Colombi e sparvieri
A Paolina e ad Antonietta
Segrè
PARTE PRIMA
I.
Dopo una settimana di vento furioso, di nevischio e di pioggia, le cime dei
monti apparvero bianche tra il nero delle nuvole che si abbassavano e sparivano
all'orizzonte, e il villaggio di Oronou con le sue casette rossastre fabbricate
sul cocuzzolo grigio di una vetta di granito, con le sue straducole ripide
e rocciose, parve emergere dalla nebbia come scampato dal diluvio.
Ai suoi piedi i torrenti precipitavano rumoreggiando nella vallata, e in lontananza,
nelle pianure e nell'agro di Siniscola, le paludi e i fiumicelli straripati
scintillavano ai raggi del sole che sorgeva dal mare. Tutto il panorama, dai
monti alla costa, dalla linea scura dell'altipiano sopra Oronou fino alle macchie
in fondo alla valle, pareva stillasse acqua.
Ma il paesetto era asciutto; e i vecchi e gli sfaccendati avevano già ripreso
i loro posti sulle panchine davanti al Municipio, su nella piazza che sovrasta
la valle come una grande terrazza.
Da una delle tre case rossastre, - il Municipio, la casa del parroco e quella
di zia Giuseppa Fiore, - le cui finestruole munite d'inferriata e i balconi
di ferro al primo piano guardavano sulla piazza, uscì una vecchia di
bassa statura, col viso pallido seminascosto da una gonna nera in cui ella
avvolgeva la testa e metà della persona come in un mantello; e prima
di scendere gli scalini di granito che da una specie di patiu come
quello dei nuraghes mettevano sulla piazza, volse in giro
i grandi occhi cerchiati e un'espressione di sarcasmo le circondò d'un
solco la bocca sdentata.
Eccoli tutti lì, sulle panchine e lungo il parapetto, gli sfaccendati
del paese. Un tempo non era così, quando il villaggio, diviso in due
partiti da un'inimicizia che appassionava anche i vecchi e i ragazzi, viveva
d'una vita violenta ma anche attiva, e tutti stavano nelle loro case o nelle
loro terre per badare alla propria roba e salvaguardarsi dai nemici. Ma da
qualche anno, per intervento delle autorità ecclesiastiche e civili,
le famiglie nemiche avevano fatto pace; gli animi, almeno in apparenza, si
erano acquietati, e una specie di mollezza, di decadenza di costumi rendeva
il paese sonnolento.
Tutto il santo giorno gli uomini giuocavano alla morra come fanciulli, e i
vecchi tacevano, seduti all'orientale sopra la pietra delle panchine, immobili
e già morti prima di aver chiuso per sempre gli occhi. La piccola vecchia
scosse la testa sotto il suo bizzarro mantello nero, e scese lentamente gli
scalini. Il vento sibilava ancora, a intervalli, e gli alberi spogli della
piazza si agitavano sullo sfondo brillante del cielo come grandi polipi nell'acqua.
Faceva freddo, ma i paesani barbuti e robusti, rossi in viso, con occhi nerissimi
e denti candidi, erano vestiti di orbace, di pelli, di saia, con cappotti stretti
e cappuccio in testa, e sentivano il sangue scorrere caldo nelle vene. Sembravano
uomini di altri tempi, e il loro dialetto composto quasi tutto di latino accresceva
quest'illusione.
Tutti salutarono la vecchia al suo passaggio: ella rispose con un lieve cenno
del capo e scese la scalinata che dalla piazza metteva in una ripida strada
in discesa. Anche dalla fontana, chiusa in una specie di tempietto con un cancello
di ferro, le donne imbacuccate come arabe nelle sottane nere, mentre riempivano
le loro brocche di creta e strillavano litigando, salutarono la vecchia rivolgendole
parole scherzose.
«
Vi siete alzata presto, oggi, zia Giuseppa Fiore! E dove andate? Se avessi
la vostra pecunia starei a letto fino a mezzogiorno.»
«
Zia Giuseppa Fiò! Andate in chiesa? pregate Cristo che venga presto
il tempo del latte e della mietitura.»
«
Tanti saluti al vostro vicino, il Rettore. È passato poco fa e tremava
come uno stelo. Lui e voi, zia Fiò, in fede mia, siete due idioti, potete
stare al caldo e ve ne andate in giro con questo tempo. Si gela, si muore...»
«
La tua lingua non è gelata», rispose la vecchia, e passò oltre
sdegnosa.
Il rigagnolo d'acqua che scorreva giù per la strada era coperto da un
velo di ghiaccio, e dai tetti delle casette basse fumiganti pendevano ghiacciuoli
enormi simili a stalattiti; qualche rimasuglio di neve scintillava qua e là sugli
embrici nerastri e negli angoli ove non batteva il sole, e in ogni sfondo di
straducola apparivano le montagne lontane, bianche e nere fra la nebbia che
svaniva.
La vecchia scese la strada in pendìo, che era la principale del paese,
svoltò, risalì una specie di viottolo, si trovò nel piazzale
della chiesa simile anch'esso ad una terrazza sospesa su un precipizio.
Di là si godeva la vista dell'altipiano; si vedeva la strada comunale
serpeggiare sulle chine rocciose che dominano la chiesa e sparire nella linea
coperta di boschi che chiude l'orizzonte! E la chiesa con la sua torre di pietra,
l'abside e la facciata corrose qua e là coperte di edere e gramigne,
pareva su quello sfondo grandioso un avanzo di castello abbandonato.
La vecchia attraversò il piazzale sterrato ed entrò; anche nell'interno
della chiesa tutto era freddo, nudo e triste: solo alcune vecchie e un mendicante
assistevano alla messa, e la voce lenta del giovine prete risuonava chiara
nel vuoto, fra i sibili del vento che si sbatteva contro la torre come contro
le rupi d'una cima deserta.
Finita la messa la vecchia aspettò che tutti se ne andassero e fece
in modo d'incontrarsi sotto l'arcata della porta col sacerdote che usciva frettoloso,
stretto in un gran tabarro, con le mani dentro le maniche e il viso bianco
e lentigginoso d'albino seminascosto da una sciarpa nera. Egli tremava visibilmente
di freddo e i suoi piccoli occhi grigi velati da lunghe ciglia bianche erano
umidi di lagrime.
«
Buon giorno», salutò la vecchia, fissandolo in viso coi suoi grandi
occhi tetri. «Mi rallegro molto di vedervi guarito. State bene adesso?»
«
Non c'è male», egli disse con voce triste. «Speriamo che
il tempo si rimetta: così ci rimetteremo anche noi.»
«
Aria fina non ne manca!», aggiunse un po' ironica la donna, seguendolo
attraverso lo spiazzo.
«
Ah, l'estate è proprio un paradiso, quassù. Missignoria [1]
vedrete. Del resto è che missignoria non si ha riguardo:
oggi, per esempio, non era un giorno da uscire. State riguardato! Legna non
ve ne manca, ben di Dio non ve ne manca. Del resto un raffreddore non è una
malattia; anch'io sono stata a letto, questi giorni, e da fare certo non me
ne manca. Stamattina sono uscita per la santa messa e perché voglio
visitare un malato: quello sì, è un malato per davvero! È un
disgraziato ragazzo... uno studente...»
«
Ah, sì, ho capito!»
«È
un disgraziato ragazzo», ripeté la vecchia, senza badare all'esclamazione
vivace del prete. «È stato calunniato, qualche mese fa, e precisamente
quest'estate scorsa, prima che missignoria arrivasse in
paese: ed egli dal dolore s'è ammalato gravemente... e, pare, non guarirà... È stato
all'ospedale di Cagliari fino a pochi giorni fa, ma adesso si è fatto
trasportar qui perché, dicono, vuol morire nel suo paese natìo...
Dicono che non vuol vedere nessuno... ma io procurerò di vederlo, adesso...»
Il prete si fermò.
«
Di che cosa è stato accusato?»
La vecchia lo fissava in viso e strizzò un occhio come per significargli: «voi
sapete la storia meglio di me e fingete di non saperla: ci intendiamo, però!».
«
Cuore di babbo mio!», esclamò con accento drammatico. «Nessun
figlio di madre venga accusato di quello che è stato accusato lui! Di
furto, <I>missignoria</I> mia; di aver rubato denari in casa della
sua fidanzata; cioè, per meglio dire, del nonno di questa, Remundu Corbu.
Missignoria lo
conosce.»
Il prete accennò di sì, e traendo dalle maniche le mani coperte
di guanti di lana marrone le guardò fisso, una dopo l'altra.
«
Quando è tornato, quel giovine?»
«
Avant'ieri, credo. Quasi nessuno se n'è accorto.»
«
Non ha parenti?»
«
Nessuno: egli sta con la sua mala sorte. Si fa servire da un ragazzetto di
dieci anni.»
Il prete s'era mosso di nuovo e camminava frettoloso.
«Missignoria andrà certo a trovare il povero Jorgeddu»,
riprese la vecchia seguendolo fino allo svolto della strada. «Glielo
dirò, al povero disgraziato; gli dirò che voi non siete ancora
andato perché non sapevate del suo ritorno. Ah, non è cattivo,
quell'infelice. C'è molta gente che tenta di screditarlo, dicendo che è un
miscredente, un cattivo soggetto; e molti fingono di ignorare il suo ritorno
in paese per non avvicinarsi a lui; ma fosse anche quale i suoi nemici lo dipingono, è una
ragione per non aiutarlo? Egli è paralitico; è povero come Cristo:
si aiutano anche i lebbrosi, anche i Giudei: perché non dobbiamo aiutare
un cristiano?»
«
Va bene, va bene», disse il prete, distratto e anche un po' annoiato, «più tardi
andrò a trovarlo; basta che egli, che mi dicono un tipo prepotente,
non faccia qualche scandalo. Addio.»
«
Ah, dunque lo sapevate che egli è tornato?», esclamò la
vecchia discendendo giù per il viottolo, mentre il prete risaliva la
strada della fontana.
Le porticine delle casette preistoriche s'aprivano su altissimi scalini di
roccia, come se gli abitanti avessero le gambe gigantesche o si fossero premuniti
contro qualche possibile inondazione: solo la penultima casa del viottolo,
al di là della quale sorgeva una muriccia che recingeva un cortile sterrato,
aveva due piani, con tre porte d'ingresso, di cui quella centrale grande e
a livello della strada. I muri anneriti dal tempo e le piccole finestre irregolari
munite di inferriata facevano anche qui pensare a un avanzo di castello medioevale.
Dal portone centrale socchiuso la vecchia intravide una specie di rimessa lastricata
di macigni e in fondo un cortile ove un cavallo già sellato e carico
di bisacce batteva la zampa al suolo, impaziente di partire. Ella diede uno
sguardo bieco ed entrò nell'abitazione attigua.
Il luogo era triste e deserto; pozzanghere d'acqua gelata riempivano il cortiletto
in pendìo, e la catapecchia che sorgeva in fondo sembrava disabitata.
Una scaletta esterna, senza ringhiera, con gli scalini a metà rovinati,
conduceva alla stanza del piano superiore. La vecchia però, dopo aver
attraversato il cortiletto badando di non rompere il ghiaccio delle pozzanghere
spinse la porta della stanza terrena. Un tanfo di umido la colpì. Entrò senza
salutare, quasi furtivamente, e si guardò attorno.
La camera vasta e bassa con le pareti color terra e il soffitto di assi nere
di fuliggine, un tempo doveva aver servito da cucina perché nel centro,
sul pavimento di fango battuto, si notavano ancora le quattro liste di pietra
del focolare; sarebbe parsa un sotterraneo, senza un filo di luce azzurrognola
che penetrava dallo sportello di una porticina che dava sul ciglione opposto
al cortile.
Il tenue barlume illuminava una cassapanca nera, un tavolino e un letto di
legno dove, coperta fin sul collo da una coltre grigiastra, con un fazzoletto
bianco intorno alle orecchie, dormiva una persona che a tutta prima sembrava
una donna. I lineamenti erano delicati, la fronte alta nascosta sulle tempia
da due bande di capelli neri finissimi: sotto la pelle di un grigio azzurrognolo
si delineavano le ossa, e le palpebre larghe dalle lunghe ciglia sembravano
tinte col bistro. Ma la lieve peluria che anneriva il labbro superiore, sotto
cui si notavano i denti, rivelava il sesso del dormente.
Un'espressione di pietà raddolcì il viso tetro della vecchia;
piano piano ella andò a sedersi sullo sgabello accanto al letto e dopo
aver guardato i libri e gli altri oggetti - una bottiglia, un bicchiere, un
coltello a serramanico, - deposti sul tavolino senza tappeto, osservò che
sulla parete, nonostante la fama di miscredente che Jorgj Nieddu godeva, un
piccolo Cristo nero su una croce di metallo bianco curvava la testa e pareva
guardasse il malato.
«È
curioso che non ci sieno medicine», osservò fra sé la vecchia, «eppure
dicono che egli sta per morire.»
Quasi per smentire questa pietosa diceria il malato aprì gli occhi,
grandi occhi lucenti d'un nero dorato, e si animò come un morto che
risuscita: il suo viso si colorì, e fra le labbra aride apparvero i
denti intatti bianchissimi.
La vecchia gli prese la lunga mano scarna dalle unghie violacee tenute con
cura.
«
Jorgeddu mio! Come ti rivedo!»
«
Come il Signore vuole», egli disse, ritirando la mano. La sua voce era
sonora ed echeggiava nella desolazione della stamberga.
La vecchia tentò di riprendergli la mano.
«
Mi si spezza il cuore, a vederti così! Ma speriamo che le tue pene cessino
presto, anima mia bella! Ieri soltanto ho saputo del tuo ritorno: sarei corsa
subito, ma stavo poco bene anch'io.»
«
Eppoi pioveva!»
«
Questo non mi avrebbe trattenuto, figlio caro. Ma ho avuto anche altri impicci:
sto accomodando la casa perché devo alloggiare il Commissario regio.
Tu sai che hanno sciolto il Consiglio comunale, perché c'era chi mangiava
a due palmenti, figliuolo mio, e siccome anche gli altri volevano mangiare
ne nasceva questo: che tutti si azzuffavano come i cani davanti all'osso...»
Ella parlava rapidamente come cercando di stordirlo con le sue notizie; ma
egli non si placava, e se il suo viso ridiventava pallido gli occhi continuavano
ad esprimere un'ira interna, un senso di diffidenza angosciosa.
«
Adesso, come ti dico, arriva il Commissario: dicono sia un cavaliere, un uomo
come si deve, che metterà a posto tutti; e chissà che non faccia
qualche atto di giustizia! Tu forse mi capisci, Jorgeddu mio, tu capisci di
chi voglio parlare...»
«
Io sto davanti a Dio, zia Giusé! Egli solo può rendermi giustizia!»
«
Non parlare così! Sei giovane e guarirai presto. Che malattia è la
tua?»
«
Non lo so neppure io. Ho le gambe paralizzate, e alle mani sento sempre un
formicolìo e se tento di sollevare la testa una vertigine terribile
mi assale... Non lo so... non lo so... - egli proseguì con voce tremula,
morsicandosi le labbra per frenare il pianto. - Sono come lo stelo del frumento,
che la tempesta ha spezzato... La spiga è matura... e giace al suolo...
e nessuno la raccoglierà...»
«
Ma i medici, cosa dicono? Quello di qui è mezzo matto e non capisce
nulla, ma gli altri, quelli della città? Quelli son sapientoni...»
Al ricordo dei medici e delle loro contraddizioni, il malato si sdegnò;
il suo viso fino riprese una espressione di energia che contrastava col tremito
delle labbra, con le lagrime che bagnavano l'orlo delle palpebre. E come un
gioco di luce e di ombra, di vita e di morte, passò su quel viso cadaverico,
entro quegli occhi ove brillava un'anima ribelle.
«
Che sanno i medici? Anch'essi!... Siamo tutti eguali, zia Giusé; tutti
ignoranti! Uno mi disse che dovevo morire fra otto giorni, e un altro fra dieci
anni! Uno mi disse che dovevo restare laggiù, un altro mi consigliò di
tornare qui...»
«
Hai fatto bene a tornare. E dimmi una cosa: sei solo? Chi ti aiuta? E la tua
matrigna?»
«
State zitta! Essa mi odia! Son solo, sì, come la belva ferita nella
sua tana: tutti mi credono un ladro e nessuno si avvicina a me... anche perché tutti
han paura che io domandi loro l'elemosina... No, zia Giusé! Non ho bisogno
di nulla, io; non domando che di lasciarmi morire in pace. Non venite a tormentarmi...»
Ma la vecchia impassibile riprese le sue domande:
«
Il dottore di qui è venuto? Che dice quel matto?».
«
Dice che guarirò: invece io so che morrò: e son tornato qui apposta,
perché qualcuno dica: l'ho fatto morire io...»
«
E tu credi che chi ti ha calunniato, possa pentirsi? Ti inganni, figlio mio:
quella è razza di assassini», aggiunse a bassa voce, curvandosi
sul malato, «sparvieri sono, maledetti sieno! Sono abituati ad uccidere,
quelli; e l'unica arma che possa ferirli è quella che adoperano loro...»
Egli agitò la mano come per respingere la vecchia e mormorò:
«
Basta... Tutti son morti, per me...».
«
No, non tutti. Io sono qui per aiutarti... se tu vuoi. Poco fa ho incontrato
il nuovo parroco, che abita vicino a me; io lo vedo poco, perché anche
lui è sempre malaticcio. Egli dice che non sapeva del tuo ritorno. Chissà!...
Ad ogni modo io l'ho informato, ed egli ha promesso di venire a trovarti. È il
suo dovere, del resto. Trattalo bene; non è cattivo; solo, dicono, non
vive volentieri quassù, e da tre mesi che è arrivato, nessuno
lo ha più veduto sorridere. Ricevilo con rispetto; vedendolo venir qui,
la gente avrà miglior opinione di te...»
«
Diranno che l'ho chiamato per confessarmi!»
«
Bene! Tutti i cristiani vivi pecchiamo, figlio mio: sono soltanto i grandi
peccatori, le anime dannate all'inferno, che non si confessano: vedi loro?
Essi non vanno quasi mai in chiesa... Dicevano, anzi, che la ragazza ti piaceva
perché miscredente... Ti capisco, anima mia», aggiunse, vedendo
il malato mettersi la mano sotto la guancia e chiuder gli occhi con stanchezza, «ti
fa male sentir parlare dei tuoi nemici: lo so, è come frugarti una piaga.
Ma tu fai male a perdonare. Neppure Dio perdona i calunniatori, i perversi.
Tu hai fatto male a non querelarli... ma sei sempre a tempo; ed io, se vorrai,
ti servirò da testimone. Io conosco da lunghi anni quella gente malvagia,
ed io sola so di che cosa è capace il vecchio sparviero. Egli è stato
la mia rovina, la rovina della mia casa... Adesso che verrà il Commissario
e metterà molte cose a posto, adesso tu devi tutelare il tuo onore:
adesso che il vecchio non fa più parte del Consiglio, forse sarà facile
ottenere giustizia. Io ti troverò i testimoni, figlio mio caro: troverò molta
gente che non avrà più paura di dire che Remundu Corbu ti ha
calunniato. Io farò per te quello che una madre potrebbe fare per il
suo figlio: io cercherò l'avvocato, andrò a Nuoro io stessa in
persona... Ma tu non stare così, come la lucertola sotto la pietra.
Un uomo deve sempre difendere il suo onore...»
Giorgio tremava di sdegno, ma chiudeva gli occhi e stringeva i denti per frenarsi.
Incoraggiata dal suo silenzio la vecchia proseguì: «Io darò alloggio
al Commissario; e ti dico una cosa, che lo faccio perché spero che egli
ci renda un po' di giustizia: altrimenti non lo avrei fatto, perché,
sia lodato il Signore, io non avrei bisogno di disturbarmi. Son vedova, son
sola... e benché il vecchio sparviero abbia cercato di ridurmi alla
miseria non c'è riuscito... Egli mi ha frodato, egli mi ha rubato, ma
non del tutto. Tu sai la storia; sua moglie, Mariagrassia Fiore, era mia cugina:
entrambe avevamo uno zio prete, il vecchio Rettore Fiore, che lasciò i
suoi beni metà a me e metà a lei. Ebbene, e che cosa fece Remundu
Corbu? Egli si impossessò di tutto: la casa dove sta lui era mia, la
tanca dove
pascola il suo bestiame era mia... E cominciò la lite; ma era il tempo
delle inimicizie e la giustizia non giudicava bene le cose nostre perché credeva
che tutte le testimonianze fossero false, che tutti parlassero e agissero secondo
il proprio odio personale. Così io perdetti la lite e mio marito morì di
crepacuore: egli era un sant'uomo, Dio lo abbia accolto nel suo seno, ma era
dolce e molle come il miele... Anche lui era come sei tu, anima mia: moriva
di dolore piuttosto che farsi giustizia da sé. Ad ogni modo egli era
sempre la colonna della mia casa, perché val sempre più un uomo
debole che sette donne forti, e dopo la sua scomparsa io son rimasta come una
cerva ferita; a che servono le sue gambe se essa non può correre? Ma
la donna è paziente, figliuolino mio; essa non muore di crepacuore perché aspetta,
perché crede nel giorno della giustizia; e Giuseppa Fiore è una
donna! Tu mi capisci...»
«
Vi capisco, sì!», egli disse spalancando gli occhi luminosi di
sdegno. «Voi non siete venuta qui per carità; siete venuta per
odio. Andatevene!»
Ella capì che per il momento non doveva insistere. Gli mise una mano
sul capo, mentre con l'altra frugava nella sua saccoccia curvandosi sul fianco
per cercar meglio, e riprese con voce dolce:
«
Non adirarti; ti farà male... Io non odio nessuno; ma desidero che venga
fatta giustizia. Ma tu non sdegnarti, anima mia, sta tranquillo, cerca di curarti.
Hai bisogno di nulla?».
Trasse di tasca una moneta di argento e cercò di metterla sotto il guanciale;
ma Jorgj se ne avvide e respinse la mano di lei.
«
Non voglio nulla! per carità, lasciatemi in pace... Andatevene!»
La vecchia si alzò e rimise in tasca la moneta.
«
Tu fai male a ricevere così la gente, Jorgeddu mio! Tu che perdoni ai
tuoi nemici dovresti almeno accoglier bene gli amici!»
«
Amici!», egli disse con fiera tristezza. «Da tre giorni che son
qui, nessuno è venuto a portarmi una parola di amore. La prima a ricordarsi
di me siete voi; voi... ma spinta dal vostro odio!... Basta... neppure nel
sepolcro mi lasciate in pace...»
Il suo viso si contrasse come ad un sorriso amaro e uno scoppio di pianto infantile
agitò il suo povero corpo ischeletrito.
La vecchia era intelligente: capì che nulla poteva confortare tanto
dolore, e una pietà selvaggia la vinse, ma non una lagrima bagnò i
suoi occhi. Senza pronunciare più una parola si riavvolse nella sua
gonna e se ne andò, decisa a cercar giustizia contro il nemico comune,
giustizia per sé, giustizia per l'infelice fanciullo.
II.
Subito dopo arrivò il servetto.
Giorgio si asciugò gli occhi per non farsi scorgere a piangere, ma anche
perché ogni volta che entrava nella stamberga quel bel ragazzetto sano
ed agile i cui occhioni neri scintillanti erano come illuminati da una gioia
inesauribile, i cui capelli riccioluti e polverosi ricordavano il vello degli
agnellini di primavera, egli provava un senso di sollievo. Il servetto vestito
con un costume di orbace nero e di saia giallognola gli ricordava la sua infanzia,
i luoghi più amati, la salute perduta; inoltre gli era necessario, era
l'unica persona di cui egli si fidava ancora e da cui si sentiva amato.
«
Pretu», gli disse, mentre il ragazzo versava l'acqua dalla brocca e insaponava
uno straccio, «prima di lavarmi pulisci un po' intorno, perché deve
venire qualcuno.»
Sorpreso, il ragazzo si sollevò col catino dell'acqua tremolante fra
le mani.
«
Ma se ho detto a tutti che voi non volete veder nessuno?»
«
Eppure qualcuno verrà.»
«
Be' cacciatelo via!», consigliò Pretu aggrottando la fronte; «tanto
tutti parlano male di voi e dicono che Dio vi castiga perché siete un
miscredente, e che la vostra è una malattia che attacca... Anche a mia
madre han detto: "perché lo lasci andare, tuo figlio? Gl'insegnerà le
cose contro Dio e gli attaccherà la malattia..." Ma mia madre non
crede; però dice: "e perché Jorgeddu non chiama il prete
per confessarsi?"»
«
Va bene, pulisci: il prete verrà...»
«
Il prete verrà? E chi vi ha detto che verrà?»
«
L'ho sognato...»
«
Ah, anch'io ho sognato che avevo un sonette [2], e suonavo,
qui sulla porta, ed era caldo... Ecco, se il prete viene vi porterà qualche
cosa, perché lui fa regali a tutti, e voi ditegli: "no, regalatemi
un piffero per il mio piccolo servo, così egli suonerà e staremo
tutti e due allegri!..."»
Intanto aveva preso un fascetto di scope legato con un giunco e puliva il pavimento,
curvandosi e facendo forza con ambe le mani. Ogni tanto si sollevava, scuotendo
i capelli che gli spiovevano sul viso olivastro, e guardava verso il cortile.
«
Verrà stamattina, forse? Adesso accenderò il fuoco e farò il
caffè. Lo devo fare anche per lui? Ma... e la chicchera? Ci vorrebbe
una bella chicchera e noi non ne abbiamo. Posso domandarla in prestito... Ma
egli ha buon caffè e buone chicchere a casa sua!», disse poi,
ripensandoci bene, «egli è ricco e non ha bisogno del nostro caffè.
Dalla finestra aperta si vedono i cadregoni rossi, in camera sua. Ma chissà se
egli verrà presto. Mia madre oggi deve andare a infornare il pane in
casa di Franzisca Bellu, ed io devo spicciarmi presto perché devo badare
al mio fratellino piccolo. Intanto ti farò cuocere un uovo e vi metterò tutto
sul tavolo...»
«
Pretu», domandò sottovoce il malato mentre il servetto dopo aver
acceso un po' di carbone in un fornellino a mano apriva la cassa aiutandosi
con la testa per tener sollevato il coperchio, «hai veduto qualcuno?»
«
Ho veduto i vecchi in piazza; essi tornano a uscire come le lucertole al sole;
poi ho incontrata zia Giuseppa Fiore, che saliva di quaggiù. Abbiamo
ancora tre uova, lo zucchero, il pane...»
Il malato tacque; e il ragazzo, mentre preparava il caffè facendolo
bollire in un pentolino di terra che serviva a molti usi, e per non perder
tempo metteva l'uovo fra la cenere calda sotto il fornello, continuò a
riferire le notizie del paese. Sua madre era una infornatrice di pane d'orzo
e il suo mestiere le permetteva di entrare in tutte le case dei proprietari
e di sapere tutti i pettegolezzi del paesetto.
«
Questa notte scorsa è stata a infornare in casa di zia Martina Appeddu,
quella che fa le medicine e le magie, sapete; e parlavano di voi e dicevano
che vi siete ammalato perché il nuovo fidanzato di Columba, quella che
era la vostra sposa, sapete, vi ha legato, cioè vi
ha fatto una malìa. Lui è un proprietario di Tibi, e dicono che
ci ha la barba lunga, ed è vedovo, ma è un riccone, che una palla
gli trapassi il cappuccio, ha tre tancas in fila, col fiume
in mezzo, e duecento pecore e cinquanta vacche e un cane che costa quaranta
scudi. Quello deve mordere, sì! Dicono che quando Columba si sposerà,
lo sposo verrà con tutti i parenti, tutti a cavallo, e che zio Remundu,
il nonno di Columba, sapete, che una palla gli sfiori i baffi (anche quello
ne ha soldi!), farà ammazzare tre vacche e venti capre, per il pranzo...
Ma, dicevo, là da zia Martina le donne che facevano il pane affermavano
che questo sposo vi ha legato, per farvi ammalare e restar
impotente finché lui non si porta via Columba: altrimenti ha paura che
essa faccia ancora all'amore con voi... Oh, ecco, grazie a Dio, il caffè è fatto
e l'uovo cotto. Adesso preparo tutto qui, e poi guardiamo se viene il prete...»
Per quanto si sforzasse a parer tranquillo, il malato tremava. Cento domande
gli salivano alle labbra, ma si frenava e taceva perché desiderava che
il servetto lo credesse indifferente a tutto, e come tale lo descrivesse a
chi domandava notizie di lui.
Malamente, sollevando appena la testa, poiché se si alzava a sedere
orribili vertigini lo coglievano, sorbì l'uovo dal guscio e il caffè dalla
rozza scodella dove Pretu l'aveva versato, indi si passò uno straccio
bagnato sul viso e sulle mani e cominciò a pulirsi le unghie. Quest'ultima
operazione faceva ogni volta sorridere il servetto, che per conto suo non ricordava
di aversi mai tagliato le unghie anche perché esse non crescevano mai:
egli però compativa il suo padrone che aveva tempo da perdere ed era
un po' stravagante.
Con una forza ed un'agilità straordinarie spostò alcune pietre
che ingombravano un angolo della stamberga, finì di ripulire, si caricò sull'omero
la brocca più grossa di lui e andò a riempirla alla fontana;
e alle donne che cominciarono a interrogarlo disse che il prete doveva visitare
il malato. In un attimo la notizia si sparse per il paese e vi destò grande
sorpresa.
Quando Pretu rientrò, il parroco non era ancora arrivato; Giorgio però sembrava
più tranquillo e leggeva un libriccino nero che teneva sempre sotto
il guanciale.
«
Ho guardato per tutte le strade», disse il ragazzo deponendo la brocca, «ma
il prete non si vede. Io tornerò a mezzogiorno, e se lui viene ditegli
che se non ha il piffero ci regali almeno un libro di canzoni sarde, ma con
la rima e allegre, non serie come quelle del vostro libriccino. Voi me le leggerete
ed io le imparerò a memoria. Ecco che cosa ho comprato... son due rognoni
di maiale; guardateli, sembrano due fichi, e così saranno dolci...»
Li sollevava e li pesava umidi e violacei sulle sue manine sporche, mentre
il malato li guardava sorridendo quasi felice.
«
Ma il dottore non vuole, io devo prendere solo latte e uova.»
«
Egli non lo saprà, che vi importa?»
Uscito il ragazzo, Giorgio riprese a leggere il suo libriccino di «canzoni
serie». Fuori il vento mugolava fra i dirupi dietro la casupola, ma il
raggio di luce che penetrava dallo sportello diventava sempre più vivo,
d'un azzurro dorato, e arrivava al viso diafano di Giorgio circondandolo come
d'un'aureola. Ed egli continuava la lettura dei Salmi e il piccolo Cristo dalla
parete scura pareva curvasse la testa sanguinante per guardare anche lui le
Sacre Scritture.
«
Signore, come mai si sono moltiplicati quelli che mi perseguitano? molti insorgono
contro di me. Molti dicono all'anima mia: Salute per lui non è nel suo
Dio. Da' udienza, Signore, alle mie parole; pon mente alle mie grida. Dappoiché a
te indirizzerò le mie preghiere; al mattino, o Signore, tu esaudirai
la mia voce, perocché tu non sei un Dio che ami l'iniquità.
Né starà presso di te il maligno; né gl'ingiusti potran
durarla innanzi agli occhi tuoi.
Tu disperderai tutti quelli che parlano menzogna, e l'uomo sanguinario e fraudolente
sarà in abbominio al Signore.
Signore, conducimi nella tua Giustizia; per riguardo ai miei nemici fa tu diritta
innanzi a te la mia via.»
III.
Verso mezzogiorno il servetto tornò.
«
Mia madre sta ancora lì a infornare il pane: son passato e sentivo che
le donne parlavano di voi e dicevano: "se ci va il prete segno buono:
segno che Jorgeddu si pente e butta al fuoco i suoi cattivi libri: forse il
Signore lo aiuterà...". E mia madre diceva: "forse Martina
può fare qualche medicamento per lui e scioglierlo dalla malìa
con cui Zuampredu Cannas l'ha legato...". Cosa vi pare? Dobbiamo dirglielo
a zia Martina di venire a trovarvi?»
«
Ma va, sta zitto e fa cuocere bene i rognoni: mettici l'aglio e il rosmarino
secco, se ce l'hai.»
«
E dove lo trovo, il rosmarino secco? Forse fresco se ne trova: ne ho visto
una pianta lassù al cimitero...»
«
Ah, quella è proprio adatta per me!»
E risero entrambi, mentre l'odore gradevole dei rognoni fritti si spandeva
nella stamberga ed eccitava l'appetito del malato. Egli mangiò con avidità infantile
e il servetto dopo aver fatto ancora un po' di pulizia se ne andò ripetendo:
«
Se viene il prete domandategli il sonette, vi prego! Adesso
tornerà la primavera, verranno le giornate lunghe, e dopo mangiato fa
piacere stare all'ombra e suonare. Io mi metterò accanto alla porticina
e voi dormirete».
Al malato sembrava già di sentire la sonnolenza primaverile; del resto
egli provava sempre una lieve vertigine, un sopore che non lo abbandonava se
non nei momenti di grande eccitazione: il passato, nel quale riviveva continuamente,
gli appariva come un sogno confuso, e tutto, nel presente, era per lui caliginoso;
eppure attraverso questo velo fosco la vita gli sorrideva ancora come una sirena
dagli abissi del mare in tempesta.
La giornata passò, lenta e triste nella stamberga, luminosa al di fuori,
nel paese e nei valloni pieni di sole e di vento: egli contava le ore suonate
dall'orologio di Santu Jorgj i cui rintocchi gli sembravano i gridi di una
cornacchia, e nel suo dormiveglia aspettava sempre l'arrivo del parroco, ma
provava, come fin dal primo momento del suo ritorno, anche un senso di attesa
angosciosa, il desiderio e la speranza che prima o dopo del prete un'altra
persona arrivasse...
Ascoltava i più piccoli rumori del cortile; e le voci lontane, i nitriti
dei cavalli, il canto delle galline, ogni vibrazione ogni suono gli destava
un ricordo.
Un passo che finalmente risuonò sui ciottoli della straducola lo scosse
dal suo sopore: il tramonto di marzo arrossava il piccolo vano del finestrino,
l'aria s'era fatta tiepida; ma nella stamberga perdurava l'odore dell'umido
e in fondo verso la porta del cortile era quasi buio.
Una voce timida un po' rauca domandò il permesso di entrare, e la figura
alta e curva del prete s'avanzò titubante. Aveva la sciarpa nera intorno
al viso scialbo, le mani entro le maniche. Giorgio lo fissò, e quello
sguardo vivido d'intelligenza, limpido e parlante come lo sguardo di un bimbo,
parve intimidire maggiormente il prete.
«
Defraja, il nuovo parroco», egli mormorò curvandosi alquanto sul
letto.
