secondo, (e
questo prova più immediatamente che, anche volendo, non si può
rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo di guerra? Chi non
conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e generalmente, chi non
conosce la natura universale e immutabile dell'uomo? Se dunque il principe conosce
tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo,
è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch'egli sappia resistere
quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare
per attaccarlo. Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento,
non sapendo se il nemico l'assalterà [908]con cento o con mille, anzi
avendo più da creder questo che quello? E quando si fosse fatto l'accordo
generale, e osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio
proposto a chi improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo
tale non mancherebbe. Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico,
e dopo un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe
sull'incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume.
E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo
sempre continuo il pericolo che i governi portano l'uno dall'altro. E ciò
ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora
in tempo di pace, così che non c'è ora un tempo dove un paese
resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de' tempi antichi,
sì de' secoli cristiani anteriori a questi ultimi.
Da tutto ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più,
ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di superare l'altro con
tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto quelle della nazione:
che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente,
ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità,
anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi
essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè,
ed anche questo è notabile, perduto l'amor di patria, e l'indipendenza
interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec. non solo non
è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per
il proprio bene, ma per l'altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi
di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909]e più
assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto
naturale, ma contro natura assolutamente. E lo stesso dite di tutte le altre
conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente
da essa. Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui
armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati,
privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura, collo
strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue fatiche;
inceppato e scoraggiato il commercio e l'industria, collo impadronirsi che farà
del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec. ec. ec. In somma le nazioni,
senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente desolate,
benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall'interno
più che dall'estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec. ec.
E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria
cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè
sia diversa e peggiore ne' principi, ma semplicemente come natura umana, li
porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra
in moltissime e grandissime parti. E tutto ciò senza ricavarne quell'entusiasmo,
quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza
dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica
e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità:
anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità,
[910]il torpore, la freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia,
il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi
dell'incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto
delle genti creato, dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole
delle nazioni distrutto, dell'antica barbarie abolita.
Queste mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell'Essai ec.
loc. cit. da me p.888. il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne
dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto
più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito,
e quindi di quest'odio, e di questo egoismo.
6. Non solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le
private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato
presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più,
cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto
gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d'integrità. Quest'è
una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento che le nazioni, e
quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della
forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle
illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e
che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù
non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni,
manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine
e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da tutti
i filosofi, e politici. Ed è tanto vero; che le virtù private
si trovano sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità
di una nazione; e l'indebolimento di queste [911]cose, colla corruttela dei
costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della
perdita dell'amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà
interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e
con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor
patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È cosa troppo
nota qual fosse la depravazione interna de' costumi in Francia da Luigi 14.
il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione del dispotismo,
ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla
rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta morale
francese, quanto era possibile 1. in questo secolo così illuminato, e
munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2. in tanta, e
tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3. in
una nazione particolarmente ch'è centro dell'incivilimento, e quindi
del vizio: 4. col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia,
che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù,
perch'è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch'è nemica
della natura, sola sorgente della virtù.
(30. Marzo-4. Aprile 1821.)
Analogo al pensiero precedente è questo che segue. [912]È cosa
osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta
di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza
l'uso della schiavitù interna. (Così il Linguet, credo anche il
Rousseau, Contrat social l.3. ch.15. ed altri. Puoi vedere anche l'Essai sur
l'indifférence en matière de Religion, ch.10. nel passo dove cita
in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.)
Dal che deducono che l'abolizione della libertà è derivata dall'abolizione
della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perchè
non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è falsa,
perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che
tutti sanno, e che ha toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità
si potrebbe dire che l'abolizione della schiavitù è provenuta
dall'abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due son provenute
dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella
e per ragione e per fatto.
La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità
della schiavitù ne' popoli precisamente liberi, è verissimo. Ecco
in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione.
L'uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e
nella stato primitivo. Non così nello [913]stato di società. Perchè
in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de' suoi bisogni e presta
a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch'è
fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto
inutile che gli uomini si trovano insieme, ovvero conviene ch'essi si prestino
uffizi scambievoli, e provvedano mutuamente a' loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun
bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola,
e inutile, che io p.e. pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo
nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità
delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente,
ovvero tali quali li avrebbe esercitati l'individuo anche nella condizione naturale;
altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti
ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale,
e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità;
altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come
sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per l'assuefazione,
quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche
e veglia al bene e all'esistenza precisa di essa società; quello delle
persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914]la società
nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la società istessa
dalle altre società ec. ec. ec. In somma, o la società non esiste
assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e
dei gradi.
Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da
principio, e accade ne' popoli ancora non inciviliti, siccome ne' civili. Ma
corrotta appoco appoco la società, e introdotto l'abuso del potere; e
quindi i popoli avendo scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale,
ripigliarono con ciò anche l'uguaglianza. Ed oltre che questa naturalmente
vien dietro alla libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa
libertà non può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella
uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.
Ma la libertà ed uguaglianza dell'uomo gli è bensì naturale
nello stato primitivo; ma non conviene nè si compatisce, massime nella
sua stretta nazione, collo stato di società, per le ragioni sopraddette.
Restava dunque, che richiedendosi nella società che l'uomo serva all'uomo,
e questo opponendosi alla uguaglianza, l'uomo di una tal società fosse
servito da uomini di un'altra, o di più altre società o nazioni,
ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de' diritti,
de' vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà
di questa, insomma considerata come estranea alla [915]nazione, e quasi come
un'altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla
razza libera e uguale. Ecco l'uso della schiavitù interna ne' popoli
liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo,
quanto egli è più intollerante della propria servitù, come
si è veduto negli antichi. In questo modo la disuguaglianza in quel tal
popolo libero veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche
giornaliere, i servigi bassi, che avrebbero degradata l'uguaglianza dell'uomo
libero, la coltura della terra ec. destinata agli schiavi: e l'uomo libero,
chiunque si fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere
obbligato ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere
in sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi,
in benefizio comune della società, se non della cura delle cose pubbliche,
e del suo proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria
col mezzo della guerra ec. colle sole differenze che nascevano dal merito individuale
ec.
Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche. Tale in Grecia,
tale quella degl'Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di
Elos (?????) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar.
1.967.) del Peloponneso, presa a forza da' Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache,
e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i
suoi discendenti in perpetuo. V. l'Encyclopéd. Antiquités, art.
Ilotes, e il Cellario 1.973. Tale la schiavitù presso i Romani, della
quale v. fra gli altri il Montesquieu, [916]Grandeur etc. ch.17. innanzi alla
metà. Floro 3.19. Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana
provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur. Hic AD CULTUM AGRI frequentia
ergastula, CATENATIQUE CULTORES, materiam bello praebuere. E quanta fosse la
moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla
guerra servile, e dal pericolo che ne risultò. Ne avevano i Romani, cred'io,
d'ogni genere di nazioni; e Floro l.c. nomina un servo Siro cagione e capo della
guerra servile; Frontone nell'ultima epist. greca, una serva Sira ec. ec. cose
che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane.
V. il Pignorio De Servis, e, se vuoi, l'articolo originale del Cav. Hager nello
Spettatore di Milano 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.244. fine-245. principio,
dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de' servi romani, e se
ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe
trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.
E qual fosse l'idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può
dedurre da cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi,
ma segnatamente da questo luogo di Floro 3.20. Enimvero servilium armorum dedecus
feras. Nam et ipsi per fortunam IN OMNIA OBNOXII (scil. nobis) tamen QUASI SECUNDUM
HOMINUM GENUS SUNT, et in bona libertatis nostrae adoptantur.
Questa seconda razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà
de' popoli antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e
delle forze rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec. per
[917]fare o comperare degli schiavi. E l'antica uguaglianza e libertà,
si manteneva effettivamente coll'aiuto e l'appoggio della schiavitù,
ma della schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo
e la repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera
ed uguale. Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione,
aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l'una non era
indipendente neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti
di altre ec.
E la verità di tutte queste cose, e come l'uso o la necessità
della schiavitù in un popolo libero abbia la sua ragione immediata non
nella libertà, ma precisamente nella uguaglianza interna di esso popolo,
si può vedere manifestamente per questa osservazione, la quale dà
molta luce a questo discorso. Arriano (Histor. Indica, cap.10. sect.8-9. edit.
Wetsten. cum Expedit. Alexand. Amstelaed. 1757. cura Georg. Raphelii, p.571.)
dice fra le cose che si raccontavano degl'Indiani: ???????? (???????) ??? ????
???? ?? ?? ? I???? ??, ?????? ? I????? ????? ??????????, ???? ???? ?????? ?????
? I????? ????? ??? ???????????????? ?? ????? ????????? ??? ?????????? (qua quidem
in re Indis cum Lacedaemoniis convenit. Interpres.) ?????????????? ??? ?? ??
??????? ?????? ?????, ??? ?? ?????? ??????????? ?I?????? ??, ???? ????? ??????
????, ??????? ? I???? ???. (??????? nedum. Index vocum.) [918]Osservate subito
che questa cosa pare ad Arriano maravigliosa e singolare. Poi osservate, che
gl'indiani erano liberi, cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti
a quella primitiva di Roma ch'era una specie di Repubblica e alle antichissime
monarchie greche; parte erano ?????? ????????? città libere e indipendenti
assolutamente. (Id. ibid. c.12. sect.6. et 5. p.574.) Qual era dunque la cagione
di questa singolarità? Sebbene Arriano non l'osserva, ella si trova però
in quello ch'egli soggiunge immediatamente. Ed è questo: ?????????????
?? ?????? ? I???? ?? ???? ??????? ?????? Distinguuntur autem Indi omnes in septem
potissimum genera hominum (interpres.), ossia, caste. (Id. ib. c.11. sect.1.
p.571.) La prima de' sofisti (????????), la seconda degli agricoltori (???????),
la terza de' pastori e bifolchi (??????, ?? ???????? ?? ??? ????????), la 4ta
opificum et negotiatorum (???????????? ?? ??? ????????? ?????), la quinta dei
militari (?? ??????????) i quali non avevano che a far la guerra quando bisognava,
pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di
guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire
i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi,
sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum
sive inquisitorum (?? ????????? ??????????), specie d'ispettori di polizia,
i quali non potevano [919]riferir niente di falso, e nessun indiano fu incolpato
mai di menzogna ???? ??? ?????? ?????? ???? ????????? (c.12. sect.5. p.574.
fine); la settima finalmente ?? ???? ??? ?????? ???????????? ???? ?? ???????,
? ???? ?????? ???? ?????????, (liberae. interpres) ??? ????? ???????: casta
per sapienza e giustizia (?????? ??? ??????????) sopra tutti prestante, dalla
quale si sceglievano i magistrati, i regionum praesides (????????), i prefetti
(???????), i quaestores (??????????????), i ????????????? (copiarum duces),
???????? ??, ??? ??????, ??? ??? ???? ???????? ????? ?????????. (ib. c.12. sect.6-7.)
Ecco dunque la ragione perchè gl'indiani non usavano schiavitù.
Perchè sebben liberi, non avevano l'uguaglianza.
Ma come dunque senza l'uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo
l'osserva Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch'egli immediatamente
soggiunge: (ib. sect.8-9) ??????? ?? ?? ?????? ??????, ?? ?????? ???? ?????
?????????? ?? ??? ????????????, ? ???????? ???? ??? ?????? ??????????? ??? ?????,
???? ????? ?????? ???? ???????? ?? ?????? ?????? ??? ??????? ???? ?????????
?? ?????? ???????? ? ????? ?? ???????????. ?????? ?????? ???????, ???????? ??
?????? ?????? ????????? ??? ?? ??????? ????? ?????????? ???? ?? ????????, ????
?????? ????????????? (non mollis vita sed omnium laboriosissima. interpres.)
Questa costituzione, che si vede ancora sussistere fra [920]gl'indiani quanto
alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall'una all'altra o per
matrimonii, o comunque; a questa costituzione che sussiste, credo, in parte
anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione
del padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione,
di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel
primo o ne' primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova
pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata
esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in
parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell'Asia, e si
vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell'Affrica;
questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche
nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell'antica
costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore,
forse l'unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà
senza l'uguaglianza.
Perocchè, ponendo un freno e un limite all'ambizione, e alla cupidigia
degl'individui, e togliendo [921]loro la facoltà di cangiare, e di avanzare
più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione
dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l'equilibrio, a mantenere
lo stato primitivo della repubblica (che dev'essere il principale scopo degl'istituti
politici), a perpetuare l'ordine stabilito ec. ec.
Vero è però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito
che si possano trovare i grandi vantaggi della libertà. Si troverà
la quiete, e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per
qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere
i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere,
senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene.
Ma l'entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare
che si possano compatire con questa costituzione. Tolte le due molle dell'ambizione
e della cupidigia, vale a dire dell'interesse proprio; tolta quasi la molla
della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l'inattività,
e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale
ec. L'interesse proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo
meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non
sarebbe [922]legato, o certo poco legato, coll'avanzamento individuale, e di
quello stesso che avesse procurato l'avanzamento della patria; di più
non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non
sentendo intimamente di far parte della patria, e d'esser compatriota de' suoi
capi; l'amor patrio in questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente
esistere, o certo non dev'esser molto forte, nè cagione di grandi effetti,
nè capace di spingere l'individuo a grandi sacrifizi.
Il fatto dimostra queste mie osservazioni. Perchè una conseguenza immancabile
di questa costituzione, dev'essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo,
ancorchè libero, e quanto all'interno, durevole nella sua libertà,
e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore. Ora ecco
appunto che Arriano ci dice, come gl'indiani non solo non furono mai conquistatori,
ma per una parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione ??????????????? ??
??? ??? ?????? ??? ?????? fino ad Alessandro (l.c. c.9. sect.10. p.569); ed
ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale, ed interna, il loro
stato potè durare lungamente: per l'altra parte era pure opinione (sect.12.
p. cit.) ?? ??? ?? ???? ?????? ???? ??? ??? ??????? ???????? ??? ??????, ???
?????????? (ad bellum missum [923]esse. interpres). E altrove più brevemente:
(c.5. sect.4. p.558.) ???? ?? ? ?????????? ?????, ???? ??????? ?????????????
?????????? ???????????, ???? ????????? ?????? ?????????. Cioè fino ad
Alessandro. Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo
riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno
queste cose tra loro. V. p.943. capoverso 2.
Il fatto sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità
di conquistatrice, come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da
quello che ho ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è
pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce
dalle sue conquiste e da' suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco
[appoco] l'uguaglianza, senza cui non c'è vera libertà, e cangiano
i costumi, lo stato primitivo, l'ordine della repubblica; sicchè finalmente
la precipitano nella obbedienza. Cosa anche questa dimostrata dal fatto.
(4-6. Aprile 1821.)
Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente
derivante dalla natura, posta la società, com'è naturale l'amor
proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia, che si vede
anche ne' bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon frutto
senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che anche
ne sono il fondamento. L'uomo non è sempre ragionevole, ma sempre conseguente
in un modo o nell'altro. Come dunque amerà [924]la sua patria sopra tutte,
e come sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da
questo amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna
di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto più
s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei? Come sarà
intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti
i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al dominio forestiero,
se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e peggio, se lo crederà
migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto o voluto ragionare
sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella
sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della
patria ec. ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse
il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico,
che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così
nel fatto, si sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza
dello spirito e del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento,
della inclinazione, e dell'azione. E questi pregiudizi che si rimproverano alla
Francia, perchè offendono l'amor proprio degli stranieri, sono la somma
salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli antichi;
[925]la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi
che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione,
e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene
così colta ed istruita (cose contrarissime all'amor patrio), tuttavia
serba ancora, forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione.
E non è dubbio che dalla forza di questi pregiudizi, come presso gli
antichi, così nella Francia, doveva seguire quella preponderanza sulle
altre nazioni d'Europa, ch'ella ebbe finora, e che riacquisterà verisimilmente.
(6. Aprile 1821.)
Si considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa
meno necessaria di tutte le altre. Perchè tutte le necessità o
desiderabilità hanno la loro ragione nella vita, la quale, massime priva
delle cose o necessarie o desiderabili, non ha la ragione della sua necessità
o desiderabilità in nessuna cosa.
(6. Aprile 1821.)
La superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti
delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi
del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere
tutte le persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente [926]il
più istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica
(parte principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello
che la natura aveva già trovato da se nella società primitiva,
cioè rendere all'uomo sociale quella giusta libertà ch'era il
cardine di tutte le antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte,
e così oggi presso tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso
tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di
quella barbarie primitiva, e non di corruzione.
(6. Aprile 1821.)
Alla p.872. E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona
creanza le lodi di se medesimo, se non perchè offendono l'amor proprio
di chi le ascolta. E perciò la superbia è vizio nella società,
e perciò l'umiltà è cara, e stimata virtù.
(7 Aprile 1821.)
In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano grandi errori contrari
alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non
s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono. E questo è
l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi,
ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente
compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi,
e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche
oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di vero grande nè di
vero bello, e ciò tanto [927]riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo
e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione.
E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi,
è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima
parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani
dalla corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli
orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si
trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte
contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare.
E si può dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del
bello, può venire in paragone de' greci e de' Romani. Il che può
derivare anche da questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come
degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec. ec. essendo venuti
più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi,
la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità,
col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci
è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta
naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della
grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa [928]e
signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi
ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi
più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di grande
e di bello rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in qualunque
memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità, della
quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli. ??????????????????????????????.
Platone in persona di quel sacerdote Egiziano.
(10. Aprile 1821.). V. p.2331.
