INDICE
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Il dono di Natale
Comincia a nevicare
Forse era meglio
L'anellino d'argento
La casa della luna
Il pane
Il cestino dello zibibbo
Il voto
Mirella
Il pastorello
La storia della Checca
Il mio padrino
I ladri
Chi la fa l'aspetti
La fanciulla di Ottàna
Il vecchio Moisè
La sciabica
IL DONO DI NATALE
I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare
la notte di Natale in famiglia.
Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava
la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla
sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia
di lei.
E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare
al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti,
sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.
Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo
di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo
San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia
un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.
Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte,
parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno
sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli,
appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.
Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve,
le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le
impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che
la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora
più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano
come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano
fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del
vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi
scintillanti di gioia.
- Ben tornato, Felle.
- Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla
porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande
fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.
Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la
maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva
loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una
ninnananna per Gesù Bambino.
- Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah,
il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato
il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi
si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!
Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia,
ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.
In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta
al forno, e di dolci confezionati con buccie di arancie e mandorle tostate.
Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare
già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.
La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di
broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto
di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva
insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua
recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia,
avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza
degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli
avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla
madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso
quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero
e senza grasso, doveva essere più saporito.
- Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di
uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i
dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia,
dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.
Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine
e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico.
Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto
come una corazza e, sopra, la mastrucca [1].
Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella,
come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata
figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un
ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo
era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto
e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con
le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva
combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare
e parve poi passarli in rivista.
E rimasero tutti scambievolmente contenti.
Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo
petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere
come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata
gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel
prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.
Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a
far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età,
mentre portava loro il bicchiere colmo.
L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo
e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe
meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e
tutti risposero in coro.
Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio
era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche
il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione;
e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.
Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le
cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva
il manico fermo a terra.
- La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi
hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel
cortile.
La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse
destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono
delle campane, si sentivano canti e grida.
Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine
ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando
però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli
scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non
era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla
cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di
Felle rispose con impazienza:
- La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella
cosa. Vattene.
Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori:
tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello,
neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo
un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.
Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone
sulla pietra del focolare.
- Oh, ragazzi, su, in fila.
E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per
badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire
la carne del porchetto.
I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia,
andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano
da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori
fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare
tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi,
intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto
le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i
suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba.
Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella
sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in
una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo
con le sue vesti, di portarselo a casa sua.
Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto
adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri
brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come
sui muri di un giardino.
In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita
di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro
illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni
per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri,
a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo,
morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva
sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.
- Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:
- Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore
era il più bel dono che Gesù gli mandava.
All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre
inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava.
Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come
un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare
la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre
aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre
stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia
del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano
fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava
in questo mondo, avesse da sfamarsi.
Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in
alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero;
poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla
finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato
col suo regalo misterioso.
Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.
In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che
parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti
e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava
in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé,
a sua volontà.
Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un
vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso
lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi
dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno
apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli
si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della
madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.
Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi
vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad
avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina
le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma
sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini
di casa.
Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?
- Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero
di lui.
Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su,
vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti
ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un
bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.
- È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha
comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria".
Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte,
il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto
questa notte.
COMINCIA A NEVICARE
- Siamo tutti in casa? - domandò mio padre, rientrando una sera sul
tardi, tutto intabarrato e col suo fazzoletto di seta nera al collo. E dopo
un rapido sguardo intorno si volse a chiudere la porta col paletto e con la
stanga, quasi fuori s'avanzasse una torma di ladri o di lupi. Noi bambine gli
si saltò intorno curiose e spaurite.
- Che c'è, che c'è?
- C'è che comincia a nevicare e ne avremo per tutta la notte e parecchi
giorni ancora: il cielo sembra il petto di un colombo.
- Bene - disse la piccola nonna soddisfatta. - Così crederete a quello
che raccontavo poco fa.
Poco fa la piccola nonna, che per la sua statura e il suo viso roseo rassomigliava
a noi bambine, ed era più innocente e buona di noi, raccontava per la
millesima volta che un anno, quando anche lei era davvero bambina (nel mille,
diceva il fratellino studente, già scettico e poco rispettoso della
santa vecchiaia), una lunga nevicata aveva sepolto e quasi distrutto il paese.
- Quattordici giorni e quattordici notti nevicò di continuo, senza un
attimo d'interruzione. Nei primi giorni i giovani e anche le donne più audaci
uscivano di casa a cavallo e calpestavano la neve nelle strade; e i servi praticavano
qualche viottolo in mezzo a quelle montagne bianche ch'erano diventati gli
orti ed i prati. Ma poi ci si rinchiuse tutti in casa, più che per la
neve, per l'impressione che si trattasse di un avvenimento misterioso; un castigo
divino. Si cominciò a credere che la nevicata durasse in eterno, e ci
seppellisse tutti, entro le nostre case delle quali da un momento all'altro
si aspettava il crollo. Peccati da scontare ne avevamo tutti, anche i bambini
che non rispettavano i vecchi (questa è per te, signorino studente);
e tutti si aveva anche paura di morire di fame.
- Potevate mangiare i teneri bambini, come nel mille - insiste lo studentello
sfacciato.
- Va via, ti compatisco perché sei nell'età ingrata, - dice il
babbo, che trova sempre una scusa per perdonare, - ma con queste cose qui non
si scherza. Vedrai che fior di nevicata avremo adesso. Eppoi senti senti...
D'improvviso saliva dalla valle un muggito di vento che riempiva l'aria di
terrore: e noi bambine ci raccogliemmo intorno al babbo come per nasconderci
sotto le ali del suo tabarro.
- Ho dimenticato una cosa: bisogna che vada fuori un momento - egli dice frugandosi
in tasca.
- Vado io, babbo - grida imperterrito il ragazzo; ma la mamma, bianca in viso,
ferma tutti con un gesto.
- No, no, per carità, adesso!
- Eppure è necessario - insiste il babbo preoccupato. - Ho dimenticato
di comprare il tabacco.
Allora la mamma si rischiara in viso e va a cercare qualche cosa nell'armadio.
- Domani è Sant'Antonio; è la tua festa, ed io avevo pensato
di regalarti...
Gli presenta una borsa piena di tabacco, ed egli s'inchina, ringrazia, dice
che la gradisce come se fosse piena d'oro; intanto si lascia togliere dalle
spalle il tabarro e siede a tavola per cenare.
La cena non è come al solito, movimentata e turbata da incidenti quasi
sempre provocati dall'irrequietudine dei commensali più piccoli; tutti
si sta fermi, quieti, intenti alle voci di fuori.
- Ma quando c'è questo gran vento, - dice la nonna - la nevicata non
può essere lunga. Quella volta...
Ed ecco che ricomincia a raccontare; ed i particolari terribili di quella
volta aumentano la nostra ansia, che in fondo però ha qualche
cosa di piacevole. Pare di ascoltare una fiaba che da un momento all'altro
può mutarsi in realtà.
Quello che sopratutto ci preoccupa è di sapere se abbiamo abbastanza
per vivere, nei giorni di clausura che si preparano.
- Il peggio è per il latte: con questo tempo non è facile averlo.
Ma la mamma dice che ha una grossa scatola di cacao: e la notizia fa sghignazzare
di gioia il ragazzo, che odia il latte. Gli altri bambini non osano imitarlo;
ma non si afferma che la notizia sia sgradita. Anche perché si sa che
oltre il cacao esiste una misteriosa riserva di cioccolata e, in caso di estrema
necessità, c'è anche un vaso di miele.
Delle altre cose necessarie alla vita non c'è da preoccuparsi. Di olio
e vino, formaggio e farina, salumi e patate, e altre provviste, la cantina
e la dispensa sono rigurgitanti. E carbone e legna non mancano. Eravamo ricchi,
allora, e non lo sapevamo.
- E adesso - dice nostro padre, alzandosi da tavola per prendere il suo posto
accanto al fuoco - vi voglio raccontare la storia di Giaffà.
Allora vi fu una vera battaglia per accaparrarsi il posto più vicino
a lui: e persino la voce del vento si tacque, per lasciarci ascoltare meglio.
Ma la nonnina, allarmata dal silenzio di fuori, andò a guardare dalla
finestra di cucina, e disse con inquietudine e piacere:
- Questa volta mi pare che sia proprio come quell'altra.
Tutta la notte nevicò, e il mondo, come una grande nave che fa acqua,
parve sommergersi piano piano in questo mare bianco. A noi pareva di essere
entro la grande nave: si andava giù, nei brutti sogni, sepolti a poco
a poco, pieni di paura ma pure cullati dalla speranza in Dio.
E la mattina dopo, il buon Dio fece splendere un meraviglioso sole d'inverno
sulla terra candida, ove i fusti dei pioppi parevano davvero gli alberi di
una nave pavesata di bianco.
FORSE ERA MEGLIO...
Alis aveva dieci anni e doveva studiare: lo studio però non gli andava
a genio: avrebbe preferito viaggiare o almeno stare nella strada o nel prato
a giocare, sia pure col suo cagnolino Bau che gli saltellava sempre attorno
come fosse attaccato a lui da un fil di ferro a molla.
Quando era proprio costretto a studiare, Alis si faceva venire il mal di testa,
e pregava il cielo che qualche avvenimento portentoso facesse sparire dal mondo
le scuole ed i libri.
Ed ecco una notte di vento e di tuoni sentì il suo Bau guaire e abbaiare
nel cortile. C'erano i ladri? Alis non aveva paura dei ladri, anzi era curioso
di vederli. Si vestì, quindi, alla meglio, e scese in cortile: subito,
alla luce dei lampi, mentre al fragore dei tuoni si univa un rombo misterioso,
vide la sua casa scuotersi qua e là come una testa che dice sì e
no, e poi spaccarsi e crollare intera. Anche le altre case cadevano; anche
la chiesa e la scuola: e fra i rottami e gli altri oggetti si vedevano i libri
rotolare ed i quaderni svolazzare come grandi farfalle sinistre.
Era il terremoto.
Preso da un folle terrore Alis cominciò a correre, seguito da Bau.
Correvano come se il terremoto li inseguisse, frustati dalla pioggia, dal vento,
dalla grandine.
E corri corri, Alis vide finalmente, su un poggio, una capanna illuminata:
arrivato lassù spinse la porta e si trovò in una piccola stanza
dove accanto al fuoco dormiva una vecchietta coi capelli bianchi. Un cestino
coperto da uno straccio era il solo oggetto che si vedesse attorno.
Per non svegliare la vecchietta, Alis stette in un cantuccio, con Bau che gli
si stringeva addosso tremante, e ringraziò Dio di avergli fatto trovare
quel rifugio.
La notte passò, si calmò la bufera. Alis non dormiva, pensando
alla sua casa crollata e divenuta il sepolcro della sua famiglia: il suo dolore
era tanto grande ch'egli non poteva neppure piangere.
Ed ecco al sorgere del sole una donna scalza vestita di verde e con una bacchetta
in mano si affacciò alla porta.
- Bambino, - disse, - ho saputo della tua disgrazia e sono venuta a prenderti,
se tu vuoi venire. Sono la fata Verdina: la mia casa è qui sotterra
e se tu verrai nulla ti mancherà: vivrai come un principe, ti darò mia
figlia per sposa; ma non dovrai mai più lasciare il mio regno.
- E il cane? - Alis domandò.
- Il cane non posso pigliarlo perché noi fate abbiamo paura dei cani
e dei galli. Però può stare qui con questa vecchia che è la
madre dei Venti e adesso si sveglierà per far da mangiare ai figli che
già ritornano a casa. Be', vuoi venire?
Il cagnolino gli tirava di nascosto il lembo della veste, come per consigliarlo
a fuggire, a non andare con la fata. Alis pensava. Pensava che vivere sempre
sotterra, sebbene nel regno delle fate, non era una cosa molto allegra: d'altronde
dove andare? Non aveva più casa, né paese, né parenti,
né amici.
- C'è da studiare? - domandò.
- Macché studiare: non c'è che da divertirsi.
Ed egli andò.
La fata lo condusse ai piedi del poggio e toccò con la bacchetta una
pietra: e tosto si trovarono in un grande giardino luminoso, davanti a un palazzo
tutto di marmo.
- Donde viene la luce, se siamo sotto terra? - si domandò Alis. E ricominciò a
pensare.
La fata non pareva disposta a dargli spiegazioni altro che con la bacchetta
lucida e flessibile. Con questa fece aprire e chiudere il portone del palazzo,
di questa si serviva per chiamare le altre fate.
Erano tutte belle, le altre fate, grandi e piccole, ma Alis osservò che
come gli uccelli, come i gatti, come tanti altri graziosi animali, non sorridevano
mai e mai non lavoravano.
D'altronde, perché dovevano lavorare? Tutto si otteneva col solo tocco
della bacchetta; e quello che più piaceva ad Alis era l'assoluta mancanza,
nel palazzo, delle cose che rendono nervosi gli uomini: il telefono, la luce
elettrica, le stufe, i campanelli, il pianoforte, i servi, gli oggetti d'uso
scolastico.
Dopo avergli fatto visitare il palazzo, la fata lo condusse nella sala da
pranzo dove la tavola era meravigliosamente apparecchiata e fornita delle ghiottonerie
ch'egli più amava; e gli presentò la piccola fata bionda che
un giorno doveva essere la sua sposa.
Questa bambina, già alta, con gli occhi e il vestito color del cielo,
piacque ad Alis come il sole, la luna, le altre cose belle della terra; anche
lei però non sorrideva mai, e quando egli le propose di scendere in
giardino a giocare, lo guardò con meraviglia: ella non sapeva cosa fosse
giocare.
- T'insegnerò io - egli le disse sottovoce; - andiamo.
Andarono nel giardino, ed egli le propose e le spiegò tutti i giochi
che sapeva: ella lo ascoltava volentieri, ma non le riusciva d'imparare i giochi
e neppure di ballare e di correre. Allora egli cominciò ad annoiarsi
e desiderò di avere almeno un libro di avventure da leggere.
E col cadere della sera la sua noia si fece tristezza. Pensava alla sua casa
distrutta, ai suoi parenti morti: ma erano poi tutti morti davvero? Oh, perché era
vilmente fuggito? Forse avrebbe potuto sollevare le macerie e salvare qualcuno.
E anche il rimorso di aver abbandonato Bau, ch'era infine il suo salvatore,
gli stringeva il cuore. Forse era meglio restare nella capanna della madre
dei Venti, aspettare che questi tornassero e poi far si trasportare da loro.
Forse era meglio... Sì, tutto è meglio del non far niente e avere
con facilità tutte le cose che si desiderano. Adesso egli cominciava
a capire perché le fate, neppure se bambine, possono sorridere.
La grande fata Verdina si accorse subito dei tristi pensieri di lui.
- Ascoltami, - gli disse, - io dovrei darti l'anello di fidanzato di mia figlia:
veramente volevo offrirtelo più tardi, fra qualche anno, ma forse è meglio
adesso.
- Sì, forse è meglio - rispose lui trasognato.
Allora la bambina, ad un cenno della madre, gl'infilò nel dito un piccolo
anello d'argento; e d'improvviso egli si sentì un altro. Dimenticò ogni
cosa passata, si sentì leggero, senza pensieri, senza domande, senza
curiosità, felice come quando ci si sta per addormentare.
Scese con la bambina in giardino e passeggiò con lei lungo i viali illuminati
dalla luna, fermandosi a guardare i riflessi del lago, i giochi delle ombre
ed i colori strani delle rose.
E quando rientrò nella sua camera bellissima, si vide riflesso negli
specchi come la luna nel lago: i suoi occhi erano dolci e belli, ma, come quelli
dei cervi, dei gatti, della tortora, non sorridevano più.
L'ANELLINO D'ARGENTO
In Sardegna esistono ancora le case delle fate. Solo che queste fate erano
piccolissime; piccole come bambine di due anni, e non sempre buone, anzi spesso
cattive: in dialetto si chiamavano Janas e ancora è in
uso una maledizione contro chi può averci fatto qualche dispetto: -
Mala
Jana ti jucat - mala fata ti porti; vale a dire, ti perseguiti.
Il mio sogno, da bambina, era di visitare queste domos de Janas e
poterci penetrare: ma essendo esse lontane dall'abitato, per lo più in
luoghi deserti e rocciosi, la cosa non era facile.
Le storielle che un servetto d'ovile raccontava ogni volta che veniva in paese
per cambiarsi la camicia e per andare a messa, aumentavano il mio desiderio.
Questo servetto raccontava dunque di aver più volte visitato le domos
de Janas , e abbassava la voce nel descriverne i particolari. - La
porta è bassa e stretta, fatta con lastre di pietra; e bisogna entrare
carponi: sulle prime non si vede che una piccola stanza, un antro tutto di
sassi, dove si rifugiano le bisce e le lucertole; ma se tu hai la pazienza
e l'avvertenza di cercare, troverai una pietra mobile che gira come un uscio,
ed è la vera entrata alla casa delle Janas . Ancora
bisogna penetrare carponi, ma subito ti trovi in una stanza alta più di
sette metri, tutta dorata come un pulpito, con la vôlta dipinta di stelle;
tu vedi di fronte a te, per migliaia di usci spalancati, una fila di stanze,
una più bella dell'altra, che finiscono in una loggia sul mare.
Questo era il particolare che più affascinava: questo sboccar della
misteriosa casa sotterranea nell'infinito respiro del mare.