Il malato gli accennò lo sgabello, osservando che la mano del prete,
posata timidamente sulla sua, era pallida e magra: si rassomigliavano, le loro
due mani, come quelle d'una stessa persona, ma invece di intenerirsi Jorgj
provò una sorda irritazione. Se il prete era malato, se sapeva che cosa
era il dolore, doveva muoversi prima per confortare il suo simile. Egli aveva
tardato troppo: oramai Jorgj lo metteva nel numero dei suoi nemici.
Ma l'altro intuì subito quest'avversione e cercò di scusarsi:
«
Solo stamattina ho saputo del suo ritorno... Se no sarei venuto subito, sebbene
mi tormentasse un po' di febbre».
Sedette e guardò con insistenza i libri che erano sul tavolo.
«
Eppoi il tempo era così brutto!...», disse Giorgio con voce amara,
e altre frasi scortesi gli salirono alle labbra; ma si frenò, al solito,
anche perché era certo che il prete lo avrebbe in qualche modo provocato.
Allora toccava a lui parlare.
«È
da molto tempo così malato? Come ha cominciato la sua malattia?»
«
Non so... il medico dice ch'è una forma di nevrastenia acutissima: forse
e senza forse questa è una menzogna pietosa. Io credo sia una paralisi...»
«
Una paralisi non le avrebbe prodotto questi effetti. Sì, dev'essere
una forma di nevrastenia... La malattia del secolo! Anche i pastori, sulle
montagne, anche le donnicciuole dei villaggi se ne lamentano...»
Egli parlava serio e con la buona intenzione di confortare il malato; ma Jorgj
rispose ironico:
«
Anche i pastori e le donnicciuole possono avere un'anima o meglio un sistema
nervoso sensibile, e soffrire fino ad ammalarsi...».
«
Ma la nevrastenia non è un prodotto del dolore morale; son le cure,
la fretta di vivere, lo sforzo cerebrale, l'esaurimento fisico che la producono...»
«
Dica pure l'ambizione, la febbre del godimento... la perversità dei
propri intenti... dica pure, non m'offendo!»
«
Parlavo in generale; del resto anche nei villaggi non si scherza, in fatto
di ambizione, di vanità e di vizi. E più la popolazione è scarsa
più queste passioni sono vive. Vedo che anche quassù... sebbene
la popolazione sia buona e generosa, in fondo... vedo che anche quassù,
dicevo, l'amor proprio esagerato, l'ambizione e la diffidenza non fanno difetto...
Del resto tutto il mondo è paese... Da per tutto gli uomini si urtano
fra di loro come le foglie d'una stessa pianta scosse dal vento, e nessuno
pensa che la nostra vita è appunto un soffio di vento che passa...»
«
Appunto per questo bisogna goderla!»
«
Quando si può lecitamente! O almeno senza far male agli altri. Ma...
quando non si può? Allora bisogna rassegnarsi, e pensare che Dio ci
manda le tribolazioni, in questa vita, per compensarci nell'altra... Ogni nostro
dolore ci verrà ripagato al doppio, al triplo di gioia; è come
se noi facessimo un prestito ad usura...»
Gli occhi di Jorgj scintillarono.
«
E quelli che fan del male? che fanno il male per il male, anche se ciò non è necessario
per la loro felicità? Che verrà riserbato a loro?»
«
Lei lo sa meglio di noi!»
«
L'inferno, vero? Essi se ne ridono, dell'inferno! Eppure essi vanno in chiesa;
e sono amici dei preti... Come spiega questo, lei?»
«
Essi sono ipocriti...»
«
E perché allora i ministri di Dio non cercano di smascherarli? perché lei,
scusi, non va da loro, invece di venir da me?»
«
Che ne sapete voi se io ci vado o no?», gridò il prete dandogli
del voi, mentre due macchie rosse gli colorivano le guance.
«
Ah, è vero, lei può dirmi: "e non sono qui da te?...".
Secondo molti io sono un malfattore: io avrei calpestato le leggi divine ed
umane per il mio egoismo. E lei viene qui per convertirmi, per indurmi alla
confessione e alla penitenza...»
«
Nessuno di noi può dire: sono senza peccato! Dire il contrario è già un
peccato di superbia, di ribellione a Dio. E uno come voi, ammettiamo pure calunniato,
perseguitato, che non riconosce la mano di Dio (Egli solo sa i suoi fini!)
e si ribella, e grida contro quel Divino volere che ha guidato e fatto soffrire
lo stesso Cristo, ebbene, dico, uno che opera così fa più male
col suo cattivo esempio che se avesse davvero commesso il male di cui lo accusano!»
«
Grazie! Non c'è male, allora! Io dunque avrei fatto meglio a rubare
che a dirle, adesso: voglio morire in pace; non voglio veder più nessuno
degli uomini che mi hanno tormentato!»
«
Io non vi ho tormentato...», mormorò il prete, conciliante, quasi
commosso.
«
Lei fa peggio degli altri! Almeno essi, sapendomi vinto, non si curano più di
me: lei invece viene a tormentarmi ancora... Ah, prete Defraja, lei tormenta
un morto!...»
«
Ma io non vi tormento, figlio caro; abbiate pazienza. Se volete me ne vado
subito, vi lascio in pace, ma non dite quello che non è.»
«
Come, non è? Lei viene a parlarmi di vita futura, di compensi, di prestiti
ad usura... lei viene insomma a dirmi: "bada che stai per morire, confessati,
dà ai tuoi nemici la soddisfazione di dichiararti colpevole"; e
questo... e questo... non è un tormento?...»
Il prete scosse la testa; ma i suoi occhi sfuggirono quelli del malato e un'espressione
di pietà alquanto ironica gli si diffuse sul volto.
«
Io non vi ho detto questo, precisamente! Qualunque malato si confessa, senza
per questo dar da credere che abbia commesso delitti! Chiunque crede in Dio
procura, avvicinandosi a lui, di mondarsi l'anima, come ci puliamo il viso
e ci mutiamo i vestiti quando andiamo presso una persona a noi superiore. Solo
chi non crede in lui...»
«
Io credo in Dio», disse con voce grave il malato, «ma fra me e
lui non esistono intermediari, e l'anima mia è davanti a lui nuda e
pura e non ha bisogno di vestirsi...»
Il prete continuava a scuoter la testa curva sul petto come per significare:
no, non c'intendiamo!
«
Sì», riprese il malato, «l'anima mia è pura e nuda
davanti al Creatore, e qualunque contatto potrebbe macchiarla... Egli mi ha
purificato col ferro e col fuoco del dolore e riconosco e benedico la sua mano,
ma respingo con orrore il giudizio di qualsiasi uomo, sia pure un sacerdote.
Per me uomo è sinonimo di menzogna. Via, via, non voglio veder nessuno...
Da bambino sono stato perseguitato, maltrattato, calpestato; anche mio padre
mi tradiva... ed io mi ostinavo a credere ancora alla bontà del prossimo...
Ero ambizioso, sì, lo confesso, sì, volevo innalzarmi al di sopra
degli altri, ma senza macchiarmi... Il mio guaio è stato questo, perché il
colombo non può vivere in mezzo agli sparvieri. Ed essi mi hanno dilaniato
il petto... Ma cattivo non sono stato mai; il mio solo errore è stato
quello di amare la vita, come ancora la amo, come l'amerò fino all'ultimo
respiro. E lei viene a parlarmi di morte, e, grazia sua, ammette ch'io sia
calunniato mentre mi vede qui vinto, abbattuto dai colpi della perfidia umana...
Ah, un uomo che commette il male non si lascia vincere così dal dolore!»
«
Calmatevi, figlio caro! Voi siete malato di nervi, e tutto vi si può perdonare;
ma non bestemmiate, non parlate più così, se volete conciliarvi
col prossimo. L'amore si ottiene solo con l'amore.»
«
Io non ho ottenuto che odio: ecco perché ho finito con l'odiare anch'io!
Adesso io non domando più né amore né odio. Non domando
che di esser lasciato in pace. Morrò, sia pure! Ma lasciatemi morire
tranquillo. Vi cerco, io? No!»
Abbassò le palpebre violacee e parve addormentarsi; ma la sua fronte
era lucente di sudore e un tremito gli agitava di tratto in tratto la mano.
Allora il prete sollevò la testa e tornò a guardarlo in viso,
curvandosi su lui e parlando a bassa voce.
«
Sentitemi; è un fratello che vi parla. Se continuerete così non
farete che aumentare il numero dei vostri nemici; tutti vi abbandoneranno e
resterete solo e disperato, perché non è vero che si possa viver
soli, no! Soli non si vive; si muore. L'uomo ha bisogno del suo simile, e prova
ne sia che voi siete ritornato qui per rivedere le persone che dite di odiare.
Riflettete bene alle vostre parole, alle vostre follie, e staccatevi dalle
cose terrene, se veramente volete essere un uomo superiore... Gli uomini hanno
un'anima immortale; ed è questa che bisogna amare; essa è parte
di Dio, e amandola noi amiamo Dio medesimo...»
Giorgio spalancò gli occhi, li fissò in quelli del prete, tornò a
chiuderli.
«
Io amo Dio e da lui aspetto giustizia: non amo l'uomo appunto perché gli
manca il senso della giustizia. Mi provi lei che c'è al mondo un uomo
giusto, e tornerò a credere nell'uomo.»
«
Che devo fare?»
«
Ebbene, ascolti; io le farò la mia confessione, poiché lei vuole
questo da me... Gliela scriverò... poiché voglio che ella si
fermi bene in mente ogni mia parola; le dirò i miei errori, i miei falli...
E lei... lei... dal pulpito, quando i fedeli sono raccolti in chiesa, legga
o dica ciò che io le confesserò.»
Il prete sorrise. «Che v'importa del giudizio degli uomini? voi dovete
amarli quali essi sono.»
«
E allora anch'essi mi amino quale io sono, o stiano lontani da me. No»,
disse infastidito, sollevando l'angolo del cuscino per nascondersi il viso, «noi
non possiamo comprenderci, prete Defraja! Se ne vada; mi lasci in pace. Io
non ho bisogno di nessuno; io sono tornato qui per morire, e ogni ora che passa
mi distacca dal mondo. Lo dica pure ai miei nemici; io sono tornato per dar
loro lo spettacolo della mia miseria. Se questo può destare nel loro
cuore un palpito di pietà, se essi, nel loro intimo, possono dire a
loro stessi: "noi siamo ingiusti, bisogna ravvederci!..." ebbene,
prete Defraja, la mia sventura non sarà stata inutile, ed io benedirò il
Signore che per mezzo del mio affanno ha ancora una volta toccato il cuore
dell'uomo.»
Ma il prete non capiva, o fingeva di non capire, e cercò di metter termine
al doloroso colloquio.
«
Calmatevi, calmatevi... Voi tremate e sudate... Ciò può farvi
del male. Io me ne andrò, adesso, e vi domando scusa se la mia presenza
vi ha irritato... Non discutiamo più; io sono qui come un amico, non
come un prete. Parliamo d'altro, se volete, ma calmatevi!»
Giorgio tese la mano come per respingerlo.
«
No, no; è meglio che se ne vada.»
Il prete si alzò: un lieve tremito di sdegno gli muoveva il labbro inferiore.
Per un momento rimase immobile davanti al letto, con le mani raccolte e la
testa reclinata, perplesso, combattuto fra la collera e la pietà.
«
Io me ne vado, allora. Ma sarò pronto ad ogni vostra chiamata... Nessuno
può volervi male, ed io meno di tutti... ricordatevelo...»
Giorgio non rispose. Provava come un'ebbrezza di orgoglio, gli pareva di aver
parlato con dignità e con sincerità. Eppure, rimasto solo non
si calmò. Tremava, aveva paura di morire da un momento all'altro e invocava
la presenza di Pretu. Per calmarsi riprese il libriccino dei Salmi e i suoi
occhi corsero a caso sui versetti, come l'ape va qua e là sopra i fiori
che crede più dolci.
«
Nella fornace si provano i vasi di terra e nella tentazione della tribolazione
gli uomini giusti.
Periranno nel laccio quelli che si rallegrano della caduta dei giusti, e il
dolore li struggerà prima che muoiano.»
E la sera calò, fredda e limpida come una sera di autunno. Dal suo giaciglio
il malato vide il vano del finestrino coprirsi come d'una lastra di cristallo
verde e una stella, Venere, grande, senza raggi, luminosa come una piccola
luna, brillarvi a lungo e tramontare dietro la linea dello sportello.
Da tanto tempo egli non aveva più veduto un simile spettacolo! Una gioia
infinita lo invase: gli pareva che la stella avesse guardato entro il tugurio
con uno sguardo d'amore. Ma a poco a poco tutto fu buio: il cielo s'oscurava
e il vento, calmatosi alquanto dopo il tramonto, riprendeva a sibilare con
più forza; qualcuno si mosse nella stanza superiore e mentre dal soffitto
cadeva sul malato una pioggia di polvere, di fuliggine e di calcinacci, una
nenia funebre scese di lassù attraverso le aperture delle assi come
da un luogo lugubre lontano.
Egli si coprì la testa col lenzuolo rabbrividendo. Gli pareva che sul
suo capo un essere malefico cantasse per lui fra i sibili del vento le preghiere
dei morti: i ricordi lontani della sua triste infanzia gli tornarono in mente,
la tetra figura della matrigna passò e ripassò nello sfondo scuro
della stamberga.
L'arrivo del servetto lo rianimò.
«
Fra poco viene il dottore. L'ho incontrato che trottava col suo bastone e lo
batteva sulle pietre: sogghignava come un diavolo e mi domandò: "Non è ancora
morto il tuo padrone? Ebbe', la visita del prete non lo ha ammazzato?".
Io gli risposi: "Non so neppure se il prete sia venuto; spero di sì,
perché volevo chiedergli un sonette". E lui
disse sogghignando: "Ah, sì, un sonette? e perché non
ti suoni la pelle della pancia, tanto è vuota?". E io replicai: "Se
la suoni lei!"»
«
Accendi il lume. La senti?», gli disse Giorgio senza badare alle sue
chiacchiere, tendendo l'orecchio alla nenia funebre che s'era fatta lieve e
sottile come uno zufolio.
Pretu sollevò il viso verso il soffitto.
«È
proprio qui sopra! Sì, adesso vado a guardare: deve essere la vostra
matrigna che canta così per dirvi che state per morire.»
«
No, lasciala in pace; altrimenti fa peggio.»
Il servetto diventò pallido e si fece il segno della croce.
«
E se invece fosse uno spirito? Oh, tu», gridò verso il soffitto, «se
sei anima buona va in ora buona, se sei anima mala va in ora mala...»
La voce tacque.
«
Avete visto, zio Jorgj? Tace! O è proprio la vostra matrigna o è proprio
uno spirito! Ma quando io avrò il piffero suonerò e non si sentirà più.
Lo avete chiesto al prete? No? Che testa avete! Non pensate mai a divertirvi...
Ma ecco il dottore!»
Il rumore di un bastone ferrato risuonò sui ciottoli della strada; s'udì una
voce di baritono che accennava un'aria del Mefistofele e
una strana figura si avanzò inciampando sulle pietre del focolare. Pretu
si ritirò quasi pauroso in un angolo e non aprì più bocca.
Il dottore sembrava un uomo del Nord, alto e grosso, vestito di un lungo soprabito
di orbace con manichini e collo di volpe: un berretto della stessa pelliccia
calato fin sulle orecchie confondeva i suoi peli con quelli di una gran barba
rossiccia.
Due occhietti verdazzurri, or limpidi e infantili, or foschi e minacciosi,
brillavano fra tutto quel pelame rossastro come due lucciole in mezzo ad una
siepaglia secca.
Dopo aver battuto qua e là il bastone come per assicurarsi che il terreno
era fermo, egli spinse col piede lo sgabello, vi si sedette pesantemente, e
muovendo le grosse labbra rosse come se ruminasse allungò la mano pelosa
per tastare il polso del malato.
Accanto a quella figura possente dai piedi che sembravano di bronzo e sul cui
viso si spandeva il vapore dell'alito che usciva abbondante dalla bocca e dal
grosso naso a scarpa, Giorgio pareva una statuetta di cera. Ma un'espressione
dolce infantile gli rischiarava il viso mentre il suo fragile polso si abbandonava
fra le dita del dottore come lo stelo di un fiore.
«
E va benone! M'hanno detto che hai avuto visite, oggi.»
«
Sì, ma le ho cacciate via.»
«
Hai fatto male, ottimo amico! Anche il dottore l'hai cacciato via, il primo
giorno, e poi l'hai richiamato! Forse avevi letto il tuo libercolo»,
col bastone toccò il libro dei Salmi, poi lo prese e cominciò a
sfogliarlo. «Ecco, qui dice che bisogna rendere onore al medico, per
necessità, è vero, ma anche perché è stato fatto
dall'Altissimo. Eran ben furbi quei tuoi profeti; anch'essi non osavano pigliarsela
con la scienza, ma cercavano di appropriarsela come cosa loro! Capisci, ecco
qui cosa dicono:
"È
l'Altissimo che creò dalla terra i medicamenti, e l'uomo prudente non
gli avrà a schifo.
La virtù di questi appartiene alla cognizione degli uomini, ed il Signore
ne ha dato ad essi la scienza affine di essere onorato per la sua meraviglia".»
«
Bella roba! Ecco poi cosa dice questo bel tipo qui:
"
Figliuolo, quando sei malato non disprezzare te stesso, ma prega il Signore,
ed egli ti guarirà: offerisci odor soave e fior di farina per memoria,
e sia perfetta la tua oblazione, e poi dà luogo al medico!".
Meno male; aspetta, però: "Perocché Dio lo ha istituito:
ed egli non si parta di te perché l'assistenza di lui è necessaria".»
«
Bene, bene, grazie tante!»
Buttò il libro sul tavolo e accavalcò le gambe aiutandosi con
le mani.
«
Contami dunque delle tue visite...»
Giorgio raccontò, attenuando le sue espressioni di collera per non farsi
sentire dal servetto i cui occhi, nella penombra, sembravano quelli di un gatto
in attesa del topo.
«
Fai male!», ripeté il dottore tra il serio e il beffardo. «Tu
credi di poter vivere sempre così?»
«
Vivere! È perché devo morire che voglio morire in pace.»
«
Morire, morire!», cominciò a gridare il dottore battendo furiosamente
il bastone per terra. «E chi ti ha detto che devi morire? Quelle bestie,
lassù? Salutali a nome mio, ottimo amico; essi sono bestie perfette,
a cui non manca neppure la ragione. Ah, la paralisi?», proseguì,
facendo orribili smorfie. «Quell'amica non avrebbe lasciato il tuo scilinguagnolo
così sciolto! Non si muore per un piccolo male come il tuo. Se avessi
dato retta ai miei nervi, alla mia bile, a quest'ora sarei crepato mille volte.»
Giorgio rideva; i suoi occhi cercavano quelli di Pretu e ad entrambi le smorfie,
le parole, le furie del dottore sembravano la cosa più divertente del
mondo.
«
Lei era forte; lei è un gigante!»
«
Alla tua età ero mingherlino come te, ero stupido come te. Come te immaginavo
che i mulini a vento fossero castelli. La semenza dei Don Chisciotte non si
perde mai, ottimo amico. Ma un giorno mi accorsi che io avevo dentro di me
uno spiritello indemoniato: bisognava combattere e strozzare quello lì,
non i nemici che non esistono. Siamo noi i nostri nemici, carissimo Jorgeddu;
siamo noi che ci diamo fastidio e ci secchiamo notte e giorno. Allora: "aspetta",
dissi fra me, "ora t'aggiusto io, ottimo Don Chisciotte". E rincorsi
e chiamai il mio spiritello, come mia madre faceva coi suoi polli quando voleva
strozzarli; giusto così feci anch'io col mio spiritello. Ed egli si
dibatté, anche dopo strozzato; ah, come si dibatté! Esso camminava
anche senza testa, giusto come i polli. "Ah, ottimo amico", gli dissi, "crepa!" Si
deve vivere solo col corpo; mangiare, bere, respirare aria buona. Da ragazzo
andavo a caccia, e un giorno, gira e rigira, capitai da queste parti. Le pernici
pareva sbucassero di sotto terra, e arrivai a contarne cinquanta in un solo
stormo. Le lepri mi correvan tra le gambe come gatti. Allora decisi di venirmene
qui, e venni, vidi e vinsi. Tu sai cosa vuol dire vincere in questo paese:
altro che Don Chisciotte ci vuole, ci vuole Napoleone. Una leggenda afferma
che questo paesetto fu fondato dal diavolo, che vi si rifugia ancora quando
la tempesta lo sorprende a cacciare nella boscaglia comunale. Ah, ah, il diavolo
cacciatore! Ti dico francamente che questa leggenda mi piacque; un giorno,
dissi fra me: "chi l'ha inventata doveva essere uno del paese, dunque
in questo paese v'è gente di spirito. Dunque; primo, gente di spirito;
secondo, aria buona e fredda che ammazza i microbi e spaccia i malati e rende
meno faticoso il mestiere del medico; terzo, caccia abbondante e probabilità d'incontrare
il diavolo senza andare a teatro... Ecco il mondo!".» Egli
sollevò la mano con la palma concava, e accennò ancora la sua
aria favorita. «E così venni: e andai a caccia e nei primi tempi
tutti i farabutti di questo paese, che facevano il loro bravo Sabba nella foresta
comunale, dissero di aver incontrato il diavolo perché incontravano
me! Ne avrei delle belle da raccontarti! Ma se loro incontravano sempre lo
stesso diavolo rosso, io per lo meno ne incontravo dieci o dodici al giorno,
neri e rossi e anche calvi o canuti. Quello vero, che avrei voluto davvero
incontrare, quello grande, non ho avuto l'onore di vederlo ancora da queste
parti...»
«
Fausto era più vecchio di lei!»
«
Vuoi dire che non devo ancora disperare? Ah, ah, aggiungi che la mia serva
si chiama Margherita! È bruna, però, e sporca; riguardo al resto
farebbe quello che ha fatto Margherita, ma senza impazzirne.»
Ed ecco che all'improvviso egli cominciò a cantare in falsetto la nenia
di Margherita, imitando così comicamente la voce d'una donna che il
servotto scoppiò a ridere.
Il dottore si volse minacciandolo col bastone, ma il ragazzo fattosi coraggio
disse: «Quasi quasi canta meglio quella lassù, sul pagliaio».
«
Chi, scarafaggio?»
«
Uno spirito...», disse Giorgio.
«
No, no, signor dottore; è la sua matrigna, che tutte le sere viene su
nel pagliaio, ancora di sua proprietà, e canta una nenia funebre, per
far dispetto al mio padrone.»
Allora il viso del dottore diventò pavonazzo.
«
E poi dite che non è un covo di diavoli, questo? Adesso ci mancava anche
la sua nenia! E tutti così, tutti, dal primo all'ultimo! E quando io
dicevo ad alta voce, su nella piazza, nei primi anni di soggiorno in questo
paese infernale, che siete davvero un popolo degno del diavolo, ebbene, le
donne si facevano il segno della croce, passandomi davanti, e passandomi dietro
facevano le fiche, e gli uomini piuttosto che ricorrere a me, quando tornavano
con la polmonite dalle loro scorribande misteriose, chiamavano Martina Appeddu
coi suoi unguenti e crepavano allegramente...»
«
E perché c'è rimasto, allora?»
«
E tu perché ci sei tornato?»
«
Io ci sono nato... La polvere del nostro corpo tende a ritornare al mucchio
donde è venuta.»
Il dottore lo fissò in viso e per un momento tacque: il suo sguardo
s'era fatto serio, quasi triste.
«
Tu dici una sacrosanta verità, Jorgeddu! Spesso la filosofia anche la
più rudimentale dà la mano alla scienza. Che cosa è, in
fondo, la nostra malinconia, la nostra incessante inquietudine? Noi tendiamo
a ritornare alla terra donde siamo venuti. Recenti esperimenti dimostrano che
l'uomo è, sulla terra, uno spostato: le sue malattie, la sua morte precoce,
la sua incontentabilità provengono dal suo organismo imperfetto, o meglio
da certi organi che egli ha ereditato dai suoi padri animali, indispensabili
a loro, nocivi all'uomo. La nostra esistenza è intossicata da questi
organi. Noi siamo animali degenerati, e la nostra vita non è naturale,
come non è naturale la vita dell'uccello in gabbia, del serpente nei
giardini zoologici. Noi tendiamo verso quello che una volta era il nostro stato
naturale, la vita in mezzo alla natura, i contatti istintivi coi nostri simili,
l'appagamento completo dei nostri sensi. Tutto ciò che si oppone alla
vita animale, che è la nostra vera vita, è fonte della nostra
infelicità. Allora, dato questo spostamento, visti inutili i nostri
sforzi, l'unico conforto che ci resta è il pensiero della morte, il
ritorno alla materia primitiva, la riunione completa con la madre terra. E
va benone», concluse alzandosi, «e oggi cosa abbiamo mangiato?
Carne, s'intende! Forse bevuto anche vino, forse anche liquori...»
«
No, no!», protestò il servetto, mentre Giorgio abbassava le palpebre
come un bimbo colpevole.
«
Be', e il latte dove lo prendi, scarafaggio? Lo fai bollire?»
«
Sì, bollire e ribollire.»
«
Quanti litri?»
«
Uno... no, bugia mia, tre litri...»
Servo e padrone tornarono a guardarsi perché veramente di latte Giorgio
non voleva berne neppure un sorso: gli destava nausea.
Il dottore capì la bugia.
«
Be', domani mattina il latte te lo mando io.»
«
No, no, non si disturbi...»
«
Non mi seccare. Be', e tu, come ti chiami, scarafaggio, prendi un po' il lume
e vieni con me.»
Per alcuni momenti Giorgio rimase al buio. Sentì il dottore e Pretu
salire la scaletta esterna e battere alla porticina del pagliaio, e attese
palpitando i gridi della matrigna santamente bastonata da quei due. Ma nessuno
rispose. La strega doveva essersene andata. Pretu rientrò ridendo.
«
Il dottore ha detto che domani sera si apposta sulla scaletta e le maciulla
la cuffia col bastone... Ma se non è lei? Se è uno spirito? Allora
bisognerà chiamare il prete, che legga il Vangelo per farlo andar via.
Ah, perché avete cacciato via il prete? Avete fatto male...»
«
Adesso basta; son bell'e stufo di prediche, oggi», disse Giorgio chiudendo
gli occhi; e mentre Pretu finiva di sfaccendare ricadde nel suo dormiveglia.
Gli pareva di veder sedute davanti al suo letto tre figure: zia Giuseppa Fiore,
il prete, il dottore; tutt'e tre discutevano e il medico sollevava il bastone
chiamando quei due «animali degenerati!». Ed egli, il malato, fingeva
di dormire con la speranza che essi se ne andassero e lo lasciassero solo.
Il vento soffiava nella valle, dal pagliaio scendeva la nenia funebre della
matrigna; una tristezza di morte regnava intorno; ma ad un tratto s'udiva un
lieve scricchiolìo di passi nel cortile, dietro la porta socchiusa...
Il sangue scorreva rapido nelle vene di Jorgj: egli sentiva le sue membra sgelarsi,
i lacci che lo avvinghiavano sciogliersi, come se la persona che si avvicinava
alla sua porta fosse la vita stessa, la vita che tornava a lui...
IV.
Tutte le mattine Margherita la serva del dottore, un'adolescente alta e magra,
dal viso olivastro e gli occhi nerissimi più grandi della piccola bocca
rossa, portava al malato una bottiglia di latte. Il dottore abitava poco distante,
in una casetta rossa costrutta fra le roccie fuor del paese. I vicini di Giorgio
Nieddu, povera gente di cui buona parte viveva di elemosine, brontolavano vedendo
Margherita entrare dal malato. Essi lo odiavano perché ai suoi tempi
egli li aveva chiamati poltroni e superstiziosi, e adesso, se tentavano di
entrare nella sua stamberga per curiosare, li cacciava via come cani. Uno solo,
un mendicante sordo e semiselvaggio che abitava di fronte alla casa dei Corbu,
trovava grazia presso il malato: ma il poveretto, bisogna dire, non era molesto;
si sedeva dietro la porta e non entrava se non chiamato e non parlava se non
lo interrogavano. Da Giorgio non accettava mai nulla sapendolo più povero
di lui, ed era il solo che non molestasse la serva del dottore.
Le donnicciuole invece la fermavano per il braccio e le dicevano:
«
Dàllo a me quel latte: non senti che tosse che ho? Lo farò bollire
con la malva... Il tuo padrone parla male del paese, ma i denari li accumula,
la casa se l'ha fatta, le vacche le ha comprate, che una palla gli trapassi
il garetto! E non dà nulla a nessuno, neppure se lo ammazzano: solo
a Jorgeddu, perché è un miscredente come lui...».
Ma la ragazza era taciturna: volgeva qua e là gli occhi diffidenti,
si scuoteva dalla stretta delle donnicciuole e non rispondeva.
Solo se le donne parlavano troppo male del dottore diventava livida in viso
e rispondeva qualche parola, ma così tagliente che le altre raddoppiavano
le ingiurie.
Le loro voci stridenti arrivavano fino a Giorgio, mentre Pretu correva a curiosare
e gli riferiva poi le cose orribili che le donnicciuole dicevano per lui e
per il dottore. Allora Jorgj pregava Margherita di riportare via il latte:
ma ella deponeva la bottiglia sulla cassa, si riavvolgeva nella sua gonna nera
e se ne andava senza salutare, senza parlare, talvolta anche senza neppure
guardare il malato. Egli la seguiva con lo sguardo turbato, e la sua mano diafana
tremava lievemente fra le pieghe del lenzuolo: quella figurina silenziosa e
nera dal profilo arabo, quel bel viso di sfinge paesana gli ricordava l'altra,
quella che non veniva mai.
Un giorno anche il prete e zia Giuseppa Fiore e altre pietose persone del villaggio
gli mandarono le loro serve con canestrini di pane e di vivande. Egli respinse
tutto. Le donne che entravano da lui dimostravano più curiosità che
pietà e gli rivolgevano domande indiscrete: l'umiliazione e la collera
aumentavano allora il suo male; una vertigine angosciosa lo assaliva e non
sapeva più quello che si dicesse.
Una mattina Margherita trovò la porta chiusa; per quanto picchiasse
nessuno aprì, nessuno rispose: mise allora la bottiglia sulla soglia
e se ne andò; ma il giorno dopo trovò ancora la porta chiusa,
la bottiglia sulla porta. Il mendicante stava appoggiato fuori al muro del
cortile davanti al sole sorgente.
«È
morto?», gli gridò Margherita all'orecchio.
L'uomo trasalì: la sua faccia ispida che ricordava quella del cinghiale
espresse uno spavento infantile.
«
Morto?», ripeté.
«
Sì, domando se è morto. Non apre più. Avete visto Pretu?»
«
Da ieri non aprono più; non ho più veduto nessuno», disse
il mendicante, e si fece il segno della croce con una medaglia nera che teneva
sul petto, «Sant'Elia e San Francesco lo aiutino... Bisogna chiamare
il prete.»
Margherita correva già, spaventata, e in breve la sua figura bruna sparve
in fondo al viottolo giallo di sole. Il tempo era bello, dolce, e il dottore
si preparava per andare a caccia (alla sera tornava stanco e se lo chiamavano
per qualche malato urlava: «andate da Martina Appeddu!»), ma appena
sentì le notizie portate dalla serva corse da Giorgio.
Bisognò che battesse furiosamente alla porta col calcio del fucile e
gridasse mille ingiurie perché il servetto aprisse. La porta era fermata
all'interno da tre grosse pietre.
Giorgio guardava dal suo letto, coi grandi occhi spalancati pieni di angoscia.
La porticina in fondo era aperta e vi si scorgeva un lembo di paesaggio grigio
e verde dorato dal sole.
«
Ebbene, che c'è? Non sei morto? Fa' sentire, disgraziato... hai la febbre...
Che hai fatto?»
«
Tanta gente è venuta...», disse il malato sottovoce, come confidandogli
un segreto. «Tutti mandavano l'elemosina... e passavano di qui come in
una strada dove c'è uno che è caduto... È tornata zia
Giuseppa Fiore e mi ha tormentato... Ecco perché ho fatto chiudere;
non voglio nulla, non voglio veder più nessuno... tranne che lei, dottore...»
«
Ma, disgraziato, se vogliono venirti a scovare possono passare anche di qui...»
«
La strada è difficile, di qui: guardi, neppure lei la conosce; bisogna
scendere il sentiero dietro la chiesa, risalire la china... Guardi, guardi...»
Il dottore, che torceva le grosse labbra da ruminante, non si volse neppure:
a un tratto scoppiò a ridere.
«
E tu credi che Giuseppa Fiore non possa scendere e risalire il sentiero? Chi
può fermare quella giumenta? E gli altri anche?»
«
Be', ma non verranno tutti i momenti... Ho bisogno di star tranquillo, lei
lo sa... lei lo sa... Lo dica a tutti; e non mi mandi più nulla, più nulla...
Quando son solo e quella porta è chiusa mi figuro di essere lontano
da tutti... solo come un eremita...»
Il dottore profittò di questa confessione per ripetere le sue teorie
favorite:
«
Io non ti do torto: ancora una volta il tuo istinto dimostra che l'uomo ha
bisogno di vivere in modo naturale, anche se è malato, anzi specialmente
se è malato. Le bestie malate si nascondono e lasciano che il fenomeno
si risolva spontaneo, senz'altro aiuto che quello della natura. E per lo più,
appunto, la morte negli animali avviene per cause naturali, per vecchiaia,
ecc. Oh, quando l'animale non è perseguitato, deformato, ucciso dall'uomo,
intendiamoci! E che cosa è infine la paura della morte, nell'uomo? È la
certezza di morire prima del tempo, per malattia, dopo lunghe crisi di dolore.
Se l'uomo morisse di morte naturale, cioè senza dolore, d'una morte
che è dolce come il sonno in un essere sano, cosa che non può avvenire
perché il nostro organismo è imperfetto, la paura della morte
sparirebbe».
Ma Giorgio non si confortava.
«
Fa vedere la lingua», gridò il dottore curvandosi sul letto.
La lingua era gialla, screpolata, ed egli scrisse una ricetta e la porse a
Pretu:
«
Scarafaggio, marcia...».
«
Devo prendere il bicchiere?»
«
Niente, corri...»
Mentre il servetto correva, egli sedette sullo sgabello e allungò una
gamba.
«
Sì, sì, tu hai ragione, Jorgeddu carissimo! Ieri io mi trovavo
nel bosco, su, sull'altipiano; c'era un bel sole e le roccie eran calde. Io
mi coricai sopra una di esse, incavata come una culla, e stetti là quasi
due ore come un bambino, cioè come un animaletto felice. Il cielo era
azzurro e i colombi selvatici passavano sul mio capo ed io pensavo: "mi
infischio di voi: passate pure, non vi prendo". Anzi, dirò di più:
sorridevo nel vederli passare, appunto come il bambino stupido che dalla sua
culla sorride agli uccelli e alle nuvole. Ed io pensavo, sì: l'uomo è nato
per viver solo: gli eremiti che han fama di essere stati magnifici egoisti,
erano invece uomini ancora vicini alla loro primitiva perfezione di animali.