Spegnere parola tutta propria oggi degl'italiani, non pare che possa derivare
da altro che da ????????? mutato, oltre la desinenza, il ? in p, mutazione ordinaria
per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio
? in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da
annus fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta parola
greca, è necessario supporre ch'ella fosse usitata nell'antico latino,
(sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere esistessero
già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel passare questa
parola dal latino in italiano) tanto più che l'uso del detto verbo spegnere
è limitato, (cred'io) alla sola Italia. Il Forcellini non ha niente di
simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp. Parimente
il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10. Aprile 1821.)
La lingua Sascrita, quell'antichissima lingua indiana, che quantunque diversamente
alterata e corrotta, e distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla
in tutto l'Indostan, [929](Annali di Scienze e Lettere Milano. 1811. Gennaio.
vol.5. n.13. Vilkins, Gramatica della lingua Sanskrita: articolo tradotto da
quello di un cospicuo letterato nell'Edinburgh Review. p.28-29-31. fine-32.
principio. e 32. mezzo. 35. fine-36. principio) e altre parti dell'India, (ivi
28. fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste
all'oriente della medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William (Guglielmo)
Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì
delle lingue orientali e occidentali (ivi 37. princip. e fine), non dubitò
di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della
Latina, e dell'una e dell'altra più sapientemente raffinata (ivi 52.);
quella lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro
secolo, non senza appoggio di notabili argomenti e confronti, che sieno derivate,
o abbiano avuto origine comune con lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l'antica
Egiziana o Etiopica (come pure i culti popolari primitivi di tutte queste nazioni)
(ivi. 37.38. princip. e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima,
perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi (i
suoi otto casi rendono superfluo l'uso delle preposizioni. ivi 52. fine), ma
le adopera esclusivamente da prefiggersi ai verbi, come si fa in greco, laddove,
sole, rimangonsi prive affatto d'ogni significato. (ivi.) Così che tutte
le sue preposizioni sono destinate espressamente ed unicamente alla composizione,
e a variare e moltiplicare col mezzo di questa, i significati [930]dei verbi.
(Altre particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle particolarità
e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente l'osserva l'Estensore
dell'articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d'esso articolo, cioè
dalla metà della p.52. a tutta la p.53.).
(11. Aprile 1821.)
Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria
rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede, o per rarefazione,
o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo
nè più nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare
e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società egoista. L'uno
premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza
di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un
vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che
ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica
dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria.
(11. Aprile 1821.)
A quello che ho detto delle guerre antiche paragonate colle moderne, aggiungete
che una nazione intera potrà muover guerra per qualche causa ingiusta,
(e ciò ancora più difficilmente che il principe), ma non mai per
un assoluto capriccio. Al contrario il principe. Perchè molti non possono
avere uno stesso capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile,
secondo le [931]teste, e senza una causa uniforme di esistere. Così che
la nazione non si può accordare tutta intiera in un capriccio. Ma s'ella
non ha bisogno di convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo,
e questo solo avendo capricci come gli altri perchè uomo, e più
degli altri perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della
guerra e della pace, e di tutto quello che spetta a' suoi sudditi; vedete quali
sono le conseguenze; osservate se combinino coi fatti, e poi anche ditemi se
dalla possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano
esser più rare o più frequenti delle antiche.
(11. Aprile 1821.)
Non è cosa più dispiacevole e dispettosa all'uomo afflitto, e
oppresso dalla malinconia, dalla sventura presente, o dal presente sentimento
di lei, quanto il tuono della frivolezza e della dissipazione in coloro che
lo circondano, e l'aspetto comunque della gioia insulsa. Molto più se
questo è usato con lui, e soprattutto s'egli è obbligato per creanza,
o per qualunque ragione a prendervi parte.
(12. Aprile 1821.)
La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi e i moderni,
in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per
l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità
per l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna
età antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene
l'antichità era il tempo del bello, [932]e della immaginazione, tuttavia
anche allora la Grecia e l'Italia ne erano la patria, e il luogo. E quantunque
non fossero quei tempi adattati alla profondità dell'intelletto, al vero,
alla malinconia, contuttociò ne' Settentrionali si vede l'inclinazione
loro naturale a queste qualità, e negl'inni, nei canti, nelle sentenze
staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità
di pensiero, e la osservazione di certe verità che anche oggi in tanto
progresso della filosofia, non sono le più triviali. Insomma vi si nota
un carattere di pensiero diversissimo nella profondità, da quello de'
meridionali degli stessi tempi. (V. se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere,
Milano. vol.6. n.18. Giugno 1811. Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni,
p.376-378. e 383 fine - 385. dove si riportano parecchi aforismi e documenti
de' Bardi.) Così per lo contrario, sebbene l'età moderna è
il tempo del pensiero, nondimeno il settentrione ne è la patria, e l'Italia
conserva tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello,
della sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità. In quello
dunque che ho detto de' miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla
filosofia, paragonandomi col successo de' tempi moderni agli antichi, si può
anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e settentrionali.
(12. Aprile 1821.)
L'estensione reale e strettamente considerata, della quale è capace una
lingua, in quanto lingua [933]usuale, quotidiana, propria, e materna, è
piccolissima; e molto minore che non si crede. Una stretta conformità
di linguaggio, e per conseguenza una medesima lingua strettamente considerata,
non è comune se non ad un numero ben piccolo di persone, e non occupa
se non un piccolo tratto geografico.
1. Ognuno sa e vede in quante lingue riconosciute, e scritte, e distinte con
precisione, sia divisa l'Europa, e il mondo, e come ciascuna nazione usi una
lingua differente precisamente dalle altre, e propria sua, sebbene possa aver
qualche maggiore o minore affinità colle forestiere.
2. Diffondendosi una nazione, ed occupando un troppo largo tratto di paese,
e crescendo a un soverchio numero d'individui, l'esperienza continua dei secoli,
e la fede di tutte le storie, dimostra che la lingua di quella nazione si divide,
la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia
veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è più
una. Così è accaduto alla lingua de' Celti, diffusi per la Gallia,
la Spagna, la Bretagna, e l'Italia ec. con che la lingua celtica s'è
divisa in tante lingue, quanti paesi ha occupato la nazione. Così alla
teutonica, alla slava ec. e fra le orientali all'arabica, colla diffusione de'
maomettani.
3. Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese
conquistato, e distrugga anche del tutto la lingua paesana, la sua lingua in
quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a diventare una
lingua diversa dalla introdottaci. Testimoni i Romani, [934]la cui lingua piantata
colla conquista nella Francia e nella Spagna, (per non estenderci ora ad altro)
e distrutta intieramente la lingua indigena (giacchè quei minimi avanzi
che ne potessero ancora restare, non fanno caso), non fece altro che alterandosi
a poco a poco, finalmente emettere dal suo seno due lingue da lei formalmente
diverse, la francese, e la spagnuola. Lo stesso si potrebbe dire d'infinite
altre famiglie di lingue Europee, e non Europee, che uscite ciascuna da una
lingua sola, colla diffusione dei loro parlatori, si sono moltiplicate e divise
in tante lingue quante compongono quella tal famiglia.
4. Anche dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità
naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese,
e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente
le lingue, o da qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla
mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende, a
misura che trova occupato il posto da altre, e ne le caccia: ma che è
un'impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto
il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più
che tanto, si dividerebbe appoco appoco in più lingue. E ciò intendo
di confermare anche colle osservazioni seguenti.
5. Le colonie che trasportano di pianta una lingua in diversi luoghi, portandovi
i di lei stessi parlatori [935]naturali, sono soggette alla stessa condizione.
Testimoni i tre famosi e principali dialetti delle colonie greche, Jonico, Dorico,
Eolico, per tacere d'infiniti altri esempi.
6. Ciò non basta. Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti,
e forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo
più che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle
sue proprie viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua
primitiva, in proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione,
dalla prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura
se non in quel preciso e ristretto luogo dov'ella fu primieramente parlata.
Testimoni i moltissimi dialetti minori ne' quali era divisa la lingua greca
dentro la stessa Grecia, paese di sì poca estensione geografica, il Beotico,
il Laconico, il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi
i di lei dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto,
Cirenese, Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino,
Siciliano, Siracusano, Tarentino ec. (V. Sisti, Introduz. alla lingua greca
§.211.) Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, della
spagnuola, della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè
i loro parlatori siano più che tanto estesi di numero e di paese. Che
la lingua Ebraica fosse distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche,
dentro la stessa Cananea. v. Iudic. c.12. vers.5-6. e quivi i comentatori. La
lingua Caldaica ec. non è che un Dialetto dell'Ebraica. La samaritana
parimente; o l'ebraica è un dial. della Samarit. o figlia o corruzione
di essa. ec. De' tre dialetti egiziani-coptici tutti tre scritti, v. il Giorgi.
7. Neppur questo è tutto. Ma dentro i confini di un medesimo ed unico
dialetto, non v'è città, il cui linguaggio non differisca più
o meno, da quello medesimo della città più immediatamente vicina.
Non differisca dico, nel tuono e inflessione e modulazione della pronunzia,
nella inflessione e modificazione diversa delle [936]parole, e in alcune parole,
frasi, maniere, intieramente sue proprie e particolari. Questo si vede nelle
città di Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua
scritta italiana, non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì
fiorentina), si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana,
e dappertutto. Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco
è diverso dal campestre. Di più senza uscire dalla città
medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto,
secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi).
Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune,
neppure ad una stessa città, s'ella è più che tanto estesa,
e popolata. E così credo che avverrà pure in Parigi ec. V. p.1301.
fine.
Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed importanti. 1.
Che la diversità de' linguaggi è naturale e inevitabile fra gli
uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità
delle lingue, e la divisione e suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente
il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente
più che tanto numero di uomini. La confusione de' linguaggi che dice
la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque
effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella generazione umana,
e fatta proprietà essenziale delle nazioni ec.
2. Che il progetto di una lingua universale, (seppure per questa s'è
mai voluta intendere una lingua propria e nativa e materna e quotidiana di tutte
le nazioni) è una chimera non solo materialmente, e relativamente, e
per le circostanze e le difficoltà che risultano dalle cose quali ora
sono, [937]ossia dalla loro condizione attuale, ma anche in ordine all'assoluta
natura degli uomini; vale a dire non solamente in pratica, ma anche in ragione.
3. Considerando per l'una parte la naturale e inevitabile ristrettezza, che
ho detto, de' confini di una lingua assolutamente uniforme; per l'altra parte,
che la lingua è il principalissimo istrumento della società, e
che per distintivo principale delle nazioni si suole assegnare la uniformità
della lingua; ne inferiremo
I. Una prova di quello che ho detto p.873. fine-877. intorno alla ristrettezza
delle società primitive quanto all'estensione; cioè si conoscerà
come la natura avesse effettivamente provveduto anche per questa parte alla
detta ristrettezza.
II. Una nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto
all'incivilimento. Giacchè l'incivilimento essendo opera della società,
e andando i suoi progressi in proporzione della estensione di essa società
e del commercio scambievole ec.; e per l'altra parte, l'istrumento principale
della società essendo la lingua, e questa avendo fatto la natura che
non potesse essere uniforme se non fra pochissimi; si viene a conoscere come
anche per questa parte la natura si sia opposta alla soverchia dilatazione e
progresso della società, ed all'alterazione [938]degli uomini che ne
aveva a seguire. Opposizione che non si è vinta, se non con infinite
difficoltà, con gli studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo
forza alla natura, come si sono superate tutte le altre barriere che la natura
avea poste all'incivilimento e alla scienza.
III. Come la società, così anche la lingua fa progressi coll'estensione:
e la lingua di un piccolo popolo, è sempre rozza, povera, e bambina balbettante,
se non in quanto ella può essere influita dal commercio coi forestieri,
che è fuori anzi contro il caso. Si vede dunque che la natura coll'impedire
l'estensione di una lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento,
anzi anche la semplice maturità o giovanezza. Da ciò segue che
la lingua destinata dalla natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini,
era una lingua di ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima
influenza. Dunque segue che essendo la lingua l'istrumento principale della
società, la società destinata agli uomini dalla natura, era una
società di pochissima influenza, una società lassa, e non capace
di corromperli, una società poco maggiore di quella ch'esiste fra i bruti,
come ho detto in altri pensieri.
IV. Colla debolezza della lingua destinataci, la natura avea provveduto alla
conservazione del nostro stato primitivo, non solo in ordine alla generazione
contemporanea, [939]ma anche alle passate e future. Mediante una lingua impotente,
è impotente la tradizione; e le esperienze, cognizioni ec. degli antenati
arrivano ai successori, oscurissime incertissime debolissime e più ristrette
assai di quelle ristrettissime che con una tal lingua e una tal società
avrebbero potuto acquistare i loro antenati; cioè quasi nulle. Perchè
i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè comunicazione di
generazioni, perciò il bruto d'oggidì è freschissimo e
naturalissimo come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore.
Tali dunque saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle
sue facoltà. Il fatto lo conferma. Tutti i popoli che non hanno una lingua
perfetta, sono proporzionatamente lontani dall'incivilimento. V. p.942. capoverso
1. E finchè il mondo non l'ebbe, conservò proporzionatamente lo
stato primitivo. Così pure in proporzione, dopo l'uso della scrittura
dipinta, e della geroglifica. L'incivilimento, ossia l'alterazione dell'uomo,
fece grandi progressi dopo l'invenzione della scrittura per cifre, ma però
sino a un certo segno, fino all'invenzione della stampa, ch'essendo la perfezione
della tradizione, ha portato al colmo l'incivilimento. Invenzioni tutte difficilissime,
e soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la natura fosse lontana
dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.
E questo si può riferire a quello che ho detto [940]in altri pensieri
contro coloro che considerano l'incivilimento come perfezionamento, e quindi
sostengono la perfettibilità dell'uomo. Il quale incivilimento apparisce
e dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire, e molto meno perfezionare
senza l'invenzione della scrittura per cifre; invenzione astrusissma, e mirabile
a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare,
non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima serie di secoli,
com'è accaduto. Torno dunque a domandare se è verisimile che la
natura alla perfezione di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e
ordinato un tal mezzo ec. ec. Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua,
cosa anch'essa difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non
quello che riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua.
Lo stesso altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri.
ec. ec. V. p.955. capoverso 1. e il mio pensiero circa la diversità degli
alfabeti naturali.
Altro è la perfettibilità della società, altro quella dell'uomo
ec. ec. ec.
(12-13. Aprile 1821.)
Quello che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza,
si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in
quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento contrasta coll'aspetto
della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole:
amabilità che in [941]questo caso deriva dalla sorgente della compassione,
quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto,
nè provato il danno della sua debolezza. Al qual proposito si ha una
sentenza o documento de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano
così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio
sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della propria forza è
segno di codarda ferocia. (Annali di Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p.932.)
p.378.) L'uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente
dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza,
e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di
sentire l'amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri.
Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli,
ancorchè giustamente.
(13. Aprile 1821.)
A quello che ho detto altrove della derivazione del verbo tornare, si aggiunga,
che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale significa
la stessa cosa che in latino volvere. Giacchè appunto nello stesso modo,
da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare.
(13. Aprile 1821.)
[942] Alla p.939. La maravigliosa e strana immobilità ed immutabilità
(così la chiama l'Edinburgh Review negli Annali di Scien. e Lettere vol.8.
Dicembre 1811. n.24 Staunton, Traduz. del Ta-Tsing-Leu-Lee. p.300.) della nazione
Chinese, dev'esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver
essi alfabeto nè lettere, (l. cit. Rémusat, Saggio sulla lingua
e letteratura Chinese, dal Magasin Encyclopédique, p.324. fine) ma caratteri
esprimenti le cose e le idee cioè un dato numero di caratteri elementari
e principali rappresentanti le principali idee, i quali si chiamano chiavi,
e sono nel sistema di alcuni dotti Chinesi 214, (ivi p.313.319) in altri sistemi
molto più, in altri molto meno, (ivi p.319.) ma il sistema delle 214
è il più comune e il più seguito da' letterati chinesi
nella compilazione de' loro dizionarii. I quali caratteri elementari o chiavi
diversamente combinati fra loro (come ponendo sopra la chiave che rappresenta
i campi, l'abbreviatura di quella che rappresenta le piante, si fa il segno
o carattere che significa o rappresenta primizia dell'erbe e delle messi; e
ponendo questo medesimo carattere sotto la chiave che rappresenta gli edifizi,
si fa il carattere che significa tempio, cioè luogo dove si offrono le
primizie (l. cit. p.314.)) servono ad esprimere o rappresentare le altre idee:
essendo però le dette combinazioni convenute, e gramaticali, come lo
sono le chiavi elementari; altrimenti non s'intenderebbero. (p.319. fine.)
Nel qual modo e senso un buon dizionario chinese, secondo Abel-Rémusat
(Essai sur la langue et la littérature chinoise. Paris 1811. l. cit.
p.320.) dovrebbe contenere 35,000 [943] caratteri come ne contiene il Tching-tseu-toung,
uno de' migliori Dizionari che hanno i chinesi; secondo il Dott. Hager, (Panthéon
Chinois. Paris 1806. in-fol. Préface.) basterebbero 10,000 (ivi, e p.311.
nota.) La quale scrittura in somma appresso a poco è la stessa che la
ieroglifica. Paragonate gli Annali ec. sopracitati, vol.5. num.14. Hammer, Alfabeti
antichi e caratteri ieroglifici spiegati, artic. del Crit. Rew. p.144.-147.
col vol.8. n.24. p.297.-298. e p.313. 320. Questo paragone l'ho già fatto,
e trovatolo giusto.
(14. Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 2.
La lingua chinese è tutta architettata e fabbricata sopra un sistema
di composti, non solo quanto ai caratteri, de' quali v. il pensiero precedente
ma parimente alla pronunzia, ossia a' vocaboli. Giacchè i loro vocaboli
radicali esprimenti i caratteri non sono più di 352. secondo il Bayer,
e 383. secondo il Fourmont. Ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli
si diversifica talvolta per via di quattro toni, dell'uno dei quali si appone
loro il segno (Annali ec. p.317.-318. e 320. lin.7.), tutti gli altri vocaboli
Chinesi sono composti; come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando
si trasportano originalmente nelle nostre lingue. Annali ec. l. cit. nel pensiero
anteced. Rémusat p.319. mezzo-320. mezzo.