Ma poco c'era da credere a quanto raccontava il servetto. Era un ragazzo visionario,
sempre malato di febbri malariche, e quello che sognava nei suoi delirî lo
dava per vero, credendoci lui per il primo. Così, conosceva tutta una
folla di rispettabili personaggi, dal diavolo grande al folletto "Surtòre",
che sta nelle case ma nessuno lo vede, e nasconde gli oggetti, aizza le donne
a far pettegolezzi, apre la porta ai vampiri che succhiano il sangue ai bambini.
Raccontava di aver veduto nella solitudine dei monti una torma di cervi guidati
da un pastore che aveva pure lui le corna ramate come quelle del suo agile
gregge: ebbene, questo pastore era il diavolo e i cervi anime dannate di ladri.
Raccontava di aver veduto in riva al mare un bellissimo bambino coi capelli
d'oro e gli occhi celesti, che con una conchiglia prendeva l'acqua marina e
la spandeva intorno: e sull'arida sabbia spuntavano il grano e la vigna: e
questo bambino era Gesù!
Giganti e nani lo andavano a trovare, quando era solo nell'ovile a guardare
le pecore, specialmente nei giorni di nebbia quando è più facile
dileguarsi e nascondersi.
Infine egli possedeva un anellino di argento con una piccola perla ch'era poi
un pezzettino di cristallo entro il quale si riflettevano i sette colori dell'iride:
ebbene, egli affermava di essere un giorno, dopo una tempesta, riuscito a trovare
il punto preciso dove comincia l'arcobaleno: lì aveva scavato e trovato
l'anello che a chi lo possiede permette d'inventare cento e una storiella in
una sola sera.
Quest'anellino era l'unica prova concreta di quanto egli raccontava: perché ad
inventare storielle meravigliose, davvero bisognava lasciarlo solo.
Ed ecco che cosa avvenne. Un anno, in un settembre tiepido e verdiccio come
un principio di primavera, ci si trovava a Valverde, che è una bellissima
vallata tutta roccie e macchie, in una cui falda solitaria sorge una chiesetta
che si dice costrutta anticamente da un bandito per penitenza ed espiazione
dei propri peccati.
Bel posto, bei giorni che erano tutti una poesia: ogni ora un verso, ogni giorno
una strofa armoniosa.
Ed ecco una domenica capita il nostro ragazzo che portava un cero alla Madonna
della chiesetta, per parte della sua nonna paralitica. Dopo aver con grande
devozione pregato e deposto il cero, venne fuori e propose a me e ad alcune
mie amiche di andare con lui a vedere le domos de Janas che
egli diceva essere lì a due passi.
E si andò. I due passi però si raddoppiavano per sé stessi,
come i famosi granellini di miglio della leggenda: due, quattro, otto, sedici,
trentadue, sessantaquattro, ecc. Si saliva e si scendeva per un sentieruolo
scosceso: ecco, le case delle fate sono lì, in quella collinetta tutta
di pietre dove svolazzano certi uccellacci che stridono e fischiano come il
vento. A dire la verità qualcuno ha paura: se quei grandi uccelli neri
fossero uomini malvagi tramutati così dalle fate?
Il ragazzo ci fa coraggio.
- Macché, non vedete che sono corvi e cornacchie? Ci deve essere lassù qualche
carogna di bestia o magari qualche uomo morto, e se lo pappano.
Una bambina cade e si mette a piangere.
- Ben ti sta, - dice lui, - perché sei venuta senza il permesso dei
tuoi genitori!
E chi ce l'ha questo permesso? Si dovrebbe ruzzolare tutte in fondo alla valle.
- Coraggio, coraggio, ci siamo: ecco la porta, la vedete? Quella tra quattro
pietre sotto una macchia di lentischio.
Si vede infatti un buco nero, ma è in alto, fra un cumulo di roccie,
e solo gli uccelli ci possono arrivare.
E se ci fosse qualche uomo nascosto, qualche malfattore che ci volesse far
del male? Infatti si sente d'improvviso un fischio acutissimo che pare ci voglia
spazzar via; e tutta la combriccola, compresa la nostra brava guida, si ferma
esterrefatta.
Per darci prova del suo coraggio, il ragazzo si avanza e risponde al fischio
con un fischio provocante che pare dica al nemico nascosto: - Se hai del fegato
vieni fuori.
Il fischio non si ripete, ma dall'alto delle roccie comincia a venir giù una
pioggia di sassi che colpiscono qualcuno della compagnia. Gli uccellacci stridono:
- Ben vi sta, ben vi sta, ragazzine: poiché siete in cerca di avventure,
senza il permesso dei genitori.
Il ragazzo comincia ad urlare, con la mano sulla bocca, insultando e chiamando
fuori il nemico nascosto: poi grida:
- Ferme tutte - e si slancia all'assalto della rocca.
Ma arrivato al buco che secondo lui era la porta delle fate, una mano lo spinge
giù a tradimento, ed egli rotola come un gomitolo, senza, fortunatamente,
farsi gran male, lasciando brandelli di vesti fra i cespugli e perdendo di
tasca le sue cose.
Due infernali teste di monelli s'affacciano allora alla buca, sghignazzando:
ed anche noi della compagnia, ingrate, ci beffiamo della nostra povera guida.
Si ride e si scappa; anche il ragazzo è costretto a battere in ritirata
perché ricomincia una terribile scarica di sassi; e nel suo sdegno minacciante
vendetta egli non si accorge che ha perduto l'anellino d'argento. E l'anellino
d'argento me l'ho preso io, e lo tengo ancora.
LA CASA DELLA LUNA
Quello stesso ragazzo che ci condusse con esito tanto negativo a cercare la
casa delle fate, affermava di sapere anche dov'è la casa della madre
della luna e quella della madre dei venti.
Questa è più difficile a trovarsi perché sorge in cima
alle montagne; i venti vi giocano davanti, come i ragazzi nel cortile, e sono
capaci di buttarvi per terra col loro soffio, o di scaraventarvi addosso macigni
e tronchi d'albero. La casa della madre della luna è di più facile
accesso, per chi naturalmente ha fegato e coraggio: basta osservare bene il
punto preciso dove la luna sorge alla sera, per la sua bella passeggiata sui
prati azzurri del cielo; là vive la madre.
- E il padre dove sta?
- Il padre è il sole, e tutti sanno dove sta; ma è inutile pensare
di andare a trovarlo.
Del resto, perché questa smania di conoscere la madre della luna? Sarà una
vecchietta vestita di biancoperla, che prepara il letto e il mangiare a quella
vagabonda di sua figlia: ma non è per lei che si desidera conoscerla; è per
la sua casa nascosta dietro gli alberi in cima alla collina, o magari dietro
la vigna: una casa tutta d'argento, coi balconi d'oro, i chiodi della porta
di diamanti.
Dietro la vigna sorgeva la luna, in quelle sere di ottobre ancora calde e
come ubbriacate dall'odore del primo mosto e da quello dell'uva fragola ancora
non vendemmiata.
La vigna era vasta, ondulata, sola in una pianura ancora incolta; grandi fichi
stampavano la loro ombra pesante sul verde delle viti, e i frutti cadevano
giù da sé, lentamente, come grosse gocce di miele raddensato.
Chi mangiava fichi in quel tempo? Li si guardava con disgusto scansandoli di
sotto i piedi con la cima d'una canna: anche l'uva non ci andava più,
neppure il moscato dagli acini grossi come le susine: si preferivano le more
ultime scintillanti nei roveti dei campi di là della vigna.
Una casetta di appena due camerette ci riparava dall'umido della notte; ma
sopra mormorava, anche se non c'era vento, un pino; e la sua musica senza suono
apriva il tetto di quella specie di capanna e ci portava via in lenti giri
concentrici, entro una rete di seta, via via per gli infiniti spazi dei sogni.
Fra questi sogni dunque cominciò a dominare quello di andare in cerca
della casa della luna.
Cosa ci voleva del resto? Bastava risalire il sentiero fra le vigne, saltare
la muriccia di cinta, prodezza fatta più di una volta; andare fino ai
roveti badando a non pungersi, e guadagnare la cima di una breve altura erbosa. È di
là che s'affaccia il viso sempre più grasso della luna, in queste
opime sere di ottobre: grasso e placido come quello di uno che ha fatto la
cura dell'uva.
E una sera si prova. C'è festa notturna nella vigna. Un servo suona
la fisarmonica e le ragazze ballano al chiaro di luna. Dunque non c'è neppure
pericolo d'incontrare la volpe che non ama la musica e sta lontana fin dove
il suono non si sente. Io vado. A dirvela in confidenza in fondo non credo
esista la casa della luna: ma vado a cercarla più che altro per spirito
di avventura, di ribellione e di coraggio.
E la luna mi guardava di sbieco, con una smorfia che mi ricordava quella di
una mia compagna del giardino d'infanzia. Ho ancora il ricordo di aver attraversato
le vigne con l'impressione che le viti basse e grigie alla luna fossero tante
pecore addormentate. Il suono della fisarmonica mi faceva compagnia.
Ecco saltata la muriccia; qui il mondo cambia aspetto, è ancora un mondo
noto, con le sue pietre e le macchie di rovo, ma non più nostro. Comincia
un po' di tremarella: chi ha mosso e fatto luccicare l'erba ai miei piedi?
Niente paura; è forse una lucertola: ad ogni modo bisogna stare attenti.
La musica si fa un po' lontana, ma non cessa mai. È come la voce di
un complice rimasto a vigilare perché la scappata non sia scoperta.
Ecco la breve china erbosa dietro la quale dovrebbe esserci la famosa dimora.
Per quale scopo io mi tolga le scarpe e le calze non so ancora; forse per arrivare
più silenziosa, o perché questo fatto mi era assolutamente proibito.
Quello che so è che una grossa spina mi avvertì subito, ficcandosi
nel mio calcagno destro, di aver fatto male.
Mi sedetti sull'erba e tentai, al chiaro di luna, di levare la spina; impossibile;
andava sempre più dentro, e mi pareva mi salisse fino al cuore.
Rimisi le calze e le scarpe, ma rimasi lì, sull'erba pungente, presa
da un terrore inesplicabile. Adesso mi verrà la cancrena, mi taglieranno
il piede, e così Dio mi castigherà di aver voluto camminare di
notte fuori della mia proprietà, per disobbedire ai genitori.
Per maggior sconforto, ecco d'un tratto la musica tace: mi sembra di essere
sola nel mondo, o peggio ancora in mezzo ad una torma di volpi che s'avanzano
silenziose e terribili strisciando le lunghe code gialle per terra.
Poi mi sentii chiamare, di lontano, e disperatamente ritornai sui miei passi,
fino a scavalcare di nuovo la muriccia. E non dissi nulla della spina, che
per quanto frugassi con un ago non veniva fuori. Finché il piede non
si gonfiò e venne in suppurazione: io tacevo e aspettavo sempre il terribile
castigo: eppure, seduta accanto al finestrino della cameretta, col piede nudo
fasciato, guardavo l'altura donde sempre più tardi alla sera nasceva
la luna. Il terzo giorno il piede si sgonfiò. E alla sera la luna non
apparve, ma sull'altura si delineò un castello fantastico, di carta
velina, con decorazioni d'oro e d'argento. Era una nuvola, ma alla gioia del
cuor mio essa appariva come la vera casa della luna.
IL PANE
Finché sono stata signorina, mi è toccato di fare il pane in
casa. Questo voleva nostra madre, e questo bisognava fare: non per economia,
che grazie a Dio allora si era ricchi, più ricchi di quanto ci si credeva,
ma per tradizione domestica: e le tradizioni domestiche erano, in casa nostra,
religione e legge.
Dura legge, quella di doversi alzare prima dell'alba, quando il sonno giovanile
ci tiene stretti stretti nelle sue braccia di velluto e non vuole assolutamente
abbandonarci!
La serva bussa all'uscio, con la lampada in mano, anche lei tentennante per
il sonno interrotto: su, su, è ora di alzarsi. Un piede va fuori delle
coltri, ma tosto si ritira come abbia toccato acqua fredda; mentre l'altro
piede è ancora nelle tiepide strade dei sogni: un braccio si tende e
la mano si chiude nervosamente, mentre l'altra rimane beatamente aperta sul
lenzuolo molle, come su un prato di margherite al sole. La serva bussa una
seconda volta, poi spinge l'uscio.
- Su, su, se no viene la signora padrona...
Allora il piede sveglio batte su quello che ancora dorme, e la mano sveglia
va a cercare quella che sogna... E tutte e due si fanno coraggio. Siamo in
piedi. Che freddo! Come è brutta la vita! Ma verrà un giorno...
Ebbene, sì, devo confessare che fin dall'età di dodici anni avevo
stabilito di sposarmi per non fare più il pane in casa.
Ma passato il primo momento la faccenda prendeva il suo ritmo quasi di festa.
Bisogna poi dire che questa faccenda non era di tutti i giorni né di
tutte le settimane, perché il pane biscotto che ha il nome caratteristico
ma appropriato di "carta di musica" dura interi mesi senza guastarsi,
specialmente d'inverno.
Specialmente d'inverno si stava bene, nella grande cucina riscaldata dal forno
acceso e dal camino idem: fuori c'era la neve, e peggio di noi stava la donnina
che aveva scelto il mestiere d'"infornatrice" di pane; essa, no,
non si lasciava sedurre dal sonno, e tutti i giorni, spesso anche tutte le
notti, se la passava davanti al forno a combattere con quelle larghe rotonde
focacce che tendono a gonfiarsi, a scoppiare, a bruciarsi in un attimo, e pare
lo facciano per dispetto contro la paletta che le volta e rivolta e batte su
di loro come la mano materna sul sedere grassoccio dei bambini cattivi.
Questa donnina, dunque, doveva anche sfidare il freddo e la neve per arrivare
a destinazione: una volta arrivata era però, d'inverno s'intende, la
persona più felice del mondo. Sedeva davanti al forno e veniva servita
come una regina; e una regina di marionette pareva, così piccola, legnosa,
nera bruciata dal calore dei forni di tutto il paese, con una voce che sembrava
venisse di lontano, dall'alto del camino del forno. Le cose che raccontava
erano tutte interessanti, specialmente dopo aver preso il caffè o mangiato
tre piatti di maccheroni e bevuto un bel bicchiere di vino.
Questo vino, a dire il vero, glielo davo io di nascosto, perché allora
le donne non usavano bere vino (di nascosto però sì); lei si
volgeva verso il muro fingendo di soffiarsi con buona creanza il naso, e beveva
a testa china sorbendo avidamente dal bicchiere: oppure glielo davo in una
tazza di latta come fosse acqua versata dalla brocca.
Mia madre, che pregava sempre sottovoce, perché quando si fa il pane è come
si stia in chiesa, non si accorgeva del peccato dell'infornatrice.
L'infornatrice diventava loquace e raccontava le storie di tutte le famiglie
della città, comprese quelle degli antenati; e la mia fantasia pescava
in quelle narrazioni più che nei libri stampati di avventure e novelle.
Finito di gramolare la pasta e di stendere col matterello le focacce, e con
le perle delle vesciche che la faccenda lasciava nella palma lucida delle mie
mani, mi mettevo accanto alla donna ad ascoltare.
A riferire tutte le sue storie ci sarebbe da scrivere altri dieci libri, oltre
quelli felicemente scritti: per oggi ne ricordo solo una, che doveva esser
vera, poiché la donna la raccontava spesso e senza varianti, mentre
le altre subivano sovente grandi modificazioni.
«
Dunque, - queste sono le sue testuali parole, - tanti anni or sono, appena
il Signore mi aveva dato la forza di lavorare e mia madre mi aveva insegnato
il mestiere, ecco un giorno vado a infornare il pane in casa di dama Barbara.
Dama Barbara era ricchissima e avara, tanto che dicono sia morta coi pugni
stretti, mentre i buoni cristiani rallentano le mani nel consegnare l'anima
a Dio. Dama Barbara mi dava un pugno di fichi secchi alla mattina e neppure
il pane fresco mi dava, come si dà anche ai cani, il giorno che si cuoce:
pane vecchio e acqua quanta ne volevo: anzi mi incoraggiava a bere, perché bevendo
acqua non si ha voglia di mangiare. Ma adesso vi dico una soddisfazione che
Dio mi ha mandato fino ai piedi. Dunque, una mattina all'alba quando cantano
i galli, mentre si aspettava che il pane fosse lievitato a giusto punto, ecco
si presenta alla porta un bellissimo bambino coi capelli biondi ricciuti e
gli occhi di cielo. Il vestitino rosso era stinto e lacero: eppure pareva nuovo
fiammante.
- Datemi un focaccino, - dice, - sia pure piccolo come un'ostia consacrata: è da
tanto tempo che non mangio pane fresco.
- Sùbito, bel bambino - dice dama Barbara, che in quanto a buone parole
era veramente una nobildonna. - E chi sei? Perché in giro così presto?
Il bambino non risponde, e la dama, presa la raschiatura della pasta avanzata
sulla tavola, ne fa un focaccino e lo dà a me per cuocerlo.
Io metto il focaccino nel forno, e vedo una cosa straordinaria.