Essi seguivano il loro istinto, quello che non ci inganna mai! Caro mio, da
giovane io pensavo di raddrizzar le gambe ai cani, e la superstizione, l'ignoranza,
l'infingardaggine mi sembravano le tre gambe storte dell'animale uomo: la quarta,
l'astuzia, quella che giusto proviene dall'istinto di conservazione, quella
sola mi sembrava ancora dritta... Dimmi che cosa vuole da te Giuseppa Fiore...»
«
Vuole che io dia querela per diffamazione a quelli lì... Essa si propone
di cercare i testimoni e di... pagarli... Mi ha offerto la sua protezione presso
il Commissario per farmi dare un sussidio... essa vuol dannare l'anima mia,
mentre l'altro, il prete, vuole salvarmi per forza! Egli disse a qualcuno che
farà venire su il vescovo per convertirmi...»
Il dottore indicò col bastone la porticina.
«
Hai fatto bene ad aprire quella lì! Senti, hai fatto benone! Ti permetto
di bere una bottiglia di vino di Oliena: anzi te la manderò io!»
«
No, no, non mi mandi nulla...»
«
Zitto, silenzio, disgraziato! perché non la vuoi? per orgoglio? Hai
diritto di essere orgoglioso, tu?»
Giorgio credette che il dottore alludesse al triste passato; e i suoi occhi
si cerchiarono d'ombra, ma le sue labbra si chiusero come quelle di un morto.
Egli non parlava mai del suo passato, sebbene convinto che anche il dottore
lo credesse colpevole. Il ritorno di Pretu con la medicina e con la notizia
dell'arrivo del Commissario ricondusse un po' di letizia nella stamberga.
«
Il signor Commissario è alto e secco e nero come la croce di Cristo.
Ha gli occhi piccoli, le palpebre rosse, la bocca grande; è calvo come
ziu Remundu, ma ha una corona di capelli neri e i baffi lunghi e pure neri
neri, e mia madre ha sentito dire che forse forse egli si tinge, come si usa
in Continente, forse con la fuliggine sciolta nell'olio... Questo però me
lo immagino io. Egli ha, inoltre, un vestito nero, poi ne ha un altro a righe,
e un gabbano lungo col collo di pelo, come quello di vossignoria, ma più nuovo.
Ha una cravatta color prugna selvatica, con un anello d'oro, e un altro anello
alle dita, grosso come gli anelli che si fanno con le foglie della palma, a
Pasqua... I piedi son lunghi e sottili, e le scarpe hanno i bottoni...»
Egli avrebbe proseguito chissà fino a quando con questi particolari,
se il dottore non avesse gridato:
«
Basta con queste scemezze! Di' piuttosto com'è la sua voce».
«È
una voce grossa, ma non come quella di vossignoria. Il Commissario poi è cavaliere,
viene da Nuoro e, dicono, ha molti denari. E dicono che qui ci starà sei
mesi e che si mangerà quattrocento scudi del Comune.»
«
Bastassero!», disse il dottore, rivolgendosi a Pretu. «Ma questo
vi sta bene, benone, benissimo! È il flagello che Dio vi manda, e ve
ne accorgerete meglio un altro giorno. Io per me me ne lavo le mani, ottime
bestie; io non ho mai voluto un voto vostro; mi vergognerei di far parte di
una amministrazione come la vostra, ma vi dico che adesso il flagello vi sta
bene, benone!»
Pretu sollevava il coperchio della cassa, aiutandosi con la testa per tenerlo
aperto bene, e contava i denari del padrone, che lo preoccupavano molto più che
i denari del Comune. Trasse una piccola salvietta bucata e la porse al malato
che aveva versato la medicina dalla bottiglia nel bicchiere trangugiandola
poi con supremo disgusto.
«
Dio mio, Dio mio», mormorò Jorgj pulendosi le labbra e la lingua, «è meglio
morire!»
Andato via il dottore, Pretu disse:
«Ziu Jò, là nella farmacia ho sentito dire una
cosa. Che il Commissario vi farà dare un sussidio...».
«
Non voglio nulla», gridò il malato rianimandosi. «Tu devi
dire a tutti che non ho bisogno di nulla.»
«
Per adesso! Abbiamo due biglietti grossi e quarantacinque soldi in rame: abbiamo
pane, formaggio, uova, una salsiccia... Ma poi, zio Jò, come faremo
poi?»
«
Venderò la casa; il dottore la comprerà per farne un pagliaio.»
«
E poi, finiti quei denari?»
«
E non devo morire? Lasciami in pace dunque, se no ti mando via come ho fatto
con gli altri.»
Ma il ragazzo si mise a ridere.
«
Pretu», disse il malato dopo un momento di silenzio, «se tu riuscissi
a comprarmi un po' di uva passa! È da tanto che la desidero.»
«
In casa di zio Remundu Corbu ne vendono, bella e grossa che sembra uva fresca.»
«
Tu non andrai in quella casa, Pretu! Guai a te se ci vai! Ti maledirò anche
morto.»
Allora il ragazzo, che non aveva paura del suo padrone vivo, rabbrividì e
s'avvicinò al letto.
«
No, no, zio mio, non fate questo! Passerò a spalle voltate davanti a
quella casa. Io non guardo mai là! Anche oggi ho visto Columba, quella
che dovevate sposar voi; era sulla porta; era vestita a nuovo, col corpetto
di velluto broccato; chissà, forse doveva arrivare lo sposo... Ma io
non ho guardato; vi giuro sulla mia coscienza, non ho guardato...»
«
Era magra? Era pallida?», domandò Jorgj sottovoce.
«
Sì, è magra; sembra una capretta assiderata; aveva tanti anelli
d'argento alle dita...»
«
Non ti ha detto nulla?»
«
Nulla.»
«
Se t'ha detto qualche cosa dimmelo: non ti sgriderò.»
«
No, vi giuro, nulla. Solo mi guardava. Volete che mi faccia dire qualche cosa
da lei?».
«
No, nulla! Guardati bene dall'avvicinarti a lei, Pretu: tanto io verrei a saperlo
lo stesso.»
E siccome il ragazzo tornava a sorridere con malizia, egli aggiunse:
«
Io sento tutto, anche quello che dicono in piazza, anche quello che dicono
nelle case. Il vento mi porta le notizie di tutto il paese, ed io posso dirti
anche quello che tu non sai...».
«
Allora siete uno stregone; sì, ma io non ho paura di voi, ecco»,
rispose Pretu traendo dal seno una medaglia antica che sua madre gli aveva
appeso al collo fin da bambino per preservarlo dalle stregonerie.
La giornata passò così, fra chiacchiere puerili. Nel pomeriggio
il malato si sentiva già meglio, per effetto della medicina e perché nessuno
era andato a battere alla sua porta.
Dopo aver dormicchiato come al solito prese il suo libriccino e lesse: poi
ad un tratto diventò pensieroso. Fece ricercare da Pretu un taccuino
che stava in fondo alla cassa, ne staccò qualche foglietto già scritto,
e col pollice fece scorrere a lungo distrattamente gli angoli dei molti foglietti
ancora vergini.
Vedendolo tranquillo Pretu andò via e ritornò verso il tramonto.
Giorgio scriveva sul taccuino appoggiato ad un libro sull'orlo del letto, e
il ragazzo si meravigliò di trovarlo in una posizione insolita, con
la testa molto reclinata sul cuscino.
«
Non state male così? Non vi gira la testa? Zio Jò, cosa fate?»
Ma il malato, che aveva messo il calamaio sul letto e ogni tanto allungava
la mano per bagnar la penna senza abbandonar con gli occhi il taccuino, non
rispose neppure. Sembrava assorto nella sua scrittura come quando leggeva il
libro dei Salmi.
Ma qualcuno batté alla porta: egli sollevò gli occhi ansiosi
e si sentì battere il cuore sembrandogli ancora una volta che Pretu
dopo aver spiato dalla fessura mormorasse: «È Columba...».
«È
quella demonia nera, la serva del dottore: ha una bottiglia...», disse
il ragazzo sottovoce, avvicinandosi in punta di piedi al letto.
«
Non aprire, no!»
La serva picchiò di nuovo, poi se ne andò. Più tardi s'udirono
passi nel cortile e Pretu guardò e vide il mendicante. Qualcuno picchiò ancora
ma la porta rimase sempre chiusa.
Verso sera il cielo si coprì di nuvole e il vento fischiò e urlò nella
valle. Pareva che parlasse davvero e raccontasse storie e leggende. A volte
la sua voce era lontana e supplichevole: voce che implorava, che narrava una
storia triste e domandava pietà, aiuto, conforto: nessuno l'ascoltava
e allora la voce si avvicinava, diventava ardita, ripeteva la stessa storia,
ma con accenti gagliardi, e domandava giustizia: nessuno rispondeva, nella
sera verdastra che copriva di veli lividi il misterioso paesaggio: e per un
attimo la voce taceva, come sbalordita che al mondo non esistesse più giustizia
né pietà; ma dopo qualche momento di silenzio profondo si levava
un urlo di minaccia, seguito da lunghi gridi di vendetta, da fischi diabolici,
da risate clamorose. Lo spirito dapprima timido poi ardito era diventato feroce
e possente e si vendicava contro la natura impassibile al suo dolore. E sconvolgeva
tutto, flagellando le pietre, le macchie, i fili d'erba più umili e
innocenti: travolgeva ogni cosa nella sua collera suprema, e pareva che le
grandi nuvole nere e gonfie come otri immensi fuggissero sul cielo verdognolo
della sera spaventate dall'ira del vento, andando a vuotarsi dietro i boschi
dell'altipiano.
Giorgio ascoltava e provava una tristezza infinita; a volte gli sembrava che
fosse l'anima sua a parlare con la voce del vento, a volte che il suo povero
corpo inerte fosse l'umile pietra percossa dalla raffica infernale.
«
Vattene», disse al ragazzo quando la luce si spense nello sportello: «passa
per il cortile».
Ma Pretu nonostante le sue paure superstiziose preferiva la porticina sul ciglione.
Un istinto di bravura, il desiderio di cose ignote e terribili lo spingeva
ad attraversare di notte il sentiero malsicuro. Aprì la porticina e
riattirandola a sé sparì come ingoiato dal vento e dalle tenebre.
Di nuovo Jorgj rimase solo nella sua tomba di vivente, solo coi suoi fantasmi.
Nel dormiveglia aveva l'impressione di alzarsi, di aprir la cassa con la testa
come faceva Pretu, di contare i denari, gli ultimi che gli restavano della
vendita di un suo pezzo di terra. I biglietti grossi erano due carte da dieci
lire l'una. E dopo? La morte di fame o l'elemosina. Ma egli non voleva morire:
tutta la sua anima si ribellava a quest'idea; gli pareva di essere come la
natura in quella stagione, gelata e inaridita dal freddo, tormentata dalle
bufere, ma pronta a ridestarsi al primo soffio della primavera.
Egli non voleva morire: il dolore stesso gli era caro perché gli dava
ancora un senso di vita. La collera che i curiosi gli destavano, l'urlo del
vento, la nenia funebre della matrigna, le parole pungenti del dottore, la
visione di Columba sulla porta, l'attesa, il ricordo, tutto era segno di vita,
luce lontana che illuminava ancora l'abisso nero entro cui egli si sentiva
disteso con le membra rotte come uno che è caduto dall'alto.
Nei giorni seguenti qualcuno batté ancora alla porta del cortile.
«È
la serva del parroco», diceva Pretu sottovoce, dopo aver spiato dalla
fessura: oppure: «è zia Giuseppa Fiore; è Margherita con
un involto sotto la gonna».
«
Non aprire.»
E le visite se ne andavano e non tornavano. Pretu raccontava:
«
Sentite, zio Jò, in casa di Dionisio Farranca ieri dicevano che è stato
il dottore a farvi chiudere la porta perché avete un male che attacca.
Dicevano: "Dio lo castiga bene quel superbone". E a mia madre dicevano: "perché lasci
andare tuo figlio?". Ma mia madre rispose: "finora Pretu mio è stato
bene e le sette lire che Jorgeddu gli dà ogni mese sono per me come
sette oncie d'oro..."».
Anche il dottore, visto che il malato non peggiorava e non migliorava, diradò le
sue visite. Un giorno Pretu disse:
«
Mia madre è stata ad infornare il pane da zia Giuseppa Fiore: e là dicevano
che il Commissario verrà a farvi visita. Ma egli passeggia sempre col
prete e forse questo gli dirà di non venire perché voi lo caccerete
via come gli altri...».
Infatti il Commissario non si lasciò vedere: a poco a poco il malato
si abituò alla sua solitudine e non attese più che qualcuno battesse
timidamente alla porta e che il servetto spiando dalla fessura mormorasse:
«È
Columba!».
Ella non sarebbe venuta più; ma egli non voleva morire come un condannato
innocente, portando con sé nella tomba il peso della calunnia. Tutti
i giorni Pretu lo trovava a scrivere sul taccuino e gli domandava se scriveva
la sua confessione.
«È
lunga. Avete molti peccati, zio Jò! Ma li notate tutti, ad uno ad uno?
Leggetemi un pezzetto della vostra confessione: vi giuro sulla mia coscienza
che non lo ripeterò a nessuno...»
Un giorno, - era ai primi di aprile e il tempo s'era di nuovo rasserenato,
- Pretu arrivò saltellando su dal sentiero del ciglione e portò a
Jorgj due violette umide, pallide e profumate. Un tremito agitò le povere
mani dello studente: egli si portò le violette alle labbra, chiuse gli
occhi, e le sue lagrime bagnarono i piccoli petali che rappresentano la primavera,
la poesia, tutte le cose belle della vita che non gli appartenevano più!
Pretu guardava meravigliato.
«
Che avete, zio Jò? Vi sentite male?»
Ma d'improvviso il malato diventò allegro.
«
Senti, Pretu, ti voglio leggere i miei peccati. Quando sarò morto tu
porterai questo libretto al parroco...»
«
Ma se voi morrete egli verrà bene a confessarvi a voce...»
«
Egli disse che non tornava se non lo chiamavo; ed io non voglio chiamarlo più...»
Il ragazzo portò il fornellino accanto alla porta e cominciò a
preparare il pranzo.
Dal ciglione arrivava il profumo del timo e qualche grido d'uccello vibrava
nel silenzio insolito della valle.
Jorgj trasse il taccuino di sotto al guanciale e cominciò a sfogliarlo.
Egli non sapeva per chi aveva scritto quelle paginette, ma era contento di
averle scritte; e si sentiva sollevato come uno che davvero ha fatto la sua
confessione.
V.
«Il paesetto ove son nato è quasi esclusivamente dedito alla
pastorizia. La natura del terreno montuoso, accidentato, non permette l'agricoltura,
e d'altronde gli abitanti per l'indole loro speciale non possono abituarsi
a lavorare pazientemente la terra. L'uomo di queste montagne è ancora
un primitivo e se gli riesce di rubare una capra e di mangiarsela coi suoi
compagni o con la sua famigliuola se ne compiace come di una piccola impresa
andata bene. Anche a lui, il giorno prima o la settimana prima, è stato
rubato un capretto: perché non dovrebbe rifarsi? E se voi gli dite che
ha fatto male si offende, e vi serba rancore come un uomo a cui voi tentiate
di togliere qualche diritto. Segregato dal resto del mondo, in lotta continua
con i pochi altri suoi simili, spesso coi suoi stessi parenti, col fratello
stesso, l'uomo di questo villaggio si crede in diritto di farsi giustizia da
sé, con le armi che possiede: la forza muscolare, l'astuzia, la lingua.
Egli non sa cosa è la società, e la legge per lui è una
forza illogica che bisogna eludere perché non si può vincere.
Del resto ha ragione: la società lontana si ricorda di lui solo per
sfruttarlo: gli richiede i tributi, lo costringe al servizio militare, e non
lo salvaguarda dal suo nemico, non dai ladri, non l'aiuta quando l'inverno
rigido fa morire il suo bestiame, non lo salva dal testimonio falso quando
egli è accusato di qualche crimine.
Egli quindi si difende da sé per istinto, per abitudine, per diritto.
Per anni ed anni una feroce inimicizia ha dilaniato gli abitanti di questo
paese. L'inimicizia nacque appunto tra due famiglie per un diritto di passaggio
in una tanca. La lite giudiziaria che ne seguì non
risolse con equità la questione, e il proprietario che vedeva calpestato
il suo diritto si fece giustizia da sé, uccidendo il nemico che attraversava
la sua terra. La famiglia di costui si vendicò; l'odio si propagò di
famiglia in famiglia come una mala radice; e furono anni terribili di continue
vendette e di morte.
Io ero un bambino, allora, ma ricordo benissimo che la gente aveva una fisionomia
triste e cupa. Gli uni pareva diffidassero degli altri, anche se appartenevano
alla stessa fazione; al cader della sera si chiudevan le porte, e anche quando
si celebravano nozze tutti erano taciturni e melanconici.
Molti individui accusati di delitti che avevano o forse non avevano commesso,
vivevano nelle macchie, ma di là impartivano ordini agli abitanti del
paese: le due fazioni obbedivano ciecamente a due capi che appartenevano ancora
alle due prime famiglie nemiche: uno di questi capi era zio Remundu Corbu,
il nostro vicino di casa, l'altro era zio Innassiu Arras, parente di mio padre.
Entrambi erano latitanti.
Anche mio padre era pastore; aveva sposato, dopo la morte di mia madre, una
vedova più vecchia di lui, che però possedeva qualche cosa ed
era parente dei Corbu: il matrimonio avvenne al tempo delle paci, concluse
tra le due fazioni dopo lunghe trattative e per intromissione delle autorità civili
ed ecclesiastiche.
Ricordo ancora la scena grandiosa. La cerimonia per le paci si compì in
una chiesa campestre dell'altipiano. Ai latitanti era stato concesso un salvacondotto
onde prender parte alla cerimonia e stringere la mano ai propri nemici; ma
si diceva già che uno dei capi, zio Innassiu Arras, non si sarebbe presentato.
Il vescovo, il prefetto della provincia ed altre autorità accompagnate
da un numeroso seguito di borghesi e di paesani, di donne e di fanciulli, cavalcavano
attraverso l'altipiano che divide il villaggio di Tibi dal villaggio di Oronou.
Pareva una processione e non mancava lo stendardo portato da un vecchio patriarca
la cui lunga barba gialla copriva la testina d'un bimbo seduto sul davanti
della sella. Il bimbo ero io; i miei occhi non si staccavano dal bastone dorato
dello stendardo che stringevo con le mie manine; e la seta azzurra della bandiera
mi sembrava un lembo di quel gran cielo chiaro che si stendeva da una montagna
all'altra sopra l'altipiano roccioso coperto di boschi e di macchie.
Chiudendo gli occhi rivedo ancora il corteo pittoresco ove predominavano i
colori rossi e gialli dei costumi paesani, rivedo il paesaggio grandioso, la
linea d'oro del mare lontano.
Il sole ancora basso sul mare mandava una luce rosea e dolce sul quadro indimenticabile;
il vescovo, un bellissimo uomo dal viso color di rosa e dagli occhi azzurri,
cavalcava una giumenta bianca mansueta e invece di precedere il corteo di tanto
in tanto si trovava indietro come se i paesani e i borghesi che cavalcavano
tutti cavalli semi-selvaggi ognuno dei quali voleva precedere gli altri, lo
avessero dimenticato.
Egli sbuffava allora sollevandosi il tricorno sui capelli bianchissimi e si
guardava attorno borbottando qualche parola in un dialetto che rassomigliava
allo spagnuolo. La croce d'oro che posava sul suo petto scintillava al sole
e sul suo dito la perla dell'anello pastorale pareva una goccia di rugiada.
Era senza dubbio la più bella e imponente figura del quadro, e i molti
preti che si mischiavano al corteo lo guardavano con ammirazione ma anche con
un certo terrore. Quando rimaneva indietro nessuno si fermava ad aspettarlo,
perché tutti sapevano che lo faceva apposta per rimanere qualche momento
solo.
A un tratto, dopo che il corteo ebbe passato il guado di un ruscello, in un
piccolo avvallamento coperto di erba e di fiori violetti, un uomo a cavallo,
armato come un guerriero, stretto in un cappotto nero e col cappuccio sul capo,
uscì dal bosco e raggiunse il vescovo. Rimasero indietro, soli. L'uomo
non era più giovane, ma ancora forte poggiava sulla sella come su una
sedia: non un suo muscolo si muoveva, mentre il cavallo camminava come per
conto suo, abituato al peso e alla mano che gravavano giorno e notte su lui.
Il cerchio nero del cappuccio incorniciava un viso arcigno quasi interamente
coperto da una barba grigia ispida le cui due punte si volgevano diabolicamente
in su: il bianco degli occhi diffidenti e della dentatura ancora intatta spiccava
fra il grigio ed il nero della figura selvaggia.
Un mormorio corse tra la folla; l'uomo era zio Innassiu Arras. Il vecchio davanti
alla cui sella io sedevo, e era un parente dell'Arras, faceva cenno a tutti
di non voltarsi, di non disturbare il discorso del vescovo col capo ribelle
alle paci. Tutti sapevano che l'Arras avrebbe messo certe condizioni per prendere
parte alla cerimonia. Il colloquio col vescovo durò per un buon tratto
di strada: l'Arras parlò poi col prefetto, e alcuni uomini del corteo,
tra cui il vecchio dello stendardo, furono chiamati a discutere.
Si formò un gruppo e l'Arras parlò. Era eccitato e chiamò una
finzione la cerimonia.
Domandava che si desse libertà a tutti i latitanti e si stabilissero
pene gravi a chi prima rompeva l'accordo.
Il vescovo sbuffava, il prefetto sorrideva e col manico del frustino batteva
lievemente una spalla dell'Arras. Ma il latitante era serio e tragico. A un
tratto tutti cominciarono a gridare discutendo; molti del corteo che erano
andati avanti tornarono indietro e s'unirono al gruppo.
Dall'alto del suo cavallo baio zio Remundu Corbu taceva guardando con un certo
disprezzo la scena. Alla fine l'Arras spronò il suo cavallo e se ne
andò senz'aver concluso nulla, e tutti gli diedero torto. Si riprese
il viaggio, e il vescovo e il prefetto stettero quasi sempre a parlare con
zio Remundu Corbu.
Alto e rigido sul suo cavallo egli destava in me una grande ammirazione; mi
sembrava più maestoso e terribile del vescovo e del prefetto. E veramente
egli è ancora un uomo imponente, dritto, dagli occhi d'un nero verdognolo
brillanti e minacciosi. La pelle del suo viso dal profilo ebreo ricorda la
scorza delle quercie ed anche la folta capigliatura grigia e la lunga barba
a ciocche nere e giallastre hanno qualcosa di vegetale.
Egli era stato lunghi anni latitante e molte accuse gravavano su di lui; era
temuto e rispettato per questo.
Finalmente arrivammo alla chiesetta della Madonna del Buon Consiglio che sorge
a metà strada fra il paese di Oronou e quello di Tibi. Da quest'ultimo
paese erano convenute molte famiglie imparentate con quelle di Oronou, per
prender parte alla pace.
Il posto è ameno, ombroso: un boschetto di quercie circonda la chiesetta
che sembra una casupola con una croce sul tetto; un ruscello scorre poco distante
fra due fila di oleandri selvatici e in lontananza si vede il mare.
I paesani avevano già acceso i fuochi per preparare il pranzo; come
nelle feste campestri si vedevano molti carri alla cui ombra sedevan donne
e fanciulle, e mentre i buoi e i cavalli pascolavano nei prati i cani saltellavano
intorno alle bisacce colme di provviste e gli uomini sgozzavano gli agnelli
per il banchetto.
Una donna magra e gialla, vestita di nero (quella che doveva diventare la mia
matrigna), mi tirò giù dal cavallo e mi condusse in chiesa. Un
drappo verde copriva una lapide sulla parete a fianco dell'altare ornato di
fiori campestri; un gran Cristo nero era disteso in mezzo alla chiesa sopra
un antico tappeto giallo e le donne inginocchiate tutto intorno a questo quadrato
d'oro pregavano sospirando, battendosi il petto e baciando il suolo.
La mia futura matrigna prese posto fra le donne intorno al Cristo, tenendomi
sempre vicino a sé, e anch'io mi inginocchiai e pregai. La chiesetta
si riempì di gente. Il vescovo celebrò la messa e dopo il Vangelo
s'avanzò sui gradini dell'altare per parlare al popolo: la sua voce
era limpida e tonante, le sue parole d'amore, di minaccia, di rimprovero, di
esortazione alla pace, alla concordia, al lavoro, echeggiavano nella chiesetta
facendo pianger le donne e curvar la testa sul petto agli uomini.
Finita la messa il prefetto in persona scoprì la lapide: un colombo
con un ramo d'ulivo decorava l'inscrizione:
IL 15 MAGGIO 1895
NELLA CHIESA DELLA MADONNA DEL BUON CONSIGLIO
GLI ABITANTI DI ORONOU E DI TIBI
FIERI E FORTI
DOPO LUNGHI ANNI DI ODIO
DI SVENTURE E DI CECITÀ
APERTI GLI OCCHI A LUCE D'AMORE
GIURANO PACE PERDONO
INAUGURANDO UN'ERA NOVELLA
DI VITA CIVILE
A due a due uomini e donne delle diverse fazioni passavano davanti al Cristo
e scambiavano il bacio della pace. Li rivedo ancora: zio Remundu Corbu alto
e duro pareva facesse uno sforzo per chinarsi alquanto, tragico e sdegnoso,
sul piccolo Dionisi Arras fratello del capo ribelle alle paci. Un mormorio
passò tra la folla quando i due si baciarono. Zio Dionisi, un ometto
rosso e allegro, si volse e aprì le mani come per dire: "mio fratello
non c'è; ebbene che volete farci? non sono qua io?".
Seguirono gli altri: erano uomini fieri e protervi, giovani alti dal viso di
bronzo, vecchi intorno ai cui volti scuri pareva pendessero le liane delle
quercie sotto cui essi passavano i loro giorni e le loro notti. In tutti c'era
qualcosa di duro e di enigmatico: essi partecipano della natura della roccia
di cui è formata la nostra montagna.
Anche le donne si baciavano: alcune piangevano, altre ridevano e queste forse
erano le più commosse. Ah, ecco finalmente finiti i tristi giorni di
ansie e di terrore: finalmente le vecchie nelle notti di vento furioso non
si solleveranno come serpi nei loro giacigli imprecando contro il nemico e
aspettando da un momento all'altro la notizia di una tragedia; finalmente le
fanciulle potranno sorridere al loro vicino di casa e scegliere fra tanti giovani
il più bello senza pensare: "quello è il nemico che bisogna
odiare e non amare".
Alcune coppie che s'amavano in segreto come ai tempi eroici di Giulietta passarono
sorridendo davanti al Cristo; un prete lesse le pubblicazioni di molti matrimoni
fra nemici, compreso quello di mio padre con la vedova.
Fu un giorno di festa, di vera pace. La primavera calma e quasi austera dell'altipiano
e quel grandioso paesaggio chiuso dal mare erano degno sfondo al quadro popolato
di tipi bellissimi, dal vescovo decorativo seduto ai piedi di una quercia come
un sacerdote druidico, ai vecchi pastori che neppure per mangiare si levavano
il cappuccio dalla testa; dal prefetto pallido e sarcastico vestito da cacciatore,
al segretario del comune che per l'occasione s'era comprato un abito da società e
un cappello duro.
Le donne e gli uomini giovani ballavano davanti alla chiesetta; serii e quasi
tragici pareva compiessero ancora un rito religioso. Io rimasi tutto il giorno
attaccato alle gonne della vedova. Seduta per terra all'ombra d'un albero ella
fissava coi piccoli occhi scintillanti i vari gruppi e brontolava parlando
male di tutti.
Mio padre venne per condurmi al banchetto: mucchi di pane, di formaggelle,
di focacce, di frutta secche, sopra i sacchi e le bisacce che servivan da tovaglie
attiravano i miei sguardi. Mi pareva di sognare, di assistere ad un banchetto
come quello delle fiabe: c'era di tutto e il vino scorreva dalle botti come
l'acqua dalle fontane; il latte si mischiava col miele, interi cinghiali, cataste
di pernici, laccheddas [3] di anguille passavano davanti
al vescovo che beveva solo un po' d'acqua e masticava un cardo selvatico.
Discorsi, canti e brindisi seguirono. Io, il vecchio nonno e la futura matrigna
tornammo in paese prima del tramonto, ma la festa durò tre giorni, dopo
i quali parecchi latitanti tornarono ai boschi, altri si costituirono, altri
furono rilasciati in libertà provvisoria.
La notte del terzo giorno qualcuno entrò nella chiesetta, spezzò la
lapide e lasciò alcune monete per il rifacimento dei danni. Tutti dissero
che era stato l'Arras.
Non accaddero più fatti di sangue, i matrimoni furono celebrati e le
parti nemiche tornarono a scambiarsi il saluto, ad aver relazioni ed a concludere
affari: ma l'avversione segreta, tra famiglia e famiglia, tra individuo e individuo,
dopo quindici anni dal giorno delle paci rimane ancora.
Zio Remundu Corbu, costituitosi, fu assolto: altri furono condannati, altri
morirono. Rimane ancora zio Arras: egli è da trent'anni bandito e fra
poco ha diritto a ritornare libero, assolto da quell'unico giudice incorruttibile
che è il tempo.
VI.
Mio padre sposò la vedova pochi giorni dopo le paci. Era un uomo piuttosto
mite e taciturno, incapace di far male a una mosca, ma guai se l'offendevano
senza ragione o se gli prendevano la sua roba. Allora domandava giustizia e
se non la otteneva se la faceva da sé.
Ricordo; avevo nove anni e vivevamo in questa casupola, mio padre, la mia matrigna
ed io. Mio padre era quasi sempre assente e non voleva che lo seguissi all'ovile
perché desiderava che io studiassi per diventar notaio o prete. Quando
non andavo a scuola vagavo per le strade del villaggio o litigavo con la mia
matrigna, la quale forse conservava per me l'odio di famiglia. Un giorno io
ritornavo dall'attingere acqua quando vidi mio padre e un contadino di Nuoro
salire la scalinata della piazza. Sapevo che mio padre doveva al contadino
il fitto di una tanca; preso quindi da curiosità corsi
giù per il viottolo, deposi i recipienti dell'acqua e corsi via. La
mia matrigna, affacciatasi alla finestrina della camera di sopra, mi richiamava
con strilli d'aquila, augurandomi di morir di fame o di esser perseguitato
da qualche cattiva fata. Ma io correvo come una lepre ed in un attimo fui sulla
piazza, dove del resto passavo buona parte della giornata guardando come affascinato
il panorama di valli grigie e verdi, le cascate di roccie, le pianure lontane
e le montagne che chiudono l'orizzonte.
Il vento soffiava ininterrotto come sulla vetta di un'alpe, gli alberi mormoravano
e grandi nuvole argentee passavano sul cielo di un turchino intenso.
Vidi mio padre e il contadino seduti su una panchina e piano piano andai ad
appoggiarmi al parapetto poco distante da loro.
Del resto essi parlavano a voce alta e pareva litigassero; un vecchio con una
lunga barba gialla seduto all'orientale sopra la panchina attigua cercava di
metterli d'accordo.
"
Sant'uomo", diceva il contadino, "io ho bisogno di denari non di
chiacchiere: non me ne andrò di qui, oggi, senza i denari, perché domani
mi scade una cambiale e se chi mi deve non mi paga sarò costretto a
vendere il mio cavallo. Il mio cavallo! Lo stesso che l'anno scorso mi ha fatto
vincere il premio di dodici scudi e due palmi di broccato alle corse per le
feste del Salvatore. E perché me li fate perdere quest'anno, questi
dodici scudi, veri come i dodici apostoli? Solo il mio cavallo può vincer
la corsa, che i vermi vi rodan le orecchie".
E mio padre urlava:
"
Pagherò! Non s'è mai sentito dire che Remundu Nieddu sia un mal
pagatore: ho vacche, ho capre, ho intenzione di far di mio figlio un notaio".
Ma il contadino insisteva, ripetendo la storia del suo cavallo fino a suggestionarmi.
Dopo che egli e mio padre si misero d'accordo e se ne andarono insieme alla
bettola, io rimasi sulla piazza sognando. Mi pareva di vedere nello stradone
di Nuoro la corsa dei berberi. Cavalli neri e bianchi, puledri bai e cavalle
pezzate correvano giù, fra la polvere dorata dal sole; correvano così rapidi
che si distingueva appena il loro colore; e i fantini, tutti ragazzetti come
me, piegati sul collo delle bestie, scalzi, a testa nuda, cavalcavano senza
sella fermi e sicuri come piccoli centauri. La gente guardava dai dirupi e
dagli orti, e un grido solo si levava da tutta quella folla in attesa. Anch'io
sentivo il mio cuoricino battere perché mi pareva di prender parte alla
corsa; arrivavo il primo e il grido della folla e i dodici scudi eran tutti
per me.
Mi scossi quando la campana rauca di Santu Jorgj annunziò il mezzogiorno.
Anche i vecchi seduti a gambe in croce sopra le panchine appoggiavano il bastone
al suolo per alzarsi e andarsene; uno dopo l'altro scendevano la scalinata
lenti e solenni con le lunghe barbe di patriarchi scosse dal vento. Io li seguivo.
Una donna che tornava dalla fontana mi disse: "Ohi, ohi, matrigna tua
sembra una biscia calpestata: va, va, che t'aspetta!".
"
Che m'importa? Io andrò a correre i cavalli alla festa del Salvatore!"
"
Cuore di madre", strillò la donna, "il sole ti ha sciolto
il cervello!"
Ma io non mi davo pensiero e correvo giù per i viottoli cantando. La
gente rientrava a casa e solo qualche vecchia si attardava a filare seduta
in qualche angolo ombroso.
Nonostante i minacciosi pronostici della donna mi affrettavo a rientrare: l'odore
di carne di capra arrostita allo spiedo che usciva da molte casupole stuzzicava
il mio appetito: appena fui qui dentro vidi appunto un pezzo di carne infilato
in uno spiedo, e siccome la mia matrigna era andata su a prendere il pane mi
curvai sul focolare come una volpe affamata e coi dentini cominciai a strappare
qualche pezzetto di arrosto...
Ero un monellaccio, non lo nego, ma nessuno badava a me se non per maltrattarmi.
Mi par di rivedermi ancora fanciullo in questa tana che non era squallida come
lo è adesso; mi aggiravo sempre in cerca di qualche cosa, sollevando
con la testa il coperchio della cassa, arrampicandomi sugli sgabelli per guardare
cosa c'era nell'armadio; e rivedo nel vano della porta la tragica figura della
mia matrigna, gialla e nera in viso come nei vestiti, con un canestro di pane
sul capo e le mani che minacciano... Ma io non avevo paura di lei; la fissavo
in viso deridendola e sfidandola.