(14. Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 1.
Alla p.923. marg. Un tal popolo dev'essere insomma necessariamente stazionario.
E qual popolo infatti è più maravigliosamente stazionario del
Chinese, (v. qui dietro p.942. princip.) nel quale abbiamo osservato una somigliante
costituzione? Sir George (Giorgio) Staunton, Segretario d'Ambasciata nella missione
di Lord Macartney presso l'Imperatore della China, nella introduzione alla sua
versione inglese del Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come
[944]fra le cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti,
secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere
agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la quasi
totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione della
proprietà fondiaria; e LA NATURALE INCAPACITÀ ED AVVERSIONE E
DEL POPOLO E DEL GOVERNO AD ESSERE SEDOTTI DA MIRE D'AMBIZIONE, E DA DESIO D'ESTERE
CONQUISTE. Edinburgh Review loco citato qui dietro (p.942. principio.) p.295.
Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso articolo (Annali
di Sc. e Lettere. Milano. Gennaio 1812. vol. IX. n.25. p.42. mezzo) nomina (ad
altro proposito) la istituzione delle caste dell'India, dove io l'ho già
notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di più nell'antico Egitto.
Questo lo fa incidentemente, sicchè non ha verun'altra parola su questo
punto.
(14. Aprile 1821.)
Alla p.943. Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue
nella moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della
costruttura della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo
numero degli elementi dell'idioma.
(14. Aprile 1821.)
Alla p.943. In somma la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole
(che le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere,
che sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò
tutti osservano [945]che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente
dalla parola: (Annali ec. p.316. p.297.) così che si potrebbe trovare
qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere
una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o
in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi
quei vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza
della scrittura, e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non
hanno nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè
stile, e conviene prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le loro poesie
non sono composte di versi, nè le prose oratorie di periodi; (p.297.)
il genio della lingua non ammette il soccorso delle comuni particelle di connessione,
e presenta meramente una fila d'immagini sconnesse, i cui rapporti debbono essere
indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro qualità. ([p.] 298.)
E così viceversa bene spesso taluni, dopo avere soggiornato venti anni
alla China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile,
benchè sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere. (p.316.).
(14. Aprile 1821.)
Si condanna, e con gran ragione, l'amor de' sistemi, siccome dannosissimo al
vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se
ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei
pensatori. Frattanto però io dico che qualunque uomo ha forza di pensare
da se, qualunque s'interna colle sue proprie facoltà e, dirò così,
co' suoi propri passi, nella considerazione delle cose, in somma qualunque vero
pensatore, non può assolutamente a meno di non formarsi, o di non seguire,
o generalmente di non avere un sistema.
[946]1. Questo è chiaro dal fatto. Qualunque pensatore, e i più
grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori
o sostenitori di qualche sistema, più o meno ardenti e impegnati. Lasciando
gli antichi filosofi, considerate i moderni più grandi. Cartesio, Malebranche,
Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma
tutti quanti. Non v'è un solo gran pensatore che non entri in questa
lista. E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori
nella morale, nella politica, nella scienza dell'uomo, e in qualunque delle
sue parti, nella fisica, nella filosofia d'ogni genere, nella filologia, nell'antiquaria,
nell'erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata
ec. ec.
2. Come dal fatto così è chiaro anche dalla ragione. Chi non pensa
da se, chi non cerca il vero co' suoi propri lumi, potrà forse credere
in una cosa a questo, in un'altra a quello, e non curandosi di rapportare le
cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro,
restare affatto senza sistema, e contentarsi delle verità particolari,
e staccate, e indipendenti l'una dall'altra. E questo ancora è difficilissimo,
perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano
sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo,
secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano. Ma il
pensatore non è così. Egli cerca naturalmente e necessariamente
un filo nella considerazione delle cose. È impossibile [947]ch'egli si
contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E se se ne contentasse,
la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun
risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di questa parola)
è il trovar le ragioni delle verità. Queste ragioni non si trovano
se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare.
Non è ella, cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce
il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione
de' rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque
cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà
del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è
passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha
trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione
di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno
esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo
nelle sue parti.
3. Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè
dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare.
Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da
pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali. Questi sono i
vizi de' piccoli spiriti, parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità
che hanno di persuadersi; parte per la pestifera smania di formare sistemi,
inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque maniera, affine [948]d'imporre
alla moltitudine, e parer d'assai. Allora l'amor di sistema, o finto, o vero
e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari
si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione
di essi particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva
esso accomodarsi. Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano
i particolari in quell'aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose
servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb'essere. Ma che
le cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo
e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d'altri), è non solamente
ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all'uomo, necessario; è
inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e concludo
che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore
per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch'ei possa essere, il
quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la
materia, e secondo che l'ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch'è
acuto e penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de' rapporti)
e ch'egli non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse,
ma si confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè
concetto chiaro e stabile intorno a veruna cosa. (I quali pure hanno sempre
un sistema, più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più
persuasivo e più chiaro e certo, che non l'hanno i pensatori.) Sia [949]pure
un sistema il quale consista nell'esclusione di tutti i sistemi, come quello
di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo.
(16. Aprile 1821.). V. p.950. capoverso 2.
Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima
opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle.
Poniamo per esempio un'opera scientifica. Se non è bella, la scusano
perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene.
Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque
cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per
qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di
Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di
tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore
e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è
chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi
o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello
in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono.
Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v'è cosa
di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l'esser
quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico dei libri, si deve estendere
a tutti [950]gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto.
(16. Aprile 1821.)
Rassegnato e sommesso, perchè l'indole degli abitatori determinata dall'influenza
del clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza,
l'Indiano, dice l'Autore (Collin di Bar, Storia dell'India antica e moderna,
ossia l'Indostan considerato relativamente alle sue antichità ec. Parigi
1815.), è capace de' più magnanimi sforzi. I popoli del nord della
penisola, meno ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo
il terrore della compagnia inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle
regioni gangetiche. (Fra questi deve intender certo i Maratti.) Spettatore di
Milano, Quaderno 43. p.113. Parte Straniera. 30. Dicemb. 1815. Dello stato e
genio pacifico degli antichi Indiani v. p.922. De' Cinesi parimente meridionali
v. p.943. capoverso ultimo.
(16. Aprile 1821.)
Alla p.949. Mancare assolutamente di sistema (qualunque esso sia), è
lo stesso che mancare di un ordine di una connessione d'idee, e quindi senza
sistema, non vi può esser discorso sopra veruna cosa. Perciò quelli
appunto che non discorrono, quelli mancano di sistema, o non ne hanno alcuno
preciso. Ma il sistema, cioè la connessione e dipendenza delle idee,
de' pensieri, delle riflessioni, delle opinioni, è il distintivo certo,
e nel tempo stesso indispensabile del filosofo.
(17. Aprile 1821.)
Lo Spettatore di Milano 15. Febbraio 1816. Quaderno 46. p.244. Parte Straniera,
in un articolo estratto dal Leipziger Litter. Zeitung, rendendo brevissimo conto
di un opuscolo [951]tedesco di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche nella
nostra lingua possiamo e dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso
Scherz, 1814. in 8° grande, dice che, fra le altre cose, l'autore intende
provare Che il miscuglio di parole straniere reca nocumento alla chiarezza delle
idee. (L'opuscolo è diretto principalmente contro il francesismo introdotto
e trionfante nella lingua tedesca, come nell'italiana.) Questo sentimento combina
con quello che ho svolto in altri pensieri, dove ho detto che le parole greche
nelle nostre lingue sono sempre termini, e così si deve dire delle altre
parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa sieno termini
e come si distinguano dalle parole. E infatti i termini, e le parole prese da
una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non chiare, e così
l'idea che risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè
quelle parole non esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle
qualità della cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così
che l'oggetto che esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla
mente con precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza:
perchè le parole non derivanti immediatamente dalle qualità della
cosa, o che almeno per l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di
suscitare nella nostra mente un'idea sensibile della cosa, non hanno [952]forza
di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente
ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono formalmente esprimere.
Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici con parole del
tutto straniere. Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la
chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono
massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella efficacia,
vivacità, e sensibilità, con cui esso ci fa concepire le cose
di cui tratta.
(17. Aprile 1821.)
Lo stesso autore nel medesimo opuscolo, come si vede nel luogo citato, alla
fine della detta pag.244. critica Herder che tante parole ha introdotto tolte
dal latino e dal greco. Questa critica è forse giusta anche rispetto
al latino, nella lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della
italiana, non essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto
alla francese, non essendole sorella, come la nostra. E quanto alla latina,
le deve bastare quello che per le circostanze de' tempi antichi ec. ella ne
ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani ec. ma questa fonte si deve ora
ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come quella che non ne deriva originariamente,
e vi ha solo attinto per cause accidentali. La lingua inglese sarebbe la più
atta a comunicare le sue fonti colla tedesca, e viceversa. V. p.1011. capoverso
2. Ma rispetto alla lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè
derivando ella dalla latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre
il fiume corre e non istagna. Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna
riguardare soprattutto di non chiudergli la sorgente; che questo è il
mezzo più sicuro e più breve di farlo corrompere e inaridire.
Quella lingua che ha prodotta, e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì
largamente la nostra. come si [953]dovrà stimare che non possa nutrirla
ed accrescerla, che non abbia più niente che le convenga di ricavarne?
Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua propria sostanza, e del proprio
succo, e di più l'ha allevata, e condotta a perfettissima maturità
e robustezza e vigore ec. come si dovrà credere e affermare che non sia
adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata? che il di
lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo nè
sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in abbondanza?
Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse perch'ella non
possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano più, e così
venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove? in qual terreno migliore,
e più appropriato di quello che l'ha prodotta e cresciuta a tanta grandezza,
prosperità, floridezza ec.?
Osservo ancora che l'italiano è derivato dalla corruzione del latino,
così che le parole e i modi della bassa latinità, se sono barbare
rispetto al latino, nol sono all'italiano; e la bassa latinità è
una fonte ricchissima e adattatissima anch'essa alla nostra lingua, ed io posso
dirlo con fondamento per osservazione ed esperienza particolare che ne ho fatto,
e cura che ci ho posto. Quante parole infatti dell'ottima lingua italiana, appartengono
precisamente alla bassa latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente
e considerar come barbaro assoluto quello ch'è solo barbaro relativo.
Per esempio [954]l'antica lingua persiana, cioè prima che fosse inondata
da parole arabe per effetto della conquista della Persia fatta dai Califi e
dagl'immediati successori di Maometto7, fu lingua purissima, fu scritta purissimamente
ebbe gran cura della purità nella scrittura, ed ebbe autori Classici
non meno stimati in Oriente una volta per la purità della lingua, di
quello che il fosse Menandro fra i greci. (ma de' cui scritti la più
gran parte è perita.) E Firdosi nel suo Shahnamah, e molti de' suoi contemporanei,
si vantano di usare il pretto Persiano, e di esser mondi da ogni parola araba
o forestiera (così che nel Dizionario di Richardson mancano nove decimi
delle parole da essi usate, per esser questo Dizionario fatto per la lingua
e i dialetti persiani moderni.) Ora qualunque purissima parola persiana, o di
qualunque purissima lingua d'oriente, antica o moderna, parrebbe a noi, non
solo impura, o barbara, ma intollerabile, suonerebbe peggio che barbaramente,
e ci saprebbe più che barbara nelle lingue nostre. Così dunque
se le parole della bassa latinità riescono barbare nel latino, non si
debbono stimare nè barbare nè impure in italiano, il quale deriva
dalla bassa latinità più immediatamente che dalla alta. Altrimenti
si dovranno stimar barbare tante parole purissime e italianissime che derivano
dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e come tali sono
registrate ne' Glossari latinobarbari.
Bensì bisogna distinguere i diversi generi che ci sono di bassa latinità.
Giacchè la bassa latinità germanica per esempio, in quanto è
piena di voci germaniche ec. sarà adattata a somministrar materia ad
altre lingue, ma non alla nostra. E perciò bisogna considerare che l'indole
[955]delle parole e frasi ec. del medio evo, sia conforme all'indole di quel
linguaggio dal quale è derivata la lingua italiana precisamente.
(17. Aprile 1821.)
Alla p.940. Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve applicare
proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente che le lingue vanno
sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine muoiono,
e loro ne sottentrano altre, secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni
ec. e delle circostanze fisiche, politiche, morali, ec. proprie dei diversi
secoli della società. In maniera che si può dire che come nessuna
lingua è stata, così neanche nessun'altra sarà perpetua.
(18. Aprile 1821.)
L'antichità e l'eccellenza della lingua sacra degl'indiani (sascrita),
hanno naturalmente chiamato a se l'attenzione e destato la curiosità
degli Europei. I ragguardevoli suoi titoli ad essere considerata come la più
antica lingua che l'uman genere conosca, muovono in noi quell'interesse da cui
le vetustissime età del mondo sono circondate. Costruita secondo il disegno
più perfetto forse che dall'ingegno umano sia stato immaginato giammai,
essa c'invita a ricercare se la sua perfezione si restringa ne' limiti della
sua struttura, o se i pregi delle composizioni indiane partecipino della bellezza
del linguaggio in cui sono dettate. Spettatore di Milano 15. Luglio 1817. Quaderno
80. parte straniera. p.273. articolo di D. Bertolotti sopra la traduzione inglese
del Megha [956]Duta, poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814. estratto
però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione,
come apparisce in parecchi luoghi, e fra l'altro da' puntini che il Bertolotti
pone dopo alcuni paragrafi di esso articolo, come p.274.275. ec.
(18. Aprile 1821.)
La lingua greca va considerata rispetto all'italiana nell'ordine di lingua madre,
(o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle parole. Dico quanto ai modi, massimamente
per la sua conformità naturale o somiglianza in questa parte colla lingua
latina sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli
scrittori latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca
le forme della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua
formata in grandissima parte sui modi della greca. Del che vedi un ell'articolo
del Barone Winspear (Bibliot. Ital. t.8. p.163.) nello Spettatore di Milano,
1. Settembre 1817. Parte italiana, Quaderno 83. p.442. dal mezzo al fine della
pagina. E così pure, parte per lo studio immediato de' greci esemplari,
(del che vedi ivi p.443. dal principio al mezzo) parte per lo studio de' latini,
e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per
una naturale conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione
della lingua nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella
B. Italiana [957]vol.1. p.15. la costruzione gramaticale di quella lingua è
capace di una perfetta imitazione de' concetti greci, a differenza della tedesca
della quale ha detto il contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima
e somma affinità fra l'andamento greco e l'italiano, massime nel più
puro italiano, e più nativo e vero, cioè in quello del trecento.
Da tutto ciò segue che la lingua greca, come madre della nostra rispetto
ai modi, sia e per ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire
la lingua italiana d'infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari)
e idiotismi ec. Non così quanto alle parole, che non possiamo derivare
dalla lingua greca che non è madre della nostra rispetto ad esse; fuorchè
in ordine a quelle che gli scrittori o l'uso latino ne derivarono, e divenute
precisamente latine, passarono all'idioma nostro come latine e con sapore latino,
non come greche. Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all'uso
dell'italiano, tuttavia soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione
che ci abbiamo, ai difetti notati da me p.951-952. Che p.e. chi dice filosofia
eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella
parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia, cioè la
derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che
produce la vivezza ed efficacia, [958]e limpida evidenza dell'idea, quando si
ascolta una parola.
(19. Aprile 1821.)
Una delle principali cagioni per cui l'infelicità rende l'uomo inetto
al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la forza, non
è altra se non che l'infelicità debilita l'amor di se stesso.
E intendo massimamente della infelicità grave e lunga. La quale col continuo
contrasto che oppone all'amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia
ostinatissima e fortissima che gli fa, e coll'obbligarlo ad uno stato contrario
del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente
illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo
a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi una tale infelicità,
se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso
ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in
tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto,
cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli
continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio,
in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo
e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la
sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l'amor di se stesso è l'unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti
umani, secondo ch'è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso,
grande o basso ec. [959]Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo
(cioè a quanto meno è possibile mentre l'uomo vive) l'elasticità
e la forza di molla, l'uomo non è più capace nè di azioni,
nè di sentimenti vivi e forti ec. nè verso se stesso, nè
verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec.
non lo può spingere altra forza che l'amor proprio, in quella tal guisa
applicato e diretto. E così l'uomo ch'è divenuto per forza indifferente
verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all'inazione
fisica e morale. E l'indebolimento dell'amor proprio, in quanto amor proprio
e radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè
il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell'indebolimento della
virtù, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della magnanimità, di tutto
quello che sembra a prima vista il più nemico dell'amor proprio, il più
bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrariato
e danneggiato dalla forza dell'amore individuale. Così il detto indebolimento
secca la vena della poesia, e dell'immaginazione, e l'uomo non amando, se non
poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto,
non sente più la natura, nè l'efficacia della bellezza ec. Una
nebbia grevissima d'indifferenza sorgente immediata d'inazione e insensibilità,
si spande su tutto l'animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che [960]egli
è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell'oggetto ch'è
il solo capace d'interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti
gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto nell'uomo dall'infelicità, è
la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com'è vivifica
e principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso:
e questa è una qualità primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente,
innanzi all'esperienza. ec. ec. Così pure l'uomo che ha perduto, o per
viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni
e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più
buono a niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo
questa qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola
bene.
(19. Aprile 1821.)
Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità,
e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria
dell'uomo, facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze
possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio,
e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore
o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo
movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati
da diverse cagioni.
(19. Aprile 1821.)