Il focaccino cresce, cresce, diventa grande quanto tutto il pavimento del forno:
io devo piegarlo in quattro per tirarlo fuori. Credete che dama Barbara lo
dia al bambino? Neanche un pezzo. Prende il rimanente della raschiatura e fa
un focaccino grande quanto un soldo; ebbene, anche questo cresce e cresce;
e lei, divenuta come pazza per la gioia, mentre prega il bambino di aspettare,
continua a far focaccini e darli a me; ed io sudo per trarli fuori, ingranditi
dal forno: finché il Signore mi illumina la mente, e dico, sollevandomi
in ginocchio: - Dama Barbara, quel bambino è Gesù in persona,
venuto a provare il nostro buon cuore. - Dama Barbara si volge: il bambino
era sparito. E quando ella assaggia uno di quei grandi pani deve sputarlo via
tanto è acido; e anche il resto del pane, nei canestri dove fermentava, è tutto
andato a male. Così fu castigata dama Barbara per il suo cattivo cuore».
IL CESTINO DELLO ZIBIBBO
Primo, Secondo e Terzo, i tre fratelli Gelmini, erano andati a portare un
cestino d'uva alla nonna. Non che la nonna non avesse dell'uva; anzi ne aveva
tanta che i suoi pergolati erano più neri che verdi; ma di quella qualità,
posseduta in tutti quei dintorni solo dalla famiglia Gelmini, non si sapeva
se ce ne fosse altra al mondo. Tanto è vero che la madre avvertì i
tre ragazzi di tener ben coperto col panno il cestino, e se qualcuno domandava
cosa c'era là dentro, di rispondere:
- Ci sono uova e peperoni.
- Ci sono uova e peperoni - risposero infatti a una voce i tre bravi fratelli,
quando Vica la gobba, la donna che viveva nelle strade, e come un cane senza
padrone andava dietro ai passanti finché non veniva scacciata malamente,
saltò giù dalla siepe di un podere e domandò che cosa
c'era dentro il cestino.
- Non è vero - disse lei, fissando i suoi occhietti gialli sul panno
leggero che lasciava indovinare la forma dei grossi grappoli. - Lì,
ci avete lo zibibbo, quell'uva che possedete solo voi nel pergolato dietro
la casa. Io la conosco; ha gli acini lunghi e a punta come i peperoncini forti,
ma il sapore è ben altro. Io però non l'ho mai sentito, quel
sapore. Me lo fate sentire?
- Via di qua - urlò Primo, stendendo il pugno minaccioso; e gli altri
due fratelli si strinsero intorno al cestino per difenderlo come l'arca santa
degli ebrei nel deserto.
Il luogo era deserto davvero: e le case del paesetto dove stava la nonna, ancora
non si vedevano. Se avesse voluto, la gobba, che era gobba ma robusta, avrebbe
sbaragliato col suo bastone i tre intrepidi fratelli: ma lei non voleva. Già abbastanza
fama di cattiva donna, di ladra, di prepotente e di portasfortuna godeva: quindi
si contentò di umiliare e spaurire i Gelmini.
- Altra cosa vi credevo! Screanzati e sordidi siete; e la Madonna vi castigherà,
per aver negato tre acini d'uva alla povera mendicante senza casa e senza pane.
Il più piccolo dei Gelmini, fu allora del parere di dare un grappolino
alla gobba: per paura, s'intende, non per amore; ma gli altri due, e specialmente
Primo, che già aveva il cuore duro come quello di un vecchio contadino,
si opposero fieramente.
E tutti e tre ripresero a camminare, mentre Vica spariva fra le siepi donde
era sbucata. Per ingannare la lunghezza della strada Primo propose un gioco:
- Voi due siete i bovi che trascinate il carro: sopra il carro c'è l'uva.
Io vi conduco.
- Faremo un po' alla volta: non voglio sempre essere il bove, io - disse Secondo.
La proposta accettata, i due fratelli minori presero loro il cestino e andarono
avanti: Primo li aizzava, e non contento di loro si armò di una fronda
e cominciò a sferzarli sulle gambe. Secondo si mise a correre, ma il
fratello piccolo, che era già stanco e malcontento, abbandonò l'ansa
del cestino, e buona parte dell'uva cadde per terra: i bei grappoli si sgranarono
come tante collane di cui s'è rotto il filo.
Gli urli di Primo e le bòtte che egli prodigò al fratellino non
valsero a riparare il danno; né lo riparò l'osservazione che
fece Secondo:
- È perché la gobba porta sfortuna: e noi le abbiamo negato un
grappolino d'uva.
Questa fu la prima delle disgrazie.
La seconda avvenne quando si trattò di lasciare la strada per inoltrarsi
in un viottolo attraverso i campi, onde arrivare più presto alla casa
della nonna. Il piccolo Terzo, che dopo il trattamento energico del fratello
maggiore non aveva cessato di piagnucolare e lamentarsi, inciampò malamente
in un buco del terreno, nascosto dall'erba, e cadde lungo disteso battendo
la faccia al suolo. Sulle prime non gridò, non tentò di sollevarsi;
ma quando i fratelli, impressionati dal suo silenzio, lo tirarono su, cominciò a
morderli ed a sparare calci contro di loro.
Aveva il viso insanguinato e pareva come impazzito.
- Ma che ti prende? - gridò Primo, ributtandolo giù sull'erba.
Là lo tennero fermo per forza e gli asciugarono il sangue col panno
che copriva l'uva. Egli piangeva così forte che le lagrime aiutarono
a lavargli il viso. Poi rifiutò di seguire i fratelli; ma quando essi
ripresero la strada e sparvero dietro una distesa di saggina simile ad una
foresta, ed egli si trovò solo, ebbe paura. Da una parte e dall'altra
del viottolo le alte piante del frumentone gli parevano soldati con la baionetta
innastata; e un fruscio strano, prodotto dall'agitarsi delle foglie dure, gli
ricordava che le volpi amano aggirarsi nei campi fitti di vegetazione. Egli
non aveva mai veduto una volpe; se la immaginava però grande e feroce
come il lupo dipinto nel quadro di San Francesco ch'era in camera della mamma;
e che non facesse distinzioni fra i polli ed i bambini.
Pensò bene dunque di alzarsi e anche di affrettare il passo per raggiungere
i fratelli; ma per quanto si affrettasse, i fratelli non li raggiungeva; non
solo, ma neppure li vedeva in lontananza. Allora cominciò ad aver paura
davvero; credeva di essersi smarrito, e già stava per gridare domandando
aiuto, (a chi, se non si vedeva anima viva?) quando uno starnazzare di oche
lo riconfortò. Se c'erano oche c'erano probabilmente anche cristiani,
perché non si è mai sentito dire che le oche vivano nel deserto.
Queste qui, anzi, facevano quel verso speciale che usano appunto quando arriva
gente; e raddoppiarono le loro strida nel vedere il piccolo Terzo. Sembravano
molto allegre, tutte riunite in un gruppo di nove o dieci che pareva un gregge,
tutte bianche e con gli occhietti rotondi e neri come bottoncini da scarpe.
Terzo però non prese parte alla loro allegria; anzi si fece pallido
in viso come stesse per venir meno, e diede un grido di spavento: perché in
mezzo alle oche vedeva il cestino dell'uva, vuoto: esse ne avevano tratto,
piluccato e massacrato i grappoli, senza rispettarne uno solo.
Che era avvenuto degli altri fratelli? Le volpi, certo, li avevano assaliti
e divorati, e di loro non rimanevano neppure i lacci delle scarpe. Istupidito
dal dolore, Terzo raccattò il panno che aveva coperto il cestino, e
con esso, già anche macchiato del suo sangue, si asciugò le lagrime
grosse come gli acini dell'uva ancora sparsi per terra.
- È la gobba, è la gobba... - singhiozzava. Voleva dire: è stata
la gobba a portarci sfortuna, ma non riusciva a finire la frase, tanto i suoi
pensieri erano confusi. Tuttavia prese anche il cestino e si avviò per
tornare indietro.
Gli urli di Primo lo richiamarono.
- Che fai, macacco? Oh, che fai?
Si volse, e vide i suoi fratelli sani e salvi, ciascuno con una cotogna in
mano. Secondo, anzi, ne aveva due, delle quali una mangiata a metà;
e questo spiegava il suo silenzio e le sue smorfie: perché il frutto
era così aspro e duro che egli si trovava ingozzato.
Dalle grida e dalle invettive di Primo, Terzo capì allora come era andata
la faccenda: il fratello maggiore sapeva che nel campo c'era un cotogno, e
volendo rubarne i frutti, aveva ordinato a Secondo di aspettarlo nel viottolo
col cestino dell'uva. Ma Secondo non intendeva di ubbidire; e aveva piantato
il cestino per andare a cogliere anche lui le cotogne. Quello che Terzo non
riuscì a comprendere fu il perché i fratelli se la pigliavano
con lui. Primo, il maggiore, poi l'altro, ricominciarono a dargli spintoni
e pugni, accompagnandolo così fino alla casa della nonna.
- Per colpa tua; tutto per colpa tua.
Egli non si difendeva più, non piangeva più, non capiva più nulla;
ma quando arrivarono dalla nonna ed i fratelli raccontarono a modo loro la
storia, egli domandò:
- Perché, se io volevo dare l'uva alla gobba, e allora perché ho
preso io tutta la sfortuna? Perché?
- Perché sei il più stupidino - spiegò la nonna, soffiandogli
il naso.
IL VOTO
Quell'inverno lontano fu nefasto per la mia piccola città di Nuoro.
Sebbene bambina, io lo ricordo come non ricordo tempi recenti. Dapprima nevicò per
quattordici giorni di seguito; poi, caddero pioggie torrenziali che fecero
crollare i muri; infine la difterite, allora chiamata angina, fece strage di
bambini.
Anche l'unico figlio del nostro mezzadro, Chischeddeddu Palasdeprata, ne fu
colpito. Il padre era un uomo probo e un lavoratore indefesso: perciò gli
avevano appioppato quel nomignolo di Palasdeprata - spalle di argento -; la
madre, poi, era una donna d'oro, saggia, forte, religiosa.
Quando vide il suo bambino morente s'inginocchiò sullo scalino della
porta, verso il grande paesaggio dei monti di Orune e di Lula, e pregò ad
alta voce:
- San Francesco mio caro, voi che ve ne state tranquillo nella vostra chiesa
lassù, ascoltatemi. Fate guarire il mio piccolo Francesco, l'agnellino
mio bianco, ed io verrò scalza, a piedi, in pellegrinaggio alla vostra
chiesa, e vi porterò in dono tutto il denaro che io e mio marito avremo
ricavato da un'annata del nostro lavoro.
Il bambino si sentì subito meglio, e una settimana dopo era guarito.
Adesso si trattava di compiere il voto. Chischeddeddu aveva sette anni e andava
a scuola, ma intendeva di fare anche lui il contadino; quindi non aveva bizzarrie
per la testa, e quando tornava a casa dalla scuola si levava le scarpe buttandole
via come cose ingombranti.
Era però, come tutti i bambini sardi, un po' sognatore; avvicinandosi
il tempo nel quale si doveva compiere il voto, cominciò a smaniare dicendo
che San Francesco gli era apparso per strada invitandolo ad accompagnar la
madre nel suo pellegrinaggio.
Così partirono tutti e due, una mattina all'alba, nel bel mese di maggio
dalle giornate ricche di ori e di profumi. La donna portava sul capo una piccola
corba con dentro le scarpe sue e del figlio e un po' di pane e di formaggio
duro: e nel seno teneva i denari stretti in un fazzoletto rosso. La strada
era difficile, perché scendeva e saliva fra erte rocciose; resa piacevole
però dai luoghi bellissimi che attraversava: alte erbe, fiori, cespugli
e macchie verdi l'accompagnavano. Di tanto in tanto una piccola sorgente d'acqua
purissima sgorgava come per miracolo fra le pietre coperte di musco, e allora
fra gli alberi selvaggi si sentiva il canto dell'usignolo che pareva ringraziasse
Dio del dono incomparabile dell'acqua. Madre e figlio si fermarono presso una
di queste sorgenti, per riposarsi e mangiare: la donna si protese sulla conca
dove l'acqua brillava come il sole, e prima di bere si bagnò la mano
e si fece il segno della croce: Chischeddeddu invece si lavò i piedi
ardenti, e disse che voleva arrampicarsi sulla roccia, verso una quercia tutta
vibrante di usignoli, in cerca di un nido.
- Lo metteremo nella corba e lo porteremo poi a casa.
Ma la madre glielo proibì: poiché, sebbene ignorante, ella sapeva
che San Francesco prediligeva gli uccelli.
Per consolarsi, il ragazzo cominciò a tirar sassi che spaventavano gli
usignoli, e si mise a gridare per destare le voci dell'eco.
D'un tratto, come disturbato e infastidito per l'insolito chiasso nel deserto,
un uomo apparve nel fitto della macchia, tutto vestito di nero, con la barba
nera, il viso scuro e due occhioni che scintillavano come l'acqua della fontana.
Non era armato di fucile, ma la donna indovinò subito che si trattava
di un bandito nascosto nella macchia per sfuggire alla ricerca dei carabinieri:
eppure non si sgomentò: solo rivolse gli occhi verso il santuario di
San Francesco che già appariva come una bianca fortificazione sui monti
fioriti di ginestre e le parve che una voce le dicesse: niente paura.
L'uomo nero scendeva agile il sentieruolo dirupato, e gli usignoli tacevano
al suo passaggio. Anche il ragazzo, si stringeva pallido e silenzioso alla
madre, contento, in fondo, di vedere da vicino un bandito e poterlo poi descrivere,
magari con tinte lievemente esagerate, ai suoi compagni ed amici. Ma la curiosità si
cambiò in tremarella quando egli si avvide che l'omaccio, avvicinatosi
a loro, dopo lanciato uno sguardo aquilino intorno per assicurarsi della perfetta
solitudine del luogo, adocchiava piuttosto lui che la madre. E i ricordi della
prima infanzia, con lo zio Orco che vive fra le selve e là si porta
i bambini per ingrassarli e mangiarseli in arrosto mezzo crudo e mezzo cotto,
non valsero certo a incoraggiarlo. Anche la madre, adesso, si sentiva battere
il cuore, come se lei e il piccolo Francesco suo, fossero gli usignuoli di
nido strappati dalla quercia e messi dentro la corba da una mano crudele.
- Che fate voi, qui? - disse l'uomo, corrucciato come se fosse lui il padrone
assoluto del luogo, e quei due disgraziati disturbassero la sua proprietà.
La donna raccontò la storia del voto: non disse però dei denari
che teneva nel seno.
L'uomo guardava sempre il fanciullo e pareva rivolgersi solo a lui.
- Ah, tu sei figlio di Palasdeprata ? Già, nominare
l'ho sentito, già! Pare che abbia una pentola piena di marenghi nascosta
sotto un albero, tuo padre, corfu 'e balla assu pè [2],
pare. Ebbene, gliela faremo un po' scovare. I denari devono circolare. Tu resterai
con me, piccolo capriolo, e tua madre andrà a prendere la pentola: la
porterà qui, la lascerà qui, e se ne andrà una seconda
volta. Io allora ti lascerò libero, nel posticino dove, appena partita
tua madre, ti porterò. Tanto, la strada la sai: se pure non avrai piacere
di restartene con me. Oh, niente piagnistei, donna; alzati e cammina.
La madre piangeva, stretta al suo fanciullo, e attraverso il velo delle sue
lagrime vedeva la chiesa bianca di San Francesco come decorata di diamanti:
no, il Santo non poteva, non doveva abbandonarla.
- Mio marito non possiede un centesimo, - disse, - tutto il nostro avere è qui:
prendilo, ma lasciaci andare.
Parve strapparsi il cuore dal petto e gettarlo ai piedi dell'uomo; era il fazzolettino
rosso con dentro i denari. Ma l'uomo neppure si degnò di guardarlo.
- Alzati e va - ripeté.
Allora madre e figlio, stretti disperatamente l'uno all'altro, si misero a
piangere forte: ed ella gridò:
- San Francesco mio, aiutami.
L'eco rispose: e parve la voce del Santo.
Un altro uomo apparve sul punto preciso donde era sbucato il primo: ma questi
non si allarmò, anzi parve aspettarlo come un rinforzo: poiché era
un compagno di macchia.
Come diverso, però! Era un vecchio con la barba bianca, gli occhi azzurri,
il viso solcato di rughe che parevano scavate da un lungo dolore. Vestito all'antica,
con un cappotto d'orbace stretto alla vita da una corda, parve alla donna un
eremita inviatole da San Francesco per aiutarla. Scese calmo il sentieruolo,
toccando col bastone i tronchi verdi degli alberi come per assicurarsi che
nei loro cavi non si nascondesse qualcuno, e quando fu accanto al compagno
guardò anche lui di preferenza Chischeddeddu ma con uno sguardo nostalgico,
come se da immemore tempo non avesse visto un fanciullo, e questi gli ricordasse
la sua stessa infanzia e i fratellini e i compagni d'innocenza; poi, mentre
il bandito gli spiegava il perché si trovavano tutti in compagnia, egli
si rivolse alla donna.
- Femmina mia bella, male hai fatto a metterti sola in viaggio così attraverso
luoghi che sapevi abitati dal diavolo.
Già rassicurata la donna gli sorrise: ed anche Chischeddeddu si strinse
fra i denti la lingua ancora salata di lagrime, per non mostrarla all'uomo
nero, ed anche per non scoppiare a ridere. La madre rispose al vecchio, un
po' convinta, un po' per adularlo e ammansarlo meglio.
- Voi non siete un diavolo; voi siete un santo, e per questo San Francesco
vi ha inviato.
Al nome del Santo, il vecchio si tolse la berretta e si fece il segno della
croce: poi disse:
- Va, donna: per il resto del viaggio, noi stessi baderemo che nulla di male
ti avvenga a te ed a questo capretto di tuo figlio. Però, arrivata al
Santuario, dirai un'avemaria per me.