"
Tu ritorni sempre all'ora del pasto come le lepri alla vigna", mi diceva, "poltrone,
malandato, buono a niente..."
Eterna storia di tutti i fanciulli abbandonati a se stessi! Io provavo dolore,
umiliazione, dispetto, e pensavo solo al modo di poter guadagnare qualche cosa
per sottrarmi alle ingiurie della mia nemica.
Ma appena sentiva il rumore degli scarponi ferrati di mio padre che risuonavan
sui ciottoli del cortile come ferri di cavallo, ella mutava fisionomia, di
severa e minacciosa diventava dolce e servile; preparava il tagliere, deponeva
il canestro del pane accanto al focolare e mi diceva:
"
Avvicinati, cuore mio, mangia; avrai fame".
Mio padre rientrava, parlava del fitto della tanca, del
contadino che voleva i denari; parlava delle capre, delle vacche, del servo
che guardava l'ovile; di tutto fuor che di me.
Io passavo i giorni ad oziare, a portar acqua e ad immischiarmi nelle questioni
delle donne alla fontana: a tutti domandavo chi aveva un bel cavallo da corsa,
ma tutti mi dicevano se volevo comprarlo e mi ridevano in faccia. Finalmente
un vecchio rimbambito mi indicò un ricco paesano malato che voleva vendere
il suo cavallo. Io andai: l'uomo giaceva immobile e giallo su una stuoia e
le donne lo piangevano già come morto; tuttavia domandai del cavallo
e una vecchia mi rispose sottovoce che era al pascolo nel bosco comunale: se
qualcuno voleva comprarlo andasse a vederlo.
Allora l'idea di cercare il cavallo per condurlo alle corse non mi abbandonò più.
Si avvicinavano i giorni della festa e tutti nel nostro cortiletto ne parlavano:
le nostre vicine di casa avevano deciso di andarvi attraversando a piedi la
valle, ed erano talmente infervorate nei loro progetti che non ascoltavano
più neppure le storie di zio Remundu.
Seduto su lo scalino alto della porta a destra della sua casa, col bastone
fra le gambe e le mani appoggiate al bastone, egli raccontava le sue vicende
passate, mentre le donne e i ragazzi lo ascoltavano come se egli narrasse fiabe
e leggende.
Anche questo quadro caratteristico non s'è mai scolorito nella mia memoria.
Alle spalle del vecchio, accoccolata sulla soglia si vedeva sua figlia Liedda,
vedova anche lei precocemente invecchiata da una malattia di cuore; come sfondo
alla sua figura nera dal viso cereo l'interno della cucina rosseggiava al chiarore
del focolare acceso anche d'estate, e le casseruole di rame brillavan sulle
pareti come lune al tramonto. Nel vano di una finestra al primo piano si sporgeva
il visetto bruno e intento di Colomba, mentre Banna (entrambe figlie di Liedda)
già fidanzata a dodici anni con un pastore di trenta, alta e precoce,
ascoltava i racconti del nonno appoggiata al muro accanto alla porta con le
mani sulla schiena e un sorriso ambiguo sulle labbra.
Benché gemelle Colomba e Banna non si rassomigliavano; la prima col
viso ovale bruno come un oliva, gli occhi d'un nero verdognolo seminascosti
da larghe palpebre violacee, era delicata e timida, mentre Banna, robusta,
scura in viso come una mulatta, con le labbra grosse, il naso aquilino dalle
narici frementi, gli occhi verdastri maliziosi e felini, pareva avesse assorbito
lei tutta la vitalità che mancava alla sorella.
Nelle sere di festa s'univa al gruppo il fidanzato di Banna; un semplicione
alto e grosso che stava in ammirazione davanti al vecchio e non badava alla
promessa sposa.
E il vecchio raccontava e pareva prendesse gusto a esagerare le sue storie
per spaventare le donne.
"
Una volta fui ferito; sì, una palla mi attraversò l'omero, così l'ira
di Dio attraversi l'anima del mio nemico. Bene: il sangue colava di qui",
col mento si toccò il braccio "come l'acqua dalla brocca: ed io
zitto. Mi buttai dietro una roccia e stetti là zitto e immobile tre
giorni; sentii passare qualcuno ma non chiamai. E se era il mio nemico, che
il Signore lo disperda come polvere ai venti? Alla forca! No, meglio morire
che aprir bocca per domandar soccorso. Finalmente un amico mi trovò;
avevo già perduto i sensi e stentarono a salvarmi."
"
Contate, ziu Remù, contate quando vostra moglie venne a cercarvi!"
"
Ah, quella volta la bocca l'ho aperta! Ah, piccole lucertole mie, quella volta
sì. Dunque mia moglie venne a trovarmi. Ero nel salto de S'Ena
e Melas, dove una volta abbiamo avuto il bestiame. Mia moglie sapeva
la strada. Ebbene, e non c'era il nemico, in agguato, che sparò contro
la donna? Ah, che tu sii squartato, maledetto demonio; tu volevi bere il mio
sangue, il sangue mio; volevi uccidere anche mia moglie? Essa era pallida come
la cenere, ma non tremava. Io cominciai a urlare; le mie grida echeggiavano
come i ruggiti del leone nel deserto: il nemico fuggì e ci lasciò tranquilli,
perché credette che con me ci fossero altri venti uomini, tanto avevo
gridato."
"
Contate, contate", dicevan le donne; e il vecchio raccontava.
La luna attraversava il cielo sopra la straducola rocciosa e le figure e il
paesaggio apparivano in bianco e nero come in una nitida acquaforte, o in nero
e rosso se la notte era interlunare e dalle casette usciva il chiarore del
fuoco.
Anche Dionisi Oro il mendicante seduto sulla pietra davanti alla sua casupola,
sebbene sordo pareva ascoltasse: di tanto in tanto sollevava il viso selvaggio
verso Colomba e le faceva un cenno di minaccia scherzosa, poi tornava a fissare
zio Remundu baciando le medaglie che gli pendevano dal petto e si segnava come
spaventato dai racconti del vecchio.
"
Contate, contate, ziu Remù!"
"
Una volta Innassiu Arras, quel poltrone che se ne rimane fuori del paese perché gli
torna conto più che a lavorare, mi mandò a dire che entro otto
giorni mi fossi confessato. Va bene: voleva dire che al nono giorno mi faceva
la festa.
Allora, piccole colombe mie, io mando a dire a prete Arras, il cugino di Innassiu,
che venisse a confessarmi perché quel poltrone di suo cugino mi aveva
imposto così. Prete Arras, Dio l'abbia sotto le sue ali adesso che è morto,
voi tutte lo avete conosciuto, era un uomo che amava la vita. Mi mandò a
dire che se volevo confessarmi andassi a casa sua; se no confidassi i miei
peccati a un tronco di sovero. Va bene, allora cosa faccio, gli mando a dire
che sarei andato, di notte, travestito da donna; ma che non volevo esser veduto
che da lui. Egli accettò. Cosa facciamo, io ed altri amici, giunta la
notte del convegno mandiamo in casa di prete Arras una donna vera, che voi
tutte avete conosciuta, ma che adesso torna inutile ricordare. È morta
anche lei, adesso; era una donna allegra, Dio l'abbia in gloria. Appena lei
dentro, qualcuno va a batter alla porta del prete: nessuno risponde: ci avanziamo
in parecchi, e giù colpi alla porta gridando che un moribondo vuol confessarsi.
La donna, dentro, finge di spaventarsi e salta da una finestra: la prendiamo,
fingiamo di smascherarla, gridiamo. Tutto il paese l'indomani sapeva che prete
Arras riceveva di notte quella tale."
"
E Innassiu Arras cosa v'ha fatto?"
"
Lui, quel poltrone? Lui quando sente l'odore delle mie scarpe fugge come la
lepre davanti al cane."
Nelle sere precedenti le feste di Nuoro, le donne dunque si distraevano parlando
della loro gita: anch'io provavo una smania febbrile e una sera senz'altro
dopo aver rovesciato il lievito che la mia matrigna doveva versare sulla farina,
inseguito dalle minaccie di lei mi avviai di corsa fuor del paese.
Ricordo sempre; era una notte di luna piena; ogni sassolino aveva la sua ombra
e le montagne lontane sembravano veli azzurri stesi all'orizzonte. Quando fui
sullo stradale su in alto al principio dell'altipiano mi volsi per guardare
il villaggio azzurrognolo alla luna e come dipinto sullo sfondo roccioso del
monte: mi pareva di sognare. Sentivo un odore di ginepro, vedevo all'orizzonte
di qua e di là dal cono azzurro del Monte di Galtelli due lembi di mare
che mi sembravano due occhi misteriosi, e mi sentivo libero nella notte come
una lepre scappata dal laccio. Allora credevo ai morti, agli spiriti infernali
che vigilano i tesori, ai banditi che attraversano i boschi, alle donne bianche
sedute sulle roccie filando la lana bianca e che se vengono disturbate e cade
loro di mano il fuso fanno morire il viandante causa della loro distrazione;
ma appunto per sfuggire a tutti questi fantasmi e perché un cavallo
visto di notte poteva anche essere uno di quei misteriosi cavalli verdi che
in certe leggende conducono ai precipizi chi osa cavalcarli, decisi di fermarmi
e di passare la notte nel bosco. Mi coricai dietro una muriccia e sognai che
la mia matrigna mi inseguiva a cavallo minacciandomi. All'alba ero di nuovo
in viaggio; per non sbagliare costeggiavo lo stradale che attraversa l'altipiano
roccioso fra boschi di soveri e di quercie, ma di tanto in tanto mi fermavo
per guardare attorno. Le pernici con le ali dorate dai primi raggi del sole
svolazzavano d'albero in albero; montagne azzurre e rosee apparivano attraverso
il bosco, all'orizzonte, e quelle d'Oliena biancheggiavano fantastiche come
montagne di marmo.
Poi riprendevo la strada sempre con la speranza di trovare il cavallo al pascolo.
Finalmente mi parve di vederne uno all'ombra sotto una specie di collinetta
dominata da un nuraghe: ma avvicinandomi vidi che era una
roccia!
Cominciavo a disperarmi quando incontrai un vecchio pastore di Nuoro che cavalcava
verso la Serra.
"
Zio", gli dissi, "me lo fate correre alla festa" questo bel
cavallo? Divideremo il premio."
Il vecchio, un uomo grasso e bonario dal viso rosso lucido, invece di stupirsi
mi guardò con benevolenza facendomi qualche cenno amichevole con la
testa.
"
Di chi sei figlio?", gridò.
"
Di babbo mio!"
"
Be', senti, vieni martedì a casa mia. Mi chiamo Giuseppe Maria Conzu.
Ti darò il cavallo; ma spero non scapperai con esso!"
Giunto a Nuoro stanco ma beato, incontrai una mia compaesana che mi diede un
pezzo di torrone. Con questo solo cibo rimasi fino all'indomani. Dormii all'aperto
in compagnia dei fruttivendoli baroniesi che avevano fermato i loro carri davanti
al casotto del dazio, e il primo giorno della festa vagai a lungo tra la folla
variopinta. La musica suonava una marcia allegra e tutti camminavano e s'agitavano
come seguendo quel motivo.
Anch'io camminavo; ma sentivo un gran frastuono entro le orecchie, le gambe
mi si piegavano e tra la folla mi pareva ogni tanto di vedere il viso della
mia matrigna. Andai a cercare il pastore, ma mi risposero che sarebbe tornato
solo all'indomani.
Anche la seconda notte dormii fra i Baroniesi nutrendomi con scorze d'angurie
che essi buttavano.
Il secondo giorno della festa andai nuovamente in cerca del pastore ed egli
tenne la parola.
"
Ti leverai il berretto e le scarpe", mi disse mentre attorcigliava la
coda del cavallo legandola con un nastro giallo. "E bada che devi prendere
il primo premio; ma non farmi crepare la bestia. Oggi l'ho lasciata digiuna."
"
E così ho fatto anch'io!", dissi sbadigliando.
"
Meglio! Correrai più leggero: dopo la corsa ti darò da mangiare."
Egli mi accompagnò fino al punto ove i priori della festa registravano
i cavalli per la corsa ed io, montato sul dorso nudo della bestia irrequieta,
mi piegavo indietro e in avanti e sui fianchi per far vedere tutta la mia agilità.
Il pastore mi accompagnò per un tratto, poi continuai da solo fino al
punto di partenza, che era il ponte tra la valle e la montagna. Gli altri fantini,
scalzi e a testa nuda, si sbeffeggiavano a vicenda lodando ciascuno il proprio
cavallo: in lontananza sui dirupi dardeggiati dal sole nereggiava la folla
qua e là come macchiata di sangue: il rosso dei corsetti paesani.
La fame e il calore del sole mi davano il capogiro; guardavo con ansia i cavalli
più belli del mio, ma speravo di vincere almeno il secondo, almeno il
terzo premio. Era necessario; bisognava che portassi a casa almeno cinque lire.
Finalmente un uomo ci dispose in fila e batté le mani. I cavalli partirono
come freccie fra nuvole di polvere e ben presto io, che fin da principio m'ero
trovato fra gli ultimi, mi vidi solo, curvo sulla criniera umida del cavallo
ansante, - solo, ultimo, votato allo scherno della folla.
Vinto da un'angoscia profonda cominciai a urlare per aizzare il mio cavallo;
ma gli altri correvano sempre avanti ed io avevo l'impressione che si inseguissero
e scappassero l'uno dopo l'altro pazzi di terrore e di rabbia.
Ma il più folle era il mio, ed io quasi del tutto disteso sulla sua
groppa ardente più che guidarlo mi lasciavo trasportare da lui. Allo
svolto sopra la fontana il cavallo che precedeva il mio inciampò e rallentò la
corsa: in un attimo lo raggiunsi, lo sorpassai e il coraggio mi ritornò.
Mi sollevai urlando: il cavallo come preso da un impeto di gioia nitrì e
raddoppiò di velocità. Ecco sorpassato un altro cavallo, poi
un altro ancora... Mi pareva un sogno. Prima di arrivare all'abbeveratoio,
dove già la folla guardava e gridava, raggiunsi e sorpassai gli altri
cavalli. Il cuore mi batteva violentemente; vedevo tutto intorno grandi macchie
rosse e sentivo come un ronzìo di api.
La gioia mi dava le vertigini. Non pensavo più a niente, né al
premio né alla matrigna; solo, all'improvviso, sentii una voce che mi
fece tremare:
"
Bravo, Oronou, bravo!".
Ma alla voce del padrone il cavallo sussultò e si scosse violentemente
come per liberarsi del mio peso, ed io precipitai sulla polvere come un sasso
buttato dall'alto... La polvere mi parve rossa, i ferri del cavallo che mi
passava sopra mi percossero la testa come martelli... Ma più che il
dolore mi fece svenire il grido di terrore della folla.
VII.
Restai tre mesi a letto; e quella malattia che fu come un lungo sonno febbrile
mutò completamente il mio carattere.
Divenni sensibile, nervoso; non amavo più girovagare per il paese, non
chiacchieravo più con le donne, non litigavo più con la matrigna.
Tutto mi dava noia; ma mi rodevo entro di me senza potermi sfogare a parole
quasi fossi diventato muto. Per sfuggire alle persecuzioni della matrigna me
ne andavo fra i dirupi nei dintorni del paese nascondendomi fra le pietre e
l'erba come una lucertola.
Ma un giorno mio padre ordinò alla matrigna di riempire di pane, di
formaggio e di legumi una bisaccia, e tutti e due, lui in sella io in groppa,
montammo a cavallo diretti a Nuoro.
Era di ottobre e tutta la valle ancora gialla di stoppie e di cespugli secchi
sembrava qua e là tinta dal verde tenero dell'erba di autunno. Il cielo
cosparso di nuvolette grigie immobili biancheggiava luminoso come uno specchio
ove pareva si riflettessero le roccie del paesaggio: all'orizzonte i colori
si facevano vividi illuminati da una luce lontana, e il Monte di Galtelli sullo
sfondo d'oro del mare sorgeva simile ad un enorme scoglio azzurro coperto da
un velo rosa.
Mentre mio padre mi raccontava le vicende dell'inimicizia del nostro paese
la mia fantasia svolazzava di qua e di là come le pernici su gli olivastri,
e in ogni pietra vedeva un ricordo, in ogni susurrio di sorgente ascoltava
una leggenda.
Così arrivammo a Nuoro e andammo nella casa di zio Giuseppe Maria Conzu.
Là rimasi cinque anni a pensione; a pensione per modo di dire perché pagavo
solo il fitto di una stanzetta terrena e mi preparavo il pasto da me con le
provviste che ogni due o tre settimane mio padre mi mandava.
Anni di semplicità e di gioia! Io mi alzavo prima dell'alba gorgheggiando
con gli uccelli; tutto mi sembrava grande, tutto mi sembrava bello; mi pareva
di vivere in una città tumultuosa; se andavo a messa il vescovo mi sembrava
Cristo; a scuola consideravo i professori come uomini grandi e celebri, e se
coi compagni facevamo qualche escursione nei dintorni o ci spingevamo sino
ad Oliena o a Mamojada ero convinto di aver veduto i più bei paesaggi
del mondo e di aver esplorato terre ancora ignote. Leggevamo ancora le poesie
di Iginio Tarchetti mentre i romanzi e le novelle di Gabriele d'Annunzio ci
rivelavano un mondo incantato e malefico, una piaga dolce e ardente piena di
fiori velenosi e di frutti proibiti.
Passavo le vacanze qui in paese e le relazioni con la matrigna diventavano
quasi amichevoli. Non ero più il ragazzaccio degli anni scorsi ma uno
studentello che poteva diventare qualche cosa. Essa mi diceva:
"
Perché non guardi Columba, la nostra vicina? Essa ha roba e zio Remundu
molti denari. Si dice che quando era bandito abbia trovato un accusorgiu [4].
Guàrdatela adesso che è ragazzetta; altrimenti si sposa con qualche
altro. Così, se tu diventi notaio e segretario comunale, potrete formare
una famiglia ricca e rispettata".
Io in quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi
fiumi luminosi con isole coperte di canne e di giuncheti, ombreggiate di boschi
di salici e di pioppi; tutto un paesaggio caldo, fantastico, velato di vapori
rosei, popolato di donne belle e voluttuose. E queste donne le vedevo coperte
anch'esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola
come il cielo al crepuscolo.
Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo fatto di roccia
e di macchie dai rami contorti come membra che la lotta eterna col vento ha
indurito e ripiegato ma non vinto. Se la nebbia passava sul mio capo il vento
la portava subito via: e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno
ruvido e di velluto rasato, come se rappresentassero il giorno e la notte assieme,
ma senza crepuscoli, l'amore e l'odio ma senza pervertimenti.
Sopra questa stamberga vi sono due stanzette, anche allora in pessimo stato.
L'acqua sgocciolava dal tetto e il vento penetrava dalle fessure delle imposte
corrose. In una dormivo io: la finestruola domina una distesa di casupole e
di cortiletti; fra gli altri, attiguo al nostro, il cortile di zio Remundu.
Buoi e cavalli, cani e maiali popolavano sempre il portico che precede la casa
e il cortile che sembra una gabbia; spesso vedevo Banna, agile olivastra e
fiera come una domatrice, passare e ripassare fra le gambe dei cavalli e dei
puledri e accanto ai giovenchi che scuotevano minacciosi la coda, mentre Columba
passava rasente al muro timida e quasi paurosa, accostandosi al pozzo per attingere
acqua. Qualche volta le due sorelle litigavano e Banna si ergeva selvaggia
pronta a gettarsi contro Columba che si ritraeva spaventata.
Columba mi destava pietà; era un essere debole bisognoso di protezione,
e l'idea suggeritami dalla matrigna di innamorarmi di lei mi sembrava buona
e generosa. Di due anni più giovane di Columba io ero già alto
e forte mentre lei, sottile come un asfodelo, sembrava ancora una bambina.
Un senso di poesia barbara e un velo di leggende circondavano la casa antica
ov'ella abitava: talvolta vedevo la testa medioevale del vecchio apparire nel
vano delle finestruole simili a feritoie, e tutto un passato epico risorgeva
davanti a me, nel silenzio intenso dei meriggi profumati dall'odore del lentischio,
o nei crepuscoli interminabili quando io stanco di una realtà troppo
meschina mi abbandonavo alle mie fantasticherie di adolescente.
Allora tutto mi sembrava poetico nella casa dei miei vicini, il pozzo primitivo
che ricorda la costruzione dei nuraghes, i cavalli che ruminavano
il fieno estraendolo dai cestini di canna, il vecchio che li accarezzava e
parlava loro come ad amici, la mola romana trainata dall'asinello, la vecchia
serva che puliva la farina seduta sotto la tettoia, i ballatoi di legno, e
soprattutto una specie di veranda sporgente sul cortile sopra il portico terreno.
Era un ballatoio coperto da un tetto di tegole, una rozza imitazione dell'antico
calcidium,
sul quale s'aprivano le porte delle camere al primo piano: spesso Columba stava
là seduta su uno sgabello accanto a una pianticella di basilico verdeggiante
in un vaso di sughero.
Ella cuciva o ricamava e un agnellino nero stava sdraiato ai suoi piedi. I
falchi passavano sul luminoso cielo d'agosto sopra il cortile patriarcale;
il loro strido d'amore e di rapina faceva sollevare il viso a Columba, e quel
viso delicato e ardente, quei grandi occhi dalle palpebre brune, tutto il quadro
semplice e antico richiamava sulle mie labbra i versetti del Cantico
dei Cantici.
Ma la presenza di Banna mi richiamava spesso alla realtà. Ella usciva
nel portico e attaccava una bisaccia o una sella ai lunghi piuoli infissi nel
muro; sgridava la vecchia serva che le rispondeva con insolenze, attraversava
il cortile, mi salutava sorridendomi e si indugiava al pozzo.
I suoi saluti frequenti, i suoi sorrisi ambigui, che talvolta mi sembravano
beffardi, tal'altra pieni di tenerezza, mi destavano un senso di malessere.
Ella mi mandava spesso regali di frutta, carne, dolciumi. La vecchia serva
scalza dal corto viso egiziano, con le gonne rigide e la cuffia lunga, veniva
a passi silenziosi con un piatto sotto il grembiale. Lentamente, quasi con
mistero scopriva il dono.
"
Per Jorgeddu bello! Lo manda Banna, la mia padrona."
Era benevola e ironica. La mia matrigna prendeva il piatto e lo vuotava ringraziando
con dignità.
"
E quando si sposa dunque, la tua padrona?"
"
Presto, anima mia; non c'è furia, però."
"
Eh, aspettano forse che lo sposo cambi i denti?"
"
E perché no? I ricchi han sempre sette anni, anche quando ne hanno settanta."
"
Ascoltami, consolazione mia", mi diceva la matrigna, quando la vecchietta
se ne andava col suo piatto sotto il grembiale, "se Banna non fosse promessa
sposa ti consiglierei di guardartela: con lei ti intenderesti forse meglio
che con quell'acqua morta di Columba..."
E mi porgeva una delle pere verdi che la serva aveva portato nel piatto; ma
io la respingevo con un senso di ripugnanza.
Le nozze di Banna furono celebrate a Pasqua. Io ero ritornato per qualche giorno
in paese e fui invitato; per tre giorni le tavole rimasero apparecchiate e
mentre zio Remundu presiedeva seduto in capo alla mensa fra due boccali di
vino lo sposo andava su e giù per la casa e aiutava a sgozzare le pecore
e i capretti destinati al banchetto.
Nel cortile si ballava al motivo di un canto corale. Le donne e gli uomini
con le dita intrecciate saltellavano seri e quasi tragici intorno al gruppo
dei cantori che riuniti viso contro viso con le mani sulle guancie pareva si
comunicassero un segreto. Sotto il portico ove si sgozzavano i capretti e si
scorticavano le pecore, la scena aveva alcunché di rituale, simile ad
un sacrifizio accompagnato da canti e danze in onore degli sposi. Anch'io ballai,
e Columba mi diede la sua mano gracile che a poco a poco io sentii scaldarsi
e quasi gonfiarsi entro la mia come un uccellino assiderato che riprende vita
e calore.
La sera del terzo giorno si ballava ancora. Io rimasi a cena; le tovaglie erano
macchiate di vino, di sangue e di miele, tutta la casa esalava un odore di
bruciaticcio e di liquori ed era piena di dolciumi, di frumento regalato alla
sposa, di mazzolini di fiori, di bioccoli di lana e di carne fresca. Un disordine
indescrivibile regnava in tutte le camere e la gente vi passava come in un
luogo pubblico; nel cortile i cantori proseguivano la loro cantilena sonora,
e i ballerini danzavano emettendo gridi sonori.
Sembrava un'orgia, una festa bacchica illuminata fantasticamente dai fuochi
di lentischio che ardevano nel cortile e dalla luna che calava rosea sul cielo
di primavera.
E il vecchio presiedeva a capo della tavola fra i due boccali di vino raccontando
le sue avventure, mentre lo sposo un po' pallido rideva e beveva, e agli scherzi
e alle allusioni degli invitati rispondeva dicendosi capace di andare alla
tanca per
domare i puledri. Le donne, compresa la sposa i cui occhi sembravano più verdi
nel loro cerchio di viola, erano stanche e pallide; soltanto Columba insolitamente
eccitata dai suoni e dalla danza o dalle frasi degli invitati, aveva gli occhi
lucenti e il viso roseo. Ballammo ancora assieme nel cortile al chiarore del
fuoco e della luna. La notte era fresca, ma noi respiravamo con piacere l'aria
che aveva l'odore delle roccie umide e del lentischio fiorito. La luna batteva
sulla veranda, dove a un tratto apparve la figura di Banna e subito dopo quella
dello sposo. Vedendoli, qualche ballerino emise gridi selvaggi e Columba sussultò come
spaventata stringendomi la mano; io allora sentii un brivido; la guardai e
il suo sguardo rispose al mio.
Continuando a ballare io sentivo il suo fianco sfiorare il mio, mentre il canto
corale monotono e sonoro che guidava la danza mi ricordava il vento nella foresta.
Mi pareva d'essere su una montagna illuminata dalla luna, tra roccie fantastiche
e tronchi d'alberi fossilizzati, e che noi tutti che formavamo il circolo del
ballo tondo fossimo uomini primitivi riuniti per una danza sacra dopo la quale
ciascuno di noi poteva portarsi via la sua compagna e folleggiare con lei nel
paesaggio lunare, nascondendosi entro le grotte, baciandosi all'ombra delle
quercie, vivendo insomma secondo il suo istinto e il suo desiderio.
Spinto da quest'illusione io seguii Columba un momento che ella si staccò dal
circolo per entrare nella casa. Salì la scaletta, attraversò la
stanza del banchetto, uscì in un ballatoio che comunicava con un'altra
camera: io la seguivo. La luna era tramontata e solo un'aureola biancastra
segnava i profili dei monti. Il chiarore e i canti che salivano dal cortile
si affievolivano come se la scomparsa della luna segnasse la fine della festa.
Io presi Columba fra le braccia e la baciai con tutto il mio ardore e la mia
fede di adolescente: ella per me rappresentava in quel momento il mistero della
notte, la primavera, la poesia dell'amore; le sue labbra erano per me come
l'orlo d'un vaso pieno dell'essenza stessa della vita.
VIII.
L'indomani all'alba partii senza averla riveduta e per settimane e mesi vissi
in una specie di ebbrezza, in una illusione dolce e profonda come un vero sogno.
In estate ritornai e continuammo ad amarci in segreto.
Dopo il suo matrimonio Banna abitava l'ala destra della casa completamente
separata dal centro e dall'ala sinistra, e spesso la serva andava da lei per
lavorare. Se il vecchio era assente, Columba sola in casa non esitava a ricevermi.
Abbiamo passato intere notti assieme, quando il nonno era all'ovile e la serva
da Banna a fare il pane.
Anche all'interno la casa è misteriosa; coi suoi anditi, gli stretti
passaggi, i ballatoi, i ripostigli, sembra una costruzione medioevale.
Una notte Columba mi fece vedere uno stanzino segreto.
"
Qui il mio nonno stette una volta nascosto sette giorni, mentre la casa era
piena di soldati che lo cercavano e lo aspettavano credendo che egli dovesse
tornare dalla foresta. Non vedendolo tornare se ne andarono. Durante tutto
il tempo che stette bandito egli avrebbe potuto benissimo viver qui nascosto,
ma egli amava la campagna. Anche adesso se sta qualche giorno in casa dice
che gli sembra di soffocare."
Io amavo aggirarmi con Columba nelle camere basse e nude, affacciarmi con lei
al ballatoio ove la prima volta l'avevo baciata. Se qualcuno batteva alla porta
trasalivamo tutti e due e ci stringevamo come se un pericolo terribile ci sovrastasse.
Il nostro amore aveva un sapore di leggenda.
Ma una sera purtroppo i colpi alla porta si fecero insistenti e furiosi; Columba
aprì la finestra ed io sentii la voce di Banna che imponeva di aprire.
Allora tentai di saltare dal muro del cortile, ma affacciandomi vidi il marito
di Banna coll'archibugio in mano come in attesa d'un ladro.
Rientrai e aprimmo: Banna si precipitò dentro tentando di afferrar la
sorella per i capelli. Io difesi Columba che si ritraeva smarrita e Banna a
bassa voce per non destare l'attenzione dei vicini di casa pronunziò contro
di noi i più sanguinosi vituperii. Columba taceva. Natura chiusa e debole
ella non ama la lotta, ma ha la forza straordinaria di dominare la sua collera
e di non rivelare mai il suo pensiero segreto. Alle domande e alle ingiurie
di Banna rispondevo io solo; la scena era comica e tragica perché anche
il marito era venuto dentro con l'archibugio e a momenti mi guardava torvo
pronto a vendicare l'onore della famiglia, a momenti sorrideva e faceva cenni
scherzosi di minaccia alla povera Columba. Infine fu lui a proporre un accomodamento.
"
Moglie mia, non senti che egli è pronto a chiederla in matrimonio? perché ti
arrabbi come un verro? Quando egli prenderà la laurea si sposeranno
e così avremo un cognato notaio."
Ma Banna sghignazzava accennando con disprezzo la sorella.
"
Essa è fatta per esser moglie di un pastore. E il nonno non può vedere
i borghesi affamati e non ti vorrà, Jorgj Nieddu; prenditi una borghese
puzzolente, e va via di qui, e ringrazia il Signore che non abbiamo avvertito
il nonno, perché se vi sorprendeva lui vi schiacciava le teste l'una
contro l'altra. Vattene."
Dopo quest'avventura io decisi di chiedere al vecchio la mano di Columba, e
siccome egli teneva molto alle usanze del paese, una domenica mattina mio padre
andò in casa dei nostri vicini e sedette davanti al focolare domandando: "Remundu
Corbu, io ho perduta un'agnella che formava l'onore del mio gregge. Era bianca,
coi peli arricciati, morbida come la prima neve. Tu che giri per le campagne
l'hai vista, per caso? per caso non s'è mischiata al tuo gregge?".
"
Remundu Nieddu, nel mio gregge ci son tante agnelle, una più bella dell'altra:
può darsi che la tua ci sia; bisognerebbe andare a vedere."
E così di seguito finché entrò Columba. Allora mio padre
balzò in piedi e batté le mani.
"È
proprio questa l'agnella che cercavo."
Ma prima di dare una risposta decisiva il vecchio domandò sette giorni
di tempo: durante questa settimana Columba fu tenuta chiusa a chiave e solo
qualche volta io la vedevo attraverso l'inferriata d'una finestra, come una
prigioniera. La mia matrigna origliava alla porta dei nostri vicini, dicendomi
che fra Banna e il vecchio si discuteva continuamente: la donna voleva che
la domanda di matrimonio venisse respinta con sdegno, mentre il vecchio faceva
le mie lodi, ma con ironia, chiamandomi già il «notaio» oppure
su
cusino mizadu. [5]
La vecchia serva confabulava con la mia matrigna.
"
Jorgeddu verrà accettato", diceva con la sua voce ambigua. "Non
dubitate, verrà accettato; all'avvenire il Signore penserà."
Ed io fui accolto ufficialmente in casa Corbu come promesso sposo di Columba.
Ricominciarono i regali: ma adesso la vecchia veniva a nome del nonno, ed ogni
volta io le davo una moneta d'argento, cosa che provocava i suoi ringraziamenti
e le sue lodi enfatiche ma non valeva a rendermela veramente amica.
Essa vigilava sempre e non mi riusciva più di trovarmi solo con Columba.
Ogni sera andavo a farle visita, ma mi trovavo sempre davanti al nonno la cui
presenza mi dava un senso di soggezione e di freddo.
Fra me e lui qualcosa di fatale sorgeva; qualcosa che ci impediva scambievolmente
di capirci e di amarci. Egli era intelligente e non si confondeva davanti a
nessuno; fin da bambino io avevo ammirato la sua figura, il suo modo di parlare,
la forza e l'astuzia che trasparivano dai suoi sguardi e dai suoi gesti, la
sua volontà incrollabile di vivere a modo suo; volontà che egli
non cercava di nascondere: adesso la mia ammirazione diminuiva di giorno in
giorno, lasciando luogo a un vago senso di soggezione, a un senso di avversione
e di antipatia. Sul principio credetti che si trattasse dell'eterno conflitto
fra generazione e generazione: egli era vecchio, aveva trascorsa una vita selvaggia;
io ero quasi ancora un fanciullo e coglievo ogni occasione per inveire contro
gli usi primitivi del paesetto e predicare l'amore verso il prossimo, la giustizia,
la pace fra gli uomini.
Il vecchio mi trattava con ironia; pareva mi considerasse come un ragazzo debole
corrotto e si divertiva talvolta a beffarsi di me in presenza di Columba.
Spesso mi diceva:
"
Finché non ti levi l'abitudine di portar calze non sarai uomo: che forse
tuo nonno e tuo padre le portavano?".
Se Columba interveniva egli si beffava anche di lei.
Seduto davanti alla porta appoggiato al suo bastone d'oleastro grosso e lucido
come una piccola colonna, raccontava le sue storie e coglieva ogni occasione
per rivolgere a me od a Columba frasi ironiche.
"
Uccellino calzato, tu non avresti fatto questo; tu attraversi più facilmente
il tuo letto che quello di un torrente straripato."
"
Le donne di quel tempo non avevan paura: non erano come la nostra agnellina
che cade svenuta se un sorcio attraversa il portico."
Le donne ridevano, e specialmente la mia matrigna: ella mi aveva suggerito
l'idea di sposar Columba; adesso che ero stato accettato pareva ne provasse
dispetto, e fra lei e Banna e le altre donne del vicinato eran continui pettegolezzi
a proposito di noi due fidanzati.
In ottobre ripartii: ma dopo qualche giorno dovetti ritornare perché una
terribile malattia, il carbonchio, uccideva mio padre.