[961]Alla p.786. E prima della potenza Ateniese e degl'incrementi di quella
repubblica, essendo il dialetto ionico il più copioso, come pare, di
tutti gli altri nello stato d'allora, per lo molto commercio della nazione o
nazioni e repubbliche che l'usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura
greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore
ad Erodoto che molto prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e
da molti altri di gran fama. Così che Giordani crede (B. Ital. vol. 2.
p.20.) che Empedocle (il quale parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse
di adoperare il dialetto (dorico) della sua patria e della sua scuola (Pitagorica)
non perchè fosse o più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè
vedesse più frequentato fuori della Grecia l'ionico, al quale Omero,
Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità.
Di maniera che ancor dopo prevaluto l'attico si seguitò da alcuni a scrivere
ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua
antica fama. Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa
di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose
indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio. Ora questo dialetto
ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti
i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene ????
????? lib. II. p.513. notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus
(notante etiam Porphyr. ap. Eus. l.10. praep. c.2. p.466.) usum ?????? ?????,
Herodotum ?????????. (Fabric. B. G. II. c.20. §.2. t. I. 697. nota K.)
cioè l'uno del dialetto ionico puro, l'altro del dialetto ionico variato
o misto. E contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino
Dionigi d'Alicarnasso (Epist. ad Cneium Pompeium p.130. Fabric.) ??????????????????(?.
(20. Aprile. Venerdì Santo. 1821.)
Sono perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto
le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille. I nostri traduttori imitan bene;
tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol
sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la
sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera
non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la georgica dell'abate De-Lille,
n'è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla
romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne
lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi
a quelle, ne perderebbe ogni decoro. Staël, B. Ital. vol.1. p.12. Esaminiamo.
Che la traduzione del Delille sia migliore d'ogni altra traduzione francese
qualunque (in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i
francesi meglio che gli stranieri. Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione
e l'originale, vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che
i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi
tanta, quanta mai si possa trovare in versione francese) questo giudizio spetta
piuttosto agli stranieri che a' francesi, e noi italiani massimamente siamo
meglio [963]a portata, che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.
Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più
familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità
delle scritture fatte in qualunque lingua. Come il pensiero, così il
sentimento delle qualità spettanti alla favella, sempre si concepisce,
e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale. I modi, le forme, le parole, le
grazie, le eleganze, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto
quello mai che può spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso
straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai nè si gusta se
non in relazione colla lingua familiare, e paragonando più o meno distintamente
quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell'ardimento, quella
eleganza ec. in nostra lingua. Di maniera che l'effetto di una scrittura in
lingua straniera sull'animo nostro, è come l'effetto delle prospettive
ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte
e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera
oscura è adattata a renderle con esattezza; sicchè tutto l'effetto
dipende dalla camera oscura piuttosto che dall'oggetto reale. Così dunque
accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati
o a rendersi familiare un'altra lingua invece della propria, o a rendersene
familiare e quasi propria più d'una, con grandissimo uso [964]di parlarla,
o scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue
morte, forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità
delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle.
E l'effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa
facoltà nella propria. Ora la facoltà di adattarsi alle forme
straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si può
stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro
che adoprano la francese.
Notate ch'io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere. Questo
è opera dell'intelletto il quale si serve di altri mezzi. E quindi i
francesi potranno intendere e conoscer benissimo le altre lingue, senza però
gustarle nè sentirle più che tanto.
Ho detto che gl'italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque
altro. 1. La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato
di lingue che una lingua, laddove la francese è unica. Quindi nell'italiana
è forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi
alle forme straniere, non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando
la corrispondente, e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera,
per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione
e immaginazione. E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà
è certo minore che in qualunque altra. 2. Queste considerazioni rispetto
alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta
della lingua latina, o della greca. Perchè alle forme di queste lingue,
la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua
del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre
conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e
di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere.
Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n'è allontanata
più che qualunque altra sorella o affine. E il genio della lingua francese
è tanto diverso da quello della latina, quanta differenza mai si possa
trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno stesso clima, ad una
stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec. La somiglianza delle parole,
cioè l'essere grandissima parte delle parole francesi derivata dal latino,
non fa nessun caso, essendo una somiglianza materialissima, e di suono, non
di struttura: anzi neppur di suono, per la somma differenza della pronunzia.
Ma in ogni caso il suono e la struttura sono cose indipendenti, così
che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui parole avessero un'etimologia
comune, [966]e nondimeno esser lingue diversissime.
In conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l'andamento, il carattere
di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l'opposto, io dico che
in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua
propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le
qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello
che i francesi che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non
hanno se non ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo
in tutto ciò che spetta alla lingua.
Passo anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi
che a qualunque altra nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma
anche il formarsi un'idea precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente
anche l'imparare le lingue altrui. Dice ottimamente Giordani (B. Italiana vol.3.
p.173.) che Niuna lingua, nè viva nè morta, si può imparare
se non per mezzo d'un'altra lingua già ben saputa. Questo è certissimo.
S'impara la lingua che non sappiamo, barattando parola per parola e frase per
frase con quella che già possediamo. Ora se questa lingua che già
possediamo, non si presta se non pochissimo e di pessima voglia e difficilissimamente
a questi baratti, è manifesto che la difficoltà d'imparare le
altre lingue, dovrà essere in proporzione. E siccome questa lingua già
posseduta è [967]l'unico strumento che abbiamo a formare il concetto
della natura forza e valore delle frasi e delle parole straniere, se lo strumento
è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente sarà anche l'effetto.
Ciò è manifesto 1. dal fatto. La gran difficoltà di certe
lingue affatto diverse dal carattere delle nostrali, consiste in ciò,
che cercando nella propria lingua parole o frasi corrispondenti, non le troviamo,
e non trovandole non intendiamo, o stentiamo a intendere, o certo a concepire
con distinzione ed esattezza la forza e la natura di quelle voci o frasi straniere.
2. da una ragione anche più intimamente filosofica e psicologica delle
accennate. Le idee, i pensieri per se stessi non si fanno vedere nè conoscere,
non si potrebbero vedere nè conoscere per se stessi. A far ciò
non c'è altro mezzo che i segni di convenzione. Ma se i segni di convenzione
son diversi, è lo stesso che non ci fosse convenzione, e che quelli non
fossero segni, e così in una lingua non conosciuta, le idee e pensieri
che esprime non s'intendono. Per intendere dunque questi segni come vorreste
fare? a che cosa riportarli? alle idee e pensieri vostri immediatamente? come?
se non sapete quali idee e quali pensieri significhino. Bisogna che lo intendiate
per mezzo di altri segni, della cui convenzione siete partecipe, cioè
per mezzo di un'altra lingua da voi conosciuta; e quindi riportiate quei segni
sconosciuti, ai segni [968]conosciuti, i quali sapendo voi bene a quali idee
si riportino, venite a riportare i segni sconosciuti alle idee, e per conseguenza
a capirli. Ma se il numero dei segni da voi conosciuti è limitato, come
farete a intendere quei segni sconosciuti che non avranno gli equivalenti fra
i noti a voi? Non vale che quei segni sconosciuti corrispondano a delle idee,
e che voi siate capacissimo di queste idee. Bisogna che sappiate quali sono
e che lo sappiate precisamente, e non lo potete sapere se non per via di segni
noti. Bisogna che se p.e. (e questo è il principale in questo argomento)
quei segni sconosciuti esprimono un accidente, una gradazione, una menoma differenza,
una nuance di qualche idea che voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere
con segni noti, voi intendiate perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro
e limpido di quella tale ancorchè menoma gradazione; e se questa non
si può esprimere con verun segno a voi noto, come giungerete al detto
effetto? Solamente a forza di conghietture, o spiegandovisi la cosa a forza
di circollocuzioni. Con che non è possibile, o certo è difficilissimo
che voi giungiate a formarvi un'idea chiara, distinta ec. di quella precisa
idea, o mezza idea ec. espressa da quel tal segno. E perciò dico che
i francesi non sono ordinariamente capaci di concepire le proprietà delle
altre lingue, se non in maniera più o meno oscura, ma che [969]sempre
conservi qualche cosa di confuso e di non perfetto. Ciascuna lingua (lasciando
ora le parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò
ad altre lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca)
ha certe forme, certi modi particolari e propri che per l'una parte sono difficilissimi
a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l'altra parte costituiscono
il principal gusto di quell'idioma, sono le sue più native proprietà,
i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime,
recondite, e più sostanziali di quella favella. Nessuna lingua dunque
è uno strumento così perfetto che possa servire bastantemente
per concepire con perfezione le proprietà tutte e ciascuna di ciascun'altra
lingua. Ma la cosa va in proporzione, e quella lingua ch'è più
povera d'inversioni (Staël l.c. p.11. fine) chiusa in giro più angusto
(ib.), più monotona, (ib. p.12. principio), più timida, più
scarsa di ardiri, più legata, più serva di se stessa, meno arrendevole,
meno libera, meno varia, più strettamente conforme in ogni parte a se
stessa; questa lingua dico è lo strumento meno atto, meno valido, più
insufficiente, più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre
lingue, e delle loro particolarità.
Che se ciò vale quanto al perfetto intendere, [970] molto più
quanto al perfetto gustare, che risulta dal senso intero e preciso e completo
di qualità tanto più numerose, e tanto più menome e sfuggevoli,
e tanto più proprie ed intime e arcane e riposte e peculiari di quella
tal lingua. Una lingua, che come confessa un francese (Thomas, il cui luogo
ho riportato altrove) se refuse peut-être (à la grâce), parce
quelle ne peut nous donner ni cette sensibilité tendre et pure qui la
fait naître, ni cet instrument facile et souple qui la peut rendre; una
tal lingua dico, che è la francese, come potrà essere perfetto
istrumento per concepire e sentire come conviene, le grazie ec. delle altre
lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato, che a questo effetto, gli uomini
non hanno altro istrumento che la loro propria lingua, come potranno il più
de' francesi, ancorchè dotti e dilicati, sentire profondamente e perfettamente,
e formarsi idea netta di queste tali grazie, e vestirsi in somma intieramente,
com'è necessario, delle altre lingue, e del genio loro?
Il fatto conferma queste mie obbiezioni. Ciascun popolo ama di preferenza, e
gusta e sente la propria letteratura meglio di ogni altra. Questo è naturale.
Ma ciò accade sommamente ne' francesi, i quali generalmente non conoscono
in verità altra letteratura che la loro (dico letteratura, e non scienze,
filosofia ec.). [971] Le altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle
traduzioni, che essendo fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il
genio, la nessuna adattabilità della loro lingua, trasportano le opere
straniere non solo nella lingua, ma nella letteratura loro, e le fanno parte
di letteratura francese. Così che questa resta sempre l'unica che si
conosca in Francia universalmente, anche dalla universalità degli studiosi.
Ed è anche vero generalmente, che non solo non conoscono, ma noncurano,
e disprezzano, o certo sono inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere.
Che se non disprezzano la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini
sono conseguenti, viene ch'essi parlano come parla tutto il mondo che esalta
quelle letterature, viene ch'essi stimano quelle letterature come compagne o
madri della loro, e nel mentre che stimano la loro come la più perfetta
possibile, anzi la sola vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch'è
diversissima, e in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano
di proporsi per modello e norma, e citare al loro tribunale e confronto ec.
ec.; viene ch'essi credono di gustarle pienamente, e di giudicarne perfettamente
ec.
Ciascuno straniero è soggetto a cadere in errore giudicando dei pregi
o difetti di una lingua altrui, morta o viva, massime de' più intimi
e reconditi e particolari. E così giudicando di quei pregi o difetti
[972] di un'opera di letteratura straniera, che appartengono alla lingua, e
di tutta quella parte dello stile (ed è grandissima e rilevantissima
parte) che spetta alla lingua, o ci ha qualche relazione per qualunque verso.
Ma i giudizi de' francesi sopra questi soggetti, e de' francesi anche più
grandi e acuti e stimabili, sono quasi sempre falsi: in maniera che per lo più
la falsità loro, va in ragione diretta della temerità ed assurance
con cui sono ordinariamente pronunziati; vale a dire ch'è somma. E ordinariamente
i francesi, quando parlano di certe intimità delle letterature straniere,
appartenenti a lingua, fanno un arrosto di granciporri.
Questo quanto al gustare. Quanto all'intendere, il fatto non è meno conforme
alle mie osservazioni. Perchè la francese insieme coll'italiana, è
senza contrasto, la nazione meno letterata in materia di lingue, sia lingue
antiche classiche, cioè greca e latina, (nelle quali la Francia non può
in nessun modo paragonarsi all'Inghilterra, Germania, Olanda ec.) sia lingue
vive, delle quali la maggior parte dei francesi si contenta di essere ignorantissima,
o di saperne quanto basta per usurpare il diritto di sparlarne, e giudicarne
a sproposito e al rovescio. Nell'Italia (dove però l'ignoranza non è
tanto compagna della temerità) [973] il poco studio delle lingue morte
o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e dalla generale inerzia
che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi regna. Ed ella non è
più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o di studi, o
di qualsivoglia disciplina, e professione della vita. Ma nella Francia le circostanze
sono opposte: in luogo che vi regni l'inerzia, vi regna l'attività e
le ragioni di lei; in luogo che vi regni l'ignoranza, vi regnano tutte le altre
maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone discipline e professioni
fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione geografica, e tutte le
altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale relazione co' forestieri,
tanto nell'interno della Francia stessa, quanto fuori. Perchè dunque
ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni nella poca e poco generale
coltura delle lingue altrui, vive o morte? Fra le altre cagioni che si potrebbero
addurre, io stimo una delle principali quella che ho detto, cioè la difficoltà
che oppone la loro stessa lingua all'intelligenza e sentimento delle altre,
e l'insufficienza dello strumento che hanno per procacciarsi e la cognizione,
e il gusto delle lingue altrui.
[974] Una celebre Dama Irlandese morta pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce
come cosa notabile che di tanti emigrati francesi che soggiornarono sì
lungo tempo in Inghilterra, nessuno o quasi nessuno, quando tornarono in Francia
coi Borboni, aveva imparato veramente l'inglese, nè poteva portar giudizio
se non incompleto, inesatto, anzi spesso stravagantissimo e ridicolo, sopra
la lingua e letteratura inglese; sebbene tutte erano persone ottimamente allevate,
e ornate, qual più qual meno, di buoni studi.
Io non intendo con ciò di detrarre, anzi di aggiungere alla gloria di
quei dottissimi e sommi letterati francesi che malgrado tutte le dette difficoltà,
facendosi scala da una ad altra lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi
delle altrui lingue e letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec. sono
divenuti così padroni delle lingue e letterature straniere che hanno
coltivate, ne hanno penetrato così bene il gusto ec. quanto mai possa
fare uno straniero, e forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale. (Cosa
per altro rara, che, eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore
francese, massime oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità
della lingua e letteratura italiana: e così discorrete delle altre).
E non ignoro quanto debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai
[975] dotti francesi di questo e del passato secolo. Ma questi tali dotti presenti
o passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e letteratura
loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome
è costume naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente conosce
ed intende.
(20-22. Aprile. Giorno di Pasqua. 1821.). V. p.978. capoverso 3.
Tra i libri diversi si annunziano le Lettere sull'India di Maria Graham, autrice
di un Giornale del suo soggiorno nell'India, nelle quali campeggia un curioso
paragone del Sanscritto col latino, col persiano, col tedesco, coll'inglese,
col francese e coll'italiano, e si parla pure a lungo delle principali opere
composte in Sanscritto. Bibl. Italiana vol.4. p.358. Novembre 1816. n.11. Appendice.
Parte italiana. rendendo conto del Giornale Enciclopedico di Napoli n. V.
(22. Aprile 1821.)
Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l'uguaglianza dei globi che
compongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all'opposto),
nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente
l'uguaglianza naturale degl'individui di una medesima specie.
(22. Aprile 1821.)
La scrittura dev'essere scrittura e non algebra; [976] deve rappresentar le
parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti,
ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo, è ufficio delle parole così
rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti,
di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda
la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più
scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le
vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura
non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se
non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? Imparate imparate l'arte dello
stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte
che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è necessario
possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà,
in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il
lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel
leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole,
e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura
che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni
ec. Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella
maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una [977] delle somme
cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore
volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato
mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre
scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà.
E che difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere
il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de' campanelli col tin
tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell'Eleonora. B. Ital. tomo 8.
p.365.) Questa è l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è
tutt'una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni,
sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22. Aprile. Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento
che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più
esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia,
come se nella scultura che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro,
o le parrucche invece delle chiome scolpite. E così appunto si deve dire
in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del
suo strumento. Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]
cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che
confonde la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle
balie, de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si
fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza
che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
(23. Aprile. 1821.)
Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo,
o il timido e vile, o il debole e misero.
(23. Aprile. 1821.)
Per l'invenzione della polvere l'energia che prima avevano gli uomini si trasportò
alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicchè ella
ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare. B. Italiana t.5. p.31. Prospetto
Storico-filosofico ec. del Conte Emanuele Bava di S. Paolo, 2° ed ult. estratto.
(23. Aprile 1821.)
Alla p.975. Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento
a gustare una lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio;
nè una lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare
una lingua naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche,
orientali come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè
una lingua che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai
modi ec. (????? ?? ?????) a gustare le proprietà [979] delle altre lingue.
(24. Aprile. 1821.)
Passa rapidamente sulla ricerca del linguaggio de' primi abitatori dell'Italia,
e sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la
latina, derivassero dall'indiana, giacchè i popoli indiani dalle spiagge
dell'Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella Grecia
ed in Italia. Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè
quella derivata, secondo il Ciampi, dall'indiana), non perciò perirono
l'etrusca, l'osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè
queste non formassero la lingua della capitale e del governo, continuarono forse
a parlarsi dal volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse
provincie d'Italia è tuttora tenace dei propri dialetti. Infatti alcune
voci toscane sono ancora probabilmente di origine etrusca. Biblioteca Italiana
tomo 7. pag.215. rendendo conto dell'opera del Ciampi intitolata De usu linguae
italicae saltem a saeculo quinto R. S. Acroasis. Accedit etc. Pisis. Prosperi.