Allora il bandito piegò la testa mortificato e mormorò:
- Una anche per me.
E raccolto il fazzolettino rosso che spiccava fra l'erba come un fiore, lo
rimise in mano alla donna.
MIRELLA
A volte noi dubitiamo che Dio esista. Perché, infine, dov'è questo
Dio? In cielo in terra in tutte le cose: va bene; ma insomma nessuno lo ha
mai veduto.
Allora Dio, per provarci la sua esistenza, ordina che venga una bella giornata.
Non una giornata di primavera, di estate o di autunno, ma una giornata d'inverno.
È
la più bella di tutte; è lo zaffiro nell'anello dell'anno.
Tutte le finestre si aprono al sole, tutti i sensi alla gioia.
E davvero allora si sente la presenza di Dio in cielo in terra e in tutte le
cose.
Per completare la festa viene a trovarci Mirella.
Questa Mirella ha cinque anni, e sebbene non sappia ancora leggere, porta sotto
il braccio il "Corriere dei Piccoli".
È
tutta fresca e rossa come il corallo appena pescato.
Il suo bel cappottino morbido è rosso, la sua scuffia è rossa. È la
scuffietta ornata di ricami antichi delle bambine di Sardegna: ed anche gli
occhi neri dorati di Mirella sono quelli delle bambine di Sardegna: quegli
occhi ammaliatori dei quali parlano gli storici antichi, ed al cui sguardo
si attribuiva una potenza quasi divina.
Ma il modo di esprimersi e il modo di parlare di Mirella, e sopratutto quello
di osservare le cose, sono perfettamente toscani.
E questo si spiega, perché il babbo di Mirella si mise una volta in
viaggio dalle sue montagne di Pistoia alle montagne di Nuoro in cerca di una
moglie insieme alla quale comprare Mirella.
Mentre stiamo in giardino a goderci il sole, capita qui per un momento uno
scienziato.
Appena affissa lo sguardo d'aquila su Mirella dice:
- Questa sarà una grande donna!
Il perché non lo dice; ad ogni modo, andato via lui, ci viene in mente
l'idea d'intervistare la futura grande donna.
- Cosa farai, Mirella, quando sarai grande? - le domandiamo non senza un certo
senso d'ansia.
E il cuore ci si allarga, poiché Mirella risponde:
- Voglio andare a ballare.
E lo dice con un tono un po' cadenzato e impaziente, che significa: possibile
che tu non lo capisca?
- Voglio fare anche la giardiniera - aggiunge un po' pensierosa.
- E perché?
- Perché nel tuo giardino ci sono le ciliege e l'uva e gli alberi sui
quali arrampicarsi.
E, certo, ella dimostra, fin d'ora una vera tendenza a salire in alto: i suoi
piedi, come le zampe degli uccellini, non possono stare a lungo sulla nuda
terra.
Mirella ha pure una grande attitudine a lavorare in giardino.
Scava e tocca la terra con voluttà, solleva pesanti secchi d'acqua,
scopre insetti ancora a noi sconosciuti: e non ha paura dei vermi che prende
sulla punta di un fuscello, per tentare di farci paura, e ridendo per la sua
birbanteria.
E sa zappare ancora prima di saper scrivere.
Per questo, sì, ricorda i nostri avi sardi lavoratori e amici della
terra.
I nostri discorsi non sono sempre frivoli, come per esempio quando si gioca
alla visita della signora Maddalena e questa signora Maddalena, che è Mirella,
parla di vestiti e, pettegolina com'è, critica i suoi amici e si beffa
di loro: no, a volte i nostri discorsi assurgono ad altezze da impensierire.
Ecco, per esempio, Mirella mi si stringe addosso e mi dice sottovoce:
- Dio ci ha i lupi.
- I lupi? A far che?
- Io non lo so: ha con sé i lupi.
- Dio ha con sé gli angeli - dico io alquanto turbata. - Chi si è permesso
di dirti questa brutta cosa, che Dio sta coi lupi?
- Me lo ha detto Allìna.
- Va subito a chiamare Allìna.
Allìna si può chiamare dall'angolo del giardino: Mirella però profitta
dell'occasione per arrampicarsi in cima al cancello e di là sul tiglio
nudo, e di lassù la sua voce si spande come a maggio il vivo odore del
tiglio fiorito.
- Allìna! Allìna! Allìna vieni.
Dopo pochi momenti Allìna è con noi.
- Be', come va questa storia? Perché hai detto che Dio sta coi lupi?
Son cose, queste, da dirsi ai bambini?
- Ma io non ho detto proprio niente.
- Mirella! Perché questa bugia? Chi è che ti ha detto...
- Be', - interrompe lei, - me lo sono inventato io.
Che avverrà di Mirella?
Non pensiamoci: per adesso è meglio lasciarla volare dietro al suo cerchio,
o buttare sassi agli altri bambini, o tentare cantando i primi passi e gli
atteggiamenti lusinghieri della danza.
Ecco Mirella che va a marito,
Con duecento anelli in dito;
Cento di qua - cento di là,
Ecco Mirella che se ne va.
IL PASTORELLO
Cinque anni or sono conobbi un ragazzetto soprannominato Coeddu [3],
nome che si dà anche al diavolo, il quale, come sapete, vien rappresentato
con una piccola coda attortigliata un po' al di sotto della schiena. Coeddu
aveva infatti il colore dei diavoletti, benché sulla sua faccia apparissero
i segni di tutte le razze umane: aveva il naso camuso di un etiope, gli occhi
obliqui di un giapponese, la bocca fina e sarcastica d'un americano del nord,
e l'espressione intelligente d'un ragazzetto sardo, anzi nuorese autentico.
Egli abitava poco distante da casa nostra, e spesso lo incaricavamo di qualche
piccola commissione. Egli volava, ma una volta compiuto il suo dovere, si sedeva
per terra e stava ore ed ore immobile, indolente; se però qualcuno lo
interrogava cominciava a chiacchierare e non la finiva più. Una mattina
lo trovai seduto sotto l'elce del nostro orto; seduto a gambe in croce, immobile
come un piccolo arabo all'ombra di una palma; con gli enormi piedi nudi trafitti
da innumerevoli spine e da pezzetti di vetro; i capelli crespi coperti di polvere
e di pagliuzze.
- Vai a scuola? - gli domandai.
- Sì - egli rispose, sollevando gli occhi furbi verso di me. - Sono
il primo della classe; devo passare in terza e avrò anche il premio.
- Bravo! Vuol dire che ti piace studiare.
- No, mi piace più fare il pastore, perché i pastori dormono
di giorno, quando fa caldo, e vegliano di notte, quando fa fresco.
- Eh, ma d'inverno?
- D'inverno accendono un gran fuoco, arrostiscono una pecora intera e se la
mangiano!
- E tu adesso, cosa mangi?
- Pane d'orzo.
- Sempre?
- Sempre pane.
- Tua madre non cucina?
- Mia madre fa la serva e torna a casa soltanto la notte.
- E tuo padre?
- Mio padre è scappato; è andato in America e ci ha spiantato -.
Egli voleva dire «piantato» ma in quel momento, in bocca a quel
ragazzetto robusto e intelligente buttato lì per terra come una pianticella
appena divelta, la parola era giusta.
- Tuo padre scriverà, qualche volta, però; e tu gli risponderai.
- Io? - egli disse con fierezza. - Mai! Io non avrò bisogno di lui.
Farò il pastore, e troverò un tesoro fra le roccie, sì,
uno di quei tesori nascosti dai giganti e vigilati dal diavolo. Sì,
io conosco i posti, perché spesso vado sul Monte per raccogliere fasci
di legna, che poi porto al Molino. Persino due lire di legna porto, io, tutto
in una volta. Io sono forte: basta che scuota un albero per farlo cadere. Io
prendo i falchi a volo. Io so imitare la cornacchia, la volpe, tutti gli animali.
Vuol vedere? Un giorno ho battuto la scure su una roccia ed ho sentito un rumore
di monete. Drin, drin, drin, drin . Segno che là c'è un
tesoro. Anche mio zio Mauro, che è pastore, sa dov'è questo tesoro,
ma io non dirò a nessuno dov'è il punto preciso da lui indicatomi.
No, non lo dirò; non son una spia, io...
- Le spie, - proseguì, - vengono sempre castigate. Quando si sa un segreto
bisogna tacere. Gli altri ragazzi miei compagni non sanno tenere un segreto,
e se vedono uno far del male subito vanno ad accusarlo a qualcuno. Io no; né spia
né ladro. Forse che voi mi avete mai trovato a rubare le albicocche
e i fichi, nel vostro orto della Concia?
- Chissà, chissà?...
- No, vi giuro, mai! - egli gridò, incrociando le braccia sul petto
in segno di giuramento. - Sono gli altri ragazzi, che rubano. Cosa mi dai che
ti dico i loro nomi?
- Come, se tu non fai la spia?
Egli mi guardò in viso, senza turbarsi, ma non rispose.
Lo stesso giorno ebbi occasione d'incontrare la madre, una povera donna magra
e gialla, e le domandai come si comportava suo figlio.
- Non me ne parli, sennòra Grassia ; cattivo non è,
ma tanto birichino che il maestro, disperato, gli voleva dare una lira perché non
tornasse a scuola. Io lo mando a raccattare legna e lui invece butta la cordicella
ai rami e fa l'altalena. Ho scritto al padre perché, almeno, lo faccia
andare con lui in America e gli insegni a lavorare.
Saputo che sua madre voleva mandarlo in America, Coeddu diventò ancora
più selvatico e diffidente. Egli non voleva saperne, di civiltà:
non voleva viaggiare, bastandogli le esplorazioni sul Monte Orthobene, dove
sperava sempre di ritrovare il tesoro. La madre, una mattina ai primi di agosto,
gli fece vedere una lettera e gli disse:
- Bada, ragazzo, tuo padre scrive dall'America e acconsente a prenderti con
lui. Appena avrà i denari per il tuo viaggio me li manderà.
Coeddu si mise a piangere, si buttò per terra, e gridò:
- Sì, ditegli che li mandi, i denari: comprerò le pecore e farò il
pastore. Lavorerò, sì, lavorerò. Datemi la cordicella;
da oggi porterò tutti i giorni un fascio di legna al Molino...
La madre, intenerita, gli diede la cordicella e un tozzo di pane da
soldato [4],
ma egli voleva il pane bianco, e poiché in casa non ce n'era, la povera
donna dovette andare da una sua vicina a farselo prestare.
E il ragazzo partì, deciso a far di tutto pur di non andare in America;
ma cammin facendo raggiunse due piccoli mendicanti che ogni mattina salivano
sull'Orthobene per chiedere l'elemosina ai villeggianti accampati attorno alla
chiesetta della Madonna del Monte, e sentì che uno diceva:
- Oggi certo mangeremo maccheroni conditi con sugo di pollo.
L'altro si leccava le labbra sporche e schioccava la lingua contro il palato.
- Oggi certo mangeremo pere, di quelle gialle, farinose come le patate...
Sulle prime Coeddu si beffò di loro; poi domandò pensieroso:
- Chi vi dà queste cose buone?
- Le serve, lassù. Noi portiamo loro le legna e in cambio riceviamo
tante cose buone.
La strada era ripida, polverosa: ma arrivati in alto i tre ragazzetti videro
il mare, tutto color d'oro, con un monticello azzurro davanti, e sentirono
fresco come se la spiaggia fosse lì vicina. Intorno alla chiesetta sorgevano
tende e capanne; fanciulle vestite di giallo e d'azzurro vagavano nel bosco,
piccole, sotto gli elci secolari e le roccie enormi, come farfalle variopinte.
Avvenne che anche Coeddu fu creduto un mendicante: una serva bruna, dal viso
olivastro e gli occhi colore di miele, bella come una Samaritana, lo incaricò di
andare a raccattare un po' di legna nel bosco, per cuocere i maccheroni; e
poi gli fece parte di questi. Egli dimenticò che doveva portare le legna
al Molino; s'indugiò per assistere ai giochi dei bambini villeggianti
che cercavano la tana delle biscie. Si udiva il lamento di un violino, e pareva
che gli alberi mormorassero per accompagnare quel suono simile ad una voce
umana; le serve accovacciate entro le capanne basse, preparavano il caffè cantando
anche loro una nenia melanconica.
Coeddu non pensava più all'America e al tesoro, quando d'un tratto vide
un uomo alto, dal viso scuro circondato d'una folta barba rossiccia, salire
la china, seguito da un agnellino nero e da una cagna bianca.
- Ziu Mauru! Siete voi? - gridò correndogli incontro.
Sì, era proprio suo zio, che aveva l'ovile poco distante dalla chiesetta
e veniva a portare il latte ai villeggianti. Zio Mauru era un uomo semplice:
ecco perché a cinquant'anni era ancora servo: ed ecco anche perché,
invece di sgridare il nipotino, vedendolo lassù, cominciò a chiacchierare
con lui come con un uomo serio, dandogli ragione a proposito del viaggio in
America. Anche lui non era mai uscito dal circondario di Nuoro. Coeddu lo accompagnò fino
all'ovile, che consisteva in una capannuccia di frasche; vide fra gli alberi
come un muricciuolo bianco e nero; ma d'un tratto quel muro si aprì,
si sciolse, cambiò posto; erano le pecore che dormivano ammucchiate,
e alla frescura della sera si svegliavano e si mettevano a pascolare in fila.
Coeddu, incantato, sedette davanti alla capanna mentre l'agnellino nero succhiava
il latte dalla cagna, e ziu Mauru raccontava la storia di un bandito che teneva
sempre appesa al collo una moneta del tempo degli Ebrei, spesa da Gesù,
e perciò non era mai stato colpito da palla nemica, né colto
dalle febbri né dal carbonchio.
Tanto era il fascino provato da Coeddu che egli finì per addormentarsi:
anche nel sonno vedeva la luna cadere sull'orizzonte, rossa come un corno di
corallo, udiva ancora il violino lontano lontano, come la voce di una fata;
distingueva il brucare delle pecore, lo scricchiolìo degli steli d'asfodelo
che si spezzavano sotto i loro denti; e sopratutto sentiva la musica dolce
e monotona delle loro campanelle simile ad un tintinnio di bicchieri di cristallo
battuti da un coltello.
L'indomani i piccoli mendicanti, che la sera prima erano ridiscesi a Nuoro,
gli dissero:
- Tua madre è arrabbiata come un verro; appena torni ti manda in America.
- Ed io me ne sto quassù! - egli rispose.
La serva Samaritana lo mandava a prendere il latte, l'acqua, le legna, intanto
che lei discorreva con uno studente: e per compenso Coeddu riceveva enormi
piatti di maccheroni, di risotto, avanzi di pernici e code e teste di trota,
pere che cominciavano a guastarsi, cetrioli e pomodori conditi con olio, aceto,
pepe e sale. Una sera egli sentì forti dolori di pancia e sognò che
un cane gli mangiava le viscere. Non sapeva perché si sentiva triste:
i piccoli mendicanti provavano gusto a tormentarlo, portandogli terribili ambasciate
da parte di sua madre; e per placare la povera donna egli pensava di mettersi
con coraggio alla ricerca del tesoro. Un giorno prese dunque la scure di zio
Mauru e cominciò a vagare per il bosco, fermandosi di tanto in tanto
per frugare fra le roccie alte e deserte, e battere il ferro sul granito che
qualche volta tintinniva come il cristallo. Arrivò così in un
posto solitario ed orrido, dove le roccie avevano aspetti strani, di cavalli
con la testa d'uomo, di rane, di pesci, di serpenti: il silenzio che le circondava
le rendeva più misteriose. Invano egli, per farsi coraggio, imitava
il grido ed anche il muover delle ali della cornacchia: qualche cornacchia
vera rispondeva, ma invece di rianimarsi, egli sentiva crescere il suo terrore.
Tuttavia procedeva, riconoscendo il posto dove, secondo raccontava ziu Mauru,
un vecchio pastore aveva ritrovato un tesoro, cioè un mucchio di monete
d'oro che il fortunato uomo, pazzo di gioia, s'era affrettato a mettere entro
il suo fazzoletto gridando:
- Diavolo, questa volta son ricco! -. Ma immediatamente, entro il fazzoletto
le monete s'erano cambiate in pezzetti di carbone!
Coeddu però, deciso a non fiatare, e sopratutto a non invocare il diavolo,
che nel sentire il suo nome tramuta le monete in carbone, procedeva cauto,
silenzioso, anche perché aveva paura delle biscie, che hanno la coda
d'argento e sferzano e tagliano la faccia a chi le molesta.
Roccie e sempre roccie: fra gli alberi contorti, simili a mostri dalle cento
braccia, si vedeva il mare, ed i monti di Oliena parevano di neve azzurrognola;
ma d'un tratto l'orizzonte si chiuse; il ragazzetto si trovò come in
un cortile circondato da muraglie ciclopiche, e il cielo, in alto, apparve
d'un azzurro intenso, quasi oscuro come al cader della sera. Qua e là fra
le roccie si vedevano larghe e profonde buche, e da una di queste, d'improvviso,
uscì un sibilo come quello di un treno che sbuca da una galleria. Un
sudore gelato, un pallore mortale coprirono il viso di Coeddu: egli si buttò a
sedere su una pietra e strinse le labbra per non gridare; gli parve che la
muraglia di roccie si movesse stranamente attorno a lui, e che il cielo diventasse
ancora più scuro; provò un capogiro, sollevò gli occhi
e vide tre giganti nudi saltare di roccia in roccia e avvicinarsi a lui. Allora
diede un grido e svenne.