Invece di chiamare subito il dottore la mia matrigna era ricorsa a zia Martina
Appeddu. Quando arrivai mio padre era morto.
Giaceva disteso per terra su stuoie e sacchi, col viso violetto rivolto alla
porta; e la matrigna coi capelli sciolti coperti di cenere, in mezzo a un cerchio
nero di donne fra cui Banna, Columba e tutte le vicine di casa pallide e macabre
come streghe, ululava intorno al cadavere, si batteva la testa alle pareti,
si buttava per terra e urlava come un'ossessa. Non dimenticherò mai
la triste scena. Rimasi ore ed ore impietrito in un angolo guardando mio padre
morto e le donne ululanti. Avrei voluto cacciarle fuori ma non osavo perché la
presenza del cadavere con quel viso violetto che pareva sogghignasse di dolore
e di beffe mi imponeva rispetto. D'altronde quei gridi funebri scomposti, d'un
dolore folle, mi sembravano talvolta i gridi stessi del mio cuore. Tacevo,
ma tutto gridava entro di me.
Portato via il cadavere mi scossi dal mio dolore.
Alcune donne continuavano ad ululare mentre le prefiche di mestiere ricevevano
già il compenso: una misura di frumento e una libbra di formaggio. La
vedova batteva la testa contro il giaciglio dal quale era stato portato via
il cadavere.
Io mi alzai e dissi:
"
Adesso basta: tutto è finito".
Ma la scena doveva continuare fino a notte inoltrata: di tanto in tanto la
matrigna s'alzava, s'affacciava alla porta dicendo di sentire i passi del marito
che tornava dall'ovile; poi urlava chiamandolo. Sembrava pazza ed anch'io sentivo
un brivido di follìa. Mi alzai una seconda volta e dissi con forza:
"
Donne, adesso basta. Andatevene, se no vi caccio via per forza".
La prima a tacere fu Columba: a poco a poco anche le altre tacquero; alcune
si alzarono e la nera ghirlanda fu scomposta.
Solo la mia matrigna continuò ad urlare: e nel suo grido echeggiava
non più il dolore per il morto ma l'odio per il vivo.
Zio Remundu mi mandò a chiamare. Sedeva accanto al focolare, in mezzo
ad una nuvola di fumo, col suo bastone lucente come una colonna, e non era
più né calmo né ironico. Sembrava un Dio corrucciato:
i suoi occhi verdognoli scintillavano feroci. Banna sedeva sulla pietra del
focolare, accovacciata implacabile come l'angelo che accusa i peccati umani
alla giustizia divina.
"
E dunque, Jorgj Nieddu, perché hai fatto così?"
"
Che ho fatto, zio Remù?"
"
E anche me lo domandi? Hai cacciato via dal tuo focolare le donne che piangevano
tuo padre. Puoi vivere così solo tu, come il cinghiale nel salto, per
cacciar via così i tuoi simili?"
Cercai di scusarmi facendogli capire la mia avversione per certi usi barbari;
era come battere la mano contro un macigno con la speranza di romperlo. Egli
ridiventò ironico.
"
Ah, tu vuoi metter le calze a tutti? Lascia, lascia correr l'acqua per la sua
china, e se non vuoi vivere in mezzo a noi vattene nelle città: là troverai
gente come te."
"
Zio Remù! Ma le donne che ho cacciato via erano prezzolate, ricevevano
un tanto per ogni loro strido."
"
E tu, quando farai l'avvocato, tu non ti farai pagare per gridare? E ti cacceranno
via allora, dal Tribunale o dalla Corte?"
Una sorda irritazione mi prese. Gli domandai se si burlava di me, ed egli s'alzò e
sollevò il bastone; io balzai davanti a lui gridando:
"
Percuotetemi pure, ma cercate almeno di capire quello che dite e che fate".
Columba che fino a quel momento era stata in un angolo a guardarci con occhi
spauriti si precipitò in mezzo a noi piangendo; il vecchio abbassò il
bastone e ci guardò entrambi con disprezzo.
"
Non ho mai detto una parola senza pensarci su sette volte", gridò rimettendosi
a sedere, "così fosse di voi, scemi!"
Per non continuare le questioni ripartii subito e lasciai che la mia matrigna
disponesse lei dell'eredità di mio padre. Ella si ritirò in una
sua casupola, ma si tenne la proprietà del piano superiore di questa
stamberga. Quando ritornai la casa era desolata e vuota: io l'animavo con la
mia giovinezza ed i miei sogni.
Continuai ad essere il fidanzato di Columba ma col vecchio le relazioni erano
sempre tese. Eravamo due mondi che si urtavano a vicenda; egli era il passato,
io mi credevo l'avvenire, e Columba andava dall'uno all'altro sballottata come
un pianeta fra due astri la cui potenza di attrazione era parimenti grande
e terribile.
Ma col passare del tempo mi accorgevo che l'avversione del nonno per me non
era l'odio del passato contro il presente: era ancora "l'inimicizia",
l'odio di famiglia. Per il vecchio io ero sempre il parente degli Arras, e
bastava che nominassi zio Innassiu (del resto io non lo avevo più veduto
dopo il famoso giorno delle paci) perché il nonno diventasse ironico
e cattivo.
Ma io continuavo ad amar Columba per pietà; volevo trarla dal mondo
ove viveva, mi sembrava che liberando lei dalle superstizioni e dalle miserie
che la circondavano avrei cominciato a liberare tutto il mio popolo.
Intanto per continuare gli studi vendevo la mia poca roba: questo mi diminuiva
agli occhi dei miei compaesani e si diceva che spendevo i denari per divertirmi.
Ogni volta che tornavo in paese mi si guardava con maggiore curiosità e
diffidenza.
Columba mi lasciava capire che fra lei e Banna era una lotta continua a proposito
del progettato matrimonio.
"
Quando tu sei nella città mia sorella mi dice, ogni sera: 'a quest'ora
egli sarà con le donne indemoniate di quei posti ove si mangia denaro',
oppure: 'egli ti mangerà anche la cuffia e ti lascerà sola e
andrà a divertirsi con altre donne'. Ed io allora mi metto sul limitare
della porta, guardo la stella della sera come la guardano i prigionieri e piango
e piango."
"
Dunque tu dài retta alle malignità di tua sorella?"
"
No, no, cuoricino mio; ma penso giusto che tu sarai un avvocato, un signore,
ed io sarò sempre una paesana. Tu ti vergognerai di me."
Invano cercavo di liberarla dalle suggestioni maligne della sorella e del nonno;
ella era sempre triste e diffidente. Io soffrivo e quando andavo in quella
casa provavo un senso di oppressione come se nei ripostigli e negli angoli
bui si nascondesse un nemico pronto a farmi del male.
Ma quando ero nella città sentivo la nostalgia della mia campagna selvaggia
e ventosa e ritornavo con gioia alla mia stamberga.
L'anno scorso tornai per Pasqua: da Nuoro presi a nolo un cavallo e rifeci
la strada percorsa la prima volta con mio padre.
Era un pomeriggio d'aprile. In fondo alla valle già coperta d'erbe e
di fiori una striscia violacea di puleggio fiorito accompagnava la striscia
argentea del ruscello; sulle roccie cresceva il musco novello e da ogni cespuglio,
da ogni pietra pareva salisse un soffio profumato. Il canto degli uccellini
mi sembrava un grido di gioia affievolito nel silenzio del paesaggio, e mi
sentivo così felice che mi pareva di formare una cosa stessa con la
natura. Anche il mio cuore fioriva e la mia fronte era luminosa come il cielo.
A metà strada non potei resistere al desiderio di smontare e di sdraiarmi
sull'erba.
Anche il cavallino al quale tolsi il freno perché brucasse un po' d'erba
si scosse tutto, guardò il sole calante e nitrì come per annunziare
ai puledri che pascolavano in lontananza che anch'esso almeno per un momento
era libero.
Libero! Anch'io, almeno per un momento, ero libero! Mi tolsi le scarpe, mi
sdraiai sull'erba: il sole cadeva già senza raggi sul cielo argenteo;
il vento soffiò da occidente, dapprima lieve, poi sempre più forte,
e l'erba ondulò argentea quasi volesse sfuggire spaurita mentre i cespugli
si curvavano con un lieve fruscìo che sembrava un gemito di piacere.
Io guardavo il sole, mi volgevo, guardavo il mare lontano e mi sentivo felice.
"
Ecco", pensavo, "adesso cominciano le funzioni religiose in chiesa,
Columba si veste per andarci, e anche il nonno prende il suo bastone e va".
A un tratto mi parve di veder la chiesa semibuia, di sentire l'odore dell'incenso,
la voce del prete. Il sole era tramontato; cadeva giù la notte. Come
ero giunto al paese? Mi scossi e mi trovai ancora sull'erba ove mi ero addormentato
fantasticando. Balzai in piedi un po' intirizzito e cercai con gli occhi il
mio cavallo, ma non lo vidi; tutto era silenzio intorno; solo si udiva il rumore
lontano del torrente e la stella della sera brillava già sull'orizzonte
come una scintilla dimenticata dal sole.
Corsi di qua e di là, balzai sulle roccie, m'inerpicai su per un sentieruolo.
Si faceva buio. Finalmente scorsi il cavallo in una piccola radura chiusa da
un gruppo di macigni simile ad un castello diroccato; mentre attraversavo quel
laberinto di pietre vidi un vecchio seduto davanti a un fuoco acceso in una
specie di focolare scavato nella roccia.
Il quadro era bello ed io mi fermai ad ammirarlo. La fiammata rossa e tremula
pareva volesse volare intera, e non potendolo mandasse via frammenti che si
perdevano nell'aria come piume d'oro.
E il vecchio vestito di nero e col cappuccio in testa, con una lunga barba
grigia divisa in due punte, un rosario in mano, sembrava un eremita. Mi parve
di riconoscerlo e lo salutai.
"Ziu Innassiu Arras! Siete voi?"
Egli mi guardò con diffidenza e mi domandò se ero uno della polizia:
quando sentì il mio nome scosse sdegnosamente il capo.
"
Ah, tu sei Jorgj, il figlio di Remundu Nieddu? Siamo parenti, sebbene tu ti
vergogni a dirlo."
"
Perché mi vergogno a dirlo?"
"
Perché ascolti volentieri Remundu Corbu, quando egli dice che io sono
un poltrone. Ah, tu vuoi sposare la sua nipotina? Fai bene, molto bene, perché egli
ha un malune [6] pieno di monete, che il diavolo si porti
via lui e il suo denaro. Sta attento però, ragazzino, tu non conosci
ancora bene quell'uomo."
Io fui per esclamare: "oh, sì, lo conosco!", ma giudicai prudente
tacere; però quando il vecchio mi disse:
"
Ebbene, non indugi? Non è ieri che ci siamo veduti", io sedetti
su una pietra accanto a lui e sebbene l'ora fosse tarda lo pregai di raccontarmi
qualche cosa della sua vita.
"
Ebbene, che devo dirti? Il torrente mormora quando è pieno; quando non
ha più acqua tace."
Ma alle mie insistenze mi raccontò un'avventura che aveva rinfocolato
l'odio fra lui e zio Remundu.
"
Io non ho mai commesso un delitto; quelli che ne han commessi stanno a casa
loro tranquilli; io ho vissuto come una fiera, solo perché domandavo
giustizia. Ero io il perseguitato; perché dovevo farmi chiudere in gabbia
quando ero innocente come il sole? Ed ecco un giorno il vescovo salì su
una giumenta e andò al paese come Cristo a Gerusalemme; bastarono tre
o quattro sue parole perché tutti piangessero come donnicciuole e come
queste facessero pace. Tutti quelli che battevano la campagna si arresero,
andarono in carcere, mentirono, pur di tornar liberi. Furono vili, figlio caro,
perché l'uomo, se è vero uomo, muore prima di travisare la verità.
Remundu Corbu fu tra quelli che baciarono la mano al vescovo e ritornò a
casa sua. Un giorno io lo incontrai qui, in questi dintorni, e gli rinfacciai
la sua viltà. L'ingiuria trae l'ingiuria, figlio caro, come la pietra
che rotola sulla china trae la pietra che trova più sotto. Io percossi
Remundu e gli sputai sul viso, egli minacciò di uccidermi, ma quell'uomo è vile,
sai; ha paura del sangue e dei ferri e non mi uccise, ma senti cosa fece. Finse
di dimenticare, e gli anni passarono ed io non pensavo a fargli del male. Egli
mi mandava a dire: 'Presentati, io ti servirò da buon testimonio e ti
assolveranno: abbiamo giurato tutti di vivere in pace'. Ma io avevo giurato
di morire nel bosco piuttosto che provare i ferri. Bene, fra pochi mesi saran
trent'anni ch'io batto il bosco e sarò libero, allora avrò diritto
a tornare in paese. Ma il cuore è cuore, ed io spesso pensavo alle mie
figlie, e quatto quatto come la donnola che si allunga sotto le pietre tornavo
qualche volta in paese. I carabinieri non mi conoscevano e nessuno dei miei
compaesani poteva tradirmi. Ebbene, una volta Remundu Corbu venne a cercarmi
in campagna, e mi fece camminare con lui, mi fece passare dove voleva lui e
arrivati su un'altura mi strinse la mano e mi lasciò. Aveva fatto la
parte di Giuda: due carabinieri, di quelli che ancora non mi conoscevano, sbucarono
da una macchia e mi rincorsero. Ma le mie gambe erano agili, figlio caro, ed
io corsi come il cane, corsi tanto che quando arrivai al punto ove nessuno
più poteva vedermi mi tolsi dalle spalle la tasca e
vidi il mio pane [7] di nuovo ridotto in farina. Tanto avevo corso, figlio
caro!... Allora decisi di uccidere Remundu, di ucciderlo in piazza o in chiesa,
in un luogo pubblico infine, per sua vergogna. Era di questi tempi, il venerdì santo.
Tornai in paese verso sera e andai in chiesa sicuro di trovare il mio nemico.
Si celebravano i sacri Misteri, la morte e passione di Nostro Signore, e la
folla era tale che io dovetti stare alcun tempo nell'ingresso tra la gente
che si accalcava per entrare. Alcuni uomini mi riconobbero, ma sorridevano
e mi si stringevano attorno come per nascondermi e difendermi, tanto ero rispettato,
figlio caro. Sentivo la voce di Gesù che diceva: Cuddu chi
mi traichet est chin mecus (colui che mi tradisce trovasi con me)
e la voce di Giuda che rispondeva: Cheries narrar pro me, amadu Deus? (volete
dire per me, amato Dio?) Poi sentivo Gesù che diceva: 'Dio mio, allontanate
da me questo amaro calice, però sia fatta la vostra volontà'
e stretto tra la folla sentivo anch'io un freddo sudore bagnarmi le spalle.
Cercavo con gli occhi il mio nemico, ma non vedevo che teste nere e bianche
illuminate dal chiarore dei ceri, e stringevo entro la saccoccia il mio coltello.
A un tratto la folla si diradò: Gesù era stato portato via dai
soldati e nell'intermezzo tra una scena e l'altra del Mistero il prete salito
sul pulpito predicava. Allora io potei avanzarmi e inginocchiarmi in un angolo
dietro una panca fra due vecchie donne. Il prete abbracciava un Cristo nero
e sanguinante che stava sul pulpito, e piangeva e gridava: 'Dio mio, Signore
mio, perdonate a quelli che non sanno quel che si fanno. Qui sotto i vostri
occhi, mentre il sangue vostro cade per la salvezza dei peccatori, qui, qui
c'è chi pensa ad uccidere, chi tiene il suo coltello in pugno per uccidere
il suo fratello'... Te lo dico francamente, figlio caro, ho avuto paura; credevo
che il prete mi vedesse. A un tratto un uomo andò a sedersi sulla panca
davanti a me: era lui, il mio nemico. Mi bastava tirar fuori la mano di saccoccia
per vendicarmi; ma mi pareva che la mia mano fosse diventata di ferro e non
potesse più venir fuori dalla tasca. Non ho vergogna a dirlo, figlio
caro: io vedevo Cristo lassù in croce e sentivo le donne piangere come
se fossi io il morto: e quando il prete disse: 'Cristo sarà deposto
nel sepolcro, ma risorgerà, e così voi, peccatori, deponete i
vostri rancori se volete che l'anima vostra risorga', ebbene, figlio caro,
io mi misi a piangere con le donne. Remundu Corbu si volse e mi riconobbe.
Egli aveva paura di me e rimase sbalordito; poi si alzò e si allontanò rapidamente.
Ecco perché dice che io sono un poltrone, un buono a niente: perché quella
volta non l'ho ucciso, e perché non lo odio e non gli faccio del male."
Mentre raccontava, il vecchio sgranava il rosario e non cessava di volgere
la testa di qua e di là mosso dall'istintiva abitudine di ascoltare
i minimi rumori del luogo.
Io mi sentivo triste: la figura di zio Remundu mi appariva fosca ed equivoca.
Tentai di difenderlo, ma il vecchio bandito non parlò più: quando
credeva di aver detto una verità non discuteva oltre.
Solo prima di lasciarci mi disse:
"
Se tu non mi credi, meglio, o peggio per te. Cristo è morto ed è risorto
e non tutti ci credono".
Io rimontai a cavallo e ripresi il viaggio al chiaror della luna che saliva
dal mare. A poco a poco la calma e la gioia ritornavano nel mio cuore.
Ricorderò la storia del vecchio finché vedrò la terra
rifiorire dopo l'inverno grigio e ogni volta che vedrò un uomo tendere
verso la sua vera risurrezione che non è dopo la morte ma in questa
vita stessa ed è il bene dopo il male, l'amore dopo l'odio.
Ma l'incontro col vecchio Arras mi portò sventura.
Columba era malinconica e taciturna più del solito; il giorno di Pasqua
non volle neanche andare a messa, e a me che le chiedevo ragione del suo cattivo
umore diceva di preoccuparsi perché la serva era malata. A tavola quel
giorno sedemmo io, il vecchio, il marito di Banna e un ospite di Tibi. Era
un ricco pastore di quarant'anni, bello, colorito di viso, con una barba nera
lucida e gli occhi castanei e dolci: ma aveva le gambe corte e il corpo grosso
e se seduto a tavola aveva un aspetto imponente, alzandosi diventava ridicolo.
Il pranzo non fu allegro. Columba serviva a tavola, e l'ospite, vedovo da pochi
mesi, parlava della moglie morta e sembrava afflitto anche per la mancanza
di lei come massaia.
"
Adesso la mia casa è come una capanna aperta a tutti i venti; ogni soffio
porta via qualche cosa."
"
Riprendi moglie, Zuampredu Cannas!", disse il vecchio. "Sei ricco,
non hai figli. Qualunque donna, se tu la cerchi, si bacerà il gomito
per l'allegria."
L'ospite guardò il vecchio sorridendo, ma non replicò.
Nel pomeriggio il marito di Banna venne a cercarmi e m'invitò ad andare
con lui in giro per il paese. Aveva bevuto bene ed era allegro più del
solito; con le saccoccie piene di pere secche e di mandorle fermava qualche
bambino per offrirgliene e ridere con lui, ma di tanto in tanto si raccoglieva
come immerso in un profondo pensiero e faceva segni e cenni parlando fra sé ad
alta voce.
"
Senti, fratello caro...", cominciò due o tre volte, ma non proseguì.
Finalmente arrivati che fummo sulla piazza mi disse:
"
Egli non ha figli, come me; solo che io posso sperare ancora di averne perché mia
moglie è lì, bella e scalpitante come una puledra, mentre lui
moglie non ne ha. Di chi parlo, dici? Di Zuampredu Cannas, parlo! È ricco,
che una palla gli trapassi il garetto; ha un sughereto che gli rende come una
parrocchia: è ricco, si, ma non ha figli. A che serve la sua roba? Un
patrimonio senza eredi è come un alveare senza api!".
E così proseguì per un bel pezzo sebbene io l'ascoltassi con
indifferenza.
"
Egli è partito: hai veduto che cavallo aveva? Quello è un cavallo!
Come, tu non lo hai veduto?"
Eravamo fermi davanti al parapetto; nuvole bianche correvano sul cielo turchino,
il vento soffiava: io ricordavo il cavallo di zio Conzu e la mia terribile
avventura infantile.
Vedendosi poco ascoltato, il marito di Banna tossì, raschiò,
disse:
"
Hai veduto come guardava Columba, che una palla gli sfiori l'occhio!".
Allora mi volsi a guardarlo ed egli si curvò sul parapetto per sfuggire
al mio sguardo. Ma io avevo già indovinato il suo pensiero e ciò che
si tramava contro di me.
Tuttavia non dissi nulla. Studiavo Columba e speravo che ella parlasse spontaneamente,
ma ella taceva e se io facevo qualche allusione fingeva di non capire, o non
capiva davvero. Un giorno, prima di ripartire le dissi:
"
Ascoltami, Columba; io credo che i tuoi parenti abbiano piacere che tu ti dimentichi
di me. Essi hanno messo gli occhi su un altro partito, certo più conveniente
di me. Tu devi sapere qualche cosa, dimmi la verità: non ti domando
che di essere sincera; e se tu vuoi io ti rendo la tua parola".
Ella mi guardò offesa e meravigliata.
"
Nessuno può disporre di me contro la mia volontà. I miei parenti
non mi hanno parlato di nessuno, e nessuno mi ha guardato. Se sei tu che vuoi
riprenderti la tua parola riprenditela pure, ma sii sincero!"
Contento della sua fierezza io ripartii tranquillo. Ma al mio ritorno, in luglio,
appena arrivato in paese vidi Columba e Banna davanti alla loro porta, e mi
parve che mentre Banna mi dimostrava un'insolita affabilità, la mia
fidanzata fosse più che mai fredda.
Appena aprii la porta della mia stamberga vidi una lettera che era stata introdotta
per la fessura e che pareva mi aspettasse sul limitare. Doveva esser lì da
qualche tempo perché era ingiallita e coperta di polvere. La raccolsi
e l'aprii con ripugnanza. Era senza firma, scritta con calligrafia alterata.
"
Tutti sanno che tu ti diverti, lontano di qui, coi peggiori compagni, ridendoti
della religione e di Dio. Quando vieni qui fai come il leone, che si metteva
la pelle dell'agnello; ma Dio ti castigherà. Columba fa bene a lasciarti
ed a pensare ad un altro. Quello che ti resta da fare è di andartene
via dal paese."
Per nascondere e frenare la mia collera mi chiusi nella mia stamberga. Chi
aveva scritto la lettera? Pensai a Banna: era un modo di licenziarmi come un
altro.
Solo verso sera uscii: la luna nuova tramontava sulla linea violetta dell'altipiano
e dalla vallata salivano i tintinnii delle greggie e il zirlìo dei grilli;
le voci umane tacevano, tutto era pace e dolcezza. La Via Lattea apparve come
una fiumana chiara attraverso un'immensa pianura fiorita, ed io appoggiato
al parapetto della piazza ascoltavo le voci della sera ripensando alla storia
di zio Arras ed ai progetti di pace e di amore che avevano accompagnato allora
il mio viaggio.
Perché abbandonarmi all'ira? Se Columba mi amava davvero avrebbe vinto
le male arti dei suoi; se non mi amava era inutile combattere.
Ritornai verso casa, andai a trovarla. Mi invitarono a cena, poi il vecchio
sedette sugli scalini della porta e le donne e i ragazzi gli si riunirono attorno.
Columba era pensierosa, ma mi disse che si preoccupava per la vecchia serva
sempre malata; infatti questa morì qualche giorno dopo e Columba non
volle sostituirla.
Quando il vecchio andava in campagna ella rimaneva sola nella grande casa silenziosa;
ma se io andavo a trovarla, Banna ci raggiungeva subito, e d'altronde io sentivo
che anche rimanendo soli mai più fra me e Columba si sarebbero rinnovate
le scene idilliache dei bei tempi passati. Un'ombra era intorno a noi. Per
orgoglio io non parlavo della lettera anonima; ma adesso era lei ad alludere
a cose che io non riuscivo a capire.
Un giorno qualche mio compaesano cominciò a domandarmi come passavo
il tempo in città, e le donnicciuole mi guardarono con diffidenza. Io
pensavo sempre alla lettera anonima; qualcuno doveva aver sparso voci calunniose
sul mio conto, ed io mi domandavo che cosa avevo fatto per giustificare la
mia cattiva fama. La mia vita di studente povero era incolore e monotona: io
vivevo di sogni e non ricordavo di aver commesso mai una cattiva azione.
I miei compagni si burlavano di me per le mie fantasticherie, per la mia vita
casta e ritirata: eppure una mia vicina di casa mi domandò se era vero
che avevo bastonato un prete e un'altra mi diede buoni consigli:
"
Hai venduto la tua terra: adesso non vendere anche la casa, ché i denari
portano sempre al vizio!".
Io mi irritavo contro questa piccola gente, poi mi irritavo contro me stesso
per il mio inutile sdegno; e come da ragazzetto dopo la caduta da cavallo,
me ne andavo nei dintorni del paese fino all'altipiano o scendevo giù nella
valle spinto da un profondo bisogno di solitudine. Partivo alla mattina presto
e se incontravo il dottore che andava a caccia facevamo assieme un tratto di
strada, ma poi uno tirava a dritta, l'altro a manca, desiderosi entrambi di
star soli.
Sebbene d'estate, il tempo qualche volta era fresco: soffiava il vento, il
cielo sembrava il mare, sparso di nuvole immobili simili ad isole e a scogli
argentei.
Io percorrevo i sentieri più scoscesi, fra macchie d'arbusto e di ginestra,
e il vento che mi batteva sul viso e sul petto mi dava l'impressione di una
mano che cercasse di spingermi indietro, ma scherzosamente. Veniva il lieto
soffio, si ritirava, ritornava all'improvviso, pareva stesse in agguato allo
svolto del sentiero e mi assalisse tutto ad un tratto con la speranza di abbattermi
sulle roccie e di sballottarmi meglio dopo avermi vinto; a volte mi pareva
che il vento fosse animato e avesse voglia di lottare con me per divertirci
assieme come fanno i ragazzi e sentivo anch'io una smania di saltellare, di
combattere con gli elementi, di unificarmi con la natura che mi circondava.
Quando mi trovavo in quello stato d'animo dimenticavo tutto e tutti: Columba,
i suoi parenti, il paese intero, persino i miei studi.
Come il bimbo in grembo alla madre io mi sentivo cullato e sicuro quando sedevo
sulle roccie o posavo la testa sull'erba. Il vento era mio fratello; le nuvole
i sogni che non potevan tradirmi; l'eco la sola voce che non potesse ingannarmi.
Un giorno rifeci la strada fino alle roccie simili a un castello, e andai in
cerca di zio Innassiu Arras; le pietre che avevan forma d'un camino naturale
conservavano un po' di cenere e di tizzi spenti, ma il vecchio non c'era.
Gira e rigira a un tratto mi sentii chiamare da una voce sonora, alla quale
seguì tosto un nitrito di cavallo e poi un raglio lamentoso e il canto
d'un gallo che stonò bizzarramente nella pace armoniosa del luogo.
Erano due studenti di Nuoro miei antichi compagni; andavano a fare una scampagnata
in un ovile lì vicino e m'invitarono. Li seguii e passammo anche la
notte lassù, cantando e ridendo. Quello che imitava la voce degli animali
e il canto degli uccelli aveva un flauto e cominciò a suonare: a un
tratto nel silenzio della sera tranquilla s'udì un lamento d'assiuolo,
melanconico e cadenzato, or vicino or lontano come il grido di uno spirito
errante nella notte. Lo studente suonava il flauto, l'assiuolo rispondeva col
suo lamento; e il paesaggio notturno parve animarsi di folletti e di fate,
di ninfe e di fauni, di cervi che si rincorrevano nel bosco e di lepri che
danzavano alla luna. Il dolore e la menzogna erano scomparsi dalla terra e
solo una melanconia piacevole velava la dolcezza di quel mondo fantastico.
Anche dopo che i miei compagni si furono addormentati sotto le loro bisaccie
io rimasi a fantasticare fra le roccie. Ricordavo la sera in cui avevo ballato
con Columba e mi ritrovavo nel mondo sognato allora; ma ella, ella non c'era,
né io desideravo più che ci fosse. Provavo l'ebbrezza della solitudine
e ascoltavo le voci delle cose: il cielo davanti a me sopra il mare mi sembrava
un orizzonte boreale; sentivo le pecore a brucare il fieno e distinguevo il
rumore degli steli spezzati; le roccie sotto la luna mi parevano torri; tutto
era bello e fantastico. Quando vidi una forma strana avanzarsi sul sentiero
con una grossa gobba sulle spalle, un corno sul capo e accanto al corno una
scintilla, non mi meravigliai. Lo credetti un fauno. Ma egli si fermò,
mi fissò bene e mi salutò.
"
Che fai tu da queste parti?"
"Ziu Innassiu! Ed io oggi v'ho cercato!"
Egli sedette accanto a me: la sua gobba era la tasca, il
corno il cappuccio e la scintilla il fucile.
Gli offrii un sigaro, ma egli non fumava e non beveva.
"
Gli uomini che vogliono correre come me non devono aver vizi. Il vino fa inciampare,
il tabacco fa odore."
"
E le donne, zio Arras?"
"
Il bandito non deve aver che la madre; tutte le altre donne sono sue nemiche."
"
Raccontatemi qualche storia!"
"
Cosa vuoi che ti conti? Le storie si raccontano intorno al focolare o seduti
sulla soglia della propria casa: allora, quando si è contenti, si può anche
inventare e fare come il cucitore di cinture che ricama i fiori sul cuoio puzzolente."
Egli alludeva al nonno.
"
Voi amate la verità, ziu Innassiu, e forse perciò non
sapete inventare!"
"
Tu ti burli di me, ma non importa! Io posso fare a meno di te! Sappi soltanto,
se lo vuoi sapere, che il mondo della verità è lontano da noi;
noi lo ritroveremo solo se cercheremo la verità anche in questo mondo!"
"
Ma che cosa è la verità?"
"
Be'", egli disse sdegnoso, "lasciami in pace. La verità è la
verità. E va a coricarti, che fai bene."
"
Quando tornerete in paese?"
"
Dio volendolo fra nove mesi: il giorno di San Francesco uscii in campagna,
il giorno di San Francesco ritornerò all'ovile; ed egli mi ha sempre
accompagnato in questi trent'anni, egli è stato il mio amico e il mio
fratello, e mi ha sempre aiutato perché, ohé, intendiamoci, io
gli ho chiesto sempre cose lecite; io vado tutti i mesi alla sua chiesa, eccola
lì, la vedi? in mezzo al monte come un'agnella bianca, m'inginocchio
davanti al recinto e domando quello che ho da domandare. Ma, ohé, intendiamoci,
non gli chiedo che faccia morir di peste il mio nemico; non gli porto una moneta
rubata, come fanno altri. Eppoi con lui non si scherza. Una volta un magnano
girovago rubò un archibugio che un pellegrino aveva deposto con la sua
bisaccia accanto al muro della chiesa. Ebbene, leprotto mio, sai che cosa accadde?
E accadde che l'archibugio esplose e il ladro rimase gravemente ferito! Il
male del resto viene sempre punito. Uno crede di farla franca, e va e va dritto
di corsa come un puledro: ed ecco a un tratto una mano che non si vede lo ferma
e una voce grida: 'hai fatto questo, hai fatto quest'altro!'. Chi è che
grida così? Un santo, un diavolo? Va e cercalo; ma la cosa succede."
Quella notte ziu Innassiu era di buon umore: chiacchierammo
a lungo, ma per quanto lo interrogassi non volle parlare del nonno.
In paese seppero tosto della mia gita, e che l'Arras aveva passato la notte
con noi; tutti me ne parlarono fuorché il nonno e Columba.
Ella era sempre taciturna: la vedevo ancora sulla veranda seduta a cucire accanto
al vaso di basilico, ma adesso mi pareva che qualche cosa ci dividesse ogni
giorno di più, e la vecchia casa mi sembrava una fortezza inespugnabile
piena d'insidie. Mi sentivo oppresso dal caldo e come da un senso di attesa
angosciosa. Doveva succedere qualche cosa: era impossibile andare avanti così.
Io passavo quasi tutta la giornata buttato sul lettuccio a leggere o a dormire:
Pretu il servetto mi portava l'acqua, le provviste e i pettegolezzi del paese,
dicendomi che tutti parlavano male di me: e come il ronzìo della conchiglia
fa pensare al rombo del mare, le ciarle ingenue del ragazzo mi davano una vaga
idea dell'onda di odio e di sospetto che mi circondava.
Ai primi di agosto fui per qualche giorno malato di febbri reumatiche: speravo
che Columba venisse a trovarmi, ma ella si contentava di mandarmi frutta e
vivande e di chiedere notizie al servetto. Mi rodevo di tristezza ma non mandavo
a chiamarla. "Se ella mi amasse, verrebbe", pensavo aspettandola;
ma ogni ora che passava ci divideva come anni ed anni di lontananza.
Com'ero triste e solo! Io che mi sentivo buono e felice nella solitudine vera,
in mezzo agli uomini mi sembrava di essere come un condannato carico di catene:
ogni movimento per liberarmi mi inceppava di più.
Appena mi sentii meglio me ne andai a Nuoro. C'erano le feste, ed io volevo
rivivere almeno col ricordo nei giorni sereni della mia adolescenza. Invano!
La noia e l'inquietudine mi seguivano.
Per aumentare la mia tristezza, in mezzo alla folla mi apparve il viso bonario
di Zuampredu Cannas. Egli camminava in mezzo a un gruppo di compaesani suoi
e parlava animatamente. Perché quando mi vide tacque e finse di non
riconoscermi? Fu una mia illusione? Mi sembrò che anch'egli diventasse
pensieroso come se la mia presenza destasse in lui le preoccupazioni che la
sua destava in me.
Per due giorni lo seguii attraverso la folla, spinto verso di lui da un misterioso
senso di simpatia e quasi di pietà. Volevo avvicinarmi e dirgli: "tu
ed io siamo due vittime, poiché essi ci ingannano
entrambi: uno di noi sarà più infelice dell'altro: quale?",
ma poi sorridevo di me, sebbene sentissi che la vera vittima ero io. Il terzo
giorno il rivale scomparve; io sedetti davanti a un caffè e cominciai
a bere... Ogni tanto mi domandavo: "che fare?", e mi pareva che avessi
a risolvere un gran problema.
Donne e fanciulle passavano davanti a me, sotto gli archi fantastici delle
fiammelle gialle e verdi che illuminavano la strada: paesane rosse e nere come
papaveri, borghesi strette nei loro vestiti bianchi a guaina, col viso nascosto
da canestri di fiori...
Che fare? Bere un quarto, un quinto bicchierino di villacidru [8]
e guardare un mento delicato, bianco come l'alabastro al riflesso della luna,
due grandi occhi scuri e lucenti come il mare di notte, una fronte fasciata
dall'ombra fosforescente di un velo...