1817.
(24. Aprile 1821.)
Trae perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata
dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in
molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne [980] mette fuori di dubbio
la rimota antichità. Bibl. Ital. l. cit. nel pensiero antecedente, rendendo
conto della stessa opera. p.217. fine.
(24. Aprile 1821.)
La lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all'Oriente,
non meno che si propagò in amendue le Gallie all'Occidente; e il nome
Romania, che fino a' nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata
dai Valacchi: ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore
recente ce lo conferma) (vedi Caronni in Dacia. Milano, 1812. pag.32.) non che
il gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono
una prova convincente. Articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di
Milano. 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.245. fine. (25. Aprile 1821.).
Basta che la voce OCO che significa anch'essa OCCHIO in russo, (cioè
oltre la voce Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all'OCULUS de'
latini, onde dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina,
che la parola OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo della
parola OCCUS o OCCOS che significava un OCCHIO in greco antico, come lo attestano
Esichio ed Isidoro. Luogo citato qui sopra, p.244. principio. Sì dunque
la voce russa Oco derivata dal latino mediante la propagazione [981]della lingua
latina nell'Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244. verso il
mezzo ec. e Bibl. Italiana vol. 8. p.208. rendendo conto dell'opera dello stesso
Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l'on découvre entre
la langue des Russes et celle des Romains. Milan. 1817. chez Stella, en 4°.
gr. dove l'autore dimostra questa propagazione.) essendo la lingua russa figlia
dell'illirica (ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia
oco, aspirando il c all'uso spagnuolo) dimostrano che quell'antichissima voce
occus, benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel
latino volgare. (25. Aprile 1821.). Occhio però viene da oculus come
da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l'antico sonnoCCHIoso, da auricula, orecchia,
da geniculum o genuculum, ginocchio (v. pag.1181. marg.), da foeniculum, finocchio,
da macula, macchia, da apicula o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna
notare che anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula,
ovicula ec.) da ungula, unghia ec. V. p.2375. (e la p.2281. e segg.).
Alla p.740. La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per
la grande ignoranza in cui erano i greci del latino. La quale si fa chiara sì
da altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino
nel giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione
alla Vita di Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin. p.134.) sì
ancora da questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi
greci, colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano
parole latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica
notò il Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto
secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente
scritte in caratteri latini. (Didym. Alexandr. De Trinitate Lib.1. cap.15. Bonon.
typis Laelii a Vulpe 1769. fol. p.18. gr. et lat. cura Johannis Aloysii Mingarellii.
Vide ib. eius not.3. e la Lettera a Mons. Giovanni Archinto Sopra un'opera inedita
di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del
Calogerà 1763. tomo XI. e ristampata nell'Appendice alla detta opera:
Cap.3. pag.465. fine-466. principio. del che non si troverà [982]così
facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra sì
che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi
del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine,
com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario
de' latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec. Quanto
poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità
anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani
si può raccogliere da queste parole del Cav. Hager, nel luogo cit. qui
dietro (p.980.) p.245. Basta consultare la celebre opera di S. Agostino, DE
CIVITATE DEI, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti
d'imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a' popoli da loro
sottomessi: Opera data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam
linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib. XIX, cap.7.)
Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in
lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam
nisi latine responsa darent, (Lib. II., c.2. n.2.) e ciò quantunque la
lingua greca fosse tanto famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la
lingua latina obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi
per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam... per interpretem loqui cogebant...
quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur.
(ibid.) [983]E tuttavia la Grecia resistè. Ma dopo Costantino, alla Corte
Bizantina, segue lo stesso autore l.c. come si osserva da S. Crisostomo (adv.
oppugnatores vitae monasticae. Lib. III. tom. I., p.34. Paris. 1718, edit Montfaucon.)
era un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a' tempi di Giustiniano,
le leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino.
E soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE furono pubblicate a Costantinopoli
in latino.
(25. Aprile 1821.)
Nelle Mémoires de l'Acad. des Inscriptions, Tom.24. si trova: Bonamy,
Réflexions sur la langue latine vulgaire. (25. Aprile 1821.). E son pur
da vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711. p.914.
Un nostro missionario (cioè italiano) il P. Paolino da S. Bartolomeo,
mostrò l'affinità della lingua tedesca con una lingua indiana
non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola,
con la samscrdamica (cioè sascrita: così la nomina anche p.208.
samscrdamica) che è la madre di tutte le lingue delle Indie. Bibliot.
Ital. vol.8. p.206.
(25. Aprile 1821.)
Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco ????, è cosa evidente,
come pure i derivati, serpyllum etc. Ma che gli antichi latini, e successivamente
il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo stesso verbo senza
la [984]s, come in greco, lo raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o
innerpicare che significa appunto lo stesso che il greco ??????, composto di
????, cioè sursum repo, come anche ???????. (Del verbo ?????? non ha
esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo. Ve n'è però esempio
in Arriano, Expedit. lib.6. c.10. sect.6. e nell'indice è spiegato sursum
serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè
nella latina conosciuta, così l'ha evidentissima nel detto verbo ????,
dal quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè
mediante l'uso del volgo romano, differente in questo dagli scrittori.
(25 Aprile 1821.)
Delle qualità e pregi della lingua Sascrita, v. alcune cose estratte
da un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791. 24. Nov. p.365.
colonna 1. Dell'abuso ch'ella fa talvolta de' composti v. ib. p.363. colonna
2. fine. Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli antichi scrittori,
e massime poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la natura de' popoli orientali
che sogliono sempre e in ogni genere spingersi fino all'ultimo e intollerabile
eccesso delle cose.
(25. Aprile 1821.)
La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli
altri pensieri, ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati,
e generalmente negli uomini. La victoire... s'obtient aujourd'hui par la regularité
et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains. Nos
guerres ne se décident plus guère que de loin, à coups
de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives,
effrayés par le bruit et l'effet de [985]nos armes à feu, n'osent
plus s'aborder: les combats à l'armes blanches sont devenus fort rares.
Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre,
Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817. Introduction, p.1. E come i soldati,
così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco invece delle
bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a tradimenti,
e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che
ha l'educazione militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni.
Sarà bene ch'io legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della
guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati
continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata
alla detta arte la scienza dell'uomo ec. E certo la guerra appartiene al filosofo,
tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa
con infiniti rami della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi.
(25. Aprile 1821.)
La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità
della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza, come la eccessiva
servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei popoli. I
quali ora perciò non divengono liberi, perchè [986]non sono eccessivamente
servi, e perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse,
essendo più moderata che fosse mai.
(25. Aprile 1821.)
Come non si dà mai l'atto nè il possesso del diletto, così
neanche dell'utilità, giacchè utile non è se non quello
che conduce alla felicità, la quale non è riposta in altro che
nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato.
(25. Aprile 1821.)
Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell'Inghilterra,
colle poesie orientali, si può dedurre (ironico) quanto sia naturale
all'Inghilterra la sua presente poesia (come quella di Lord Byron) derivata
in gran parte dall'oriente, come dice il riputatissimo giornale dell'Edinburgh
Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato
Romanzo orientale. (Spettatore di Milano. 1. Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno
101. p.233. e puoi vederlo.)
Infatti le poesie d'Ossian sebben sublimi e calde, hanno però quella
sublimità malinconica, e quel carattere triste e grave, e nel tempo stesso,
semplice e bello, e quegli spiriti marziali ed eroici, che derivano naturalmente
dal clima settentrionale. Non già quella sublimità eccessiva,
quelle esagerazioni, quelle spaccamontate delle pazze fantasie orientali; nè
quel sapore aromatico; nè quello splendore abbagliante, come dice il
citato giornale, nè quel fasto, nè quella voluttà, nè
quei profumi (sono espressioni dello stesso); nè quel colore vivo e sfacciato,
ed ardente; nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza strabocchevole
in ogni genere e parte di letteratura e poesia; nè quella mollezza, quella
effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi) eccessiva e nauseosa
e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali. Ed è veramente
maraviglioso, come il paese de' più settentrionali d'Europa, stimi naturale
e propria e [987]adattata alla sua indole la poesia de' paesi più meridionali
e ardenti del mondo. Un paese poi come l'Inghilterra, così pieno di filosofia,
e cognizioni dell'uomo, e de' caratteri nazionali e fisici ec. ec. Meno male
se l'orientalismo fa progressi in Francia, (come negli scritti di Chateaubriand)
paese più meridionale che settentrionale. Ma non c'era popolo colto,
a cui l'orientalismo convenisse meno che all'Inghilterra, dove però trionfa,
e donde io credo che sia passato in Francia sulla fine del secolo passato, e
donde si va diramando per l'Europa la detta scuola. Il fatto sta che tutto il
mondo è paese, e da per tutto si crede naturale e nazionale quello che
fa effetto per la cagione appunto contraria, cioè per la novità,
pel forestiero, pel contrasto col carattere e l'indole propria e nazionale;
e come la poesia [in] Italia ha corso rischio, (e non ne è forse fuori)
di una nuova corruzione mediante il settentrionalismo, l'Ossianismo ec. così
viceversa l'inglese, mediante il meridionale e l'orientale. E certo se la poesia
settentrionale pecca in qualche cosa al gusto nostro, egli è nell'eccesso
del sombre, del buio, del tetro; e la orientale al contrario, nell'eccesso del
vivo, del chiaro, del ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec. Vedete quanta
conformità di carattere fra queste due poesie!
(25. Aprile 1821.)
Il diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l'utile non è
che il mezzo. Quindi il piacevole, è vicinissimo al fine delle cose umane,
o quasi lo stesso con lui; l'utile che si suole stimar più del piacevole,
non ha altro pregio che d'esser più lontano da esso fine, o di condurlo
non immediatamente ma mediatamente. [988]
(26. Aprile 1821.)
I latini erano veramente ????????? rispetto alla lingua loro e alla greca 1.
perchè parlavano l'una come l'altra, ma non così i greci generalmente,
anzi ordinariamente: 2. perchè scrivendo citavano del continuo parole
e passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi greche
nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p.981. e p.1052.
capoverso 3. e p.2165.
3. Resta memoria di parecchie traduzioni fatte dal greco in latino anche ne'
buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori latini, come Cicerone. Ed anche restano
di queste traduzioni, o intere o in frammenti, come quelle di Arato fatte da
Cicerone e da Germanico, quella del Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte
da Terenzio, quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell'Odissea
fatta da Livio Andronico, dell'Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio,
da Ninnio Crasso (Fabric. B. Gr. 1.297.) ec. tutte anteriori a Costantino. V.
Andrès Stor. della letteratura, ediz. di Venezia, Vitto. t.9. p.328 329.
cioè Parte 2. lib.4. c.3. principio. Non così nessuna traduzione,
che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi
tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche
e appartenenti a quella scienza che allora prevaleva. Non mai letterarie. (V.
Andrès, t.9. p.330. fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio
che ci rimane, e l'altra perduta di un Capitone Licio, non pare che si possano
riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia,
fatto a solo uso, possiamo dire, elementare. [989]E si può dire con verità
quanto alla letteratura, che la comunicazione che v'ebbe fra la greca e la romana,
non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo che la letteratura
Romana era già grandissima e nobilissima, anzi superiore assai alla letteratura
greca contemporanea. 4°, I latini scrivevano bene spesso in greco del loro.
Così fa molte volte Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche nelle
altre); dove forse per non essere inteso dal portalettere, la qual gente, com'egli
dice, soleva alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le lettere che
portava; ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti sopra negozi
pubblici, politici ec. dal contesto latino passa bene spesso a lunghi squarci
scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in maniera enigmatica
e difficile. Restano parecchie lettere greche di Frontone. Resta l'opera greca
di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente, com'è naturale,
in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere ultimamente
scoperte8. Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste,
e quindi cittadino Romano, ed appena si mosse mai d'Italia. Nondimeno dice di
lui Filostrato: ????????? ??? ??, ???????? ?? ????? ?? ?? ?? ???????? ??????????(Fabric.
3.696. not.). Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p. 2166. Non così
i greci sapevano mai scrivere in latino. Anzi Appiano in Roma scrivendo a Frontone,
uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone rispondeva
parimente in greco, non in latino. E così molti libri di autori greci
si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990]romani o
latini.
Le stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi riguardo al
francese. Giacchè fino a tanto che la nostra letteratura prevalse o per
merito reale, o per continuazione di fama e di opinione generale, e la nostra
lingua era per tutti i versi più studiata, più conosciuta, più
dilatata fra i francesi ed altrove, e la nostra letteratura parimente, sì
nella nazione, che fra' suoi letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi
che scrivevano in ambedue le lingue francese e italiana. Ora accade tutto l'opposto:
e si trovano degl'italiani, come anche non pochi d'altre nazioni, che scrivono
e stampano così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole,
testi francesi si allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così
viceversa in Francia, dove difficilmente si troverà un francese che sappia
scrivere altra lingua che la sua, e scrivendo a' forestieri scriveranno in francese,
e riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è più necessario
che in qualunque altro paese colto, che i passi o parole che si citano di libri
forestieri, (e massime italiani) si citino in francese, o se n'aggiunga la traduzione.
Osservo ancor questo. Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero,
tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse
in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale,
[991]Lucano, Columella, Prudenzio, Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli;
Ausonio, Sidonio Apollinare, S. Prospero, S. Ilario, Latino Pacato, Eumenio,
Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio,
Nemesiano, Tertulliano, Arnobio, S. Ottato, Mario Vittorino, S. Agostino, S.
Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio Scozzese. V. p.1014. Parecchi
de' quali arrivarono ancora all'eccellenza nella lingua latina. Non così
i greci. E dico tanto i greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche
nell'Asia Minore, o delle altre parti dell'Asia divenute greche di lingua e
di costumi dopo la conquista di Alessandro, e così dell'Egitto, o di
qualunque luogo dove la lingua greca prevalesse nell'uso quotidiano, ovvero
anche solamente come lingua degli scrittori e della letteratura. Nessuno di
questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano,
e Igino Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto
al numero ed estensione delle dette provincie greche, massime paragonandoli
alla gran copia degli altri scrittori latini forestieri di ciascuna provincia,
ancorchè minore. E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico
all'eccellenza, ma appena alla mediocrità nella lingua latina. V. p.1029.
E Macrobio, che si stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec. (v. il Fabricio,
B. Latina t.2. p.113. l.3. c.12. §.9. nota (a.)) e di lui dice Erasmo (in
Ciceroniano) Graeculum latine balbutire credas. (Fabric. ivi) Cosa applicabilissima
agli odierni francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e massime
nella nostra. E di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e più
antico di Macrobio, dice il Salmasio (Praef. de Hellenistica p.39.) ec. V. il
Fabricio l.c. p.99.nota(b) l.3. c.12
[992]Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorchè sudditi romani,
ancorchè cittadini romani, ancorchè vissuti lungo tempo in Roma
o in Italia, ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in
mezzo ai latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio
del loro linguaggio, come sì è veduto p.982-983. ancorchè
nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della
nazione latina, ancorchè impiegati in cariche, in onori ec. al servizio
de' Romani, e nella stessa Roma, ancorchè finalmente nominati con nomi
e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco.
Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione;
così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così Arriano
prenominato Flavio (Fabric. B. G. 3.269. not. b.) fatto cittadino Romano, senatore,
Console, caro all'imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia armata
in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato Cocceiano dall'Imperatore
Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e familiare del detto Imperatore
e di Traiano; così l'altro Dione prenominato Cassio e cognominato parimente
Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec. così
Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode
Attico prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino ec.; (v. per ciascuno
di questi il Fabricio) così quell'Archia poeta ec. (v. Cic. pro Archia).
Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza
dalle altre nazioni, i greci [993]di qualunque paese fossero tenaci della lingua
e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo
splendore. Considerando ancora che generalmente gli scrittori greci di qualunque
età, e nominatamente i sopraddetti e loro simili, che per le loro circostanze,
parrebbono non solo a portata ma in necessità di aver conosciuto la letteratura
latina, non danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè
la nominano ec. e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne
servono per usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec. non mai di
letteratura. Questa è cosa universale negli scrittori greci.
In secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai romani
per far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in Grecia,
e ne' moltissimi paesi dove il greco era usato, (v. p.982-83.) laddove riuscirono
in tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in questi. Ed osservo
che la lingua latina non prevalse mai alla greca in nessun paese dov'ella fosse
stabilita, sia come lingua parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca
avea prevaluto a tutte le altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi)
paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che [994] non potè mai la lingua
nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel
che pare, in poco spazio, l'arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani,
(come il turco ec.) e così perfettamente, come vediamo anche oggidì.
Ma la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non
estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua
e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua
latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata
quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così
armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali 1811. n.18.
p.386. Notiz. letterar. di Cesena 1792. p.142.) e che al Cav. Angiolini che
se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve somigliante ne' suoni
alla greca: (Lettere sopra l'Inghilterra, Scozia, ed Olanda. vol.2do. Firenze
1790. Allegrini. 8vo anonime, ma del Cav. Angiolini) (Notizie ec. l.c.) lingua
della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi
Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista
fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura:
(Annali ec. l.c. p.385.386. principio.) quella lingua così ricca, e ogni
giorno più ricca di tanti poemi, parte de' quali anche [995] oggi si
ammirano. Questa lingua e letteratura cedette alla romana; v. p.1012. capoverso
1. la greca non mai; neppur quando Roma e l'Italia spiantata dalle sue sedi,
si trasportò nella stessa Grecia. Perocchè sebbene allora la lingua
greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.)
imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in ultimo, piuttosto
i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere
il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia vinta e suddita a divenir
latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua. Ed ora la lingua latina
non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive
ancora in quell'antica e prima sua patria. Tanta è l'influenza di una
letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori
e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a'
tempi di Costantino, possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre,
e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosissimi scrittori
passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri. V. p.996. capoverso
1. Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua. (V.
p.766. segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne,
o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser formata, nè
per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e imperfetta.