Zio Mauru lo trovò lassù, steso al suolo come morto. Lo portò al
suo ovile, poi in paese, e fu chiamato un prete che lesse il Vangelo per scacciare
i fantasmi ond'era tormentato l'infelice ragazzo. Ma egli continuò a
delirare ed a parlare di giganti e di diavoli; allora fu chiamata una donna,
che versò sette goccie d'olio di lentischio e mise sette piccole brage
entro un bicchiere e così, preparata "l'acqua dello spavento" la
fece bere al malato, che vomitò ma continuò a delirare. Finalmente
fu chiamato il medico.
- È una forte gastrica - egli disse: e ordinò che Coeddu prendesse
tre purghe.
Gli anni sono passati. Coeddu ha trovato il tesoro senza cercarlo oltre, perché suo
padre gli ha mandato tremila lire dall'America, ed egli ha comprato quaranta
pecore ed un cane; adesso ha quindici anni e più che mai desidera di
non lasciare la montagna natìa, convinto di aver veduto ciò che,
anche a girare tutto il mondo, non si vede più: i giganti.
Lo rividi pochi giorni or sono: seduto sulle pietre del varco della tanca [5]
egli mangiava il suo pane d'orzo e guardava le pecore a pascolare.
La pace del crepuscolo luminoso si rifletteva nei suoi occhi; i suoi denti
scintillavano come le foglie degli elci, la sua figurina grigia e nera si confondeva
con lo sfondo del paesaggio, fra le roccie di granito ed i tronchi scuri degli
alberi. Così egli formava come una parte stessa del luogo solitario
e grandioso; e quando mi raccontava la sua avventura io ero tentata di credergli.
Chissà? Forse i giganti esistono davvero, nel misterioso mondo delle
montagne; sono essi che accumulano le roccie e coltivano le quercie sempre
rigogliose e fresche. Ma noi, abitanti delle città, non li vediamo perché essi
si nascondono al nostro apparire. Essi forse hanno paura di noi come noi abbiamo
paura di loro.
LA STORIA DELLA CHECCA
È già la terza volta che la signorina Checca tenta di scappare
di casa. Finché sta con noi, in famiglia, sembra appassionata per la
casa: gira di qua, gira di là, corre verso l'uno e l'altro, curiosa
e allegra, canta, si fa grattare sulla testa ed è, insomma, la nostra
consolazione: ma appena è sola, forse perché ha bisogno assoluto
di compagnia, scende in giardino, salta la cancellata e vola nella strada,
col rischio di cadere fra le grinfie del suo giurato nemico, il gatto.
Poiché, lo avete già indovinato, la signorina Checca è una
gazza.
È una gazza vera, autentica, nata in un bosco in riva a una palude:
un cacciatore l'ha presa dal nido, e dopo averle tagliato le ali e la coda
l'ha portata in regalo a una famiglia amica. Ma se ancora non sapeva volare,
la gazza, sapeva già beccare; alle liete accoglienze della famiglia
amica, rispose quindi con pungenti beccate, e dove toccavano erano dolori.
Così cominciò a inimicarsi la serva, tanto più che per
domicilio le fu assegnata la cucina, il cui pavimento fu in breve, per opera
di lei, tutto fiorito di caccoline simili a goccie di crema. Allora la serva
si armò di scopa, e fra la scopa e la gazza cominciò una battaglia
infernale. Il povero uccello beccava il suo insensibile nemico, saltellando
e svolazzando con una danza disperata: la scopa era più forte di lei,
agitata dalla mano della serva, e le fece passare un brutto quarto d'ora.
Ancora, quando vede una scopa, la Checca svolazza e fugge con terrore, e forse
la crede una cosa viva, un mostro crudele. E nemmeno oggi sa che la serva propose
alla padrona questo dilemma:
- O via quell'uccellaccio, o via io.
Così è capitata in casa nostra.
In casa nostra non ci sono bambini. I tempi sono troppo difficili e i denari
scarsi per poter comprare bambini: allora abbiamo pensato di farcene prestare
qualcuno, di tanto in tanto; specialmente ci viene prestata spesso una bambina
della quale s'è già parlato in questo libro: una certa Mirella,
ma questa Mirella adesso va a scuola e studia indefessamente: quindi non
può tutti i giorni rallegrare la casa senza bambini: allora come si
fa? Si cerca di dimenticare, e come la cicoria diventa il surrogato del caffè Moka,
così gli animaletti del buon Dio, gli uccelli, i gatti, prendono il
posto dei bambini.
La Checca è la preferita.
Il giorno che venne a casa nostra, tutti le si andò attorno, facendo
a gara nel porgerle molliche di pane e carezze: le prime le accettava, alle
seconde rispondeva con strida e beccate. Non per questo fu maltrattata, anzi
fu portata subito in giardino, su un alberello, e mentre lei guardava meravigliata
il sole, ed i suoi occhi prima verdi per la rabbia adesso ridiventavano azzurri,
si pensò di farle una casetta da collocarsi sull'albero stesso, in modo
che lei credesse di essere ritornata nel bosco natìo.
Fu un lungo affaccendarsi in parecchi, grandi e piccoli. Tutti gli strumenti
necessarî, seghe, roncole, martello, tanaglia, chiodi, ecc., lavorarono
attorno alle assi e ai bastoni per la costruzione: in breve lo spiazzo del
giardino si mutò in un cantiere: per fortuna intervenne anche un certo
mastro Lello, bravissimo per lavori in legno, e così, Dio volendo, la
casetta col suo bravo tetto, con dentro il bastoncino traversale per il sostegno
della gazza, e davanti un'asse per il mangime e il vasetto dell'acqua, fu ultimata.
Fu legata fra i rami dell'albero, fornita di grano e di molliche di pane; ma
la gazza rifiutò di entrarvi e ancora non ci ha messo zampa.
Eppure, quando vuole, è l'uccello più intelligente e domestico
che si possa immaginare. Ama stare in casa e tutto la interessa; vuol veder
tutto, e in tutto ci mette il becco: (adesso capisco il significato di questa
espressione dovuta certo a qualche vecchio sapiente che ha vissuto in compagnia
di una gazza o di una cornacchia).
Viene volentieri sul braccio, e si lascia accarezzare, molle e remissiva come
una colombina nera; ma appena può allungare il collo, il suo becco afferra
il primo bottone che capita, e non lo lascia se non per aprirsi al passaggio
invisibile di qualche insetto, o all'apparire del gatto.
Col gatto fingono di non vedersi neppure: l'uno volge la testa in qua l'altra
in là: ma appena si incontrano che nessuno li vede si azzuffano mortalmente:
se qualcuno non interviene a tempo succede la più immane tragedia che
la storia dei gatti e delle gazze possa ricordare.
Tutti le vogliamo bene, e quando sta appollaiata sulla ringhiera della terrazza,
i bambini della strada la chiamano e la desiderano.
- Checca, Checca, oh bella Checca!
Lei risponde, si volta di qua, si volta di là, e per l'allegria canta,
rifacendo i versi degli altri uccelli e ripetendo anche il suo nome. Ma la
sua felicità maggiore consiste nel fare il bagno. Ferma con le zampe
sull'orlo della tinozza, dapprima beve, sollevando ad ogni sorsata la testa
in modo che par di vedere l'acqua scorrerle sotto le piume scintillanti della
gola: poi immerge bene il becco nell'acqua e lo scuote: le piume della testa
si bagnano e si arruffano, e poiché il gioco del becco continua, anche
il petto, le ali, e giù fino alla coda, tutto viene spruzzato abbondantemente
d'acqua. Quando si sente bagnata fino alle ossa, torna di sua iniziativa sulla
ringhiera della terrazza, al sole, col ciuffo erto come quello di un guerriero
pellirossa, e completa la sua toeletta beccandosi sotto le ali.
E per dimostrare che ama svisceratamente la pulizia e la vita tranquilla, ogni
tanto apre il becco e vi fa sparire dentro le mosche moleste.
Con tutto questo, trattata bene, accarezzata, presentata a personaggi di riguardo,
salvaguardata dal freddo, dalla pioggia, dai gatti, dai monelli che attentano
alla sua libertà, appena può scappa.
Ora, una mattina, pensò di volar giù dall'albero e andarsene
per il mondo. L'attiravano i gridi dei rivenditori del piccolo mercato in faccia
al giardino: deve aver pensato: - Là c'è gente allegra, ed a
me piace la compagnia.
Arrivata infatti, coi suoi rapidi svolazzi, sulla cancellata davanti al mercato,
vide le erbivendole vestite di stoffe variopinte, sentì l'odore del
formaggio e della carne di agnello, e le parve che laggiù ci fosse la
fiera.
Tutti erano allegri e gridavano come in un mercato per gioco.
Il pescivendolo urlava: - È arrivato il bastimento, col pesce pescato
stamattina. È arrivato il bastimento.
E la rivenditrice d'uova: - Uova, uova, a dodici baiocchi l'una. Non sono uova,
sono palloni. Ci vuole il bastimento per portarne via uno: palloni, palloni.
L'abbacchiaro declamava: - A otto lire, solo otto lire l'abbacchio. Venite,
venite. Quanto sono bello.
Ma il pescivendolo insisteva: - Ritirati, abbacchiaro! Tutti vengono da me. È arrivato
il bastimento.
La Checca, stordita balzò giù sul marciapiede. Credeva forse
di poter saltellare e divertirsi come nella nostra cucina: ma non era arrivata
a terra che già un monello l'aveva ghermita per le ali, e nonostante
le sue strida e le sue beccate la portava via di galoppo, seguìto da
una torma di compagni.
La portò a casa sua: triste casa in una cantina buia, piena di gente
che nonché amare gli uccelli del buon Dio non ama neppur sé stessa.
- È buona da mangiare? - domandò al ragazzo una vecchiaccia,
facendo atto di torcere il collo alla Checca.
E il monello per salvar la gazza la portò in un sottosuolo, la legò per
la zampa con uno spago, le porse da mangiare dei grossi chicchi di granturco.
La Checca non era abituata a questo trattamento. Stanca di stridere e di beccare
si accasciò, si nascose in un angolo, fin dove le permetteva lo spago
e lasciata sola, tanto per fare qualche cosa cominciò a beccare il muro
e vi fece un buco, poi, stanca, con le zampe insanguinate per lo stretto nodo
dello spago, pensò forse che tutto era finito per lei. Tirò su
e nascose fra le sue piume la zampetta ferita, e ferma immobile sulla zampa
sana chiuse gli occhi e si addormentò.
Per fortuna i compagni invidiosi del monello fecero la spia. Dopo lunghe ricerche
la Checca fu ritrovata e riportata a casa. Ricevette rimproveri, carezze, molliche:
tutto il giorno dopo stette di cattivo umore, stordita, con gli occhi verdi
come quando è nell'ombra. Senza dubbio ricordava e si pentiva, poi ritornò ad
essere allegra, a rimettere il becco nelle faccende di casa, a cantare e beffarsi
degli altri uccelli meno forti e meno fortunati di lei.
Finché, di nuovo lasciata sola, scappò una seconda volta.
Ma di questa nuova avventura riparleremo un altro giorno.
IL MIO PADRINO
L'uomo più buono del mondo ch'io ho conosciuto era il mio padrino:
e non poteva essere che tale, se era l'amico intimo di mio padre.
Mio padre non usciva, si può dire, fuori di casa, eppure conosceva,
o meglio era conosciuto, da una infinità di gente; amici di paesi lontani
venivano a trovarlo e gli volevano bene. Molti, veramente, cercavano più che
altro il suo aiuto, ma alcuni si contentavano della sua sola compagnia. Egli
non cercava nessuno: amava però e aiutava tutti quelli che cercavano
di lui.
Questo mio padrino veniva a trovarlo da un paese allora lontano, perché le
linee automobilistiche ancora non tagliavano la dura solitudine delle terre
di Sardegna.
Veniva a cavallo, pacificamente, ma pareva avesse volato, tanto il suo viso
era fresco; sulla barba molle e candida gli rimaneva il riflesso delle bianche
nuvole vagabonde sopra il monte Gonare, e negli occhi la placidezza della luna
nuova.
Al suo arrivo mia madre diceva alla serva:
- Accendi tutti i fornelli.
E i fornelli venivano accesi come per le feste solenni. Mio padre conduceva
il suo amico in cantina, donde risalivano ridendo come bambini.
Dopo la cena rimanevano loro due soli a tavola, con la bottiglia che s'inchinava
ora verso l'uno ora verso l'altro salutandoli, poi si rialzava e pareva ascoltasse
i loro discorsi interrompendoli di nuovo coi suoi inchini quando accennavano
a diventare melanconici.
Anche le cose più tristi dovevano essere raccontate con allegria serena,
quella notte: i due amici si prestavano a vicenda le loro angustie e cercavano
di non restituirsele perché ognuno di loro le dimenticasse.
Il canto del gallo metteva punto e basta ai loro racconti. E anche la bottiglia
non s'inchinava più perché non aveva più forza né volontà:
era vuota.
Una di quelle notti la serva andò a chiamare la mia piccola nonna:
entrambe salirono nella camera di mia madre e poco dopo la serva ritornò giù dov'erano
i due amici. Disse:
- Padrone, la padrona vi manda a dire che ha comprato una bambina, adesso,
pochi minuti or sono.
- Perché non hai avvertito? - rimproverò mio padre.
- Perché la padrona non ha voluto disturbare la loro compagnia.
Mio padre andò su a vedere: una bambina appena fasciata stava dentro
un canestro accanto al caminetto acceso: pareva davvero comprata da poco al
mercato.
L'amico domandò il permesso di vederla anche lui: e mio padre disse:
- Ecco una bella occasione per diventar compari.
- Benissimo; e come la chiameremo?
- La chiameremo Grazia.
È
così l'ospite diventò mio padrino.
Io sentivo raccontar da lui quest'avvenimento molti anni dopo.
Durante l'infanzia non mi sono molto curata del mio padrino; le sue visite
mi interessavano solo per il fatto ch'egli portava bei regali di frutta e
di dolci.
Una volta mi portò un piccolo muflone: e tutta l'aria vasta della montagna
e l'irrequietudine misteriosa dei boschi entrò in casa con la graziosa
bestia, ch'era ancora allo stato selvatico ma timida e buona di bontà naturale.
Tutti gli altri animali addomesticati che popolavano quell'arca di Noè che
era il nostro cortile, respirarono nell'odore del muflone l'aria natìa
delle macchie e dei covacci fra le rupi; lo circondarono quindi come per salutarlo:
esso però aveva paura anche delle lepri, e d'un balzo fu sopra la legnaia
come in cima ad un monte.
E ci volle la pazienza e l'agilità del padrino per farlo ridiscendere
in pianura.
Fu quella volta ch'egli raccontò, mentre si stava a tavola, una sua
avventura di viaggio.
- La mia visita, compare e comare, questa volta non aveva il solo scopo di
vedervi e salutarvi: mi sono mosso di casa perché da alcuni giorni un
gran mal di denti mi torturava: tutti i rimedi ho provato, sciacqui, impacchi,
roba calda e roba fredda, preghiere, scongiuri: invano; soffrivo tanto che
per la prima volta ho peccato contro la volontà del Signore: ho desiderato
di morire. Finalmente mia moglie dice: va a Nuoro; là ci deve essere
un dentista. Ed io parto; di solito mi piace viaggiare, vedere lo stato delle
campagne, sentire il canto degli uccelli. Questa volta non vedo nulla, non
sento nulla, tanto è il dolore: cammino come attraverso una nebbia.
Ed ecco d'un tratto, sotto il Monte Gonare, vedo sbucare, come appunto dalla
nebbia, tre brutti cristiani, così brutti che sembrano i Giudei che
hanno ammazzato Gesù. Ed anche me vogliono ammazzare, se non consegno
loro subito i denari e quanto ho con me. Vogliono anche il cavallo. Prendete,
prendete pure, fratelli cari, e Dio vi assista. Allora mi fanno smontare e
mi spogliano come Cristo: e rimango solo col muflone che s'era prudentemente
nascosto. Rimango solo e spoglio; ma cos'è, cosa non è? Il mondo
mi sembra mutato; vedo i prati in fiore, sento l'allodola, e mi pare di aver
incontrato, non i tre malandrini, ma San Francesco in persona. Ebbene, è il
mal di denti che è cessato: l'emozione me l'aveva strappato di bocca
meglio del dentista. E siano benedetti dunque i tre valentuomini.
Egli parlava sul serio: con la sua barbetta bianca e il placido viso sembrava
lui San Francesco in persona.
I LADRI
La terribile compagnia era composta di cinque individui, tre maschi e due
femmine, e, pare impossibile, ma pur troppo è così, il capo era
appunto la maggiore di queste.
È
vero che era anche la più vecchia e astuta della banda; fu lei a riunirla,
un giorno, nei prati dietro il Policlinico dove appunto un tempo convenivano
i più terribili malviventi e accadevano efferati delitti; e indicò il
posto destinato alla prossima spedizione.
- Si va giù di qui, per la strada nuova dove fabbricano i villini: in
uno di questi ci sta un dottore che non è mai a casa: nel giardino ci
sono tante rose, fave e carciofi. Tu, Gigetto, scavalcherai la cancellata e
aprirai il cancello: noi si entra, voi due, Mario e Assunta, spiccate i fiori
e le fave, e se c'è tempo i carciofi; io li raccolgo.