Mentre l'onda della folla andava su e giù come seguendo il ritmo della
musica, io mi dondolavo sulla mia sedia aspettando che la fanciulla velata
passasse accanto a me, e provavo un'ansia infantile.
Ella passava: era vestita di seta argentea, era piccola ed agile, e l'abito
molle un po' largo alla vita disegnava le sue forme perfette. Le sue scarpine
scintillavano; aveva le calze di seta color carne e pareva che il malleolo
fosse nudo. Quando mi passava accanto io distinguevo tra i rumori della folla
e della musica un fruscìo come di foglie agitate dal vento; rivedevo
la vallata, una notte di luna, il mare che splendeva lontano. Tutte le fantasie
e i ricordi romantici della mia adolescenza risalivano dal profondo dell'anima. "Perché non
viene a sedersi qui?", mi domandavo, ed ella sedette davanti a me e la
signora che l'accompagnava lasciò che il bel viso velato della sua giovine
compagna rimanesse in piena luce.
Quando ella sorrideva tutto il suo velo scintillava, ma il suo sorriso era
breve, come se ella di tanto in tanto ricordasse qualcosa di triste e s'oscurasse
in viso. Accorgendosi che la fissavo mi guardò minacciosa.
Non osai più guardarla, ma il suo ricordo mi seguì; pensavo:
ecco una donna che potrebbe amarmi meglio di Columba!
Mi accorgevo però che pensavo a lei come bevevo l'acquavite: per stordirmi.
Al ritorno non vidi Columba sulla porta ad aspettarmi, e fino verso sera non
andai a cercarla.
Ricorderò sempre; ella stava in cucina curva sul focolare volgendo la
spalle alla porta. Quando sentì il rumore dei miei passi trasalì;
senza alzarsi si volse e mi fissò coi grandi occhi spalancati.
"
Jorgj, anima mia, mi hai fatto paura", disse, prendendo con l'indice un
po' di saliva e bagnandosene la gola per scacciare lo spavento.
"
Oh Dio, perché? Un tempo non eri così paurosa!"
Ella si alzò offesa dal mio accento ironico.
"
Non sai che avantieri sono entrati qui i ladri?", disse sottovoce, "e
hanno rubato i denari del nonno; ti ricordi, quella cassettina che era nel
ripostiglio della camera di sopra... Io te l'avevo fatta vedere... una volta...
ricordi?"
"
Ma ne siete certi?", domandai sorpreso.
"
Sentimi. Il nonno era in campagna, era andato all'ovile. Io stavo in casa e
pensavo: 'forse Jorgeddu torna oggi'; e ti aspettavo, ma mi sentivo di malumore.
Sul tardi Banna mi disse: 'vogliamo andare da comare Margherita Sanna a vedere
il suo bambino nuovo?'. Io dissi: 'no, ho il cuore grosso, sono di cattivo
umore'. Mia sorella si mise a ridere e disse: 'e perché? Su, il tuo
Jorgeddu a quest'ora si diverte, e tu vuoi star lì a piagnucolare? Andiamo'.
Io chiusi tutti gli usci, o almeno mi pare... no... anzi sono certa di averli
chiusi. Sì, ne son certa: potrei giurarlo in coscienza mia; sì,
ho chiuso tutto. Al ritorno era già sera; apro e vedo la porticina del
cortiletto socchiusa... Lì per lì non ne feci caso: tu hai ragione,
non ero paurosa. Chiudo tutto di nuovo, preparo la cena, vado a dormire. Ma
ero agitata; non dormii tutta la notte. L'indomani, ieri mattina, tornò il
nonno, che era andato all'ovile per vendere due giovenche a un negoziante di
bestiame e portava a casa i denari. Andò su per rimetterli e a un tratto
sentii che mi chiamava come se gli venisse un male. Corsi su spaventata e lo
trovai rosso in viso, congestionato, con la bava sulle labbra... egli sempre
così calmo! Non sapevo cosa fosse. Egli mi domandò se avevo toccato
io i denari. Anima mia, credevo di morire! Frugammo in tutta la casa: nulla,
nulla, anima mia; il denaro era sparito. Eppure non c'era niente in disordine;
solo io ricordavo la porta trovata aperta... E adesso..."
S'interruppe; ansava asciugandosi gli occhi con la manica della camicia. Pareva
invecchiata come dopo una lunga malattia.
Io non sapevo che dire e provavo un capogiro come se qualcuno mi avesse percosso
alla nuca: un terribile pensiero mi passava e ripassava nella mente ottenebrata.
"
E adesso?", gridai.
Ella piangeva.
"
Dov'è adesso tuo nonno?"
"È
fuori in giro per il paese."
"
Ha denunziato il fatto?"
"
No."
"
Perché?"
"
Perché dice che prima vuole assicurarsi bene..."
"
Bene di che... se il denaro è sparito?"
"
Io non so... io non so..." ella riprese singhiozzando e contraddicendosi. "Può darsi
che sia in qualche posto... e che non lo troviamo... può darsi che lo
ritroviamo ancora... Oh, se questo accadesse, anima mia, come sarei sollevata!"
Il terribile pensiero continuava a percuotermi il cranio: vedevo rosso, avevo
desiderio di urlare.
"
Oggi... nel pomeriggio è venuto qui il brigadiere. Ha voluto veder lui;
ha guardato dappertutto, anche nel cortile... anche nel pozzo... Ha scavato
anche. Nulla!"
"
Il brigadiere? Ma se non avete denunziato il furto?"
"
Lo sanno lo stesso... tutti lo sanno!"
"
Ma... e al brigadiere che cosa avete detto?"
"
Abbiamo negato; abbiamo detto che non era vero; ma lui ha voluto guardare lo
stesso; ha litigato con nonno... mi ha interrogato a lungo: pareva quasi volesse
dire che avevo rubato io..."
"
Lo stesso crede tuo nonno!"
Ella mi guardò di nuovo con spavento e con diffidenza.
"
Come sai che egli lo crede?"
"
Me lo hai detto tu!"
"
No, no! Egli mi ha proibito di parlarne con anima viva: ha minacciato di cacciarmi
via di casa, se ne parlo!"
"
E tu ne parli, intanto; ne parli con me. Perché?"
"
Con te... con te... perché è necessario... Mi cacci pur via;
ma con te bisogna parlarne..."
"
E perché con me, Columba, perché? Che posso farci, io?"
La presi per le braccia e la guardai negli occhi. Ella diventò livida
e il suo volto parve gonfiarsi e poi contrarsi per uno spasimo fisico. Infine
scoppiò in un pianto rabbioso e disperato, gemendo e scuotendosi come
per il bisogno spasmodico di liberarsi da un incubo. La lasciai ed ella cadde
a sedere sulla pietra del focolare. Si strappò il fazzoletto, si sciolse
le treccie, si diede graffi e pugni sempre gemendo a denti stretti come lottando
contro il desiderio di gridare, di rivelare un segreto.
Io la guardavo e mi pareva che ella recitasse una scena drammatica; ma in pari
tempo mi sentivo anch'io assalito da un impeto di disperazione.
Quando si fu un po' calmata le dissi:
"
Senti, perché fai così? Finiamola una buona volta. Dimmi tutta
la verità: è vero che i denari mancano?".
"È
vero."
"
Dimmi tutto, Columba, non aver paura. Dimmi che tuo nonno sospetta di me. È così?
Non ricominciare: gli strilli sono inutili! Columba, se tuo nonno arriva fino
a quest'infamia, io l'uccido!"
Ella mi si gettò addosso e mi mise una mano sulla bocca.
"
Columba", dissi respingendola, "io adesso me ne andrò e non
rimetterò più piede in questa casa. Ma ti aspetterò a
casa mia; ti aspetterò uno, dieci, mille giorni. Se tu veramente mi
ami devi lasciare questa casa. Io ti aspetterò, hai capito? Se tu non
verrai significa che non mi ami."
Mi mossi per uscire; ma poiché Columba non mi correva dietro le tornai
daccanto; dovevo esser terribile in quel momento perché ella mi guardò con
paura.
"
Dimmi tutta la verità! Columba, te lo impongo!"
Allora mi raccontò che il nonno aveva apertamente dichiarato che era
stata lei a rubare i denari per fuggire con me.
"
Ma perché? perché hai bisogno di fuggire con me?"
Ella chinò la testa.
"
Perché vogliono che io ti lasci e sposi un altro."
"
Zuampredu Cannas? Ebbene, sposalo, ma lasciatemi in pace! Io sono povero, non
sono adatto per te! Tu hai bisogno di manipolare il formaggio e la lana. Prenditelo.
Io e tuo nonno, poi, ci odiamo... o almeno egli mi odia perché l'odio è nel
suo sangue. Vedendomi nella sua casa, egli vivrebbe di rabbia e diventerebbe
più perverso di quello che è. Diglielo pure: digli che per scacciarmi
non occorre che simuli un reato: me ne vado!... Sono stanco anch'io, capisci,
stanco di lui, stanco di te che non sai né amare né odiare, né prendere
una decisione. Il momento però è giunto: deciditi; o loro o me.
Addio."
Ella comprese che questa volta me ne andavo davvero e cominciò a tremare;
ma non mi richiamò, non mi seguì. Ed io mi ritirai di nuovo nella
mia tana, come una bestia ferita. Che giorni, che notti terribili! Invidiavo
il mendicante che di tanto in tanto sporgeva il viso selvaggio nel vano della
mia porta e vedendomi coricato non osava avanzarsi; invidiavo il servetto che
trovava motivo di riso nella mia stessa disgrazia e ricostruiva il fatto senza
meravigliarsene:
"
Voi siete tornato di nascosto, siete entrato dalla parte del cortile e avete
fatto il colpo. Voi sapevate dov'erano i soldi: ah, siete stato furbo, voi!".
Tutti sapevano il fatto; nessuno lo aveva sentito raccontare
dal vecchio o dalle sue figliuole, ma tutti lo sapevano. Molti eran certi che
io avevo preso i denari d'intesa con Columba per fuggire poi assieme con lei:
il nonno aveva sventato a tempo il nostro piano e impedito la fuga ma non riavuto
i quattrini.
Io aspettavo Columba, ma ella non veniva: in vece sua venne il marito di Banna
e mi disse che tutto si riduceva ad un pettegolezzo; che era la mia matrigna
a diffamarmi, e infine che io esageravo e cercavo tutti i mezzi per abbandonare
Columba.
Io gli dissi: "Venga lei qui e c'intenderemo".
Ma essa non venne.
Intanto osservavo una cosa: nei primi giorni tutti venivano a cercarmi, a commentare
il fatto e a consigliarmi di querelare il vecchio o di rappacificarmi con lui;
poi le visite diradarono, nessuno più si ricordò di me. Ma un
giorno uscii: passando davanti alla fontana vidi le donne guardarmi con curiosità e
mormorare, e in piazza mi parve che gli sfaccendati e i pregiudicati mi salutassero
ammiccandomi come ad un nuovo compagno.
Era certo una mia suggestione, ed io mi sforzavo a crederla tale; ma la mia
fantasia lavorava spaventosamente e il dolore mi divorava. La cosa più triste
era che mi sembrava d'aver preveduto tutto questo e di non averlo saputo evitare.
Ma una sera decisi di partire, di cominciare una vita nuova. Prima di andarmene
salutai l'unica amica fedele che mi rimaneva, la natura. Vidi cader la sera
sulla valle. Era una notte interlunare, ma io distinguevo i profili neri del
paesaggio, vedevo qua e là qualche luce lontana e sentivo il profumo
che saliva dalle macchie, un profumo così intenso che quasi mi dava
un senso di ebbrezza.
Rimasi a lungo seduto sull'orlo del sentiero sabbioso, abituandomi talmente
all'oscurità che distinguevo le foglioline sull'estremità dei
cespugli.
Così mi sembrava di veder chiaro nelle tenebre della mia esistenza,
e mi giudicavo spietatamente, ma mi credevo grande appunto perché vedevo
i miei difetti ed i miei errori.
"
Ho errato", pensavo. "Ho offeso quasi la natura, amando una donna
che non mi rassomiglia, mettendomi a lottare con un uomo la cui forza è diversa
dalla mia. E adesso la natura si vendica, e mi fa capire che è pericoloso
combattere contro le sue leggi e contro le sue insidie." E a poco a poco
le mie considerazioni mi parevano susurrate dal lieve fruscìo delle
macchie intorno a me. La natura parlava coi suoi profumi e coi suoi susurri;
la terra selvaggia mi dava come una madre sincera avvertimenti e consigli.
"
Vattene, se no guai a te! Diventerai più feroce di loro, ritornerai
l'uomo del tuo paese, colui che si fa giustizia da sé".
Rientrai a casa tranquillo e dopo tante notti d'insonnia dormii profondamente.
Ma non volevo che la mia partenza sembrasse una fuga, e l'indomani dopo qualche
visita di congedo mandai il servetto da Columba per farle sapere che partivo.
"
Ella ha risposto 'buon viaggio' e si tirò il fazzoletto sugli occhi",
mi riferì il ragazzo.
Preparai dunque la valigia e mi disponevo ad uscire quando qualcuno batté lievemente
alla porta del cortiletto. "È Columba", pensai, "era
impossibile che non venisse".
Aprii e mi parve di soffocare. Era il brigadiere che veniva a perquisire la
mia stamberga. Entrò, grasso e calmo, volgendo intorno gli occhi sonnolenti
come ricercasse un oggetto smarrito; poi mi pregò di aprire la valigia.
Obbedii, vinto da una suggestione di terrore; ed egli frugò destramente,
senza parlare, senza far rumore, sfiorando appena gli oggetti con le sue mani
grasse e pelose. Il volto rosso solcato da due lunghi baffi gialli aveva un'espressione
di noia. Ogni tanto gonfiava le guancie e sbuffava come sdegnato contro chi
lo costringeva a quell'operazione umiliante e infruttuosa.
Dopo la valigia mi pregò di aprire la cassa. Allora il mio stupore pauroso
si mutò in rabbia. Cominciai a tremare, ma per frenarmi corsi fuori
nel cortile.
Le donnicciuole s'erano già accorte della visita e curiosavano nella
strada; la porta di Columba era chiusa, ma il viso felino di Banna appariva
ad una finestra.
Allora io ritornai in me. No, bisognava difendersi, sfuggire all'agguato.
Rientrai e la figura del brigadiere ancora curvo a frugare entro la cassa mi
parve grottesca e compassionevole. Egli cercava una cosa che non c'era, ch'egli
sapeva che non c'era. Così noi tutti nella vita ci affanniamo a cercare
qualcosa che siamo già rassegnati a non trovare.
Terminata la perquisizione io fissai negli occhi il brigadiere dicendogli: "Se
ha da domandarmi qualche cosa lo faccia subito perché devo partire".
Egli soffiò, si mandò indietro sulla testa il berretto e si grattò la
fronte sudata.
"
Beh", disse bonariamente, "mi racconti qualche cosa."
Sedette sullo sgabello e appoggiò il gomito al letto: sudava, sembrava
stanco. Io cominciai a rimettere in ordine la mia valigia ed a raccontare la
scena con Columba e come sospettavo che il furto della cassettina fosse simulato.
Il brigadiere non rispondeva, non mi interrogava, ma il suo respiro diventava
sempre più lento e forte e in breve si mutò in un ronfare sonoro...
Dormiva.
Non si svegliò neppure quando Pretu arrivò di corsa per dirmi
che attaccavano i cavalli alla corriera. Io gli diedi la valigia accennandogli
di tacere e uscimmo ridendo silenziosamente.
Durante il viaggio raccontai l'avventura e i miei compagni risero; ma qualcuno
scherzava oltre misura, proponendo di aprire ancora la mia valigia o di frugarmi
addosso. Io mi sentivo triste, più che irritato: mi pareva che i miei
compagni di viaggio si scambiassero sorrisi e sguardi ironici.
Quest'impressione mi durò lungo tempo; mi pareva che anche gli sconosciuti,
se mi guardavano, prendessero verso di me un'attitudine sospettosa.
Per giorni e giorni vissi in un'attesa sempre più angosciosa; aspettavo
mi richiamassero in paese, aspettavo una lettera di Columba, ma nulla arrivava,
e questa dimenticanza invece di sollevarmi accresceva la mia inquietudine.
Sogni tormentosi mi agitavano.
Lo scirocco di settembre rendeva afosa l'aria della città: mi sentivo
debole, sfinito; avevo un continuo capogiro, un senso di nausea, e trascinandomi
attorno mi pareva che i miei piedi scivolassero senza mai potersi alzare dal
suolo. Una sera caddi svenuto sulla panchina di un viale e da quel momento
non mi sollevai più.
All'ospedale fui preso dalla nostalgia della mia stamberga, dal bisogno di
ritornare a morir qui.
Eccomi dunque. Nel silenzio funebre della mia tomba di vivente mi par talvolta
di sentire il palpito di un cuore tormentato dal rimorso.
Quale? Il cuore del vecchio o quello di Columba? Entrambi sanno di avermi calunniato
ed ora che nulla hanno a temere da me si placheranno. Columba si sposerà e
il vecchio, raggiunto il suo scopo, non vorrà mentire oltre.
La verità! Io sono malato perché la verità è scomparsa
dalla mia vita; ma la certezza di ritrovarla mi sorregge ancora. Talvolta,
nei giorni invernali, quando la nebbia ci avvolge come un velo funebre, abbiamo
l'impressione che tutto sia finito: il sole è morto, la luce spenta,
e noi camminiamo per il mondo come attraverso un cimitero. Ma ad un tratto
il sole squarcia le nuvole, le cose tornano a sorridere e noi risorgiamo come
Lazzaro dal sepolcro. Per un attimo o per anni o per secoli così la
verità può venire offuscata dal velo della menzogna; ma all'improvviso
ritorna a splendere, luminosa ed eterna, e basta un suo raggio per dissipare
le tenebre e dar vita ai morti.»
PARTE SECONDA
I.
Le nozze di Columba erano fissate per la Pentecoste, ma fin dal mese di marzo
tutto era pronto.
Molti criticavano questo matrimonio, anzitutto per invidia, perché lo
sposo era un uomo onesto e benestante, eppoi perché veramente c'erano
parecchie cose intorno a cui ridire: lo sposo era vedovo, era straniero, era
basso di statura, aveva vent'anni di più di Columba. Quest'ultima poi
prima di sposarsi avrebbe dovuto lasciar morire il disgraziato Jorgeddu...
Tutto il santo giorno Banna seduta al sole davanti alla sua porta mentre cuciva
le brache di grossa tela per suo marito non parlava che del matrimonio di sua
sorella, della casa, del bestiame, dei servi, delle tancas,
dell'orto e del chiuso dello sposo: se qualche donnicciuola maligna accennava
a Giorgio Nieddu, ella sospirava tirandosi il lembo del fazzoletto sul viso
e non rispondeva. Columba cuciva anche lei, seduta accanto alla porta del cortile
o sulla rozza veranda, ma teneva la testa curva immobile come se lavorasse
dormendo.
Un giorno verso il tramonto sentì picchiare alla porta di strada e s'affacciò alla
finestra per vedere chi fosse. Una donna alta, pallida, dal profilo aquilino
e i grandi occhi neri sormontati da due sopracciglia così folte e mobili
che sembravano baffi, guardava in su reggendosi con le mani una corbula [9]
sul capo.
«
Zia Martina Appeddu, siete voi?», disse Columba dalla finestra, «adesso
vengo.»
Scese ed aprì la porta che dopo il fatto ella teneva
sempre chiusa a chiave; e la donna, medichessa e cucitrice di costumi, si curvò per
entrare col suo canestro, facendosi il segno della croce per non cadere sulla
soglia ed evitare così un malaugurio alla sposa.
«
Columba, anima mia, tua sorella non c'è? Vorrei che fosse presente anche
lei, per la consegna della roba.»
Columba rispose con durezza:
«
La roba è mia e non occorre ci sia tutto il mondo per riceverla. Venite
di sopra, in camera mia».
Risalì al piano superiore e la donna la seguì. La camera dava
sulla veranda ed era vasta, bassa, con un gran letto alto e duro circondato
in fondo da un volante di stoffa a quadretti bianchi e rossi; dodici sedie
antiche, di noce e di paglia, annerite dal tempo, s'allineavano simmetricamente
lungo le pareti tinte con la calce, tre da una parte e tre dall'altra dell'alto
cassettone scuro, tre da una parte e tre dall'altra di una lunga cassa nera
scolpita.
Un ordine quasi tetro regnava nella vasta camera ch'era stata della madre di
Columba e dove ora pareva non abitasse più nessuno.
Zia Martina depose la corbula sulla cassa e levò e
scosse la salvietta che la copriva: apparve un mucchio di stoffe nere, verdi
e gialle...
«
Ecco; e che tu possa indossarla con allegria fino a cento anni», disse
con accento commosso sollevando sulle sue mani scarne la gonna di sposa di
Columba, di orbace nero, orlata di panno verde; dopo la gonna prese il giubbone
di panno giallo soffiandovi su per togliervi qualche pelo e qualche filo; dopo
il giubbone il corsettino di velluto verde e di broccato d'oro. «Nessuno,
colomba mia bianca, nessuno avrebbe potuto farteli così. Guardali; non
pare che sian cuciti dalle fate? Guarda queste camicie! Non sembran nuvole?
Vedi i punti del giubbone? E i soprapunti? Ne hai visti mai uguali! Se tu mi
assicuri che ne hai veduto degli eguali io mi chiudo la bocca con la stoppa
e non la riapro più. Ma che hai, colomba mia? Sei pallida e bianca:
non ti senti bene? O sei scontenta della roba?»
Columba guardava il corsettino volgendolo e rivolgendolo alla luce, soffiava
lievemente sulla peluria finissima della stoffa e pareva scontenta. Una ruga
s'ergeva a tratti fra le sue sopracciglia nere; e quando la donna accennò al
suo pallore, ella sollevò alquanto gli occhi un po' torbidi, ma li ribassò tosto
e disse con disprezzo:
«È
già la quarta volta che mi dite che sto poco bene, zia Martì!
E che volete farmi la medicina della strega?».
«
In certi giorni davvero tu sembri stregata. Ma tu non ti sei mai voluta misurare.
Sai bene che se le tue braccia si sono accorciate è segno evidente che
la strige è passata sul tuo capo e tu ti consumi sotto il suo influsso
malefico...»
«
Lasciamo andare; io non sono stregata, zia Martì! Fate per altri i vostri
incantesimi.»
«
Bada di non ricorrere un giorno o l'altro a questi incantesimi! Allora vedrai
che cosa sono. Tua madre, beata, non la pensava così!»
«
Sì, mi ricordo: ella veniva da voi. E che avete fatto per lei? Nulla!»
«
Perché è andata dal dottore! Sono i dottori che ammazzano la
gente coi loro veleni. Sì, sì, lo dico a voce alta», aggiunse
sottovoce, «tutte le medicine hanno il veleno, hanno la testa di morto
sopra. Negli antichi tempi la gente si curava con le erbe, coi suffumigi, con
le acque e le preghiere.»
«
Eppure morivano, zia Martì!»
«
Morivano di vecchiaia! Quanti anni aveva Noè? E Giacobbe, ed Elia? Dillo
tu, se lo sai. Arrivavano fino ai novecento anni. E dottori non ce n'erano.
E certe malattie, inventate da loro, non si conoscevano, o si conoscevano col
loro vero nome e si curavano; per esempio, la malattia di quello là...
chi la conosceva?»
Con un movimento del capo accennò fuor della veranda verso la casa di
Jorgj, e Columba, che continuava ad esaminare i vestiti, sollevò di
nuovo gli occhi foschi, ma non rispose.
«
Dunque, colomba mia, non sei contenta di questa roba? Non star lì misura
e misura. Sai già che ti sta a pennello; sembrerai una immagine dipinta.
Parlami adesso di Zuampredu Cannas. Non hai paura di andare ad abitare in un
paese straniero?»
«
Come può essere straniero se là c'è la mia casa?»
«
E che casa! Ho sentito raccontare che bisogna segnarsi, entrando, tanto è bella.
Ma bada che ti cade la camicia, colomba mia d'oro; non lasciar cader nulla: è cattivo
augurio. E Remundu Corbu dov'è? Gli dispiacerà lasciarti partire;
ma egli è veramente un'aquila e non striderà certo quando gli
porteran via la sua ala; tu piuttosto, Columba mia, tu piangerai... Cosa ne
dici?»
Ma invece di rispondere Columba domandò:
«
Quanto è il vostro avere?», e aprì il cassettone per prendere
i denari.
«
Stai per partire, che vuoi pagarmi subito? C'è tempo!», esclamò zia
Martina, riprendendo il suo canestro e la salvietta e fingendo di volersene
andare.
Allora la fanciulla la prese per il braccio e la ricondusse in cucina.
«
No, prima vi darò il caffè. Sedetevi lì, e non movetevi.»
Mentre ella preparava il caffè, la donna seduta per terra accanto alla
sua corbula, con le gambe incrociate all'araba e le mani
composte in grembo sotto la gonna nera che le serviva da mantello, riprese
a chiacchierare. Come quasi tutte le donne del paese parlava con accento drammatico
esagerando le sue espressioni di meraviglia, di collera, di pietà, mentre
sul suo viso ieratico le mobili sopracciglia nere disegnavano ora un cupo sdegno,
ora una tenerezza umile e profonda.
Dapprima fu una lunga lauda allo sposo, alle sue ricchezze e alla sua bontà,
poi un fiero commento alle critiche dei malevoli, infine un'altra lauda a zio
Remundu, alla «vecchia aquila» astuta e forte, e a Banna e a suo
marito.
«
Poche donne rassomigliano a Banna tua sorella: buona moglie, buona sorella,
non si lascia vincer da nessuno per sveltezza di mani e di lingua. È veramente
una donna, quella!»
«
Ed io che cosa sono, zia Martì? Un uomo?», domandò con
ironia Columba, curvandosi davanti alla donna col vassoio in mano; ed ella
non aveva finito di parlare che già zia Martina esprimeva con le sopracciglia
sollevate un'ammirazione estatica.
«
Tu, Columba mia? Tu non hai bisogno di aprir bocca. Tua madre, nel farti assieme
con tua sorella disse: "a Banna la lingua, a Columba gli occhi".
I tuoi occhi parlano, e basta guardarti per capire chi sei.»
«
Eppure non tutti mi capiscono!», ella disse abbassando le palpebre quasi
paurosa che la donna leggesse davvero nei suoi occhi.
Ma zia Martina la fissava sorbendo lentamente il suo caffè.
«
Ti voglio raccontare una cosa, giacché siamo sole, e voglio raccontartela
perché sei di cattivo umore e ti divertirà. Ascoltami. Mia figlia
Simona...»
«
Come sta Simona?», interruppe Columba deponendo il vassoio sopra il forno.
Ma al ricordo della figlia afflitta da un'incurabile malattia di occhi la donna
abbassò le palpebre con espressione di rassegnato dolore.
«
Non ci vede quasi più; sia fatta la volontà di Dio! Dunque, ieri
Simona stava sola a casa quando eccoti chi viene, indovina? No, tu non puoi
indovinarlo, colomba mia, perché tu non ti occupi dei fatti del paese
e non sai neppure chi va e chi viene. Dunque devi sapere che questi giorni
scorsi è arrivata la sorella del Commissario, per veder il paese e divertirsi. È una
ragazza piccola ma ben fatta, che cammina saltellando come una capretta. Ha
il vestito stretto come un sacco e un cappello grande come un canestro: buono
per il sole d'estate, non dico, ma non per adesso che fa quasi ancora freddo.
Bene, s'userà così nelle città, ma i ragazzi qui sono
maleducati, non nego, e quando la vedono gridano: oh, oh, s'è messo
un canestrone in testa...»
«
L'ho veduta», disse Columba per tagliar corto, aspettando con ansia la
storiella promessa dalla donna, sicura che si trattava di Jorgj, «è passata
di qui col prete e col fratello.»
«
Ah, l'hai veduta? Sono forse andati là... dal malato?»
Columba accennò di no.
«
Ebbene, ascoltami. Tu sai che il Commissario e sua sorella stanno da Giuseppa
Fiore. Questa qui ha già raccontato alla ragazza, che si chiama Mariana,
tutti i fatti del paese, e le ha detto che io e Simona cucivamo i tuoi vestiti
da sposa. Ora la ragazza pare che voglia farsi fare un costume, per il carnevale,
perché denari da sprecare ne ha... eppoi suo fratello, che si chiama
anche lui Mariano ed è cavaliere, lui, dicevo, bei soldi dal Comune
nostro se ne prende... Basta, dicevo, la persona che venne ieri da mia figlia
era giusto questa donna Mariana. Volle vedere il costume, domandò quanto
si può spendere per farne uno, e come sono eseguiti i ricami, le cuciture,
i soprapunti. Poi domandò a Simona che male è il suo e cominciò a
dire: "Queste malattie si curano facilmente, adesso: bisogna andare a
Roma!". A Roma, colomba mia! Come se noi avessimo la pecunia che ha lei.
Basta, non parliamone. Poi cominciarono a parlare di malattie, perché sai
che i malati parlano sempre degli altri malati, e Simona, che è un'anima
santa, disse: "Io sono disgraziata, ma altri son peggio di me". E
così di parola in parola vennero a parlare anche di Jorgj Nieddu: allora
la ragazza straniera disse: "Anche questa è una malattia che si
cura: bisogna andare a Roma!". E va in pace, tu con Roma, dico io! Simona
mia figlia cominciò allora a dire: "Impossibile, impossibile!".
E la ragazza straniera allora disse: "La malattia di quel meschino è una
malattia di nervi e null'altro. So tutta la sua storia, so che una donna ch'egli
amava lo ha calunniato e che perciò egli s'è ammalato di crepacuore".»
Columba si morsicava le labbra per non parlare, ma sul suo viso diventato livido
gli occhi scintillavano rivelando il suo sdegno.
«
Se c'ero io a casa avrei detto poche parole alla sorella del Commissario»,
riprese zia Martina, deponendo la tazza per terra, «le avrei detto: "Lei
si chiama donna Mariana, vero? Ebbene, donna Mariana, lei è venuta in
questo paese per divertirsi, e si diverta dunque, ma non ascolti le storie
di Giuseppa Fiore, e prima di parlar di Columba Corbu la vada a guardare in
faccia come si guarda il cielo per vedere che tempo fa". Ma io non ero
in casa, ti dico, colomba mia, e Simona è un'anima buona e non sa parlare.
Solo disse: "Tutta questa roba è appunto di Columba Corbu, è il
suo costume da sposa". Allora la ragazza straniera esclamò: "E
come mai, dopo aver rovinato un uomo che la amava, ella si può sposare
così a cuore allegro?".»
Columba balzò in piedi gridando:
«
Maledetta sia! Perché non si ficca nei fatti suoi? Io... io...».
Tacque all'improvviso perché la figura alta e proterva di sua sorella
apparve sulla porta. Banna era vestita a festa perché tornava da fare
una visita e teneva le mani entro le spaccature orlate di velluto della gonna,
il cui telo di davanti formava come un piccolo grembiale.
«
Siete qui, buona lana?», domandò a zia Martina. Sul suo viso scuro
i denti forti e bianchi e gli occhi verdognoli scintillavano. «Avete
portato la roba?»
«
L'ho portata.»
Columba s'accorse che Banna benché sorridente la guardava con inquietudine,
forse indovinando che zia Martina le aveva riferito i pettegolezzi del paese.
«
Zia Martina mi diceva che Giuseppa Fiore ha criticato i miei vestiti, non adatti
per una ragazza che sposa un vedovo», disse curvandosi per prender la
tazza dal pavimento.
Al nome di Giuseppa Fiore Banna fremette come una puledra frustata: i bottoni
d'argento con catenelle che pendevano dal suo corsetto tintinnavano come una
sonagliera.
«
Ohi, Giuseppa Fiore! S'ella pensasse ai suoi malanni farebbe meglio. Lascia
ch'io la veda e le risponderò io...»
«
Anima mia!», gridò allora la donna spaventata. «Tu non le
dirai niente: tu non vorrai rovinarmi, tu non vorrai farmi pentire di venir
qui come in una chiesa e di parlare con voi come con Cristo! Giuseppa Fiore è vendicativa.»
«
Alla forca! Che può farci? Ella vive solo con la speranza di farci del
male; ma ella non può farci neanche questo!», disse Banna sputando
sulla cenere.
«
Voi siete potenti; sì: ma io? Ella ha in casa il Commissario e può tutto
contro i poveretti. Può far del male a me, non a voi. Anima mia, non
uccidermi.»
«
E voi fatele un incantesimo che le leghi la lingua e i piedi!»
La donna si alzò, si mise la corbula vuota sulla
testa e si riavvolse nella gonna.
«
Banna, anima mia, se potessi far gli incantesimi non avrei le dita bucate e
ribucate dall'ago.»
«
Andiamo a vedere i vestiti; so che persino la sorella del Commissario ha voluto
vederli, tanto son fatti bene», disse Banna avviandosi con la sua andatura
fiera.
La donna, placata, la seguì.
Columba rimase nella cucina, e pareva calma, indifferente, tanto indifferente
che neppure i suoi vestiti da sposa la interessavano più: ma all'improvviso,
mentre rimetteva a posto il vassoio, si fermò accanto alla porta del
cortile come tendendo l'orecchio a una voce lontana, e piano piano il suo viso
si curvò sino a sfiorarle il petto, si allungò, parve quello
di una vecchia di sessant'anni.
Una specie di allucinazione che da qualche tempo la tormentava le fece vedere
Jorgj come glielo descrivevano le sue vicine di casa, steso immobile sul letto,
ridotto come uno scheletro. Il cuore le batteva violentemente; gli occhi le
si velarono. Fu un attimo; sollevò la testa e si rimise a sfaccendare.
Ma l'idea fissa che da mesi e mesi la divorava non l'abbandonò.
«
O egli ha rubato davvero, o ha finto di sdegnarsi perché non mi voleva
più e cercava una scusa per abbandonarmi. Il nonno e Banna avevano ragione»,
pensava. «Egli non mi voleva bene; no, no; se egli mi avesse voluto bene
si sarebbe comportato in altro modo... mentre io... io lo amavo al punto che
gli avrei perdonato anche se avesse rubato davvero... Ma egli non poteva soffrirmi...