E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch'ella scarseggiava sommamente
di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che per lo più passavano
solo di bocca in bocca. Non così una lingua abbondante di scritti. Testimonio
ne sia la Sascrita, [996] la quale essendo ricca di scritture d'ogni genere,
e di molto pregio secondo il gusto orientale, e della nazione, vive ancora (comunque
corrotta) dopo lunghissima serie di secoli, in vastissimi tratti dell'India,
malgrado le tante e diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo
spazio di tempo. E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande,
e che sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede
ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo
particolare, dovè cedere, giacchè non solamente non potè
snidare la lingua e letteratura greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato,
ma neanche introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi
tanti paesi.
(29. Aprile. 1821.). V. p.999. capoverso 1.
Alla p.995. Infatti i greci anche nel tempo della barbarie, conservarono sempre
la memoria, l'uso, la cognizione delle loro ricchezze letterarie, e la venerazione
e la stima de' loro sommi antichi scrittori. E questo a differenza de' latini,
dove ne' secoli barbari, non si sapeva più, possiamo dir, nulla, di Virgilio,
di Cicerone ec. L'erudizione e la filologia non si spensero mai nella Grecia,
mente erano ignotissime in Italia; anzi nella Grecia essendo subentrate alle
altre buone e grandi discipline, durarono tanto che la loro letteratura sebbene
spenta già molto innanzi, quanto al fare, non si spense mai quanto alla
memoria, alla cognizione e [997]allo studio, fino alla caduta totale dell'impero
greco. Ciò si vede primieramente da' loro scrittori de' bassi tempi,
in molti de' quali anzi in quasi tutti (mentre in Italia il latino scritto non
era più riconoscibile, e nessuno sognava d'imitare i loro antichi) la
lingua greca, sebbene imbarbarita, conserva però visibilissime le sue
proprie sembianze: ed in parecchi è scritta con bastante purità,
e si riconosce evidentemente in alcuni di loro l'imitazione e lo studio de'
loro classici e quanto alla lingua e quanto allo stile; sebbene degenerante
l'una e l'altro nel sofistico, il che non toglie la purità quanto alla
lingua. Arrivo a dire che in taluni di loro, e ciò fino agli ultimissimi
anni dell'impero greco, si trova perfino una certa notabile eleganza e di lingua
e di stile. In Gemisto è maravigliosa l'una e l'altra. Tolti alcuni piccoli
erroruzzi di lingua (non tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue
opere o molte di loro si possono sicuramente paragonare e mettere con quanto
ha di più bello la più classica letteratura greca e il suo miglior
secolo. Oltre a ciò l'erudizione e la dottrina filologica, e lo studio
de' classici è manifesto negli scrittori greci più recenti, a
differenza de' latini. Gli antichi classici, e singolarmente Omero, benchè
il più antico di tutti, non lasciarono mai di esser citati negli scritti
greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse. E vi si alludeva spessissimo
ec. Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si possa paragonare
a un Longino o a un Porfirio. Non chiederò che mi si mostri nel nono
secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il 2do secolo fino al 14mo, un
latino, non dico uguale, ma somigliante [998]di lontano a Fozio, uomo nei pregi
della lingua e dello stile non dissimile dagli antichi, e superiore agli stessi
antichi nell'erudizione e nel giudizio e critica letteraria, doti proprie di
tempi più moderni. Tenendomi però a' tempi bassissimi, e potendo
recare infiniti esempi, mi contenterò degli scritti di quel Giovanni
Tzetze, che fu nel 12mo secolo, e di Teodoro Metochita che viveva nel 14mo;
scritti pieni di indigesta ma immensa erudizione classica.
Secondariamente la mia proposizione apparisce da quei greci che vennero in Italia
nel trecento, e dopo la caduta dell'impero greco, nel quattrocento. E mentre
in Italia si risuscitavano gli antichi scrittori latini che giacevano sepolti
e dimenticati da tanto tempo nella loro medesima patria, i greci portavano qua
il loro Omero, il loro Platone e gli altri antichi, non come risorti o disseppelliti
fra loro, ma come sempre vissuti. Della erudizione e dottrina di quei greci,
delle cose che fecero in Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere
che scrissero, parte in greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino,
riducendosi allora finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de'
loro antichi e già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade
se non accennarle.
(29. Aprile. 1821.)
[999]Alla p.996. E la letteratura latina non potè impedire che la sua
lingua non si spegnesse, laddove la greca ancor vive, benchè corrotta,
perchè sapendo il greco antico, si arriva anche senza preciso studio
a capire il greco moderno. Non così sapendo il latino, a capir l'italiano
ec. Onde la presente lingua greca non si può distinguere dall'antica,
come l'italiano ec. dal latino, che son lingue precisamente diverse, benchè
parenti. E neppure si capisce l'italiano sapendo il francese, nè ec.
(29. Aprile. 1821.). V. p.1013. capoverso 1.
In prova di quanto la lingua greca, fosse universale, e giudicata per tale,
ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore estensione del dominio
romano e de' romani pel mondo; si potrebbe addurre il Nuovo Testamento, Codice
della nuova religione sotto i primi imperatori, scritto tutto in greco, quantunque
da scrittori Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que' tempi), quantunque
l'Evangelio di S. Marco si creda scritto in Roma e ad uso degl'italiani, giacchè
è rigettata da tutti i buoni critici l'opinione che quell'Evangelio fosse
scritto originariamente in latino; (Fabric. B. G. 3. 131.) quantunque v'abbia
un'Epistola di S. Paolo cittadino Romano, diretta a' Romani, un'altra agli Ebrei;
quantunque v'abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di
S. Giacomo, e di S. Giuda Taddeo. Ma senza entrare nelle quistioni intorno alla
lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti, osserverò
quello che dice il Fabric. B. G. edit. vet. t.3. p.153. lib.4. c.5 §.9
parlando dell'Epistola di S. Paolo a' Romani: graece scripta est, non latine,
etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse ROMANE t}amwr, quo vocabulo Graecam
[1000]linguam significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam,
Seldenus ad Eutychium observavit. E p.131. nota (d) §.3. parlando delle
testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il Vangelo
di S. Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi dagli
altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi observavit
Seldenus. Intendi l'opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae
Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum
edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus. Per lo contrario Giuseppe
Ebreo nel proem. dell'Archeol. §.2. principio e fine, chiama Greci tutti
coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per conseguenza anche
i romani. E così nella Scrittura ???????? passim opponuntur Iudaeis,
et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula). Così ne' Padri antichi.
Il che pure ridonda a provare la mia proposizione. E Gioseffo avendo detto di
scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco. V. anche
il Forcell. v. Graecus in fine.
Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri
della Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua,
o l'Ebraica, come crede l'Ittigio, (nel Giosef. dell'Havercamp, t.2. appendice
p.80. colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri, (v. Basnag. Exercit. ed. Baron.
p.388. Fabric. 3. 230. not. p), in uso, com'egli dice, de' barbari dell'Asia
superiore, cioè, com'egli stesso spiega (de Bello Iud. Proem. art.2.
edit. Haverc. t.2. p.48.) de' Parti, de' Babilonesi, degli Arabi più
lontani dal mare, de' Giudei di là dall'Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric.
l.c. Gioseffo l.c. p.47. not. h.) volendo poi, com'egli dice, accomodarla all'uso
de' sudditi dell'imperio [1001]Romano, ???? ???????? ???????? ?????????, e scrivendo
in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric. 3. 229. fine e 230. principio.)
e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, ???????? ??????? ??????????.
(Idem, l.c. art.1. p.47.) E così traslatata la presentò a Vespasiano
e a Tito, Impp. Romani. (Ittigio l.c. Fabric. 3.231. lin.8. Tillemont, Empereurs
t.1. p.582.).
(30. Aprile. 1821.)
La lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò
in gran parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec.
rispetto alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua
greca antica quale si trova ne' classici ottimi, e quella lingua latina quale
si trova ne' classici del miglior tempo; e l'una e l'altra comparativamente,
qual'è presso gli scrittori dell'ottima età dell'una e dell'altra
lingua. E ciò malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare
della lingua greca. Questa dunque è la cagione perch'ella fosse più
atta della latina ad essere universale: e n'è la cagione sì per
se stessa e immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la
lingua volgare e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta.
(1. Maggio 1821.)
Quello che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere
i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce
se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua
nostra. Giacchè la lingua [1002]francese è per eccellenza, lingua
moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli estremi fra le lingue nella cui
indole ec. signoreggia l'immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la
lingua francese qual è ne' suoi classici, qual è oggi, qual è
stata sempre da che ha preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia).
Si giudichi dunque quanto ella sia propria a servire d'istrumento per conoscere
e gustare le lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto
male Mad. di Staël (vedi p.962.) la creda più atta ad esprimere
la lingua romana che le altre, perciocch'è nata da lei. Anzi tutto all'opposto,
se c'è lingua difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere
in francese, è la latina, la quale occupa forse l'altra estremità
o grado nella detta scala delle lingue, ristringendoci alle lingue Europee.
Giacchè la lingua latina è quella fra le dette lingue (almeno
fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della Celtica poco nota ec.)
dove meno signoreggia la ragione. Generalmente poi le lingue antiche sono tutte
suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua
francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate
dall'immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto,
le meno adattabili alla lingua francese, all'indole sua, ed alla conoscenza
e molto più al gusto de' francesi. [1003]Nella scala poi e proporzione
delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la
Spagnuola) occupa senza contrasto l'estremità della immaginazione, ed
è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle
lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio
entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l'immaginazione più
che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua
formata. Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto
all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo
conferma, giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata,
o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto l'italiana: di nessuna
essi conoscono meno lo spirito e il genio, che dell'italiana; di nessuna discorrono
con tanti spropositi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non
ostante che la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa
nella più gran parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere
componenti il radicale delle parole (siano radici, o derivati, o composti);
e non ostante che p.e. la lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono
molto meglio, (anche nel tradurre ec. mentre una traduzione francese dall'italiano
dal latino o dal greco non è riconoscibile) appartengano a tutt'altra
famiglia di lingue.
(1 Maggio 1821.). V. p.1007. capoverso 1.
[1004]Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell'uomo
da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è
legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion
Cristiana. Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta
degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o
particolari, ch'io adduco per dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente
alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova
mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo
dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec. ec.: tutte queste, dico,
sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo,
e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.
(1. Maggio 1821.)
Tanto era l'odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società)
verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che
una potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera
(come Numanzia da' Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte
le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già
da quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e immediata,
e senza consultazione vervna; e dipendeva dall'essere assaliti, non [1005] già
dalla considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi
di resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec. E questa
era, come ho detto, una conseguenza naturale dell'odio scambievole delle diverse
società, dell'odio che esisteva nell'assalitore, e che obbligava l'assalito
a disperare de' patti; dell'odio che esisteva nell'assalito, e che gl'impediva
di consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque utilità
nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di
se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi,
e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.
Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi,
delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere. E se
questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione,
ma una potenza si sottomette ad un'altra potenza, ancorchè non eccessivamente
più forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere
qualche fondata speranza. Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati
politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de' mezzi:
io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec. il nemico tanti: resta dalla
parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o
no, cediamo ovvero non cediamo. [1006] E senza venire alle mani, nè far
prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella
forma, quelle leggi, quel governo ec. che comanda il più forte: e in
computisteria si decidono le sorti del mondo. Così discorretela proporzionatamente
anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.
In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le
truppe, gli esercizi militari ec. non servono perchè si faccia esperienza
di chi deve ubbidire o comandare ec. ec. ma solamente perchè si possa
sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero
al calcolo sarebbero inutili, giacchè in ultima analisi il risultato
delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec. non
avessero esistito.
Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione
delle cose umane, derivata dall'esperienza, dalla cognizione sì propagata
e cresciuta, dalla ragione, e dall'esilio della natura, sola madre della vita,
e del fare. Conseguenza che si può estendere a cose molto più
generali, e trovarla egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica.
Dalla quale spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll'annullamento,
risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi
facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni,
oggi sieno [1007] risultati dei calcoli; e così senza far niente, si
viva calcolando e supputando quello che si debba fare, o che debba succedere;
aspettando di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo
morti. Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte,
e dev'essere necessariamente tutt'uno con questa.
(1. Maggio 1821.)
Alla p.1003. fine. Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è
anche estremamente distinta dall'Italiana, perciò ch'ella è fra
le moderne colte (e per conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la
più serva, e meno libera; naturale conseguenza dell'essere sopra tutte
le altre, modellata sulla ragione. Al contrario l'italiana è forse e
senza forse, fra le dette lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno
tutti quelli che conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta
per verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl'italiani,
e degli stessi linguisti. Nella quale libertà la lingua italiana somiglia
sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più
caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca.
A differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da' suoi ottimi
scrittori, e da' suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e
sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera, anzi forse meno
di qualunque altra lingua antica, uno de' primi distintivi delle quali è
la libertà. Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun modo della
ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa,
e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso
e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella non può
però trasgredirlo, nè alterarlo, nè oltrepassarlo ec. in
verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme in se
stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma,
nè pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza. E
perciò appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla
universalità, perchè l'ardire non era accompagnato dalla libertà.
E la perfetta attitudine alla universalità consiste nel non essere nè
ardita nè varia nè libera, come la francese. Un'altra attitudine
meno perfetta nell'essere e ardita e varia, e nel tempo stesso libera, come
la greca. L'ardire e la varietà, sebbene per lo più sono compagne
della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa
colla libertà, come si vede nell'esempio della lingua latina, e bisogna
perciò distinguere queste qualità.
Del resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue
dunque più che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall'italiana.
[1009]E queste sono le ragioni per cui la lingua italiana, benchè tanto
affine alla francese, come ho detto p.1003. tuttavia n'è tanto lontana
e dissimile, massimamente nell'indole; e per cui la lingua italiana perde tutta
la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi
alla francese, che l'è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati
che verun altro a conoscere e gustar l'italiano, cosa che apparisce dal fatto;
e finalmente per cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue
antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino
e il greco, di quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di
parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.
Quello che ho detto qui sopra dell'ardire, della varietà, della libertà,
si deve estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue
antiche, e dell'italiana, e conseguenti dall'esser esse modellate sull'immaginazione
e sulla natura, come dire la forza, l'efficacia, l'evidenza ec. ec. qualità
che in parte derivano pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l'una
dall'altra, e perciò mancano essenzialmente alla lingua francese.
Nè queste qualità, che dico proprie delle lingue [1010]antiche,
si deve credere ch'io lo dica solamente in vista della greca e della latina,
ma di tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente.
Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v. p.994.)
nella Sascrita, (v. Annali di scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n.13.
p.54. fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali;
e così in tante altre. Nè bisognano esempi e prove di fatto, a
chi sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura,
maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro.
(2. Maggio 1821.)
Della lingua volgare latina antica v. Andrès, Dell'Orig. d'ogni letteratura
ec. Parte 1. c.11. Ediz. Veneta del Vitto. t.2. p.256-257. nota. La qual nota
è del Loschi. Che però egli s'inganni, lo mostrano le mie osservazioni
sopra la lingua di Celso, scrittore non dell'antica e mal formata, ma della
perfetta ed aurea latinità.
(4. Maggio 1821.)
Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile
l'investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se
il Morofio (Polyhist. lib.4. cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi
fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum ec. v. Andrès
luogo cit. qui sopra, p.249. quanto più dobbiamo noi italiani studiare
e mettere a profitto la lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così
suscettibile di perfetta [1011]cognizione; lingua così ricca, così
colta, così letterata ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti
d'ogni genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua teutonica
originaria della tedesca (Andrès, ivi, p.249.251.253. lin.6.14.18. paragonando
anche questi ult. tre luoghi colla p.266. lin.9) è difficilissima a conoscere
con certezza, e impossibile a conoscere se non in piccola parte, è lingua
illetterata ed incolta, e scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano
sono per se stessi di nessun pregio. (Andrès, 249-254.) Aggiungete che
l'esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo,
ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza
della fonte ec. ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza.
Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza
di studio si potesse pur tutta conoscere ec. che cosa si potrebbe attingere
da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec. ec.? chi potrebbe intendere
a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec. V. p.3196.
(4. Maggio 1821.)
Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne
e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana
è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso
non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo
santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio
e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4. Maggio 1821.)
Alla p.952. Meno straniera è la lingua francese all'inglese (e perciò
meno inetta ad esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell'affinità
che questa seconda lingua prese colla prima, dopo l'introduzione della lingua
francese in Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès,
luogo cit. poco sopra, p.252. fine, 255. fine-256. principio. Annali di Scienze
e lettere. Milano. Gennaio 1811. n. 13. p.30. fine.) [1012]Laddove la lingua
tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac. des Inscr.
tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più
d'ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi
p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare
dell'antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell'andamento,
e maggiore affinità nella costruzione. (ivi p.253. principio.).
(4. Maggio 1821.)
Alla p.995. principio. Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua
francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l'introduction de la langue
latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l'Ac. des inscr. tome 41.),
pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell'Astruc.
(Ac. des Inscr. tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci gallesi;
siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più conserva
alcun vestigio dell'antico parlare di quelle genti. (Andrès, luogo cit.
di sopra, p.252.).
(4. Maggio 1821.)
Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse
in due lingue, l'una [1013]volgare, e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli
scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès,
l.c. p.256. nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica,
plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano,
Quaderno 97. p.242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni,
per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l.c.) Del quale antico
volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito. Ora si veda
quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i
soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano
una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola
è capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua,
come ho detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale.
Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua
indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma
era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia
ec.
(4. Maggio 1821.). V. p.1020. capoverso 1.