- E poi scappi, vero? - disse Mario, puntandole un dito sugli occhi.
- E non mi accecare di', altrimenti ti cavo gli occhi anch'io - urlò lei
scostandosi. - E come posso scappare con questo cocco addosso? E scosse e parve
voler scagliare contro il compagno Mario il più piccolo della compagnia,
un bambino di poco più di un anno, ch'ella teneva in braccio.
Parlò Gigetto. Gigetto teneva sempre le mani ficcate nelle tasche sfondate
delle sue brache, e aspirava ad essere lui il capo della spedizione.
- Lascia fare a me, Concetta: tu hai otto anni e mezzo e io otto anni: e otto
anni nei maschi sono come dieci nelle femmine. Lo so anch'io dov'è quel
posto; lo so meglio di te. Ci sono già entrato: si può entrare
dal muro di dietro. Ci sono anche i piselli, ma ci vuole troppo tempo a prenderli.
Allora facciamo così...
- No, facciamo come ho detto io; altrimenti non vengo - disse sdegnata la capitana.
- E se non vuoi venire meglio; così la roba sarà tutta nostra.
- È quello che si vedrà - urlò Concetta, scagliandosi
contro di lui: anche gli altri due cominciarono a strillare, e per poco non
ci andò di mezzo, schiacciato dalla mischia, il povero piccolo cocco.
Poi, calmatisi gli animi, la spedizione fu eseguita lo stesso, e con una certa
tattica. Avanti andavano Assunta e Concetta, naturalmente col piccolino che
si affacciava sulla spalla della sorella come ad una finestra dalla quale tutto
gli appariva bello e interessante.
D'un tratto però, arrivati alla strada nuova dove alcuni villini erano
in costruzione ed altri già finiti, egli si mise a strillare.
- Mo' ci mancava questa - disse Concetta preoccupata: e dapprima tentò di
calmarlo con le buone, poi lo tempestò di pugni; infine trasse di saccoccia
due ciliege acerbe e gliele fece danzare davanti al viso. Egli tacque subito
e aprì la bocca come il becco di un uccellino di nido.
Così arrivarono al cancello del giardino predestinato alle loro gesta.
Il luogo sembrava proprio disabitato: chiuse le finestre della casa, deserto
il giardino. Le rose e le piante delle fave si dondolavano al venticello di
ponente, quasi salutassero le bambine invitandole a farsi avanti. I carciofi
erano più tronfi ed austeri, rifugiati in cima agli alti gambi dove
pareva non avessero paura di nulla. C'erano anche gli asparagi verdi con la
testa violacea; ma di questi le bambine non si curavano perché non ne
avevano mai sentito il sapore.
Sopraggiunti i due maschi si schierarono tutti lungo la cancellata studiando
il modo migliore per entrare. Anche Gigetto fu del parere di dare la scalata
al cancello, di aprirlo e fare entrare la banda in giardino. Ciascuno avrebbe
lavorato per conto suo e, messo poi assieme il bottino, lo si sarebbe diviso.
Lui intanto si era provveduto di un paio di forbici, che teneva infilate come
un pugnale alla corda che gli serviva di cintura, e guardava i carciofi come
un popolo nemico da sterminare.
Mario, più mite e sognatore, pensava ai piselli, così dolci e
difficili da cogliersi: la bionda Assuntina guardava con desiderio le rose,
mentre Concetta spregiudicata e selvaggia, avrebbe volentieri fatto man bassa
di tutto.
Quando furono certi che nessuno poteva vederli, Gigetto s'attaccò alle
sbarre del cancello, vi salì su come un verme, e con ammirazione i compagni
lo videro rimbalzare giù dall'altra parte e cadere dritto davanti a
loro. La fortuna li assisteva: il cancello non era chiuso a chiave e parve
aprirsi da sé, complice silenzioso.
La prima ad entrare fu Concetta: così sicura di sé che depose
il bambino per terra, sulla ghiaia del viale, sulla quale egli subito si piegò giocando
coi sassolini e le sue due ciliege acerbe.
In un attimo il giardino fu devastato: Gigetto tagliava abilmente i carciofi
sul basso del gambo, per prenderli a mazzo; Mario strappava addirittura le
piante dei piselli e Assunta, con le mani insanguinate per la puntura delle
spine stroncava i rami delle rose. L'avida Concetta correva qua e là come
una volpe afferrando tutto quello che poteva: il sottanino rialzato le serviva
di borsa e si gonfiava sempre più.
Persino i gatti che meriggiavano beati sotto le foglie tropicali delle piante
dei carciofi balzavano spaventati e fuggivano. Solo le gentili rose e le stupide
fave continuavano a dondolarsi al venticello come se il disastro non le riguardasse
per niente.
Dio vigila però contro il male.
D'un botto una finestra si aprì, apparve un viso terribile, con una
gran barba nera e due occhi di fuoco, e una voce tonò:
- Mettete giù tutto, mascalzoni. Subito giù o vi sparo.
Un'altra finestra si aprì: una voce di strega gridò:
- Aspetta, aspetta, adesso vengo io, canaglia!
I ladri se la diedero a gambe, lasciando il bottino.
E quando il dottore venne giù a precipizio trovò solo il piccolo
cocco abbandonato sulla ghiaia del viale.
- Chi sei? Come ti chiami? - urlò.
Il bambino lo guardò di sotto in su, coi suoi occhi azzurrognoli di
cornacchia, poi gli fece vedere le sue due ciliege mezzo rosicchiate; infine
gli porse la manina perché venisse aiutato ad alzarsi.
E il dottore si mise a ridere: poi dovette mandare la serva a rincorrere i
ladri per riconsegnare loro il povero piccolo cocco.
CHI LA FA L'ASPETTI
Mimmo e Momo avevano deciso di scappare in America. E volevano scappare, non
dopo aver letto libri di avventure, ma perché loro due, che fino dalla
nascita si erano sempre azzuffati, in un punto solo si trovavano d'accordo:
nell'odio per i libri.
Figli di contadini arricchiti, erano stati mandati a scuola e dovevano diventare
dottori, oppure, e questo è il più, veterinari o chimici. La
faccenda andò benissimo finché si trattò delle scuole
elementari. C'era da divertirsi: poiché i due bambini vivevano in piena
campagna, in una grande casa colonica, e per andare a scuola dovevano percorrere
una lunga strada, fra due larghi fossi d'acqua corrente che parevano fiumi.
Vigne e campi e alberi, da una parte e dall'altra; nidi, rane, uccelli, e animaletti
di tutte le specie. E poi i compagni, e gli avversari del paese vicino: e l'osteria
a metà strada dove si trovava di tutto; caramelle, fichi secchi, sucaroi (castagne
secche), grissini, un bel fuoco d'inverno e il gelatino d'estate.
Questa strada era dunque la stessa strada del paradiso terrestre. Spesso le
borse coi libri istupiditi dal gelo o dal sole, si trovavano a giacere fra
l'erba come cadaveri di borse ammazzate.
D'inverno, pare impossibile, il divertimento era maggiore: ci si fermava ad
aspettare che il caladon , la primitiva macchina spazzaneve,
coi suoi otto buoi fumanti, tracciasse un sentiero sulla strada coperta di
neve; e quando il lavoro era iniziato, i bambini si attaccavano dietro al pesante
triangolo tutto brillante di catene di ferro, illudendosi di esser loro a spingere
in avanti la macchina. Poi venne l'era delle biciclette. Momo e Mimmo ne ebbero
due eguali, da ottocento lire l'una; i genitori non badavano a spese, purché i
loro figli diventassero dottori o, speriamo, veterinari o chimici.
Ma il bel tempo adesso era finito. Imparato a memoria «l'albero a cui
tendevi la pargoletta mano», bisognava pensare al latino. E Mimmo e Momo
dovevano filare in collegio. Fosse stato un grande collegio, in una grande
città come Londra o Roma, o almeno come Parma. No, si trattava del collegio
di Casalmaggiore, dalle cui finestre si vedono i contadini che vanno alla fiera,
e in lontananza i campi coltivati dai genitori e la strada del paradiso oramai
perduto.
Per questo, i due fratelli avevano deciso di scappare in America.
Essi volevano fare i contadini, come i loro padri, come i loro avi e gli avi
degli avi fino al signor Adamo, quello che appunto era stato scacciato dal
paradiso terrestre e s'era poi guadagnato il pane quotidiano col sudore della
sua fatica.
- Noi venderemo le biciclette, al meccanico che sta di fronte al Collegio:
poi prenderemo il treno e via - disse Mimmo; e tirò dalla piccola bocca
rossa un bel fischio che parve una stella filante sul cielo notturno di agosto.
Momo era più piccolo ma più pratico. Fu lui che pensò al
cestino con le provviste, e alle prime spese del viaggio.
Qui si deve sapere che nella casa dei contadini c'era di tutto; certe cose,
però, poiché l'olivo, la pianta del caffè, quella del
cotone e del ricino, non allignavano nei campi intorno, e le saline e i zuccherifici
e le miniere di petrolio distavano alquanto, certe cose, dunque, bisognava
comprarle in paese. I due ragazzetti, poiché le donne non uscivano mai
di casa e gli uomini erano occupati nei campi, se ne incaricavano loro; Momo
specialmente che era bravissimo a tirare il prezzo e scrupoloso anche del centesimo.
Dal manubrio della sua bicicletta pendeva sempre un cestino che partiva vuoto
di casa e tornava pieno. Spesso si comprava anche il pane, poiché quello
fatto in casa era troppo duro per i denti degli ospiti: e ospiti in casa non
ne mancavano mai.
Ora, un giorno, la nonna dei due ragazzi, che era una donna molto tirata, e
spesso alla notte non dormiva, preoccupata per il caro-viveri sempre crescente,
provò un forte male al cuore perché Momo le fece sapere che il
prezzo del pane era aumentato. Nientemeno che di dieci soldi al chilo, era
aumentato. E pure il sale costava il doppio di prima.
- Se si comincia così, Dio sa dove si va finire. Il pane? Il sale? Ma
allora tutto il resto aumenterà terribilmente.
- Proprio così, nonna, proprio così. Avevi ragione tu, ieri,
nonna - disse Momo il giorno dopo, pensieroso e preoccupato. - Tutto è aumentato:
il caffè, lo zucchero, il petrolio, i lucignoli; persino i chiodi: vedi,
costano adesso due soldi l'uno. I più piccoli, eh?
- Dio, Dio, dove si andrà a finire? Verrà certo la rivoluzione.
- Speriamo di no, nonna, perché i primi a soffrirne saremo noi. Pensa,
se vengono qui, i rivoluzionari, ci portano via le vacche e il maiale. Ci pensi?
La nonna allora si rassegnava. Meglio pagar caro il sale che rimetterci il
patrimonio. E sborsava i soldi sospirando.
- Sai, Mimmo, - disse Momo al fratello, quando si trattò sul serio di
fuggire, - ho messo da parte quasi novanta lire, in questi ultimi giorni, con
la cresta fatta sulla spesa.
Poiché, voi l'avete indovinato, questo rincrudimento del caro-viveri,
dipendeva unicamente da lui.
Venne il gran giorno. I due fratelli avevano già combinato la vendita
delle biciclette, e portato nel pagliaio una vecchia valigia con biancheria,
scarpe, un salame, due grosse pere, un piatto di metallo da vendersi in America,
il lucido per le scarpe, filo, aghi, forbici. Di tutto si erano provveduti,
lasciando a casa intatti i libri e i quaderni di scuola.
Li odiavano talmente, i libri, che non pensavano neppure a consultare l'orario
delle ferrovie; tanto nelle stazioni si sa tutto, e domandando quale strada
si deve prendere, si arriva anche al Polo Nord.
Per non commuoversi e non tradirsi, essi decisero di partire senza salutare
nessuno: solo al cane, che, forse accorgendosi delle loro intenzioni, li seguì sulla
strada, fecero un segno di addio. E fu tutto.
Il meccanico, col quale si era già stabilita la vendita delle biciclette,
li aspettava sulla porta del suo negozio, accanto alla vetrina piena di oggetti
luccicanti e misteriosi.
Era un uomo alto quanto la sua porta, con due lunghissimi baffi rossi che ai
ragazzi studiosi del Collegio ricordavano la calata dei barbari in Italia col
re Alboino e i relativi feroci longobardi, i baffi dei quali dovevano essere
così. Il meccanico, al contrario, era un bonaccione, uomo di coscienza,
incapace di far male a una mosca. Tanto è vero che sul prezzo delle
biciclette, da lui stesso un anno prima vendute, non aveva speculato di un
centesimo. I due fratelli, già esperti negli affari, ne domandavano
settecento cinquanta lire per ciascuna, e settecento cinquanta lire per ciascuna
il meccanico era disposto a sborsare.
Quando i due agili cavallini di metallo furono appoggiati uno dietro l'altro
alla parete del negozio, il meccanico aprì il cassetto del suo banco
e vi guardò dentro profondamente.
Il cuore dei due mascalzoncelli batteva di gioia: la mano sudicia di Momo già si
tendeva per prendere i denari.
- Ma ragazzi, - disse il meccanico, con la sua bella voce baritonale, - non
sarebbe meglio che i denari li prendesse vostro padre? Dopo tutto è lui
che ha comprato le biciclette.
- Tanto più che io sono qui presente, - disse il padre dei ragazzi,
saltando fuori dal retrobottega come il diavolo dalla scatola.
Qui bisogna spiegare quello che voi avete già capito: il meccanico aveva
avvertito il disgraziato padre delle perverse intenzioni dei ragazzi: e il
padre, senza affaticarsi a dar loro lezioni con o senza fiocchi, li prese uno
per mano e li condusse al Collegio. Non c'era che da attraversare la strada.
La valigia rimase in deposito dal meccanico.
Quando furono nel Collegio i due avventurieri piansero, di rabbia s'intende,
poi, appena furono soli ricominciarono a litigare e a bastonarsi.
Pianse anche la madre, quando seppe della loro ingratitudine; pianse anche
la nonna. Ma il giorno dopo ella si consolò nel constatare che il prezzo
del pane e degli altri viveri diminuiva in modo impressionante.
LA FANCIULLA DI OTTÀNA
Nell'antico paese di Ottàna vivevano sette fratelli, - tre bruni, tre
biondi e uno albino - e tutti sette andavano così d'accordo che erano
l'invidia dei vicini e persino dei loro stessi parenti. Allora uno di questi,
più invidioso degli altri, invitò a caccia un uomo ritenuto nemico
dei sette fratelli, lo condusse in un bosco, e là, mentre aspettavano
che la luna tramontasse e il cinghiale scendesse a bere alla fontana, lo uccise
e ne nascose il cadavere sotto una macchia di lentischio. I sette fratelli
furono accusati di quest'omicidio, e dovettero scappare e farsi banditi, per
non venir impiccati come veri assassini; ma anche nella disgrazia continuarono
a volersi bene; e quando tre di essi dormivano gli altri quattro vegliavano.
Gira e rigira, per boschi e foreste, finirono col trovare rifugio in un nuraghe [6]
del Goceano. Il nuraghe del Goceano era ancora intatto,
non solo, ma frugando negli angoli oscuri il fratello albino trovò freccie
e coltelli di pietra, vasi di sughero come ancora adesso li usano i pastori
sardi e cucchiai fatti con le unghie delle pecore. Un terrapieno sostenuto
da grossi macigni, circondava il nuraghe: l'edera e il lentischio
crescevano fra le pietre del misterioso rifugio. Là, dunque, i sette
fratelli stabilirono la loro abitazione: di là partivano alla mattina
presto, andavano a caccia, tornavano alla sera e mangiavano; poi mentre alcuni
di essi vegliavano sul patiu [7] come sentinelle sull'alto
di una fortezza, gli altri, prima di addormentarsi, raccontavano storie dei
primi abitatori dei nuraghes e l'albino sosteneva che questi
erano stati gli Atlantidi, rifugiatisi in Sardegna mentre l'oceano sommergeva
la loro terra misteriosa. E quando il fratello anziano riferiva le leggende
sentite raccontare dal nonno, intorno a Sardus pater [8]
e al tempio che gli antichissimi sardi gli avevano eretto, gli altri fratelli
si levavano la berretta e ascoltavano con religiosa attenzione. Ognuno di essi
aveva al collo, attaccata a una strisciolina di cuoio, una moneta con l'effigie
di Sardus pater, che li preservava da sventura.
Dunque, un pomeriggio d'aprile, dopo aver infilato in sette spiedi di legno
sette pezzi di carne di cinghiale che lasciarono accanto al fuoco acceso nel
centro del nuraghe, i sette fratelli se ne andarono alla
caccia del cervo. Al ritorno, verso sera, trovarono la carne di cinghiale già cotta,
il fuoco acceso ancora, il nuraghe tutto in ordine, il patiu spazzato.
Mancava però uno dei sette pezzi di carne di cinghiale già cotta.
I sette uomini si guardarono meravigliati; cercarono attorno al nuraghe,
ma non trovarono nessuno L'indomani lasciarono accanto al fuoco sette casadinas [9],
e al ritorno ne trovarono sei, e la casa in ordine e il cortile spazzato. Allora
il terzo giorno, uno dei sette fratelli, e precisamente l'albino, rimase sdraiato
in fondo al nuraghe, nascosto sotto una bisaccia. Gli altri
sei fratelli se ne andarono a caccia; e tutto fu silenzio attorno. Accanto
al fuoco, infilati nei sette spiedi sette casizolos [10]
gialli e fragranti come pomi si cuocevano lentamente; dall'apertura del nuraghe entrava
il vento d'aprile, profumato di puleggio e di rosa canina. S'udiva il rumore
del torrente di monte Rasu, e il canto degli usignoli fra le quercie della
foresta.