Io ho aspettato che egli tornasse, dopo l'ultima volta che ci siamo veduti
qui, davanti a questo focolare; ed egli invece ha aperto una nuova porta, nella
sua stamberga, per non passar più neppure davanti alla mia casa. Che
egli dunque se ne stia con la sua miseria e la sua mala sorte, con la sua superbia
e la sua cattiveria. Io non voglio più pensare a lui: egli per me è come
morto. Ben gli sta, ben gli sta! Lo ha voluto lui. Pensavo a Zuampredu Cannas,
io? È stato lui il primo a dirmi che Zuampredu Cannas pensava a me:
e mi suggerì lui di prendermelo... Ebbene, sì, me lo prendo,
e tu muori di rabbia; l'hai voluto tu! Da te io non ho avuto che dispiaceri
e umiliazioni. Fin dai primi tempi, quando venivi qui alla notte, io tremavo
di paura, e tu ci prendevi gusto!... Poi continuò sempre a farmi dispetti,
a contraddire il nonno, a parlar male di Banna, a lasciarmi capire che ella
era stata innamorata di lui e che lo perseguitava perché l'amore s'era
cambiato in odio... Poi... poi tutto il resto... Sì, sì, egli
non mi scriveva mai, quasi che io non sappia leggere, e si rideva delle mie
lettere. Egli si rideva di me; egli s'è comportato come s'io fossi una
sua nemica. Nemica mi ha voluto e nemica mi tenga... S'egli è malato
la colpa è sua, non mia. Che cosa viene a raccontare quell'altra straniera
sfaccendata? Non aveva che fare in casa sua, quella lì, per venirsene
qui fra i dirupi a cercare chi non la cerca? Se mi capita sotto le unghie le
cavo gli occhi; io non permetto a nessuno di giudicarmi. A nessuno, hai capito,
Columba Corbu? Neanche tu ti devi giudicare, perché quello che hai fatto è fatto
tutto bene...»
Il ritorno in cucina delle due donne ruppe il filo dei suoi pensieri. Banna
teneva sempre le mani entro le spaccature della gonna e sorrideva, con gli
occhi seri e quasi cupi.
«
Sorella mia, puoi esser contenta: i tuoi vestiti sembran dipinti... Li ho messi
nella cassa, poiché roba come quella non si lascia buttata qua e là come
stracci.»
«
Io non l'avevo buttata: e d'altronde, sciupata quella potrò farmene
ancora. Zuampredu Cannas può darmi denari quanti ne voglio.»
Il suo accento era triste e aggressivo: Banna fu per rispondere sul medesimo
tono, ma la presenza di zia Martina e altre ragioni la frenarono. Sospirò anzi,
dicendo:
«È
ricco sì, beata te; e buono anche».
«
E buono anche», ripeté Columba irritata.
Banna capiva bene che cosa significava quell'accento, e il dubbio che la cucitrice
avesse con qualche notizia o con qualche insinuazione messo il disordine nelle
idee della sorella si fece certezza.
Ma appunto per questo volle tenersi buona la donna; l'attirò quindi
a casa sua con la scusa di farle vedere un corsetto, ma in realtà per
impedirle di star oltre con Columba.
Rimasta di nuovo sola questa si rimise a cucire accanto alla porta; ma di momento
in momento la sua agitazione cresceva e con l'agitazione la meraviglia di non
aver protestato contro zia Martina, la quale probabilmente le aveva riferito
i giudizi della straniera per farle dispetto.
Ma forse la fattucchiera è ancora là, da Banna, e continua nelle
sue chiacchiere false e maligne. Vinta da un impeto di rabbia Columba butta
per terra il drappo che ricama, rovescia il panierino del cucito e balza verso
la porta. I ditali e i rocchetti rotolano sul pavimento come fuggendo impauriti
dall'aspetto di lei. Ella geme e parole d'ira le escono dalla bocca contratta.
«
La straniera malvenuta... la straniera sfaccendata... che le importa di me?...
E di lei che sappiamo? Sarà lei che avrà ucciso qualcuno... E
la fattucchiera... e Banna... quella aguzzina... Adesso, adesso vi dirò...»
Aprì la porta, ma non uscì. Margherita la serva del dottore s'avanzava
rapida verso di lei e dopo essersi fermata di botto ansando lievemente, guardò se
qualcuno l'ascoltava, poi domandò sottovoce:
«È
qui, zia Martina? M'han detto ch'è venuta a portar le vesti. Se c'è chiamatela
subito. Presto!... E se è da Banna andiamo là. Andiamo, su!...».
Columba la guardò, sorridendo nonostante il suo turbamento.
«
Perché la vuoi? È venuto male al tuo padrone?»
«
Zitta, che non ti sentano!»
«
Non c'è anima viva: le donne sono andate tutte a raccogliere erbe mangerecce.
Vivere bisogna», rispose Columba, che non aveva molta stima delle sue
vicine di casa.
Ma in quel momento il mendicante uscì dal suo antro che sembrava una
domo
de jana [10] e sedette accanto alla sua porticina bassa circondata
di pietre. Il suo viso ispido, i capelli, gli stracci che lo coprivano pur
lasciando qua e là vedere le sue membra nerastre, avevano un colore
solo come egli si fosse tuffato intero in un bagno di fango: un sacco fermato
con una cordicella gli pendeva sulle spalle, e la punta della sua lunga berretta
era gonfia, colma di roba. Ogni tanto egli si faceva il segno della croce con
una delle medaglie nere che gli pendevano sul petto, e pareva non badasse affatto
alle due ragazze; tuttavia la serva non parlò più, e solo con
cenni del capo continuò a pregar Columba di accompagnarla in casa di
Banna.
Columba chiuse a chiave la porta e la precedette su per la scaletta di Banna,
umida per l'acqua che sgocciolava da una tinozza deposta su una panchetta nel
pianerottolo. La serva prese la scodella di sughero dal lungo manico di legno
che serviva per bere e la vuotò avidamente. Bevuto che ebbe si rinfrancò.
«
Zia Martina mia», disse entrando nella cucina attigua, ove le due donne
chiacchieravano misteriosamente, «bisogna che veniate subito con me per
fare "l'acqua dello spavento" ad una persona...»
«
Al tuo padrone?», chiesero le donne ridendo.
Poi la cucitrice, per darsi importanza davanti alle sorelle Corbu, si alzò e
prese Margherita per le braccia:
«
Sei tu che ti sei spaventata; ti si vede dal viso. Che è stato?».
La ragazza protestava, asciugandosi la bocca umida col grembiale.
«
No, vi giuro sull'anima mia, non sono io. Mi hanno mandato... è una
mia amica. Su, andiamo...»
«
Sei tu, invece. Tu tremi. Siediti; posso preparare qui l'acqua: più presto
la bevi, meglio è... Datemi un bicchiere di cristallo e un po' d'acqua
di fonte... Io cercherò i sette carboni...»
Mentre Columba riempiva il bicchiere, ella si curvò sul focolare e frugando
con le dita fra la cenere cercò sette piccole brage spente; intanto
Banna si avanzò verso Margherita dicendole con dolcezza:
«
Cuoricino mio, che cosa ti hanno fatto? È stato quel matto del tuo padrone?».
Allora la serva ancora appoggiata allo stipite dell'uscio nascose il viso sul
braccio e scoppiò in pianto. Columba col bicchiere in mano si fermò a
guardarla dimenticando le sue pene davanti a quel dolore più violento
del suo.
«
Che ti ha fatto, dimmi», insisteva Banna, «anima mia, sei come
con tre sorelle... Parla, parla...»
Zia Martina si sollevò, con le sette piccole brage spente nel cavo della
mano.
«
Ti ha chiuso in camera sua.»
«
No, no... che dite? Egli è un uomo onesto!», gridò allora
Margherita, sollevando il viso lagrimoso. «Egli mi rispetta come una
figlia di sette anni...»
«
Che hai avuto, allora? Bisogna bene che tu me lo dica, per fare lo scongiuro;
e se no va e impiccati...»
Intanto zia Martina gettava ad una ad una le brage spente entro il bicchiere
guardandolo attraverso la luce: l'acqua diventava torbida e grigia e i piccoli
carboni risalivano a galla: lo spavento dunque doveva essere stato forte.
«
Ebbene, ecco», singhiozzò Margherita, «egli mi ha fatto
vedere uno spirito...»
Columba sorrise, Banna rise, la cucitrice si fece ironicamente il segno della
croce; ma tutte e tre nonostante la loro apparente incredulità sentirono
un brivido. La serva riprese:
«
Voi non credete, eppure è vero, come è vero che siamo qui. Egli
stava al buio nel suo studio, oggi... poco fa... Mi chiama; io entro all'improvviso,
sorelle mie care, e vedo lui tutto nero davanti ad una lanterna rossa, e in
fondo alla stanza un fantasma bianco... Non so altro, sorelle mie... son corsa
via urlando, senza sangue nelle vene... sono corsa da voi, zia Martina mia...».
«
Ma perché ti ha fatto questo?»
«
Non lo so... non lo so... Forse perché non vuole che io creda negli
spiriti, né in Dio né in Cristo. Egli diceva ieri che gli spiriti
non esistono e che se lui vuole può farmi credere d'aver veduto uno
spirito mentre non è vero...»
«
E allora sarà così, mammelucca!», disse zia Martina, guardando
sempre il bicchiere entro cui la cenere si moveva come una nuvoletta. «Perché ti
sei spaventata?»
«
No, no, vi giuro, lo spirito l'ho veduto. Era lungo, bianco, si moveva: anime
mie, cosa volete che fosse?»
Ella tremava ancora; non cera altro rimedio che farle bere l'acqua, e zia Martina
deposto il bicchiere per terra vi girò attorno sette volte mormorando
le parole di scongiuro:
Unu - unu est Deus,
Duos - duos su chelu e sa terra,
Tres - sa Trinidade,
Battor - sos battor Vangelos [11],
e così fino a dodici, i dodici apostoli, in nome dei quali ella impose
al demonio di allontanarsi e di non spaventare oltre la giovane serva: poi
depose il bicchiere sul palmo della mano e così lo porse a Margherita.
La ragazza bevette, soffiando sulla miscela per cacciare in fondo i carboni;
tossì perché la cenere le raschiava la gola, sputò e si
sentì più tranquilla.
«
E adesso ascoltami», disse zia Martina riprendendo la sua corbula, «io
ti ho fatto l'acqua e benefica ti sia; ma il tuo male non è questo,
Margherita mia; il tuo male è qui, in testa; il tuo padrone ti ha attaccato
un po' della sua follìa. Egli farà di te quello che il nibbio
fa della colomba: ti divorerà. Sentimi, vattene da quella casa! Addio,
Banna, addio Columba, statevi bene.»
Se ne andò soddisfatta, ma mentre Margherita piangeva di nuovo e Banna
la confortava, Columba scese di corsa la scaletta e raggiunse la cucitrice.
«
Zia Martina, se vedete la straniera ditele da parte mia che non s'immischi
più nei fatti miei!»
Ma zia Martina pensava ad altro: si fermò un momento sulla porta e disse
aggrottando le sopracciglia:
«
Testimonie mi siete voi, sorelle Corbu, che Margherita è venuta lei
a cercarmi; testimonie mi siete voi».
Gettò un soldo al mendicante e s'allontanò, e mentre nel silenzio
della straduccia risuonava la voce monotona dell'uomo che benediva Sant'Elia
e Sant'Anna per la limosina avuta, Columba rientrò a casa sua chiudendo
a chiave la porta.
L'incidente toccato alla serva del dottore la interessava fino a un certo punto.
Ella aveva da pensare ai casi propri, e solo quando poteva sfuggire ogni compagnia
e immergersi tutta nei suoi pensieri provava la calma triste di chi non spera
più nulla. Ma quel giorno anche questa le sfuggiva. Gira e rigira per
la grande casa silenziosa, tornò nella sua camera e sollevò il
coperchio della cassa ove Banna aveva deposto i vestiti. Il sole al declino
penetrando per l'uscio aperto sulla veranda illuminava la cassa: fra il nero
dell'orbace i lembi di scarlatto parevano macchie di sangue e il panno giallo
aveva un luccichìo d'oro; una rosellina violacea spiccava su un fondo
di velluto verde come sull'erba di un prato. E di nuovo la fidanzata cadde
in una specie di doloroso incantesimo: le parve di vedere il malato, ricordò che
egli un tempo le diceva:
«
Finché staremo in paese indosserai il costume, per non far dispiacere
al nonno; ma se andremo, come spero, a vivere in una città ti vestirai
da signora, col cappello e col velo... E sarai così graziosa, bruna
e sottile come sei... bruna e flessuosa come la fidanzata del Cantico
dei Cantici...».
Oh, egli ci teneva, a queste cose. Diceva sempre:
«
Il velo rende belle le donne».
Ed ella aveva sognato i vestiti ed i veli che piacevano a lui; poche ore prima
nel veder la straniera col suo abito stretto e il velo svolazzante, il ricordo
di quei sogni le aveva destato umiliazione e vergogna. Sì, anche vergogna. «Ben
ti sta, pazza», diceva a se stessa, «tu hai sognato di lasciare
il tuo costume, di tradire la tua razza, di far dispiacere al tuo nonno; e
tutto questo per un uomo che ti disprezzava. Ben ti sta, ben ti sta! E adesso
soffri, tieniti in testa, giorno e notte, il ricordo dell'umiliazione che egli
ti ha inflitto abbandonandoti...»
A un tratto lasciò la cassa aperta e si affacciò alla veranda,
appoggiando forte i gomiti al legno della balaustrata e ficcandosi le dita
fra i capelli sotto il fazzoletto calato sulla fronte.
«È
un chiodo... un chiodo...», mormorò.
Sì, le pareva di aver un chiodo fissato in mezzo alla testa; quel pensiero...
sempre quel pensiero...
Il sole illuminava ancora i tetti delle casupole, ma con un bagliore roseo
morente; piccole nuvole gialle e rosse come fiori salivano dietro la chiesa
e pareva venissero dalla valle portando fino al villaggio l'odore dei narcisi
e delle rose canine. «Egli amava la primavera. Come era allegro, l'anno
passato, di quei tempi, quando era tornato in paese per la Pasqua! E adesso?
Adesso è là, nella sua tomba di vivente, e non si può muovere:
tutta la sua superbia è caduta, come la foglia irta e spinosa del fico
d'India quando l'autunno la fa marcire. Peggio per lui: peggio per lui! La
gente dice che i vizi lo hanno corroso», pensa Columba, tirandosi ancor
più il fazzoletto sugli occhi, quasi per non vedere il cortiletto, il
ballatoio, le nuvole del tramonto. I vizi? No, ella sa che questo non è vero,
Jorgj era un ragazzo onesto; mille volte avrebbe potuto abusare di lei e non
lo ha fatto. Era quasi freddo, quando si trovavano soli; le parlava di cose
che ella capiva vagamente, come una bambina a cui si spiegano cose da grandi;
le raccontava storie d'amore, le recitava poesie di cui alcuni versi risuonavano
entro l'anima sua come squilli di campane e gridi di falco, mentre il resto
le sembrava il mormorio dolce ma confuso del torrente.
Sì, egli era quasi freddo, quasi timido come l'altro, il vedovo, che
ancora non aveva osato baciarla... Ma il vedovo era timido perché aveva
paura di lei, che non lo amava. Mentre Jorgj... Jorgj ella lo aveva amato pazzamente,
e un uomo non è mai timido con una donna che lo ama...
«
Ma era lui che non mi amava; ecco perché era freddo... Oh!»
Si rialzò, si scosse, chiuse le imposte, chiuse la cassa; le sue labbra
ripresero quella linea sdegnosa e crudele che faceva paura al fidanzato vedovo.
Il chiodo però continuava a tormentarla: era come un pernio intorno
al quale si aggiravano tutti i suoi pensieri.
E anche lei riprese ad aggirarsi per le camere silenziose. Un velo di polvere
copriva le casse e i vecchi mobili anneriti dal tempo e dal fumo che dalla
cucina saliva infiltrandosi in tutte le stanze. Quella ove dormiva il nonno
era ingombra di fucili, di leppas [12], di bisacce e aveva
un odore di ovile; dal soffitto pendevano grappoli di uva gialla e di pere
rossiccie appassite.
Columba si avvicinò alla parete di fondo e la spinse; un usciolino s'aprì,
stridendo lievemente come una corda di violino, e lasciò vedere un andito
buio quasi tutto occupato da due casse nere. Da una di queste era sparita la
cassettina coi denari. Columba l'aprì e a tastoni vi frugò dentro,
come cercandovi ancora il tesoro. Nulla. Aprì l'altra. Nulla. Si sollevò per
guardare sulla sporgenza del muro, infine salì su una scaletta a mano
in fondo all'andito, si trovò in una specie di piccolo soppalco che
per una botola comunicava con le soffitte bassissime della casa. Ella sollevò la
botola e un po' di luce giallognola rischiarò il luogo misterioso. In
un angolo stava una stuoia di giunco, ove forse qualche bandito aveva dormito
i suoi sonni agitati; c'erano ferramenta arrugginite, una brocca, un archibugio
antico e dentro una nicchia una piccola statua nera di San Francesco e un lumino
spento.
Columba sollevò la stuoia, guardò fra i mucchi di oggetti disusati
che ingombravano il luogo, poi tirò su la scaletta, l'appoggiò alla
botola e fu nella soffitta che comunicava coi tetti.
Così in caso di pericolo e di sorpresa dovevano nascondersi e fuggire
i suoi padri divorati dall'odio e dalla sete di vendetta, al tempo delle inimicizie
selvaggie sì, ma anche eroiche e grandiose. Adesso i tempi erano cambiati;
la gente s'odiava ancora ma giocava d'astuzia e la lingua era la sua arma,
la calunnia il suo veleno.
Columba, che un tempo aveva rivelato al suo innamorato tutti i segreti della
casa, adesso si aggirava nelle camere, nei nascondigli e nelle soffitte cercando
qualche cosa che non riusciva a trovare. Ogni volta che il nonno si assentava
ella cercava, cercava così come un topo affamato, con la speranza di
ritrovare in qualche posto il tesoro sparito; sapeva che non lo avrebbe trovato,
eppure si ostinava nella ricerca, spinta da un'idea fissa che rasentava la
monomania. Usciva dalle sue ricerche piena di polvere, di ragnatele e di ricordi.
Ma le sembrava che quei ricordi fossero lontani, che si riferissero alla sua
fanciullezza; adesso ella si sentiva vecchia decrepita.
Intanto il sole era tramontato: una striscia cremisi solcava il cielo verdognolo,
sopra l'altipiano già quasi nero, e la luna nuova seguita da una stella
brillante cadeva come un anello d'argento da cui si fosse staccata la perla.
S'udivano le donnicciuole ritornate dai campi coi loro tovagliuoli colmi di
finocchiella e di ramolacci chiacchierare nella strada: qualcuna aveva già acceso
il fuoco e il fumo saliva dai tetti rugginosi; altre avevano portato in regalo
a Banna una parte della loro raccolta, ricevendo in cambio l'olio per il condimento.
Da Columba non osavano andare perché ella le accoglieva male.
Anche lei accese il fuoco e andò a prendere il pane nella dispensa a
pian terreno. Un finestrino munito d'inferriata dava luce alla stanza vasta
e nera; sacchi di frumento e d'orzo, cestini di fagiuoli e di pomi di terra,
vasi d'olio, centinaia di pezze di formaggio nerastre e grigie la ingombravano:
dal soffitto pendevano grappoli di formaggelle giallognole e vesciche di strutto
bianche come palle di neve. Entro la tinozza della salamoia galleggiavano nell'acqua
che pareva coperta di squame di pesce alcune forme di cacio fresco; altre bianche
e dure come il marmo stavano su un tavolo strette fra due ceppi. Nonostante
le sue preoccupazioni, Columba che s'incaricava di manipolare il formaggio
principale rendita della famiglia, appena entrò nella dispensa guardò nella
tinozza, accomodò uno dei ceppi, fece un giro anche nei camerini attigui
per assicurarsi che tutto era in ordine. La luce moriva nel vano del finestrino
e nella penombra della lunghissima stanza che pareva la stiva d'un bastimento
gli oggetti prendevano aspetti fantastici; qualche paiuolo di rame rosseggiava
fra le olle nere dell'olio, un sacco di farina d'orzo sorgeva bianco, in mezzo
a tutto quel nero, come un fantasma panciuto. Columba - che per paura di attaccar
fuoco girava alla sera senza lume per tutta la casa trovando a tastoni ogni
oggetto - prese dal canestro il pane rotondo sottile, e all'improvviso ricordò la
storia di Margherita. Ella non credeva agli spiriti e non aveva paura dei morti
né dei vivi; eppure quella sera provava una certa inquietudine: i paiuoli
rossi, il sacco bianco, le olle nere, il luccichìo metallico della salamoia,
tutto le pareva alquanto strano. E il suo cuore ogni tanto batteva forte senza
ragione.
Uscì in fretta dalla dispensa, e rientrata in cucina sentì che
le donnicciuole nella strada chiacchieravano strillando più del solito.
«
Mi possiate veder cieca se non è vero quello che dico io. L'ho veduto
con questi occhi: è già tornato.»
«
Ma se i trent'anni scadono il giorno di San Francesco? Egli tornerà in
paese proprio quel giorno, e i parenti e gli amici gli andranno incontro come
in processione.»
«
Egli è già tornato, vi dico; vuol dire che se i trent'anni precisi
non sono passati, per qualche settimana la giustizia non lo molesterà.»
Columba capì che parlavano di ziu Innassiu Arras
e si affacciò alla porta per ascoltar meglio. In quel momento il servetto
di Jorgj uscì saltellando dal cortile e prese parte alla discussione
delle donne.
«
L'ho veduto anch'io, sì! Stava seduto accanto al fuoco, col cappuccio
in testa e la tasca sulle spalle.»
«
Segno che doveva ripartire. Ebbene, Mariazoseppa Conzu, vuoi scommettere nove
reali che fino al giorno di San Francesco egli non rientrerà definitivamente
a casa sua?»
«
Anch'io penso così», disse il servetto; e avvicinandosi a Columba
le domandò sottovoce: «Che cosa volete?».
«
Chi ti ha chiamato? Vattene», ella disse con voce irata.
Ma egli la guardava sollevando il viso verso di lei e i suoi occhioni scintillavano
nella penombra del crepuscolo come due brage fra la cenere.
«
Mi pareva che mi aveste chiamato. È tornato vostro nonno?»
«
Che t'importa?»
«
Vado a comprare una candela per il mio padrone», egli proseguì imperturbabile,
sapendo per esperienza che Columba avrebbe finito con l'ascoltarlo. «Non
ne abbiamo più. La cassa è vuota; non c'è più nulla;
ma forse fra giorni avremo molti denari...»
Columba non disse nulla: guardava in fondo alla viuzza se vedeva arrivare il
nonno e fingeva di dare ascolto alle donne che continuavano a discutere.
«
Sì, bisogna che vendiamo la casa...»
«
A chi?», ella domandò quasi involontariamente.
«
Al dottore, zia mia! Egli la vuol comprare per prendersi il gusto di litigare
poi con Rosalia Nieddu, la matrigna del mio padrone, che canta sempre lassù come
un gufo: ma se ziu Jorgeddu morrà, essa non canterà più,
penso io. E voi che ne pensate?»
«
Egli non morrà.»
«
Come, non morrà? Così vorremmo diventar ricchi, zia mia! Egli
morrà e presto. Che direste voi se capitasse questo: che egli morisse
il giorno che vi sposate?»
«
Taci, stupido!»
«
Sarebbe una cosa curiosa, penso io. Ah, sì, egli è bianco come
un morto; adesso mangia poco e quasi non dorme più. Prima almeno mangiava;
adesso nulla. Dormicchia di giorno, e la notte legge. Quante candele consuma,
zia mia! Sì, io glielo dico sempre: "voi siete uno sprecone".
E poi gli dico: "e come facciamo che soldi non ne abbiamo più?...".
Egli legge nel suo libro e dice che Dio aiuta anche gli uccelli; ma è preoccupato,
ve lo dico io! Sì, gli uccelli hanno le ali, e lui non ha neanche le
gambe. E non vuol nulla da nessuno, a costo di crepare. Solo dice che domani
prenderà i soldi dal dottore, per la casa.»
«
E finiti quelli?», domandò Columba senza guardarlo.
«
Dice che Dio lo farà o guarire o morire. Io penso che morrà...»
«
Il prete non è più venuto?»
«
Non è più venuto nessuno. Solo... ebbene, ve lo dico in confidenza,
l'altro giorno è venuto ziu Arras. È entrato
dalla parte di là e il mio padrone è stato contento di questa
visita. Quello che han detto non lo so perché mi hanno mandato fuori;
e anche se lo sapessi non lo riferirei perché non sono uno spione, io.
Io vedo le cose e taccio, e non posso vedere la gente chiacchierona. E neppure
la gente sorniona posso vedere, come quello lì, vedete.» Accennò al
mendicante, che stava seduto sulle pietre davanti alla sua porticina e baciava
di tanto in tanto le sue medaglie. «Anche quello viene, dalla parte di
là, e si mette davanti alla porta perché zio Jorgj lo veda e
lo chiami: finge di non sentire, ma poi si avanza, piano, piano, entra, si
mette a sedere e sospira. "Perché sospirate?", gli dico io, "che
una palla vi sfiori la bisaccia; andatevene, che siete più ricco di
noi".
Zio Jorgj non vuole, che gli parli così, e sta a guardarselo come un
oggetto raro. Bell'oggetto! Quando va via io passo la scopa dov'egli s'è seduto.
Bene; sapete cosa è successo? L'altro giorno Dionisi Oro gemeva; il
mio padrone lo ha interrogato, e lui finalmente disse che l'esattore deve metter
all'asta la sua tana perché non ha pagato l'imposta: novanta centesimi,
e con le spese una lira e nove reali, sì, proprio tanto. Ebbene, e quello
stupido del mio padrone non mi ha fatto aprir la cassa per darglieli? "Ah,
sì", allora gridai, "così si fanno volare i denari?
E a noi chi ci aiuta poi? Il corvo?" E il mio padrone mi diceva: "ficcati
nei fatti tuoi, Pretu!" Ma io cacciai via Dionisi, e lo rincorsi gridando: "guai
a te se prendi il denaro, ladrone!". Egli scappò via spaventato.» Ma
Columba non gli dava più retta e guardava in fondo alla strada.
«Ziu Remundu arriva», annunziò Pretu correndo via
rapidamente col suo soldo stretto nel pugno.
Mentre la sua agile figurina spariva sull'alto della viuzza, verso lo sfondo
lucido dell'orizzonte, dallo sfondo cinereo della strada campestre saliva la
figura nera di ziu Remundu. Era a cavallo, seduto fra due bisacce colme: un
odore di erba e di latte cagliato si spandeva al suo passaggio.
II.
Columba corse ad aprire il portone e il nonno smontò con agilità.
«
Nonno, le donne dicevano che Innassiu Arras è già tornato»,
ella annunziò aiutandolo a scaricar le bisaccie una delle quali era
colma di fieno fresco.
Ma il vecchio non rispose. Mentre egli conduceva il cavallo nel cortiletto
e gli riempiva d'erba la mangiatoia, Columba trasse dall'altra bisaccia la
forma del cacio fresco ancora stillante di siero e la ricotta stretta in un
vaso di legno ricoperto da foglie di asfodelo. Anche Banna accorse per salutare
il nonno, e per riferirgli le chiacchiere delle donne a proposito del ritorno
di ziu Arras; ma egli, che s'era levato il cappotto e lo aveva appeso ad uno
dei piuoli del portico, sedette davanti al focolare, dritto sul busto di cui
il corpetto di velluto nero agganciato da un lato disegnava le forme ancora
svelte e dure come quelle di un uomo molto giovane, e scosse due volte di sotto
in su la testa ruvida con un moto di disprezzo.
«
Quel poltrone è tornato? Ben tornato sia; un fannullone di più in
paese!»
Columba apparecchiava il canestro col pane, con la ricotta, con un piatto di
insalata; smaniava di raccontare al nonno tutto ciò che sapeva, ma non
voleva parlare davanti a Banna, certa che ne sarebbe nata una discussione sgradevole.
Tacque anche quando la sorella riferì al vecchio le notizie del paese,
e che il dottore aveva spaventato la sua serva, e che Giuseppa Fiore aveva
criticato i vestiti di Columba secondo lei poco adatti per la sposa d'un vedovo.
Il vecchio masticava il pane duro coi suoi denti intatti e rispondeva con sarcasmo
che pareva sdegno d'uomo superiore per tutte le meschinità dei suoi
simili.
«
Giuseppa Fiore è come la lumaca; striscia e lascia la bava dove passa.
Il dottore? Adesso, adesso lo legheremo con corde di pelo e gli metteremo le
pastoie, a quel vecchio cavallo matto!»
Solo quando si parlò di Zuampredu Cannas il suo viso aspro si raddolcì e
la sua voce diventò grave.
«
Egli è buono, nipote mia; sì, hanno ragione di lodarlo: che ti
importa se è vedovo? Egli ti rispetterà doppiamente perché penserà: "se
io la maltratto ella dirà che la mia prima moglie ha fatto bene a morire!...".»
«
Eppoi non ha figli», aggiunse Banna, alzandosi per andarsene, «è come
che sia scapolo. Eppoi è per invidia che parlano!»
Rimasti soli, il vecchio e la fanciulla stettero alcuni momenti in silenzio.
Nel cortile s'udiva il cavallo ruminare il fieno fresco e battere di tanto
in tanto una zampa sul selciato; solo quel rumore interrompeva il silenzio
della sera. Il vento taceva, ma le notti erano ancora troppo fresche perché la
gente si riunisse nella strada.
Il vecchio si curvò, prese rapidamente con due dita una piccola brage
e la mise entro la sua pipa nera; indi strinse il bocchino fra i denti e guardando
se il tabacco s'accendeva disse:
«
Sì, il dottore è stato sempre un pazzo; se però queste
cose le fan gli altri, lui balza sopra una cima e comincia a urlare come un
cane...».
Ma Columba era distratta: sedette sulle calcagna, davanti al vecchio, rattizzò il
fuoco, e senza sollevar gli occhi mormorò:
«Babbu Corbu, devo dirvi una cosa... La sorella del Commissario
disse a Martina che Jorgeddu s'è ammalato di crepacuore... perché io
l'ho calunniato...».
Sul viso del vecchio parve spandersi il chiarore rosso della pipa accesa; la
sua mano destra, nera e sparsa di vene che sembravan radici, afferrò il
ginocchio sul quale si contrasse come una zampa d'aquila aggrappata ad una
roccia.
«
Columba, è per questo che sei di malumore?»
«
Sì, per questo, babbu Corbu!»
«
E che t'importa di quello che dice la gente?»
«
M'importa sì! È ai morti che non importa niente di quello che
dicono i vivi!»
«
La sorella del Commissario sta in casa di Giuseppa Fiore: tu devi pensare a
questo.»
«
A questo ho pensato. Bisogna rintuzzare la lingua ai serpenti.»
«
E che cosa vuoi farci? Se fossi stato giovane avrei detto: "andrò e
taglierò la lingua al cavallo di Giuseppa Fiore, per punir lei della
sua maldicenza". Ma son vecchio, figlia cara, son vecchio e ne dicono
abbastanza sul conto mio!»
«È
vero, babbu Corbu, è vero! Tutti parlano male di
noi; tutti pretendono di calpestarci perché siamo soli... Voi siete
vecchio, noi siamo donne. Ignassiu, il marito di Banna, è come se non
ci fosse: egli non pensa che alle sue capre e alle sue vacche.»
Curvò la testa e riprese quasi gemendo:
«
Nessuno ci rispetta... tutti ci calunniano... tutti ci vorrebbero veder morti...
Sì, sì, ed io morrò presto, lo sento qui nel cuore...
lo sento...».
«
Columba! Perché parli così?»
«
Perché muoio di rabbia, babbu Corbu. Perché non
ne posso più: a voi lo dico, non ad altri; sono stanca.»
E si lasciò andare per terra, triste e stanca davvero, tanto stanca
da non reggersi più. I piccoli occhi verdognoli del vecchio diventarono
scuri.
«
Columba! Una sposa parlare così? Una ragazza che ha nella cassa i vestiti
da nozze? E perché questo? Per chiacchiere di donnicciuole. Be', dimmi,
che cosa vorresti per esser contenta?»
«
Vorrei...»
Fu per gridare: «che ciò che è accaduto non fosse accaduto»;
ma non osò.
«
Vorrei esser già sposata, già lontana di qui: così tutti
saremmo più tranquilli.»
«
Ma perché non sei tranquilla? Che cosa ti manca, figlia di Dio?»
«
Nulla mi manca, babbu Corbu; ma tutti ci vogliono male;
persino Banna mi vuol male; lo so, noi non siamo come sorelle, no, siamo come
vicine di casa che abbiano da spartirsi qualcosa e stieno pronte a litigare.
Persino ziu Dionisi Oro, quell'immondezza di mendicante,
che senza di noi morrebbe di fame e di sete, persino lui parla male di noi.
Eppure io penso... che sia stato lui a rubare i denari...»
Il vecchio batté forte il bastone per terra.
«
Mille volte m'hai detto questo, nipote mia! Lui od altri che mi importa? Il
brigadiere ha frugato in casa di Dionisi come in altre case... e non ha trovato
nulla e s'è messo il cuore in pace! E anch'io faccio come lui: non ci
penso più. Senti, lucertola mia, facciamo una cosa; non parliamone più.
E se la gente mormora lasciamola mormorare; è l'invidia che la rode.
Osserva tu quando passa il vento: è l'immondezza che si solleva e turbina;
mentre le pietre restano ferme. Così è della gente; è la
peggior genia che si muove e mormora. E se tu ti metti in mente di cambiare
il mondo incanutirai prima del tempo. Tu fa l'affar tuo, senti, e cerca solo
l'approvazione della tua coscienza; e se la coscienza non ti rimprovera nulla,
tu va avanti e pensa: se la gente parla male di me segno che mi crede felice!»
Sputò sulla cenere, accavalcò le gambe e incrociò le braccia
in atteggiamento solenne e fiero: pareva un vecchio eroe che durante la sua
vita avesse compiuto solo azioni magnanime e sprezzato l'opinione pubblica.
Però la sua mano destra continuava a tremare.
Columba mormorò:
«
Ma la mia coscienza non è tranquilla, babbu Corbu!
Io ho sempre paura che ci siamo ingannati... Anche oggi ho cercato... E se
i denari fossero in casa? Se li ritrovassimo, babbu Corbu?
Come sarei contenta! Così egli non direbbe più che lo abbiamo
calunniato e fatto ammalare noi...».
Il vecchio non rispose; ma ella sollevò il viso pallido e per un attimo
si fissarono negli occhi come avversari pronti a colpirsi.
«
Columba», egli disse stringendo i denti, «tu diventi pazza. Parliamoci
chiaro una volta per sempre. Io non ho calunniato nessuno, e se tu pronunzi
un'altra volta questa parola io ti rompo il battesimo col mio bastone. Ma non
voglio litigare; ascoltami. Nel primo momento dopo il fatto, nel primo impeto
di rabbia io posso aver pronunziato il nome di quell'infelice; ma dopo... perdio,
dopo, chi lo ha più cercato? Sono andato forse a denunziarlo? Ne ho
forse parlato con nessuno? Se la gente lo teneva così in poco conto
da crederlo capace di tanto, che colpa ne ho io?»
«
Voi vi ridevate di lui, babbu Corbu; Banna sorella mia che
ha la lingua come quella dei serpenti, parlava male di lui con le vicine; e
a poco a poco, giorno per giorno, siete stati voi due a creare la sua cattiva
fama.»