Alla p.999. Così chi sapesse l'antica lingua teutonica, non intenderebbe
perciò la tedesca, senza espresso e fondato studio. (Andrès, loco
cit. di sopra, p.1010; non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec. v.
p. [1014]1012. principio.
(5. Maggio 1821.)
La vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano. Quaderno
93. p.115. lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa
ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese
benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato
cogli altri, uniforme e monotona. Cosa che a prima vista non par compatibile
colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima
dalla ricchezza, dall'ardire, e dalla varietà.
(5. Maggio 1821.)
Alla p.991. Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale
(cioè l'anglo-sassone: (Andrès, loc. cit., p.1010, p.255. fine)
diversa dalla Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata
anche in usi letterarii, come si rileva da quello ch'egli stesso riferisce di
un Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua lingua.
(Andrès, p.254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch'ella era una
lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda
nella Storia Ecclesiastica degli Angli.).
(5. Maggio 1821.)
L'u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto
in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec. [1015]Mediante le
quali colonie ec. la lingua e letteratura greca si stabilì, com'è
noto, in varie parti delle Gallie. V. il Cellar. dove parla di Marsiglia. E
le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben
forse nato greco) ec. ec. V. anche il Fabric. dove parla di Luciano, B. Gr.
lib.4. c.16. §.1 t.3. p.486. edit. vet.
Dalle quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate
dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi
pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec. fossero
venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche communicazioni avute
colla lingua e letteratura greca. Questo però non mi par molto probabile,
trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi
la nascita della francese: che la latina vi prevalse interamente; e che della
celtica ch'era pur la nazionale, appena si trova vestigio nella francese (v.
p.1012. capoverso 1.). Quanto meno dunque si dovrebbero trovar della greca!
Laddove se ne trovano tanti che han fatto un dizionario apposta, delle parole
francesi derivate dal greco. Inoltre questo argomento non può valer di
più di quello che vaglia [1016]per le parole italiane dello stesso genere,
le quali si potrebbero suppor derivate dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto
che dal latino: mentre però la lingua greca si spense in quei paesi tanto
innanzi al sorgere della lingua italiana, e vi si stabilì la latina:
che per conseguenza vi è tanto più vicina alla nostra, in ordine
di tempo: anzi immediatamente vicina. V. p.1040. fine. Del resto anche in Sicilia
durò la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo dopo il
dominio romano. Diodoro fu siciliano, e così altri scrittori greci. E
vedi Porfir. Vit. Plotin. cap.11. donde par che apparisca che in Sicilia a quel
tempo vi fossero cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire,
in tutte le parti dell'imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano
ec. Cecilio Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec. scrisse
in greco. V. Costantino Lascaris nel Fabricio, B. Gr. t.14. p.22-35. edit. vet.
(6. Maggio 1821.). Ma nel terzo secolo T. Giulio Calpurnio Siciliano, poeta
Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino. E così altri
Siciliani ec.
Un effetto dell'antico sistema di odio nazionale, era in Roma il costume del
trionfo, costume che nel presente sistema dell'uguaglianza delle nazioni, anche
delle vinte colle vincitrici, sarebbe intollerabile; costume, fra tanto, che
dava sì gran vita alla nazione, che produceva sì grandi effetti,
e sì utili per lei, e che forse fu la cagione di molte sue vittorie,
e felicità militari e politiche.
(6. Maggio 1821.)
[1017] Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un
piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una
cosa ch'egli non può concepire. E così è infatti. Tutti
i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati,
ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari
e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre
ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro,
la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che la
realtà non può contenere. E ciò può vedersi massimamente
nell'amore, dove la passione e la vita e l'azione dell'anima essendo più
viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive
e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate
che per l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più
confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra
passione: ed è carattere (già da molti notato) dell'amore, il
presentare all'uomo un'idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita
di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir meno
di qualunque [1018] altra idea ec. Per l'altra parte notate, che appunto a cagione
di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle
sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri che l'uomo possa provare.
(6. Maggio 1821.)
I filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e quelli che più
mettono in pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo non potendo
mai esser filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua qualità,
e nel commercio sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come
se non fosse filosofo. All'opposto i filosofi antichi. All'opposto Socrate,
il quale si mostrò nel teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici,
gli Stoici e tutti gli altri. Così che i filosofi antichi formavano una
classe e una professione formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre
sette di filosofi: a differenza de' moderni, che eccetto nel proprio interiore,
si confondono appresso a poco intieramente colla moltitudine e colla universalità.
Conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della
sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare
una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un'azione
allo [1019] stesso pensiero, alla stessa ragione. Laddove i moderni pensatori
e ragionevoli, si contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell'interno,
e non ha veruna o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla
nell'esteriore. E generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l'apparenza
e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti,
e per conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni
i più ignoranti e inesperti, o più naturali.
(6. Maggio 1821.)
La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può
perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far
colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri.
Dal che si vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla
lingua, e che questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può
tuttavia e potrà forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco
colta.
(7. Maggio 1821.)
Dalle osservazioni fatte da me sulla poca attitudine dei francesi a conoscere
e gustare le altre lingue, risulta che per lo contrario gl'italiani sono forse
i più atti del mondo al detto oggetto. E ciò stante la moltitudine,
dirò così, delle lingue che la loro lingua contiene (laddove la
francese [1020] è unica); stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua
varietà; stante la sua libertà singolare fra tutte le lingue colte,
come ho detto altrove, e inerente al suo carattere; stante la sua arrendevolezza,
la quale produce l'arrendevolezza del gusto e della facoltà conoscitiva
rispetto a quanto appartiene alle altre lingue; mentre l'arrendevolezza della
propria lingua, viene ad essere l'arrendevolezza e adattabilità dell'istrumento
che serve a conoscere e gustare le altre lingue. E ciò tanto più
si deve dire degl'italiani rispetto alle lingue antiche, massime la latina e
la greca, sì per la conformità d'indole ec. che hanno colla nostra;
sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni
a queste lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra.
(7. Maggio 1821.)
Alla p.1013. fine. Si potrebbe dire che anche la lingua greca pativa lo stesso
inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de' suoi dialetti.
Ma ne' dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le lingue, massimamente
molto estese e divulgate, e molto più, diffuse, come la latina, fra tanta
diversità di nazioni e di lingue. Il che apparisce non tanto dalla Patavinità
rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce
che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo però
esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli scrittori latini
di diverse nazioni e parti, (v. Fabric. [1021] B. G. l.5. c.1. §.17. t.5.
p.67. edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet); le quali si possono anche inferire
dalle diverse lingue nate dalla latina ne' diversi paesi, ed ancora viventi
(che dimostrano una differenza d'inflessioni, di costrutti, di locuzioni ec.
che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è
verisimile che fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando
dalla differenza antica) quanto da questo, che è nella natura degli uomini
che una perfetta conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo
numero di persone. (V. p.932. fine.) Così che io non dubito che la lingua
latina non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come
la greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori,
e applicati alla letteratura. V. qui sotto.
Del resto la lingua italiana patisce ora (serbata la proporzione) l'inconveniente
della lingua latina, forse più che qualunque altra moderna colta. Ond'ella
è per questa parte meno adattata di tutte alla universalità, distinguendosi
sommamente, non solo il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto. Non
era così anticamente, ed allora l'italiano era più acconcio alla
universalità, come lo prova anche il fatto. Nel trecento lo scritto e
il parlato quasi si confondevano. In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento
appresso a poco: e forse potrebbero ancora confondersi, se i toscani scrivessero
l'italiano o il toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d'Italia, l'italiano
non si parla.
(7. Maggio 1821.). V. p.1024. capoverso ult.
Al capoverso superiore. E perciò appunto meno noti oggidì, a differenza
dei greci. Nel modo che i dialetti d'Italia o di Francia, posto il caso che
la lingua italiana o francese uscisse dell'uso, come la latina, non sarebbero
conosciuti dai posteri, se non confusissimamente; per non [1022] essere stati
ridotti a forma, nè applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura,
salvo qualche poco in Italia. Ma così poco e insufficientemente, che
si può credere che gli scritti italiani vernacoli, non passerebbero,
e onninamente non passeranno (se non forse pochissimi, come quelli del Goldoni
e del Meli) alla posterità.
(8. Maggio 1821.)
Quanto la natura abbia proccurata la varietà, e l'uomo e l'arte l'uniformità,
si può dedurre anche da quello che ho detto della naturale, necessaria
e infinita varietà delle lingue, p.952. segg. Varietà maggiore
di quella che paia a prima vista, giacchè non solo produce p.e. al viaggiatore,
una continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli
uomini, parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa favorevolissima
alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa specie quelli
che non sono intesi da noi, nè c'intendono: perchè la lingua è
una cosa somma, principalissima, caratteristica degli uomini, sotto tutti i
rapporti della vita sociale. Per lo contrario, lasciando le altre cure degli
uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le diverse lingue; oggi,
in tanto e così vivo commercio di tutte, si può dir, le nazioni
insieme, si è introdotta, ed è divenuta necessaria, una lingua
comune, cioè la francese; la quale [1023] stante il detto commercio,
e l'andamento presente della società, si può predire che non perderà
più la sua universalità, nemmeno cessando l'influenza o politica,
o letteraria, o civile, o morale ec. della sua nazione. E certo, se la stessa
natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco appoco che tutto il mondo parlasse
quotidianamente il francese, e l'imparasse il fanciullo come lingua materna;
e si verificherebbe il sogno di una lingua strettamente universale.
(8. Maggio 1821.)
In proposito di quello che ho detto altrove, che la lingua italiana non si è
mai spogliata della facoltà di usare la sua ricchezza antica, e la francese
all'opposto, v. Andrès, Stor. d'ogni letteratura. Venez. Vitto. t.3.
p.95. fine-99. principio, cioè Parte 1. c.3. e t.4. p.17. cioè
Parte II. introduzione.
(8. Maggio 1821.)
Alcuni scrittori greci degli ultimissimi tempi dell'impero greco, furono anche
superiori in eleganza a molti de' tempi più antichi ma corrotti, come
gli scrittori latini del cinquecento in Italia superarono bene spesso gli antichi
latini posteriori a Cicerone e a Virgilio. Dopo il secolo d'Augusto non è
stato mai tempo in cui sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con
coltura e con pulitezza la lingua de' romani. Andrès, l. cit. qui sopra,
p.96.
(8. Maggio 1821.)
[1024] Sebbene la lingua Celtica fosse così bella ed atta alla letteratura,
e per conseguenza, formata, e stabilita e ferma (espressioni del Buommattei
in simil senso), come si vede oggidì ne' monumenti che ne avanzano, e
come ho detto p.994. fine; sebben fosse così antica e radicata ec. nondimeno
laddove i greci ancorchè sudditi romani, e vivendo in Roma o in Italia,
scrivevano sempre in greco e non mai in latino, nessuno scrittor gallo, nelle
medesime circostanze, scrisse mai che si sappia in lingua celtica, ma in latino.
(9. Maggio 1821.)
Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua
e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano
(e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d'imitazione, o di lingua
o stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento).
Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più
degli altri, e gli può venir dopo), nè Plutarco, nè lo
stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di eleganza però ben diversa
dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile
greco) non possono essergli paragonati per questo capo.
(9. Maggio 1821.)
Alla p.1021. Così che la presente corruzione della lingua italiana e
parlata e scritta, aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità.
Giacchè gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura
nè lingua italiana scritta, se non l'antica, non passando [1025] e non
meritando di passare le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente
letteratura (non dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata,
riconosciuta e propria. D'altra parte non conoscono nè possono conoscere
altra lingua italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa
dall'antica e parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana.
Lo stesso appresso a poco si può dire dello spagnuolo.
(9. Maggio 1821.)
La cognizione stessa che i greci di qualunque tempo, ebbero de' padri e teologi
latini ec. soli scrittori latini ch'essi conoscessero, non fu (se non forse
ne' più barbari secoli di mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini
dei padri, ed autori ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del cristianesimo,
e negli ultimi anni dell'impero greco (Andrès, loc. cit. da me p.1023.
t.3. p.55.), quando la dimostrarono principalmente in occasione del concilio
di Firenze. (ivi).
(9. Maggio 1821.)
Sebben l'uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però
un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione
ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello
spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre
sensazioni [1026]più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è
altro, si può dire, che l'infinità, o l'indefinito del materiale.
Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più
spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente
concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità
che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può
esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell'animo
nostro finisce assolutamente sull'ultimo confine della materia, ed è
confinata intieramente dentro i termini della materia.
(9. Maggio 1821.)
Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli,
e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà
gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle
società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi
pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai
servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente
acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero grandi e
forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali massimamente, e fra queste singolarmente
l'Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni) diverrebbero
un'altra volta invincibili. Ed allora [1027]si tornerebbe a conoscere la vera
ed innata eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale, eminenza
che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non mancarono di forti, grandi,
e generali illusioni, e de' motivi e dell'alimento di esse; eminenza che da
gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo contrario, con vergogna, dirò
così, della natura, appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni
genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle
nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura:
Quod latus mundi nebulae malusque
Juppiter urget.
Notabile che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e
i moderni al settentrionale, così la civiltà ec. antica fu principalmente
meridionale, la moderna settentrionale. È già notato che la civiltà
progredisce da gran tempo (sin da' tempi indiani) dal sud al nord, lasciando
via via i paesi del sud. Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi,
Atene, Roma; del moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza
naturale dell'esser tolta ai popoli meridionali l'attività e l'uso della
molla principale della loro vita, cioè della immaginazione; molla che
quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze
corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire
i popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi veramente i popoli settentrionali,
massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla,
per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso
altrui, per mera influenza di coloro, ai quali essi ubbidiscono, se anche sono
comandati di mangiar della paglia.
(10. Maggio 1821.)
[1028] La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà
delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente
e veramente piacevole.
(10. Maggio 1821.
Delle prime grammatiche italiane v. Andrès, Stor. della letteratura,
ediz. di Venezia del Vitto. t.9. p.316. fine. cioè Parte 2. lib.4. c.2.
(10. Maggio 1821.)
Del sogno d'istituire una lingua universale v. Andrès, loc. cit. qui
sopra, p.320. e il Locke del Soave t.2. p.62-76. ediz. terza di Venezia 1794.
(10 Maggio 1821.)
La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella
sua Vita. Così Dante nell'italiano, ec. Non per altro se non perch'essendo
i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte
del bello, del grande, della vita, della varietà. Introdotta la ragione
nel mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de' suoi progressi, divien brutto,
piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.)
Se la universalità di una lingua dipendesse dalla diffusione di coloro
a' quali essa è naturale, nessuna lingua avrebbe oggi questa proprietà
più dell'inglese, giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più
gran parte del mondo, e sono più numerosi di quelli d'ogni altra nazione
europea; e la nazione inglese è la più viaggiatrice del mondo.
(11. Maggio 1821.)
[1029] La lingua latina superò per esempio la lingua antica Spagnuola,
la Celtica ec. mediante la semplice introduzione nella Spagna, nelle Gallie
ec. del governo, leggi, costumi Romani. Ma a superar la greca non le bastò
neppure il trasportar nella Grecia la stessa Roma, e quasi la stessa Italia.
(11. Maggio 1821.)
Alla p.991. Eccetto il solo Fedro, o ch'egli fosse Trace, come è creduto
comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come mostrano
Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico detto il
Trace) o Macedone come vuole il Desbillons. (Disputat. 1. de Vita Phaedri, praemissa
Phaedri fabulis, Manhemii 1786. p. v. seq.) La cui latinità, sebbene
a molti non pare eccellente e perfettissima certo però è superiore
al mediocre.
(11. Maggio 1821.)
Alla p.245. La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo
universale, a cagione della sua struttura ed indole. E certo però che
l'introduzione di questa lingua nell'uso comune, e il principio materiale della
sua universalità, si deve ripetere e dalla somma influenza politica della
Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata
nazione del mondo, e per conseguenza dalle sue mode, ec. o vogliamo dire dalla
moda di esser francese, [1030] dal regno e dittatura della moda, che la Francia
ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente ancora dalla sua letteratura,
dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha
acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se [non] per essere esclusivamente
e propriamente moderna, e perchè la letteratura precisamente moderna
è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima
che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata
più che in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna
che in qualunque altro paese. Ma la durata di questa universalità, quando
anche cessino le dette ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà
alla sua propria indole; laddove quella tal quale universalità acquistata
già dalle lingue spagnuola, italiana ec. sono finite insieme colle ragioni
estrinseche che la producevano, non avendo esse lingue disposizione intrinseca
alla universalità. Con queste osservazioni rettifica quello che ho detto
p.240-245. E in quanto alla letteratura, ed alla influenza morale ec. ec. è
certo che queste furono le ragioni estrinseche della universalità della
lingua greca, la quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche,
mancanti affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale,
[1031] nè durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse
delle ragioni estrinseche di universalità.
(11. Maggio 1821.). V. p.1039. fine.
Che la lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora
e la francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall'antico volgare
latino, si dimostra non solo coi fatti oscuri, e coll'erudizione recondita,
ma col semplice ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura
delle cose. La lingua italiana è derivata dall'antica latina, e questo
è palpabile. La lingua italiana è una lingua volgare. Ma nessuna
lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della letteratura, se
non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima lingua parlata,
e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva moltissimo dalla parlata,
e ciò si rileva sì dall'indole del latino scritto che non poteva
mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque
se la lingua italiana è derivata dalla latina, e la italiana non è
semplicemente scritta o letterata, ma volgare e parlata, non può esser
derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.
Da che ci era un latino volgare assai differente dallo scritto, è costante
che l'italiano volgare derivato dal latino, non può esser derivato dallo
scritto, ma da quello volgare e parlato.
[1032] Questo ragionamento serve per tutte le lingue derivate dal latino, e
per tutte quelle derivate da qualunque altra lingua antica, dove lo scritto
differisse notabilmente dal parlato. Ma serve specialmente per l'italiano, ch'è
la lingua volgare di quello stesso paese a cui fu naturale il latino.