Dunque, l'albino stava per addormentarsi sotto la bisaccia, quando un lieve
fruscìo destò la sua attenzione: qualcuno spazzava il patiu,
e dopo un momento un'ombra oscurò l'ingresso del nuraghe e
un lieve rumore di passi animò il silenzio del luogo. Allora egli si
scoprì, e vide una fanciulla, piccola di statura, ma così ben
fatta e così bella che egli sulle prime la credette una jana [11].
Ma al grido di spavento che ella diede, egli si accorse che era una povera
fanciulla, anzi, proprio una fanciulla di Ottàna. Come qualunque altra
fanciulla del mondo nelle sue circostanze la fanciulla di Ottàna s'inginocchiò piangendo
ai piedi dell'albino, narrò che era nipote dell'uomo invidioso che aveva
rovinato i sette fratelli.
- Egli mi ha raccolto e allevato, perché io sono orfana. Ma adesso che
ho quindici anni voleva sposarmi. Io gli dissi: no, non voglio sposarvi perché siete
vecchio. Allora egli mi mandò in quel bosco. laggiù, con due
servi che avevano ordine di uccidermi e portargli il mio cuore ed i miei occhi.
Arrivati nel bosco i due servi trassero la leppa [12] ma
non ebbero cuore di uccidermi. Quando non ebbero cuore di uccidermi, essi girarono
un po' nel bosco e trovarono un daino: lo ammazzarono, presero il suo cuore
ed i suoi occhi e li portarono al mio zio cuore di pietra. Io rimasi nel bosco,
e gira e rigira mi trovai sotto questo nuraghe; entrai e
presi la carne e spazzai il cortile. Adesso eccomi qui. Uccidetemi pure, se
volete, ma non svelate al mio zio cuore di pietra che io sono viva.
L'albino volse la testa dall'altra parte, perché la fanciulla non si
accorgesse che egli piangeva; poi gridò:
- Alzati e dimmi come ti chiami.
- Juannicca.
Egli gridò, più forte:
- Continua a spazzare e rattoppa questa bisaccia.
Juannicca allora si alzò e continuò a lavorare. Ed ecco, all'imbrunire,
gli altri sei fratelli tornarono, neri e imbacuccati come fantasmi; sedettero
attorno al focolare, mentre l'albino raccontava la storia della fanciulla Juannicca,
e la fanciulla Juannicca, accoccolata in fondo al nuraghe,
tremava come una lepre spaurita. Ma l'anziano le disse:
- Be' dopo tutto siamo un po' parenti. Tu ci farai i servizi di casa, terrai
acceso il fuoco, porterai l'acqua e noi ti considereremo come nostra sorella.
Ma, ti avverto, lingua in bocca.
Allora Juannicca, lingua in bocca, non rispose: e tutti furono contenti del
suo silenzio. E i giorni passavano, e i sette fratelli, quando tornavano al
loro rifugio, al cader della sera, tacevano, sospiravano, guardavano le stelle
scintillanti in cima alle quercie, e anche sorridevano. Erano tutti e sette
innamorati di Juannicca; e chi le portava in tasca una manata di perine primaticce,
chi una lepre di nido, chi una preda de ogu [13] rinvenuta
per caso nel greto del torrente, forse caduta dall"anello di qualche fanciulla
che lavava.
Juannicca sorrideva a tutti i sette fratelli, e quando alla sera essi tardavano
a rientrare, anche lei guardava dal patiu le sette stelle
dell'Orsa Maggiore, fulgide sopra i monti lontani, e le pareva di vedere i
suoi sette protettori.
Essi cominciarono a litigare, perché ciascuno di loro voleva sposare
la fanciulla: l'anziano la voleva perché era il maggiore dei fratelli;
l'albino la voleva perché era stato il primo a vederla, gli altri la
volevano perché la volevano.
Finalmente decisero di non sposarla e di tenersela sempre come una sorella:
e così il tempo passò, e passò l"inverno, e il canto
del cuculo annunziò il ritorno della bella stagione. Juannicca domandava
al cuculo:
Cuccu bellu 'e mare,
Cantos annos bi cheret a mi cojare?. [14]
E il cuculo rispondeva con sette gridi melanconici; ma Juannicca scuoteva
la testa, incredula, perché non sperava di potersi sposare così presto,
in quella solitudine dove non c'erano neppure gli avvisi di matrimonio sui
giornali.
Eppure un giorno, mentre ella stava sul patiu a scardassare
un po' di lana, ecco che vede passare di là un giovine cacciatore a
cavallo.
Era alto e bello, coi capelli lunghi svolazzanti come nastri di raso nero;
e di sotto le folte sopracciglia i suoi occhi neri brillavano come stelle sotto
le nuvole. Salutò Juannicca gridando:
- E cosa fai?
- Così sto! - ella rispose.
Guardarsi e innamorarsi fu la stessa cosa.
Egli ripassò il giorno dopo, e fu colpito dalla sveltezza di lei che
già filava la lana scardassata. Al terzo giorno le disse:
- Se vieni con me ti sposo. Sono il figlio del Giudice [15] del Logudoro: tu,
monta in groppa al mio cavallo e andiamo.
- Passa più tardi - ella disse. - Prima voglio spazzare la casa. Eppoi
verrò solo a condizione che tu t'interessi di far graziare i miei sette
fratelli.
- In coscienza mia lo farò.
Egli ripassò più tardi, e dal muraglione del patiu ella
saltò sulla groppa del cavallo, cinse con un braccio la vita del cavaliere,
e via di trotto.
Era una bella giornata di primavera: le cime verdoline degli alberi si disegnavano
sulle nuvolette d'argento, e le macchie fiorite, l'asfodelo, il serpillo, l'alloro,
il timo e la ginestra profumavano l'aria. Juannicca raccontava la sua storia
e il cacciatore diceva:
- Io ho tre sorelle Grassia, Itria, Baingia, belle come tre garofani. Esse
ti vorranno bene, e t'insegneranno a ricamare gli arazzi ed a suonare la chitarra;
ma se ti vedono vestita così, con questo costume logoro, diranno: «La
sposa del nostro fratello è una pezzente». Dunque, senti, io ti
lascerò nel bosco sotto il castello del Goceano, e andrò a prenderti
un bel vestito, e tu mi aspetterai senza muoverti.
Ed ecco apparve il castello posato come un'aquila sulla cima di una collina
rocciosa. Le nuvole di primavera gli stendevano attorno un'aureola d'oro, i
boschi di peri selvatici fiorivano ai piedi della collina. Il cacciatore disse:
- Be' Juannicca, non muoverti: ti porterò anche una collana.
Ella smontò e sedette sopra un sasso; ma appena il giovane fu lontano,
ella sentì il gorgheggio di un usignolo e pensò:
- Ci dev'essere una fontana: voglio lavarmi per non entrare così sporca
nel castello.
S'alzò, e cerca e cerca, questa fontana non si trovava mai: ma d'improvviso
una donna alta e secca, coi capelli rossi e gli occhi verdastri, apparve nel
sentiero e salutò Juannicca domandandole chi era e che cosa cercava.
Da tanti mesi Juannicca frequentava gente così buona che s'era dimenticata
che al mondo esiste anche gente cattiva: ben lontana quindi dall'immaginarsi
nella donna rossa una maghiarja [16], innamorata del giovane
cacciatore non esitò a raccontarle la sua storia.
- Inutile lavarti e metterti un bel vestito se non ti pettini bene - disse
la donna, frenando la sua rabbia. - Vieni che te li accomodo io, i capelli;
te li ungerò con olio di lentischio e ti metterò uno spillone
nella benda -. La trasse così fino ad una grotta, le unse i capelli,
glieli acconciò all'uso delle dame, le avvolse la testa in una benda
e fermò questa con uno spillone d'argento. E appena ficcato lo spillone,
che era ammaliato, Juannicca cadde al suolo come morta.
Cadde al suolo come morta e rimase così sette anni.
Il cacciatore, non trovandola più, credette ch'ella, pentita d'averlo
seguìto, fosse ritornata nel nuraghe: e per puntiglio
non la cercò oltre; ma il dolore e l'umiliazione lo resero cupo e cattivo.
Non usciva dal castello e proibiva alle sorelle di suonare e di cantare: diventato
dopo qualche anno Giudice anche lui, proibì le feste e fece imprigionare
le persone che lo adulavano. Tant'è vero che il malumore a volte rende
gli uomini energici e saggi.
Dunque, le sorelle si annoiavano. Un giorno, andando nel bosco a cogliere asfodelo
per intesserne cestini, cominciarono a parlar male del fratello, e tanto s'infervorarono
che smarrirono la strada. D'un tratto cominciò a piovere; le sorelle
si rifugiarono in una grotta e videro distesa al suolo una bella fanciulla
che pareva morta. Era vestita di un rozzo costume, ma teneva i capelli acconciati
all'uso delle dame, con la benda fermata da uno spillone d'argento.
Una delle sorelle disse:
- Voglio provare se mi sta bene questo spillone.
Ma appena lo trasse dai capelli della bella addormentata, questa si svegliò,
e cominciò a piangere ed a chiamare il cacciatore. Allora le tre sorelle
la sollevarono, la confortarono, la condussero con loro al castello. Il giovine
signore sulle prime s'arrabbiò; poi sposò Juannicca, e quando
ebbe sposato Juannicca fece graziare i sette fratelli, e diventò così felice
che sorrideva persino quando gli adulatori gli dicevano le cose più sciocche
di questo mondo.
IL VECCHIO MOISÈ
Quand'ero ragazzetta, avevamo in casa nostra un vecchio servo della Barbagia
chiamato Moisè. Era il suo vero nome? Non credo; forse era un soprannome,
perché realmente il vecchio rassomigliava al profeta Mosè, alto
e bruno in viso com'era e con una lunga barba a riccioli; o piuttosto perché fra
le altre cose egli sapeva fare certi scongiuri contro il malocchio, contro
le malattie del bestiame, contro le formiche che rapiscono il grano dall'aia,
contro i bruchi, le cavallette e i vermi, contro le aquile per impedir loro
di rapire i porcellini, gli agnelli ed anche i bambini; e in quasi tutti questi
scongiuri (in dialetto chiamati verbos , cioè parole misteriose)
c'era un'invocazione a Mosè.
Moisè era vecchio ma robusto ancora e lavorava tutto l'anno; d'inverno
custodiva i branchi di porci e di maialini che pascolavano e mangiavano le
ghiande su per i boschi d'elci del monte Orthobene; ma tornava in paese per
le grandi solennità, e specialmente il Natale voleva passarlo in casa
dei padroni. Non era vecchio decrepito, volevo dire, ma a sentirlo parlare
pareva che egli avesse almeno due millenni; tutte le storie che raccontava
risalivano agli «antichi tempi» quando Gesù non era nato
ancora ed il mondo era popolato di gente semplice ma anche di esseri fantastici,
di animali che parlavano, di diavoli, di nani, di bìrghines ,
vergini che eran buone coi buoni e cattive coi cattivi e passavano il tempo
a tessere porpora ed oro.
Quando Moisè tornava a casa per Natale noi ci affollavamo attorno a
lui per sentire le sue storie. Egli sulle prime si faceva pregare; preferiva
insegnarci ad arrostire tra la brage le ghiande, che si gonfiavano e diventavano
rosse e saporite come castagne; e ci diceva che in certi paesi della Sardegna
si fa anche il pane di farina di ghiande, al quale si mescola una certa argilla
che lo fa diventare più saporito e consistente; poi a furia di preghiere
e di occhiate supplichevoli, si riusciva a fargli raccontare qualche storia.
Seduti intorno al camino ove ardevano interi tronchi di quercia o intere radici
di lentischio, nere e aggrovigliate come teste di Medusa, noi ascoltavamo attentamente.
Era presto ancora per la grande cena, che si fa dopo il ritorno dalla messa
di mezzanotte, alla quale noi però non assistevamo perché la
notte di Natale è quasi sempre rigida e nelle notti rigide i ragazzi
devono andare a letto; ma per noi e per tutti quelli che volevano mangiare
senza profanare la vigilia veniva preparato un piatto speciale, di maccheroni
conditi con salsa di noci pestate, e con questo e con le storie di Moisè ci
contentavamo. Egli dunque soffiava sul fuoco con un bastone di ferro; un bastone
bucato che era poi una vecchia canna d'archibugio, e raccontava. «Quando
nacque Gesù, - egli diceva, - la gente era buona ancora e senza malizia;
ma appunto perché gli uomini eran ingenui e avevan paura di tutto, il
mondo era infestato di esseri maligni. Allora esistevan le cattive fate, che
potevan cambiarsi in animali e spesso andavano nelle case, sotto forma di gatti,
di cani o di galline, e vi portavano sventura; allora esistevano i cavalli
verdi, che portavano i proprii cavalieri nei precipizî; esistevano i
vampiri, esistevano i serpenti e specialmente uno terribile che si chiamava
Cananèa ;
ma sopratutto davan da fare ai buoni pastori e alle buone massaie i diavoli
che prendevano aspetto umano e si fingevano anch'essi pastori e venivan riconosciuti
solo dalle unghie attorcigliate o dai piedi simili a quelli dell'asino. Gesù venne
al mondo per liberarlo da tutti questi esseri maligni, e specialmente dai diavoli;
infatti adesso non ne esistono più; ma prima di sparire dal mondo, i
diavoli e gli esseri maligni cosa fecero? Lasciarono qua e là oggetti
così impregnati della loro malignità che gli uomini che li toccavano
diventavano cattivi e tramandavano la loro cattiveria ai loro discendenti.
In altro modo non si spiega la malvagità di certi uomini che sembravano
diavoli davvero. Gli stessi giudei che presero e uccisero Gesù erano
uomini corrotti dall'aver toccato qualche oggetto del diavolo, e i bambini
cattivi dei nostri tempi vengono ancora chiamati diavoletti. Ad ogni modo gli
uomini fanno ancora una gran festa per ricordare la nascita di Gesù,
loro liberatore; presso i popoli ancora patriarcali, come quello della Sardegna,
la festa comincia veramente dopo la mezzanotte, si prolunga fino all'alba,
con canti, suoni, balli, e dura tutto il carnevale. In certi paesi la gente
si porta da mangiare in chiesa, e dopo il "Gloria" tutti cominciano
a sgretolare noci e mandorle; all'alba il pavimento della chiesa appare coperto
di bucce di mele, scorze di arance, gusci di nocciole. In quasi tutti i paesi
la gente si scambia regali, e i fidanzati dànno alla sposa una moneta
d'oro o di argento o mandano in dono un porchetto.
Quand'ero ragazzo, m'accadde un'avventura curiosa.
Mio padre era pastore di porci, e stava fuori di casa tutto l'anno, ma per
il giorno di Pasqua e per Natale voleva immancabilmente tornare in paese. Finché fui
piccolo io, egli in quei giorni faceva custodire il gregge da un servo; ma
appena io potei aiutarlo egli mi condusse all'ovile, e la notte di Natale mi
toccava di stare lassù, nel bosco umido e freddo, entro una capanna
od anche dentro una grotta riparata dai venti e dalla neve, sì, ma nera
e paurosa come le grotte delle leggende. Io non avevo paura, anche perché mio
padre diceva che mi lasciava solo appunto per abituarmi ad essere coraggioso;
ma nella notte di Natale mi sentivo triste, accasciato. Appena sera mi coricavo
in un angolo, mi coprivo fino agli occhi col manto , lunga
e larga striscia di orbace (panno sardo) che d'inverno noi pastori ci buttiamo
sul capo e sulle spalle, allacciandola sotto il mento; e pensavo al Natale
in paese. Ecco, pensavo, a quest'ora il fidanzato di mia sorella ha già mandato
a casa nostra in regalo un bel porchetto dalla cotenna rossa, sventrato e riempito
di foglie d'alloro, mia madre già prepara la grande cena, mentre mia
sorella indossa il suo costume nuovo e mette in testa il suo cappuccio per
andare alla messa. Arriva il fidanzato, con le saccoccie gonfie di arancie,
di noci, di ciliegie secche; egli fa forza e si piega da un lato per tirar
fuori tutte queste buone cose, le depone sulla panca accanto al focolare e
dice: se il povero Moisè fosse qui! Serbategli questa mela cotogna che
sembra d'oro.
Pensando a questo valente giovane io mi sentivo intenerire. Egli era di buona
famiglia, ma non poteva ancora sposare mia sorella perché appunto la
sua famiglia non voleva, essendo egli troppo giovane e dovendo ancora fare
il soldato. Era allegro, burlone, aveva le tasche sempre piene di frutta secche,
e per questo io gli volevo molto bene. Mio padre diceva che il fidanzato di
mia sorella aveva in saccoccia più nocciuole che quattrini; ma io appunto
lo preferivo così. Egli mi raccontava storie terribili, di banditi,
di cavalli verdi, della Madre dei Venti, e mi piaceva anche per questo.
Una volta egli venne a trovarmi persino su nell'ovile, proprio all'antivigilia
di Natale (mio padre era dovuto scendere in paese fin da quel giorno) stette
fino al crepuscolo raccontandomi fiabe e storielle paurose. Egli mi diceva
che i ragazzi non devono uscire di casa quando soffiano i venti, perché appunto
allora la loro Madre, che gira assieme coi figli, porta via i viandanti deboli
e gli esseri che non sono resistenti.
Verso sera egli se ne andò. Io rimasi solo, e sebbene la sera fosse
calma avevo paura di uscire. Mi coricai sotto il manto ,
e cominciai a pensare alla festa dell'indomani notte. Mi pareva di veder arrivare
a casa il fidanzato, con le saccoccie piene di frutta; le campane suonavano,
le donne cullavano i bimbi cantando:
Su ninnicheddu,
Non portat manteddu,
Nemmancu curittu;
In tempus de frittu
No narat tittìa.
Dormi, vida e coro,
E reposa anninnia [17].
La gente andava alla messa; e mi pareva di veder la chiesa illuminata da sette
file di ceri e con gli altari adorni da rami d'arancio carichi di frutta. Al
ritorno tutti sedevano sulle stuoie spiegate attorno al focolare, e la gran
cena cominciava. Si mangiava il porchetto, il primo latte cagliato, il formaggio
col miele; si beveva, si rideva.
Poi gli uomini anziani, seduti a gambe in croce attorno al fuoco, improvvisavano
canzoni, e i giovani ballavano il ballo tondo: cominciava l'impuddilonzu (la
festa dell'albeggiare), e tutti sembravano folli di gioia, tutti ridevano e
cantavano perché era nato Gesù e il demonio doveva sparire dalla
terra.
Io ero triste come una fiera sola nel bosco. Avevo undici anni ed era già il
terzo Natale che passavo sul Monte; per me l'infanzia era davvero finita da
un pezzo; eppure mi sentivo turbato come un bambino di cinque anni. A un tratto
sento i maialini grugnire nella mandria, o meglio nel recinto di macigni ov'erano
riparati! Un ladro? Il cane però, un grosso cane che sembrava un leone,
legato ad un tronco d'albero, non abbaiava. Io ricordai le istruzioni ricevute
da mio padre; quindi mi affacciai all'apertura della capanna chiamando "Basile" "Antoni" "Sarbadore" per
far fuggire il ladro, al quale, gridando quei nomi, volevo far credere di essere
in buona compagnia. Allora anche il cane cominciò ad abbaiare, e pareva
parlasse e accusasse qualcuno; io però, se non avevo paura del ladro,
ripensavo alle storie raccontate dal fidanzato di mia sorella, e non osavo
avanzarmi.
La notte era fredda, ma limpida; la luna saliva sul cielo d'argento e ci si
vedeva come all'alba. Io mi feci coraggio, presi l'archibugio lungo due volte
più di me, e uscii sullo spiazzo; ma d'un tratto mi parve di vedere
poco distante da me un gruppo di cinghiali guidati da un uomo nero e tozzo;
ricordai allora che negli antichi tempi, prima che gli uomini fossero maliziosi,
il diavolo pascolava alla notte le anime dei malvagi trasformate in porci selvatici,
e con paura corsi a rifugiarmi nella capanna. Che volete? Ero anch'io senza
malizia, allora, come gli uomini degli antichi tempi: la malizia cominciò a
venirmi due giorni dopo, quando mio padre ritornò, contò i maialini
e trovandone uno di meno mi bastonò. Per la vergogna io non gli avevo
raccontato nulla, né della visita del fidanzato, né delle sue
storie paurose, né del rumore sentito alla notte, né del mio
terrore superstizioso. Egli credeva che io avessi lasciato smarrire nel bosco
il maialino, e mi bastonò per questo: se avesse saputo della mia paura
e del mio stupido terrore mi avrebbe bastonato lo stesso e si sarebbe beffato
di me.
Ma chi cominciò a beffarsi di me, dopo quella volta, fu il fidanzato
di mia sorella. Eppure egli non sapeva e non doveva saper nulla. E solo anni
ed anni dopo, quando egli era diventato un uomo serio ed io un giovine pieno
di malizia, tutti seppero il segreto di quella notte. Il maialino lo aveva
rubato lui, il fidanzato, perché non aveva denari da comprarne uno;
e l'indomani lo aveva regalato alla fidanzata, cioè a mia sorella. Era
venuto su apposta, a raccontarmi le storie paurose, per impedirmi di uscire
alla notte: mio padre, che era allora vecchio e pacifico come un patriarca,
quando sentiva raccontare questa storia si faceva rosso per la stizza, pensando
che aveva mangiato il suo maialino rubato; e voleva alzarsi dalla stuoia per
corrermi dietro e bastonarmi ancora!».
LA SCIABICA
(Storia per i più grandetti)
La passeggiatina dei due amici, lungo la spiaggia, venne fermata dall'impedimento
di una grossa corda che alcuni pescatori traevano dal mare e portavano a forza
di braccia e di schiena, indietreggiando, in fila a distanza di pochi passi
l'uno dall'altro, su fino all'estremità dell'arenile.
Intorno alla schiena ciascuno di essi aveva un'alta cintura di corde intrecciate,
fermata, davanti, in modo da non premere lo stomaco, da un bastoncino al quale
era legata una breve cordicella; una specie di laccio, con l'estremità ad
uncino, che aiutava la mano del pescatore ad afferrare e tirare con più forza
la fune.
Questa cintura era il segno che tutti, vecchi, giovani, bambini, e una donna
che pareva fatta di sabbia, e anche lei tirava con vigore, appartenevano alla
comunità della barca nera e vecchia come quella di San Pietro apostolo,
che, abbandonata a sé stessa, si gingillava con le ondine celesti lì davanti
alla riva.
La corda non finiva mai: pareva che il mare ne fosse pieno. Tira e tira, arrivato
in cima all'arenile, il primo pescatore della fila l'abbandonava sulla sabbia,
e correva a riprenderla alla riva, agitando l'uncino della cordicella come
un campanello: e così via via tutti.
A pochi metri di distanza, di lato, la faccenda si ripeteva: un'altra fune
cioè veniva tirata, portata in su, abbandonata sul mucchio già formatosi
sulla rena e i tiratori si sostituivano a vicenda, in modo che parevano moltiplicarsi,
come le comparse in teatro quando rappresentano una folla.
Della folla plebea essi avevano anche le caratteristiche; vecchi, giovani,
ragazzi e bambini, brutti tutti, arsi e scabri come pesci salati, eppure uno
diverso dall'altro; con addosso tutti gli stracci immaginabili, nude però le
gambe e i piedi di radica, ed in testa berretti, cappelli, copricapi che ricordavano
tutta la collezione dei funghi mangerecci e velenosi. Anche la donna aveva
un fazzoletto giallo, messo in modo che la sua testa pareva un limone.
- Ma che fanno? - domandò il più piccolo dei due amici.
Il maggiore ne avrebbe saputo quanto lui se non fosse stato del posto: quindi
fece sfoggio di erudizione.
- È la pesca alla sciabica, così si chiama la rete che sta laggiù nell'acqua
e non si vede. Sciabica vuol dire rete da sabbia, perché non arriva
dove l'acqua è alta. Questa pesca si chiama anche tratta, perché vedi
come tirano.
- Eh, lo vedo bene - ammise l'altro, e s'incantò a guardare.
E gli vennero in mente i suoi genitori, che litigavano sempre, o almeno si
lamentavano, per la mancanza di denaro, le difficoltà della vita e la
durezza del lavoro quotidiano. Anche adesso che stavano per quindici giorni
in riposo, per via di lui, Matteino, che aveva assoluto bisogno d'aria di mare,
anche adesso non trovavano pace: anzi meno che mai, perché i soldi,
diceva la madre, se ne andavano come portati via dal vento, e il padre replicava
ch'era lei a non saper fare economia. Ma come si fa a fare economia quando
il pane costa più che un tempo la torta, e i pomidoro si vendono come
se il loro nome fosse autentico, ed un pesciolino, mannaggia la miseria,
(quando è esasperata la mamma usa il linguaggio delle donne del mercato)
te lo fanno pagare come se dentro le viscere ci avesse una perla.
Chi sa, invece, quanti pesci questi pescatori, che sembrano tanti zingari del
mare, si mangiano in pace ed allegria.
Allegri, adesso, veramente non sembrano; e neppure in pace, perché anche
essi questionano, l'uno con l'altro nella stessa fila, od attraverso lo spazio
con quelli dell'altra, e sono urli, bestemmie, improperi, dei quali i più delicati
sono «lasaròn» o «fìòl d'un can»,
e verrebbero forse alle mani se le mani indolenzite e ardenti non pensassero
per conto loro a tirare la corda.
E la corda, rossastra ed oleosa come una salsiccia dura, si lascia tirare volentieri,
pur dandosi l'aria di essere lei a trarre dal mare il peso misterioso della
rete ancora invisibile.
Alcuni ragazzi bagnanti, che da lungo tempo assistono allo spettacolo, per
puro spirito di solidarietà umana, o perché credono che il loro
valido aiuto affretti l'opera, s'intruppano fra i pescatori e si mettono anch'essi
a tirare. Ci si mette anche un signore in maglia e berretto da marinaio; un
bel tipo di negriere coi denti, anche quelli di davanti, tutti d'oro. Ci si
mette anche una signorina secca, vestita di verde come una cavalletta.
- Brava, brava - si grida intorno.
- Ma il pesce che pescano, a chi va? - domanda Matteino all'amico.
- Lo vendono, o se è poco se lo dividono fra loro. Una volta ne ho avuto
pure io perché ho aiutato a tirare.
Allora un'idea luminosa guizza nella mente di Matteino: mettersi anche lui
a tirare, e portare poi alla mamma affaccendata il suo berretto da bagno gonfio
di pesci.
- Tiriamo anche noi, - propose all'amico, ma questi fece una smorfia di diniego,
anzitutto perché Matteino era così piccolo e mingherlino che
pareva fatto di zolfanelli incrociati, poi perché quella volta, nel
tirare la fune, s'era fatto le vesciche al le mani, e la serva aveva buttato
via i pesciolini da lui portati a casa, non, com'egli affermava, ricevuti dai
pescatori avari, ma raccattati fra gli scarti lasciati da loro sulla sabbia.
Intanto già fra le ondine celesti che pareva si prestassero graziosamente
anche esse a spingere a riva la rete, si notavano i primi segnali di questa,
con l'apparire dei sugheri a galla: i pescatori adesso tacevano, tirando con
più forza, col viso rischiarato dalla speranza. La donna di sabbia s'era
fatta la più animosa; quando veniva il suo turno di ricominciare, scendeva
a precipizio dall'arenile e riafferrava la corda riversandosi indietro sulla
sua cintura selvaggia, come se da quello sforzo dipendesse la salvezza della
sua vita.
Fu dietro di lei, fra lei ed un omone rosso il cui sudore pareva sangue, che
Matteino, avvolto anche lui da quell'atmosfera di speranza diffusa intorno,
si mise a tirare la corda: e gli parve di essere lui solo a produrre la forza
necessaria ancora a portare l'opera a compimento.
- Forza, coraggio, tira, tira, - Matteino diceva a sé stesso, preso
da un'ebbrezza che gli faceva dimenticare lo scopo meschino della sua impresa.
Su, su, la sabbia gli sfuggiva di sotto i piedi, e in realtà egli si
sentiva trasportato, fra l'omone forzuto e la donna tenace, come sospeso nell'aria.
La rete adesso la si vedeva uscire piano piano dal fitto delle onde; pareva
un grande canestro di velo rosso merlettato di nodi di sughero e trapuntato
di pagliuzze d'acciaio. Erano i primi pesciolini, che destarono un senso di
pietà in Matteino. Poveri, poveri pesciolini! Se ne stavano affacciati
tranquilli ai finestrini della rete perché l'acqua ancora la riempiva;
ma arrivati sulla sabbia, nel sentire l'orrore della loro sorte, cominciarono
a spiccare salti e a contorcersi, inarcandosi come anelli d'argento, riuscendo
qualcuno a balzar fuori dalla sua prigione.
- Se però tutta la pesca è qui, stiamo freschi - pensa Matteino;
e vede anche il viso diabolico dell'amico sogghignare di scherno.
I pescatori invece erano tutti animati da una silenziosa letizia; il loro viso
splendeva come se il sole sorgesse dal mare. Sentivano il peso della rete;
e più degli altri poteva sentirlo la donna perché sotto l'arco
del suo fazzoletto gli occhi d'ambra rifulgevano simili a quelli di un cane
da caccia.
Anche l'aitante negriere, con la sua California [18] in bocca, sorrideva soddisfatto,
quasi fosse lui il padrone della pesca.
Adesso una folla di curiosi s'era stretta lungo le corde, come quella che assiste
allo sbarrato passaggio di un corteo reale: altri ne venivano, e si vedevano
le lunghe gambe rosee del le donne seminude avanzarsi quasi danzando sullo
sfondo azzurro del mare.
- Terra, terra - gridò un monello.
E tutti a ridere, a spingersi, ad ammucchiarsi sulla riva.
I pescatori sollevavano e agitavano i lembi della rete, perché i pesciolini
ne rimbalzassero e restassero in fondo; la donna era la più svelta e
feroce nella faccenda; staccava dalla rete i gamberetti disperati e li masticava
vivi; altrettanto avrebbe fatto coi bambini molesti che respingeva coi fianchi
gridando:
- Via i burdel, via i bambini.
Fra le piccole triglie. le sardine e i bianchi naselli distinse il pesceragno,
la tarantola del mare, e presolo per la coda lo seppellì nella sabbia
e lo schiacciò col piede.
Quest'atto di apparente crudeltà cominciò ad indisporre Matteino.
Aveva anche lui abbandonato la corda per mettersi in prima fila fra gli spettatori,
e aspettava la sua porzione, quando invece si sentì respinto quasi con
violenza da due pescatori che portavano una dentro l'altra due ceste vuote
ancora brillanti di scaglie.
- Permesso, permesso, largo, signori.
- Via i burdel.
- Via, bambini, avete capito?
La rete veniva su, su, sempre più larga, con la sua immensa bocca coi
denti di sughero spalancata, e dentro un rimescolamento luminoso; pareva avesse
pescato tutti i tesori del mare. Anche l'amico di Matteino non sogghignava
più; poiché molte pesche al la sciabica egli ricordava, ma nessuna
abbondante come questa.
Attorcigliati anch'essi e presi da una furia infernale, i pescatori agitavano
in dentro i lembi della rete; e in fondo a questa i pesci si ammucchiavano,
crescevano, crescevano, come se la disperazione stessa li facesse moltiplicare.
Una prima cesta, portata da due pescatori e scaricata sulla sabbia con rapidità veramente
fulminea, destò un grido di ammirazione intorno. Si ebbe l'impressione
che un lampo fosse caduto sulla rena e vi si agitasse, inchiodato da una forza
superiore alla sua: poi un'altra cesta, un'altra, altre ancora. I pescatori
adesso ridevano come ubbriachi: la donna di sabbia s'era strappata di testa
il fazzoletto, per riempirlo di pesci.
Sulla sabbia, fra il cerchio degli spettatori quasi sbalorditi, la macchia
lampeggiante si allargava tremolando, come fatta di mercurio, e lo schioppettìo
dei pesciolini, rimbalzati e urtati fra di loro dalle convulsioni della morte,
ricordava quello del fuoco.
Tutto lo splendore tumultuoso del mare pareva si fosse riversato sulla rena,
e il mare ne restava come impallidito.
Allora Matteino pensò ch'era giunta l'ora del compenso del la sua fatica:
già altri ragazzi spigolavano i pesci rimasti qua e là, e scappavano
svelti come grandi ladri. Egli s'era già tolto il berretto da bagno,
ne aveva allargato l'elastico, e cominciava a buttarvi piccole manciate di
pesciolini che gli sfuggivano fra le dita come spilli.
Già vedeva il viso sorridente della mamma, già i begli occhi
glauchi di lei lo guardavano dal fondo del berretto. Ma sentì anche
lo scottante ceffone del babbo.
- Lazzarone, figlio d'un figlio di un cane, lascia stare lì la roba
che non è tua.
Queste parole stridenti erano accompagnate da scapaccioni a confronto dei quali
quelli che di tanto in tanto gli prodigava il babbo, sembravano carezze. Era
la donna di sabbia che glieli regalava; ed egli dovette fuggire carponi fra
le gambe degli spettatori, davvero come un figlio di cane, col berretto fra
i denti, per salvarsi dalla furia di lei.
- FINE -
Note:
[1] È una sopraveste di pelle d'agnello, nera, con la lana, che tiene
molto caldo.
[2] Che un colpo di palla gli ferisca il piede.
[3] Codino.
[4] Pane nero.
[5] Vasto pascolo chiuso da muriccie a secco.
[6] Monumenti preistorici della Sardegna, che alcuni archeologi ritengono tombe,
altri abitazioni o fortezze.
[7] Il cortile del nuraghe.
[8] Il primo colonizzatore dell'isola.
[9] Focaccie di pasta e formaggio.
[10] Formaggelli.
[11] Fata di piccola statura.
[12] Lungo coltello che i pastori sardi portano infilato alla cintura.
[13] Pietra di fuoco, rassomigliante al corallo.
[14] Cuculo bello del mare,
Fra quanti anni mi devo sposare?
[15] Principe.
[16] Fattucchiera.
[17] Il bambinello,
Non porta pannolini,
Nemmeno corsetto;
In tempo di freddo
non dice «ho freddo».
Dormi, vita e cuore,
E riposa e fai la nanna.
[18] I suoi denti d'oro.