Qual lingua avrà parlato l'Italia ne' secoli bassi? forse il latino scritto?
Chi può credere quest'assurdità che i secoli barbari parlassero
meglio de' civili? Forse le lingue de' popoli settentrionali, suoi conquistatori?
1. È noto e costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi
popoli in luogo d'introdurre la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi
e adoperavano quella di costoro. V. Andrès, t.2. p.330.
2. Di parole settentrionali ognuno sa quanto poche ne rimangano nell'italiano,
e così pure nel francese e nello spagnuolo, e come il corpo, la sostanza,
il grosso, il fondo principale e capitale di queste lingue, e massime dell'italiano,
derivi dal latino, e sia latino.
Dunque l'Italia ne' secoli bassi parlò certamente il latino. Latino corrotto,
ma latino. Qual latino dunque? Lo scritto no: dunque il volgare, cioè
la sua lingua di prima, il suo volgare di prima. Giacchè la sua lingua,
il suo volgare di prima, non era il latino [1033] scritto, nè poteva
essere, ma il latino volgare. Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente,
ma la sostanza, il grosso ec. della lingua allora parlata, doveva esser quello
di detto volgare, da che oggi il grosso dell'italiano è derivato dal
latino, ed è latino.
Comunemente pare che si supponga che s'interrompesse o affatto o quasi affatto
l'uso volgare del latino in Italia, restandone solo l'uso civile, religioso
e letterario, e che da quest'uso, e dal latino scritto ec. rinascesse poi di
nuovo l'uso di una lingua volgare latina, o derivata dal latino, cioè
dell'italiana; e così questa venga ad essere derivata dal latino scritto,
sia per mezzo del provenzale che nascesse prima dell'italiano, o per qualunque
altro mezzo.
Queste sono favole assurdissime e (oltre che non hanno alcun fondamento) contrarie
alla natura delle cose.
Dovunque il latino non è stato in uso se non come lingua civile, religiosa,
scritta, letteraria ec. le lingue nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo
che dal latino scritto ec. derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua
figlia della latina, la lingua volgare ha per lo contrario scacciata la latina
anche dalla scrittura, e dall'uso letterario e civile. In Germania, [1034] in
Inghilterra, in Polonia dove ne' secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia
anche dopo), ma non mai come lingua parlata, e solo come civile, religiosa,
letteraria; non vi è nata dal latino nessuna lingua; restano le antiche
lingue nazionali, restano le lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue
derivate dalle dette naturali e volgari, e la latina è sparita dall'uso
civile e dal letterario. Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino
fu introdotto solamente come lingua del governo ec. v. p.982.983. Lo stesso
pure dell'italiano, dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono
la stessa lingua lor madre, dall'uso civile, politico, letterario. E questo
si può vedere pure nell'esempio della lingua francese introdotta come
civile ec. in Inghilterra per la conquista de' Normanni (v. p.1011. fine); dell'arabica
introdotta già nello stesso modo in parte della Spagna (Andrès
2. 263.-273.), e poi similmente scacciate dalla letteratura e da ogni luogo.
V. pure gli Ann. di Sc. e lett. num.11. p.29.32. E così porta la natura
delle cose, che non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo, e s'introduca
nel popolo, ma quella del popolo vinca quella degli scrittori, i quali scrivono
pure pel popolo e per la moltitudine; non la scritta scacci la parlata, ma la
parlata superi presto o tardi, ed uniformi più o meno la scritta a se
medesima. V. p.1062.
Se la lingua gotica o qualunque altra lingua settentrionale o no, si fosse stabilita
veramente in Italia come lingua volgare e parlata, restando ancora la latina
come scritta ec.; oggi noi parleremmo e scriveremmo quella o quelle tali lingue,
e non una lingua derivata dalla latina.
Ma accadendo il contrario è manifesto che la lingua volgare d'Italia,
fu senza interruzione latina; e se fu tale senza interruzione fino a noi, dunque
fu senza interruzione quel latino volgare più o meno alterato, che si
parlava anticamente, e non già lo [1035] scritto; dunque noi oggi parliamo
una lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo capitale appartiene, anzi
è lo stesso che quello dell'antico volgare latino.
Discorro allo stesso modo dello Spagnuolo e del francese. Se queste lingue sono
volgari, e derivano dal latino, dunque dal latino parlato, e non dallo scritto;
dunque dal latino volgare; dunque la lingua latina si stabilì nella Spagna
e nella Francia come lingua parlata, e non solamente come lingua civile, governativa,
letteraria (e così è infatti, e nella lingua francese restano
pochissime parole Celtiche, nella spagnuola nessun vestigio dell'antica lingua
di Spagna: Andrès, 2. 252.); dunque il volgare latino più o meno
alterato da mescolanza straniera, si mantenne senza interruzione in Ispagna
e in Francia (siccome in Valacchia) dalla sua prima introduzione, sino al nascimento
della lingua spagnuola e francese, e per mezzo di queste sino al dì d'oggi.
Dell'antica origine della presente lingua spagnuola, e come i più vecchi
monumenti che ne restano, siano, come quelli della lingua provenzale, francese
ec. conformissimi al latino, v. un esempio recato in quella lingua dall'Andrès
2.286.fine.
Conchiudo. Se la lingua italiana, ch'è volgare, è derivata dal
latino, ella dunque non può essere [1036] derivata dal latino scritto
sì diverso dal parlato, ma dirittamente viene dall'antico volgare latino,
ed è nella sostanza e nel suo fondo principale, lo stesso che il detto
volgare. E lo è per la circostanza della località (lasciando ora
le prove di fatto e di erudizione) più di quello che lo siano lo spagnuolo
e il francese. Questo ragionamento però vale per qualunque lingua derivata
sì dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e ciascuna
lingua moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal volgare
di essa lingua, e non dallo scritto. Che se la lingua tedesca, a detta del Tercier,
è fra tutte ec. v. p.1012. principio, questo accade perchè la
lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non bene determinata
e formata alla scrittura, come lingua illetterata ancorchè scritta, pochissimo
o nulla differiva dalla parlata e volgare. Ma altrettanta e forse maggiore uniformità
si vedrebbe fra l'italiano e l'antico volgare latino, se di questo si avesse
maggior notizia. E dico maggiore uniformità non senza ragione di fatto,
considerando la molta differenza che passa poi realmente fra l'odierno tedesco
e il teutonico (Andrès, 2. 249-254.); e la somma rassomiglianza che io
in molti luoghi ho cercato di provare, fra l'italiano, [1037] e il latino volgare
antico. Così che la lingua italiana in vece di essere la più moderna
di tutte le viventi Europee, come pretendono, (Andrès, 2.256. e passim)
si verrebbe a conoscere o la più antica, o delle più antiche,
perdendosi l'origine di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto,
sebbene alterato) nella oscurità delle origini dell'antichissimo e primo
latino. A differenza dello spagnuolo e del francese, perchè in queste
nazioni l'uso del volgare latino, fu certo molti e molti secoli più tardo
che in Italia.
(12. Maggio 1821.)
Basta vedere il principio dell'Orazione ?????????? attribuita a Demostene,
dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per conoscere come fosse
fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza delle nazioni, e come si
aiutassero delle favole, delle tradizioni ec. per persuadersi, e tener come
cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la propria nazione fosse di
genere e di natura, e quindi di diritti ec. ec. diversa dalle altre. Persuasione
utilissima e necessaria, come altrove ho dimostrato.
(12. Maggio 1821.)
Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura.
Questo è chiaro dall'esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla
letteratura è stata mai formata nè stabilita, [1038] e molto meno
perfetta. Come dunque la perfezione dell'italiana starà nel 300? Altro
è scrivere una lingua (come si scriveva l'antica teutonica, non mai ben
formata nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla
quale l'italiano non fu applicato che nel 500. Nel 300. veramente e propriamente
da tre soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede
se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere
una lingua fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della
perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec. ma
nel tempo dei primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione
in quello d'Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone
(contemporanei) giacchè allora il latino fu applicato generalmente a
lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300. E
così dico pure delle altre lingue o morte, o viventi.
(12. Maggio 1821.). V. p.1056.
Nei tempi bassi furono veramente ????????? i tedeschi e gl'inglesi, ossia la
parte colta di queste nazioni, che scrivevano il latino, se ne servivano per
le corrispondenze, lettere ec. e parlavano le lingue nazionali. E così
pure gl'italiani, i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già un volgare
assai diverso dal latino scritto. Ma questa:
1.E una ??????????che appartenendo allo scritto e non al parlato, non entra
nel mio discorso. E la [1039] universalità del latino, ch'era allora
universale in occidente, era universalità che appartenendo alla sola
scrittura, non ha che fare con quella che rende gli uomini parlatori di due
lingue, cioè veramente ?????????, della quale sola io discorro.
2. La lingua latina era allora veramente morta, appresso a poco come oggi, non
essendo parlata, ma solo scritta. E una lingua solamente scritta è lingua
morta. Ora, quantunque l'uso di una tal lingua morta fosse allora più
comune che oggidì, e così anche fosse dopo il risorgimento delle
lettere; la universalità delle lingue morte che si studiavano e si studiano
o per usi letterarii, o per vecchia costumanza, non entra nel mio discorso,
il quale tratta solo della universalità delle lingue vive. Così
anche oggi si potrebbe chiamare presso a poco universale la lingua greca in
Europa, e ne' paesi colti, ma come lingua morta.
(12. Maggio 1821.)
Alla p.1031. principio. Come la letteratura, così la lingua francese
è precisamente moderna, sì per l'influenza somma nella lingua
della letteratura che la forma (e nel nostro caso l'ha singolarmente formata
e determinata, mutandola assai da quella ch'era da principio, e dalla sua stessa
indole primitiva); sì per l'influenza immediata sulla lingua francese
delle stesse cagioni che hanno influito sulla letteratura francese, e formatala.
[1040]Or come la lingua francese è strettamente moderna, e quindi strettamente
propria all'odierna universalità, per esser modellata sulla ragione,
e oggi (secondo il vero andamento del secolo) quasi sulla matematica; così
la lingua greca era propria alla universalità de' tempi suoi, massime
fra' popoli del meriggio orientali e occidentali, che sono e furono sempre più
immaginosi; e ciò per essere strettamente antica, e questo per essere
strettamente modellata (nel perfetto) sulla natura. A differenza della latina
modellata piuttosto sull'arte. E si può dire che la perfezione della
lingua greca era conforme, ed aveva il suo fondamento nella natura, non essendo
perciò meno perfetta, nè artificiata; e la perfezione della latina
era conforme, ed aveva il suo modello, il suo tipo, il suo fondamento, la sua
norma nell'arte.
(12. Maggio 1821.)
Alla p.1016. In ogni modo le parole greche che si trovano nell'uso familiare
e popolare, italiano o francese, (massime se non si trovano presso gli scrittori
latini) non possono esser derivate se non dall'antico volgare latino, da qualunque
parte esso le abbia ricevute, o dalla Grecia direttamente, e ab antico, per
qualunque mezzo; o da un'origine comune con quella della lingua greca, ovvero
dalle colonie greche d'Italia o delle Gallie, o da qualunque [1041] comunicazione
avuta colla lingua greca. Come infatti le dette parole avrebbero potuto pervenire
a noi, senza passare pel volgare latino? Quando la lingua greca si spense nelle
Gallie assai per tempo, e così pure in Italia (sebben forse più
tardi p.e. in Sicilia, che nelle Gallie); ed all'incontro il volgare latino
stabilitosi in detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e
dura dal suo stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque,
le parole greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie
de' soli scrittori) nell'italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo);
quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi
come loro primitive; dovettero essere necessariamente nell'antico volgare latino,
che sta di mezzo fra l'uso del greco in alcuni paesi d'Italia o di Francia,
e l'uso dell'italiano o del francese: in maniera che le dette parole hanno dovuto
passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere all'antico volgare
latino. Nè dopo la grande e principale alterazione di questo volgare,
e il nascimento de' volgari moderni che ne derivano, l'Italia o la Francia hanno
avuto colla lingua greca, (e massime coll'antica, o anche antichissima, alla
quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042] comunicazione
veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune parole e
modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo uso; qualità
osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran rilievo presso loro.
Resta dunque inconcusso il mio discorso, e la mia proposizione, che le parole
o modi italiani o francesi o spagnuoli, che derivano dal greco, che spettano
all'uso volgare, al capitale antico, primitivo, proprio di dette lingue, che
non si trovano presso gli scrittori latini, debbono essere stati indispensabilmente
ed esserci venuti dal volgare antico latino, derivando le dette lingue dal latino,
anzi da esso volgare, e non potendo aver preso nessuna parola o modo volgare,
o primitivo loro, immediatamente dalla lingua greca.
Il qual discorso, se si tratta di parole o modi italiani, ha la sua piena forza,
e dimostra l'esistenza di dette parole o modi nell'antico volgare latino proprio,
cioè in quello che si parlava anticamente in Italia. Trattandosi di parole
francesi, lo può solamente dimostrare, rispetto all'antico volgare latino
che si parlava nelle Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva,
come dialetto) da quello parlato in Roma o in Italia. Vale a dire che in quel
volgare, vi poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie
greco-galliche, il quale non [1043] si trovasse nel volgare latino di Roma,
o d'Italia. Massimamente se le dette parole non si trovano oggi se non se nella
lingua francese, e se mancano all'italiana. E così anche viceversa, se
qualche parola greca passò in quest'ultimo volgare dalle Colonie greco-italiane,
o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec. ec. dopo l'introduzione del
volgare latino nelle Gallie. (13. Maggio 1821.). Giacchè le altre parole
greche introdotte già nel latino prima di quel tempo, ancorchè
venute dalle colonie greche d'Italia, non fa maraviglia se passarono col latino
anche in Francia ed altrove.
L'Inghilterra in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo
anche dell'origine de' suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale
che al settentrionale. Essa ha del settentrionale tutto il buono (l'attività,
il coraggio, la profondità del pensiero e dell'immaginazione, l'indipendenza,
ec. ec.) senz'averne il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità,
la politezza, la sottigliezza (attribuita già a' Greci: v. Montesquieu
Grandeur etc. ch.22. p.264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a
cui non si trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità
e fecondità d'immaginazione, e simili buone qualità, senz'averne
il torpore, la inclinazione all'ozio o alla inerte voluttà, la mollezza,
l'effeminatezza, la corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio
pacifico ec. ec. Basta paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o
russo ec. per conoscere l'enorme differenza che passa fra il carattere inglese
e il settentrionale. E siccome l'Italia non ha milizia, e la Spagna non la sa
più adoperare, ec. non v'è milizia in Europa più somigliante
alla francese dell'inglese, più competente colla francese, per l'ardore
e la vita individuale, la forza morale [1044] la suscettibilità ec. del
soldato, e non la semplice forza materiale, come quella de' tedeschi, de' russi
ec. V. p.1046.
Tutto ciò verrà forse da altre cagioni, ma forse anche dal loro
governo e costituzione politica, stata sempre più simile alle antiche
di qualunque altra Europea, fino al dì d'oggi ch'è stata appresso
a poco adottata da' francesi, dov'è troppo presto per vederne gli effetti.
Ora egli è certo che l'antico è sempre superiore al moderno in
quanto spetta alla immaginazione, e che in questa, anche gli antichi settentrionali
che cedevano ai meridionali antichi, erano però ben superiori ai meridionali
moderni.
(13. Maggio 1821.)
La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce
appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più
del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai
provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è
più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo
gustare. La lontananza giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione;
e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello
del piacere, o del godimento.
(13. Maggio 1821.)
[1045] Chi vuol vedere quanto abbia la natura provveduto alla varietà,
consideri quanto l'immaginazione sia più varia della ragione, e come
tutti si accordino in ciò che spetta o è fondato su questa, e
viceversa. Per esempio osservi come fossero varie le lingue antiche architettate
sul modello della immaginazione, e quanto monotone quelle moderne che più
sono architettate sulla ragione. Osservi come una lingua universale debba esser
modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione, appunto perchè
questa è comune a tutti, ed uguale e uniforme in tutti.
(13. Maggio 1821.)
La Francia è per geografia la più settentrionale
delle regioni Europee che si comprendono sotto la categoria delle meridionali.
Così dunque la sua lingua partecipa di quella esattezza, di quella, per
così dire, pazienza, di quella monotonia, di quella regolarità,
di quella rigorosa ragionevolezza che forma parte del carattere settentrionale.
E così pure la sua letteratura in gran parte filosofica, e generalmente
il suo gusto letterario, sebben ciò derivi in gran parte dall'epoca della
sua lingua e letteratura; epoca moderna, e per conseguenza epoca di ragione.
Come per lo contrario l'Inghilterra ch'è per carattere la regione meno
settentrionale di tutte le settentrionali, (v. p.1043.) ha una lingua delle
[1046] più libere d'Europa colta per indole; e per fatto la più
libera di tutte (Andrès, t.9. 290 291. 315-316.); e parimente la letteratura
forse più libera d'Europa, e il gusto letterario ec. Parlo della sua
letteratura propria, cioè della moderna, e dell'antica di Shakespeare
ec. e non di quella intermedia presa da lei in prestito dalla Francia. E parlo
ancora delle letterature formate e stabilite ed adulte; e non delle informi
o nascenti.
(13. Maggio 1821.)
Alla p.1044. Ciò è manifesto anche dal fatto, dalla continua e
famosa gara della nazione inglese colla francese, dalle molte vittorie, e talvolta
formidabili, degl'inglesi sopra i francesi, riportate massime anticamente ec.
ec. e dall'essere stata forse l'Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l'unica
potenza che si sia battuta a solo a solo colla francese, con costante competenza,
ancorchè tanto inferiore di popolazione, e considerando specialmente
le altre potenze di forze uguali all'Inghilterra, fra le quali essa si troverà
l'unica capace di far fronte per lo passato alla Francia.
(14. Maggio 1821.)