Il vecchio sollevò il bastone.
«
Percuotetemi pure, rompetemi la testa!», ella disse con ira crescente. «Ma
prima devo parlare. Egli è innocente e noi lo abbiamo calunniato...
noi, sì, noi, perché anch'io ho parlato contro di lui... e la
gente lo sa e comincia a rendergli giustizia. Verrà giorno che tutti
grideranno contro di noi e diranno: essi lo hanno ucciso, lo hanno attirato
a casa loro come in una imboscata, l'hanno colpito a tradimento perché lo
odiavano...»
Il nonno riprese la sua calma selvaggia.
«
Lo hai attirato tu, non io! Sei tu che gli hai aperta la porta di notte, e
te lo sei preso nella tua camera come una donna perduta. Perché hai
fatto questo? Io dovevo romperti la testa, allora, non adesso; sono invece
stato vile e ti ho lasciato fare quello che volevi. Perché eri orfana,
e tua madre è morta raccomandandomi di trattarti bene! Ah, no, una donna
che di giorno tace e alla notte apre la porta al suo amante, non è donna
da trattarsi bene! Al diavolo chi crede in lei! Essa è la rovina della
casa; e tu, tu sei stata la rovina della mia!»
Col bastone le toccò due volte la testa, ed ella cominciò a tremar
tanto che non riusciva più a parlare.
«
Taci, adesso? Ah, sono io che l'ho attirato in casa? Dilla ancora questa parola
stolta! Se tu hai perduto la memoria peggio per te; io non sono rimbambito.
Era lui che ci odiava, il pezzente calzato, e che voleva ridersi di noi: non è stato
lui a lasciarti? Se tu non lo accoglievi in casa e non gli dimostravi di essere
una donnicciuola da nulla, egli ti avrebbe rispettato. La donna dev'essere
donna, specialmente quando si chiama con un nome come il tuo. Ma tu te n'eri
dimenticata, a quanto pare; non ricordavi più che eri nipote di Remundu
Corbu e figlia di Battista Corbu. Non hai imitato tua madre, che perché la
famiglia non si disgregasse volle sposare suo cugino, il figlio di mio fratello:
no, tu hai guardato il figlio di un capraio, uno studentello senza casa e senza
testa, un ragazzo corrotto, che non era della tua razza né del tuo grado.
E ben ti sta quello che ti è accaduto! Non piagnucolare, adesso, e tagliati
la lingua... Ah, noi lo abbiamo ucciso?», proseguì, senza dar
ascolto a Columba che balbettava qualche parola. «S'è ucciso lui,
coi suoi vizi ed i suoi stravizi! Del resto, non aver paura, nipote mia, egli
non morrà: egli finge, e chissà chissà che non mediti
qualche bel colpo! È chiuso nella sua tana come il pensiero maligno
nella mente d'un uomo cattivo: un bel momento verrà fuori e sarà un
flagello. Basta, non parliamo più di lui! È l'ultima volta che
io ne parlo. Solo una cosa devo dirti ancora: vuoi sposartelo? Padrona! Ti
ho mai detto di no? Questo il mio torto: essere stato sempre debole con te,
io, io, Remundu Corbu! Anch'io non sono stato uomo, con te, ma sono stato come
una fionda nelle mani di un fanciullo: piegala di qui, piegala di là,
essa finisce col rompersi. Ben mi sta! Anche per Zuampredu Cannas ti ho mai
detto nulla? Quando egli fece la sua prima domanda tu l'hai rifiutato: alla
seconda hai risposto sì. Sei pentita, adesso? Sei sempre padrona di
tornare indietro; non devi ascoltare i consigli di nessuno. Una volta, nipote
mia», egli continuò, raddolcito dall'attitudine umile e dolorosa
di Columba che aveva reclinato la testa rannicchiandosi sull'angolo del focolare, «io
passavo nel salto di Dorgotori, ai miei tempi, quando avevo i garetti come
quelli dei cervi; ed ecco vedo un uomo che coglie scope. Io passo dritto, ma
lui mi chiama. "Salute l'amico, salute l'amico!". Ebbene, e non riconosco
in lui un mio amico di fanciullezza, il figlio di Sadurru Chessa di Tibi? Sadurru
Chessa era ricco, nipote mia; aveva trecento vacche figliate. Suo figlio aveva
persino studiato per diventar dottore, ma segui i consigli di questo, segui
i consigli di quello, egli interruppe gli studi, si diede al commercio, fece
tutti i mestieri, si mangiò tutto il patrimonio, cadde in miseria e
finì col fare lo scoparo! Così ti dico, piccola colomba mia,
fa quello che vuoi, non seguire i consigli di nessuno!»
Columba non rispose: era ricaduta nel suo solito mutismo, ma pareva che le
parole del nonno l'avessero calmata; il suo viso e i suoi occhi avevano ripreso
la loro abituale espressione.
«
Va, va a letto», egli proseguì, curvandosi a prendere un'altra
piccola brage, poiché la pipa s'era spenta, «dormi sette ore e
vedrai che i mosconi cesseranno di ronzare. Domenica delle Palme verrà Zuampredu
per le pubblicazioni; poi verrà il giorno delle nozze, e ve ne andrete:
andrai al suo ovile, conterai le sue vacche, avrai in consegna il denaro per
pagar i servi. Pensieri non te ne mancheranno; allora i mosconi potranno anche
pungerti e tu non scuoterai neppur la testa per scacciarli via.»
Columba si alzò, obbediente come una bimba, accese il suo lumino d'ottone
rotondo e dondolante come una piccola arancia; chiuse la porta di strada sprangandola
con un palo di ferro.
«
Columba», disse il vecchio mentr'ella s'avviava per andare a letto. «Hai
pagato Martina Appeddu?»
«
Non ha voluto.»
«
Ebbene, domani mandale quello che le spetta, e non cercarla più.»
«
Il fuoco la cerchi!», imprecò Columba, avviandosi, col viso di
nuovo soffuso d'ombra. Rimasto solo anche il nonno si fece cupo e riafferrò il
suo ginocchio con la mano contratta.
«
Remundu Cò!», disse a se stesso con ira, «sei vecchio e
sei ancora stupido! Non bisogna lasciar sola quella ragazza; troppo l'hai abbandonata
a se stessa! Ogni soffio di vento le sembra una voce ed ella trema come una
foglia. Pare che una mala fata la guidi!»
Egli non credeva agli incantesimi, ma da qualche tempo in qua ogni volta che
si trovava a casa provava un senso di oppressione, come se qualcuno avesse
nascosto sotto il focolare una «magia», una di quelle statuette
di sughero coperte di spilli come ne faceva anche Martina Appeddu, che consumano
lentamente sino a farlo morire il disgraziato sotto i cui piedi stanno sepolte.
Columba era sempre di cattivo umore, anche Banna spesso pareva preoccupata:
il vecchio ricordava i tristi tempi quando era malata sua figlia e un giorno
si sperava di salvarla e il giorno dopo si temeva di vederla morire. Ma no,
neanche in quei tempi egli aveva provato l'inquietudine che adesso gli destava
Columba. Come un fluido maligno circondava la ragazza: ov'ella passava rimaneva
un senso di tristezza. Il nonno non sapeva spiegarsene il perché, ma
ricordava che Giuseppa Fiore, saputo dell'amore di Columba con lo studentello,
aveva detto ai vecchioni della piazza: «Remundu Corbu ha peccati da scontare!».
«
Peccati, peccati!», egli disse a voce alta scuotendosi tutto come un
cavallo a cui dà noia la briglia e la sella. «Io peccati non ne
ho, da scontare: quello che ho fatto lo so io perché l'ho fatto! Ed
a me che cosa non han fatto? Dovevo lasciarmi ammazzare? Se Dio mi ha messo
al mondo era per vivere, e se m'ha dato i piedi era per camminare, e le mani
per levare la siepe dal varco.»
La pipa intanto si era di nuovo spenta, ed egli la succhiava ancora, ma sentiva
la saliva amara. Sputò con rabbia, poi si alzò e andò a
guardare il cavallo che sonnecchiava ruminando il fieno coi denti malandati.
Era una vecchia bestia coperta di cicatrici e con le orecchie mozze, più d'una
volta accoltellata e sfregiata dai nemici del vecchio: egli l'amava per questo.
Riempiendo d'erba la mangiatoia e sentendo sulla guancia l'alito caldo che
usciva dalle narici del cavallo provò un senso di tenerezza.
«
Siamo vecchi», disse, battendogli la mano sulla schiena, «ma la
nostra pelle è dura... E se occorre trottiamo ancora...»
Rientrò, chiuse la porta e si coricò sulla stuoia. Quando era
inquieto non si svestiva mai e preferiva la stuoia al letto conservando così l'abitudine
di tenersi pronto per qualsiasi evento. Nulla adesso lo minacciava; tutti i
suoi erano sani, gli affari andavano bene; Columba doveva sposare un uomo ricco;
eppure egli continuava a sentire quel senso di inquietudine che dà l'appressarsi
di un pericolo.
S'addormentò pensando a Innassiu Arras, e nel dormiveglia si sforzava
ancora a sorridere con disprezzo ed a mormorare la parola «poltrone»,
ma anche il ricordo del suo antico nemico, oramai innocuo, gli destava quella
sera un vago malessere. Come quasi tutti i vecchi egli dormiva poco e male,
e dopo alcune ore di sonno agitato si svegliò. Il fuoco s'era spento;
la tramontana soffiava scuotendo la porta del cortile. Egli sentì freddo;
allungò il braccio per tirar su una bisaccia di lana che gli serviva
da coperta, e bastò questo movimento perché il sonno se ne andasse
via del tutto. Allora provò di nuovo quel senso di oppressione sotto
il cui peso si era addormentato.
«
Columba...»
Sì, Columba era il suo pensiero fisso; tutto il resto oramai contava
poco. Il passato era passato; l'avvenire per lui non esisteva. Se Columba si
sposava e se ne andava, a lui non rimaneva che sonnecchiare anche camminando
e ruminare i suoi pensieri come il vecchio cavallo ruminava l'erba...
Ma arriverà il giorno delle nozze e della partenza di Columba? È questo
il pensiero che turba il vecchio. Columba è ancora sotto l'incubo della
sua triste avventura con lo studente; ed è questa la malìa che
opprime tutta la famiglia... È come una pustola maligna, che dapprima
sembrava una piccola puntura di spina di rosa e piano piano s'è incancrenita
e non guarisce, sebbene curata con la pietra infernale...
Il nonno si agita sulla stuoia ricominciando a parlare a se stesso.
«
Vecchione, sai cosa ti dico? Subito col ferro rovente dovevi curare la piaga.
Quando Banna ti disse che Columba riceveva di notte il figlio del capraro,
tu dovevi frustarli entrambi con una corda di pelo. Invece hai lasciato fare;
lo studente ti mancava di rispetto e la gente rideva di te e diceva: "fai
bene a prenderti in casa un ragazzo allegro; egli farà volar via i tuoi
soldi come il vento le foglie dell'albero!". E Giuseppa Fiore diceva: "Remundu
Corbu ha peccati da scontare...".»
A un tratto si levò la bisaccia dalla testa e spalancò gli occhi.
Intorno era buio, ma egli vedeva ancora lì davanti al focolare il viso
pallido e ironico di Jorgj Nieddu, i suoi occhi scintillanti; e ancora sentiva
quel senso di sdegno che la presenza e le parole dello studente un tempo gli
destavano... Ah, egli è lì, ancora lì, in mezzo a loro, è sempre
il più forte e finirà col cacciarli via di casa.
«Babbu Corbu», dice la voce triste di Columba, «vorrei
esser già lontana di qui... così tutti saremmo più tranquilli...»
Che fare, per renderla tranquilla? In fondo, al vecchio non importa affatto
la propria inquietudine; egli ha passato una vita così agitata!... ma
non può sopportare la continua tristezza di Columba. Che fare? Cercare
ancora il ladro? Frugare nuovamente in tutte le casupole del vicinato? A che?
Per crearsi ancora inutilmente nuovi nemici? I denari sono spariti; li abbia
presi Giorgio, li abbia presi il mendicante o qualche altro dei vicini di casa,
anche ritrovandoli non si rimedierebbe a nulla. Il male non è lì;
ha radici più profonde, va in là, molto più in là,
e non si può guarire. Anche se il nonno andasse in chiesa e si inginocchiasse
in mezzo al popolo gridando: «Jorgj Nieddu è innocente! Io l'ho
accusato senza esser certo della sua colpa!» a che servirebbe? A far
ridere il popolo. L'odio resterebbe lo stesso, tra il vecchio e il giovane;
questi continuerebbe a metter la discordia in famiglia, come per il passato,
e Columba continuerebbe a soffrire. Meglio lasciar correre. Il tempo porterà rimedio
a tutto. Columba se ne andrà col suo sposo ricco, una vita nuova comincerà per
lei; il nonno andrà spesso a trovarla, farà cavalcare il suo
bastone ai bambini di lei, li condurrà sul suo cavallo, darà l'ordine
ai suoi servi perché col formaggio fresco facciano agnellini, uccellini,
treccie e amuleti, da regalarsi ai nipotini. I tempi tristi son finiti.
Cercò di riaddormentarsi; ma non poteva chiuder gli occhi. Le sue palpebre
tremolavano e un senso di stanchezza gli fiaccava la schiena.
A un tratto un gallo cantò, e il vecchio, abbandonando le inquietudini
del presente, si lasciò andare ai ricordi del passato. Allora provò un
senso di riposo e di oblìo, come uno che lascia le sponde di un fiume
e va e va sull'acqua silenziosa trasportato alla deriva da una imbarcazione
leggera. Ogni volta che sentiva cantare il gallo egli ricordava gli urli che
avevano echeggiato nel silenzio del salto quando sua moglie era stata aggredita...
Sua moglie! Spesso, di notte, quando egli dormiva nel letto, svegliandosi gli
pareva di averla ancora vicina, magra e calda, dura e forte. Quella era stata
una donna! Mai lagrime, mai preghiere né lamenti. Nei tristi tempi ella
era stata come una verga di acciaio che non si piega; ma venuti i tempi di
pace s'era spezzata d'un colpo.
Dietro la donnina, che camminava come Banna battendo i piedi per terra e con
le mani nascoste entro le spaccature della gonna, una lunga processione sfilava...
Amici e nemici, giudici e vittime: appariva lo sfondo d'un bosco, s'udiva il
trotto d'un cavallo, una fucilata, un grido; poi la scena cambiava: era una
scena funebre; una donna coi capelli sciolti gridava vendetta; zia Giuseppa
Fiore accoccolata davanti al suo focolare gittava di tanto in tanto un grido
d'odio come il gufo nel bosco: Innassiu Arras correva di roccia in roccia con
la sua borsa sulle spalle... Poi appariva una chiesa campestre, con l'altare
coperto di fiori rossi, un Cristo deposto sull'arazzo giallo come su un quadrato
di sole.
Il vescovo di Nuoro bello come San Giovanni benediceva con due dita, e uomini
e donne sfilavano davanti al Cristo, s'inginocchiavano, giuravano di deporre
ogni odio, ogni idea di vendetta, baciavano i piedi insanguinati del Signore,
poi uscivano nello spiazzo erboso, ballavano e mangiavano, guardando con diffidenza
colui col quale avevano giurato di far pace!
La corrente dei ricordi trasportava il vecchio; e come l'acqua dei fiumi al
crepuscolo anche quei ricordi avevano riflessi azzurri e riflessi rossi, chiarori
lattei e ombre nere... Egli era convinto di non aver fatto male a nessuno.
Si era difeso, soltanto, come deve fare l'uomo veramente uomo. A un tratto
sorrise, sotto la bisaccia, mentre il cavallo nel cortile, svegliatosi anch'esso
dopo breve sonno, ruminava di nuovo l'erba, e qualche vago rumore vibrava tra
il vento che andava calmandosi.
Il ricordo doveva esser piacevole. Il vecchio vedeva ancora una chiesa, ma
non quella delle paci. Un Cristo nero guardava dal pulpito e pareva fosse lui
a parlare.
«
Qui, qui, in questa chiesa, c'è qualcuno che come Giuda pensa a tradire
il suo fratello...»
E Innassiu Arras piangeva. Era il ricordo più comico che ziu Remundu
potesse evocare...
«
Eppure, come è vero Cristo, dopo quella volta non gli ho più voluto
male. Sarebbe come voler male a Dionisi Oro il pezzente!...»
Eppure!... Il ricordo del mendicante lo scosse dal dormiveglia in cui era già ricaduto.
Qualcosa di sgradevole, come un urto improvviso, lo scosse. La barca era arrivata
all'altra riva; bisognava balzare a terra, tornare al presente, alla realtà.
La voce di Columba risuonò ancora, triste e fredda:
«
Io penso, babbu Corbu... che possa essere stato anche Dionisi
Oro... Perché non fate cercare ancora?...».
Il vecchio si mise a sedere e si grattò la guancia.
«
Maledetti sieno i sette peccati mortali! Se vedo Martina Appeddu le rompo i
denti e le dico: potevi fare a meno di tormentare quella ragazza. Va alla forca,
vecchia cornacchia!»
Il gallo cantò ancora, ed egli si alzò, riaprì la porticina,
andò a guardare il cavallo nel cortiletto silenzioso sotto le stelle
verdognole che parevano scosse dal vento.
III.
Non essendo riuscito ad avere il sonette Pretu si contentava
di certi minuscoli pifferi fatti da lui con grossi steli d'avena. Seduto sul
ciglione sopra il quale s'apriva la porticina di Jorgj, egli suonava il motivo
del ballo sardo o dei Gosos [13] di San Francesco e il ronzìo
della sua leoneadda [14] si confondeva con quello dei mosconi.
Era il meriggio. Grandi nuvole bianche passavano davanti al sole e tutto il
panorama di valli verdi e grigie chiuso dalla linea violacea dell'altipiano
pareva sonnecchiasse; ma di tanto in tanto il sole tornava a risplendere; l'erba
allora e le macchie scintillavano e tutto il paesaggio si scuoteva al vento
come svegliandosi all'improvviso.
Anche Jorgj sonnecchiava, ma ogni tanto si scuoteva e il ronzìo dei
pifferi gli faceva tornare in mente certi versetti del suo libriccino.
«
Le vane speranze e le menzogne sono per lo stolto, e i sogni levano in alto
gli imprudenti.
Come chi abbraccia l'ombra e corre dietro al vento così chi bada a false
visioni...»
Eppure egli si ostinava a sperare, e la debolezza in cui ogni giorno di più cadeva
come in un gorgo molle e tiepido gli dava spesso visioni morbose. Talvolta
arrivava a compiacersi della sua immobilità.
«
Che fatica doversi alzare e camminare! Perché poi? La vita è nel
moto dell'Universo, e le pietre e le piante vivono anche senza muoversi.»
La sua stessa vertigine e il palpito del suo povero sangue gli sembravano causati
dal roteare della terra; gli pareva che il moto perpetuo di tutte le cose lo
trascinasse attraverso lo spazio e che le ore e i giorni corressero dietro
di lui.
«
La giornata è passata egualmente per me e per i felici della terra»,
pensava al cader della sera, «almeno io non ho fatto male a nessuno...»
Ma quando alla notte si svegliava, solo, al buio, era preso dall'orrore dei
sepolti vivi: una crisi di disperazione lo faceva tremare tutto, un freddo
sudore gli inumidiva i capelli; qualche volta non si riaddormentava che all'alba,
e allora il suo unico conforto era la speranza di morire presto.
La voce irritata del servetto lo scosse dal suo dormiveglia.
«
Perdonate [15] vi ho detto! Adesso che avete trovato la strada volete consumarla
a forza di andare e venire...»
Ma la voce cadenzata del mendicante risuonava nel silenzio del ciglione; pareva
che le sue parole lente, staccate, cadessero sull'erba, mentre la vocina sonora
di Pretu saliva e si sperdeva nell'aria serena.
«In nomen de su Babbu, de su Izu, de s'Ispiridu Santu, faghide sa caridade
a custu poberu ezzu istorpiadu...»
«
Se non ve ne andate vi faccio rotolar giù come una bacca di ginepro...»
«
Sant'Anna e Sant'Elia ti aiutino: dov'è il tuo padrone?»
«
Dove volete che sia? A cavallo nella sua tanca. Andatevene,
fatevi ficcare in uno spiedo.»
Ma l'uomo fissava coi suoi occhi rotondi, chiari come due nocciuole non ben
mature, la porticina di Jorgj avanzandosi curvo sotto la sua tasca piena.
«
Dionisi, entra pure», disse a voce alta il malato; e il mendicante entrò,
seguito da Pretu che si alzava sulla punta dei piedi per guardare entro la
bisaccia. «Dàgli qualche cosa, Pretu.»
«
Che cosa gli do? Quello che ci avanza? Non vedete che ha la bisaccia colma
di pane, di ricotta, di formaggio acido? Datemelo, zio Dionì»,
aggiunse facendo smorfie di disgusto. «Faremo le focaccie di Pasqua.
Siete più ricco di noi e venite a seccare...»
«
Finiscila, Pretu!», gridò Jorgj irritato, senza smettere un momento
di fissare il mendicante che si guardava attorno e sospirava.
«
Tutti i giorni egli è qui», brontolò Pretu sollevando il
coperchio della cassa e prendendo la metà d'una focaccia rotonda e gialla
come la luna.
E tutti i giorni il malato provava la stessa impressione: che Dionisi Oro,
o per conto proprio o incaricatone da qualcuno (da chi? da Columba o dal vecchio?),
entrasse nella stamberga per spiare; e a sua volta provava un senso di curiosità e
di ripugnanza ma aspettava che il mendicante gli dicesse qualche cosa di straordinario.
L'uomo però parlava poco e incoerentemente.
«
Ebbene, Dionisi, che c'è di nuovo nel mondo? Sei andato ad ascoltar
le prediche?»
«
Che, che, cuoricino mio!... Gli eremiti, in quel tempo, quando gli uomini non
avevano malizia, mangiavano i cani...»
«
E adesso che han malizia mangiano i vitelli, e fan bene!», gridò Pretu,
dandogli in malo modo la focaccia.
«
Dico, sei stato a confessarti? Siamo di quaresima!», gridò Jorgj.
«
Siete stato a confessarvi?», gli gridò Pretu all'orecchio.
L'uomo trasalì e s'irritò.
«
Eh, non son sordo a quel punto! Sì, sono stato in chiesa. Bei sermoni,
sì! Pare San Francesco.» Si segnò baciando le sue medaglie.
«
Chi?»
«
Chi?», urlò Pretu.
«
Ma vattene, lasciami in pace le orecchie. Dico, prete Defraja, che una palla
gli trapassi la saccoccia.»
«È
vero», ammise Pretu. «Egli predica che sembra un piccolo santo:
la voce non è grossa, ma fa pianger la gente. L'ha detto mia madre.»
«
Allora è tempo di pensare ai peccati e convertirsi. Gridaglielo, Pretu.»
«
Allora è tempo di confessare i vostri peccati», tradusse il servetto
all'orecchio di Dionisi Oro.
«
Tutti siamo in peccato mortale», rispose il mendicante; poi non parlò più,
per quante insolenze il ragazzo gli gridasse, ma continuò a guardarsi
attorno, e finalmente s'avviò per andarsene volgendosi ogni tanto a
fissare il soffitto corroso.
«
Se non volete nulla vado anch'io», disse Pretu, «giusto mia madre
vuole andare in chiesa ed io guarderò il bambino piccolo.»
«
Va pure; ricordati di comprare la candela.»
«Ziu Jò», annunziò con voce dispettosa il
ragazzo, «i soldi son finiti, lo sapete... E voi date il pane a quello
sfaccendato...»
Jorgj sospirò infastidito, guardando fuor della porticina. Il tempo
era bello e il riflesso delle chine coperte di erba brillante arrivava fino
alle pareti della stamberga.
«
Saran le due, Pretu. Alle quattro verrà il dottore e gli ricorderò che
bisogna far l'atto di vendita della casa.»
Pretu sollevò e lasciò ricadere rumorosamente il coperchio della
cassa: nello stesso tempo qualcuno batté forte alla porta del cortile
e il malato trasalì, non seppe per quale dei due rumori.
«
Chi sarà?», domandò, fissando gli occhi spalancati negli
occhi spalancati di Pretu. «Il dottore no, certo.»
E Pretu non avrebbe aperto se una voce rauca non avesse gridato:
«
Posta!».
Una corrente d'aria fresca attraversò la stamberga, e il postino, o
meglio uno dei vetturali che facevano il servizio della diligenza fra Nuoro
e Oronou, entrò con un pacco e uno scartafaccio in mano. Era un uomo
alto e scarno, vestito con una vecchia divisa da cantoniere i cui filetti rossi
si erano come arrugginiti. Anche la pelle del suo viso, aderente alle ossa,
era d'un rosso di ruggine, essiccata dal vento e dal sole; ma sotto le sopracciglia
rossiccie sporgenti come cespugli secchi sull'orlo della roccia gli occhi d'un
azzurro metallico sorridevano; ed egli portò nella stamberga come un
soffio dei grandi paesaggi che attraversava ogni giorno.
«
Pacco! Da Nuoro! Firma!», gridò con la sua voce rauca. «E
come andiamo, Jorgj?»
Lasciò cadere il pacco - una cassetta con la cordicella e i sigilli
rossi già staccati dalle assicelle - e il tavolinetto di Jorgj traballò sotto
il peso insolito.
Il malato taceva guardando l'uomo e la cassetta con occhi quasi selvaggi; solo
il ricordo che ogni anno per Pasqua la moglie di zio Conzu gli mandava da Nuoro
certe focacce di pasta e cacio fresco lo tratteneva dal respingere il pacco.
«
Come stai, dunque? Pensa, pensa ad alzarti, poltrone!»
«
Potessi», mormorò Jorgj sporgendo il braccio per cercare la penna.
«
Se vuoi puoi, con l'aiuto di Dio! Ebbene, anch'io, questo gennaio scorso, dopo
Sant'Antonio, ho avuto una gamba rattrappita. Tutti dicevano: "è la
paralisi, perché sta sempre seduto". Io un giorno, là alla
cantoniera di San Giovanni dove sta mio fratello, dissi: "o la gamba guarisce
o me la faccio tagliare: tanto non ne ho di bisogno: le redini non le prendo
coi piedi". Ebbene, sai cosa ti dico? Questa qui», si batté la
mano sulla gamba in questione «ha avuto paura; e s'è mossa, questa
poltronaccia. Ancora qualche volta fa la poltrona e si fa trascinare, ma io
le dico: "marcia, con l'aiuto di Dio". Va bene, firma lì:
hai le mani bianche, poltrone! Alzati, alzati, che fai bene!»
«
Avete più veduto zio Conzu?», domandò Jorgj rimettendo
la penna.
«
L'ho visto domenica: anzi bisogna che mi ricordi di passare da sua moglie perché deve
darmi qualcosa per te.»
«
Allora non è suo questo pacco!»
«
Può darsi che sia suo: come ti dico è da domenica che mi aspetta:
forse avrà mandato alla posta. Addio: guarisci presto e ripartiamo,
su!»
E quasi intuendo l'idea che passava nella mente del malato, l'uomo se ne andò bruscamente,
tirandosi addietro la porta che Pretu si affrettò a chiudere.
La stamberga rimase di nuovo illuminata dalla luce azzurra della porticina
sulla cui soglia il sole si avanzava dolce e famigliare come un buon amico
che tutti i giorni rinnova la sua visita.
«
Pretu, taglia la cordicella.»
Finché c'era stato il postino il ragazzo non aveva aperto bocca per
paura che Jorgj s'irritasse e respingesse il pacco; ma il cuore gli batteva
forte. Da quanto tempo nella stamberga non succedevano avvenimenti simili!
Trasse il suo coltellino a serramanico, il suo coltellino nero e argenteo,
suo orgoglio e suo tesoro (glielo aveva portato Jorgj dalla città, ai
bei tempi), e cominciò a segare. La cordicella grossetta, forte, vibrava
tutta come protestando.
«
Zio Jò, vi dico la verità, mi batte il cuore. Che cosa ci sarà?
La storia è di levare i chiodi, adesso: ma lasciate fare a me; son forte.»
Mise la cassetta sullo sgabello e introdusse la punta del coltellino fra le
assicelle; ma la lama si piegava e minacciava di rompersi inutilmente.
«
No, no, non così, Pretu! prendi il coltello...»
«
Come pesa, Dio mio! Che ci sarà, dite? Se fosse piena di denari? Di
soldi e di lire? Quanto sarebbe? Ah, col coltello va bene. Forza, Pretu, forza,
bello! Ecco levato un chiodo: ahi, il dito! Eccone un altro. Maledetti i Giudei:
essi hanno inchiodato così Gesù. Ah, sì, il cuore mi batte
come quello di un porchetto entro un sacco! Ah! Ah!»
Egli ansava, sudava, rideva: anche Jorgj si sentiva battere il cuore. Finalmente
il coperchio di assicelle scricchiolò, parve sollevarsi da sé,
rimase sospeso, attaccato ad un lato e da un solo chiodo. Con meraviglia il
malato vide uno strato di violette quasi nere e credette che il pacco fosse
pieno di fiori.
«
Dormo e sogno», pensò, e, certo di svegliarsi da un momento all'altro,
non provò più né curiosità né stupore.
Chi poteva mandargli quei fiori? Chi poteva ricordarsi di lui in quel modo,
in quel tempo, come di un morto caro sulla cui tomba si depongono le violette
di marzo?
Ma il servetto aveva sollevato la carta rosea su cui stavano sparse le viole,
e traeva dalla cassetta altri oggetti, toccandoli e guardandoli con diffidenza,
quasi dubitasse anche lui della realtà.
Dapprima furono due lenzuola, leggere e candide come la neve; poi tre asciugamani
damascati, grigiastri e lucidi come le nuvolette che passavano sullo sfondo
della porticina, poi alcune salviette ricamate che ricordarono a Pretu la tovaglia
dell'altare maggiore di Santu Jorgj: poi sei fazzoletti orlati a giorno e legati
con un nastrino azzurro: poi alcune foderette bianchissime con su ricamato
un ramicello di biancospino. In fondo c'era una scatola di latta dipinta: due
cammelli gialli carichi di roba guidati da due beduini bianchi e neri correvano
attraverso un deserto rosso: il cielo era violetto e all'orizzonte apparivano
le palme verdi di un'oasi.
Il servetto prese la scatola con le manine tremanti ed esitò prima di
aprirla. I suoi occhi si incontrarono con quelli del padrone. Allora Jorgj
si mise a ridere: un riso nervoso, di reazione, quasi di sdegno contro se stesso
e il suo stupore.
La scatola era piena di biscottini, piccoli, secchi e sottili come ostie. Pretu
provò un senso di delusione.
«
Umh! saran buoni? Poteva mandare di quelli freschi!»
«
Questi son fini, son di lusso», disse Jorgj con voce grave. «Mangiane
uno.»
«
Mangiatelo voi... Son biscotti da malato!»
Ma nella cassetta c'era ancora roba: tre o quattro involtini legati con volgare
spago grigio. E trai e svolgi e guarda, servo e padrone tornarono completamente
alla realtà di tutti i giorni. Un involtino conteneva del cacao, un
altro zucchero, un altro tre scatole di sardine, l'ultimo infine un salame.
Ma a misura che Pretu si rallegrava e calcolava ad alta voce quanto tempo potevan
durare quelle provviste, Jorgj ricadeva nella sua solita irritazione.
«È
un'elemosina, ti dico! Chi, chi l'ha mandata?»
«
Se non lo sapete voi chi lo sa?»
«
Io non so nulla. Io respingo tutto...»
«
A chi? Se lo mangia il postino; sentite, zio Jò, è meglio che
ve lo mangiate voi. Sarà quella dama di Roma, quella... sapete, di cui
avete parlato l'altro giorno!»
Il ragazzo parlava tra il serio e il faceto, mentre gli occhi di Jorgj fissavano
di nuovo le violette e la commozione del primo momento lo riprendeva. Chi gli
mandava il dono? Una donna senza dubbio. Ricordi vaporosi come le nuvolette
che continuavano a correre sullo sfondo della porta gli passarono in mente;
gli pareva di trovarsi ancora a Nuoro, in una sera fantastica, fra le luci
colorate e i rumori della festa. Torme di donne scendevano con passo ritmico,
quasi seguendo il motivo della marcia suonata dalla banda. Una di quelle (forse
la sconosciuta dal velo scintillante?) aveva saputo la sua sventura e si era
ricordata di lui...
Il suo cuore appassito ma non ancora morto, come quelle violette misteriose,
batteva a sbalzi: così il cuore d'un anestesizzato piano piano si sveglia
e torna alla vita. Ma di nuovo quella gioia confusa si mutò, si fece
angoscia: Jorgj provò quasi paura a guardare i doni; soprattutto i fiorellini
morenti gli destarono come un senso di raccapriccio.
«
Porta via tutto, chiudi tutto nella cassa, Pretu; non voglio veder nulla...
Fa presto, se no ti faccio buttar via tutto... Vattene.»
Volse il viso al soffitto e chiuse gli occhi: Pretu abituato a quelle stranezze
si affrettò a rimetter tutto nel pacco; rimise la carta rosa e sulla
carta rosa le violette; ma non riabbassò il coperchio e lasciò la
cassetta sopra lo sgabello; poi se ne andò perché aveva fretta
di raccontare a qualcuno l'avvenimento.
Le ore passavano; il sole di aprile, dal calore eguale e dolce, sempre eguale
e dolce come quello d'un cuore fedele, declinò sul cielo dove le nuvolette
svanivano una dopo l'altra come macchie da un cristallo lavato. Il rettangolo
di sole s'era avanzato fino ai piedi del letto, quasi cercando di salirvi sopra
e di lambire il malato: la cassetta con la carta rosa e le viole metteva una
nota insolita nello squallore della stamberga. Anche Jorgj sentiva cader la
sua collera: quando il disco cremisi del sole sparve lasciando sull'orizzonte
un gran velo violaceo gli parve che nella stamberga si spandesse il colore
delle violette appassite e sul suo cuore un velo di pace.
No, chi gli aveva mandato il dono non poteva essere uno dei soliti volgari
benefattori. Di fantasia in fantasia egli rievocava tutte le persone che aveva
conosciuto a Nuoro e ricordava i piccoli orti chiusi da muricce a secco, coperti
dai grandi fiori duri e pallidi dei cavoli e dalle capigliature verdi dello
zafferano. Qua e là appariva l'occhio azzurro d'un giacinto e brillava
l'oro bruno della violaciocca: ma per cercare le violette la persona che le
aveva colte doveva essersi curvata lungo un sentiero dorato dal sole e annerito
dall'ombra degli elci, nella pace del Monte Orthobene. Chi era? E se era un
uomo? E se era una povera serva? O una bambina scalza che si trascinava addietro
un fascio di legna?
Chiunque fosse, Jorgj si sentiva legato al benefattore sconosciuto. Legato,
legato per tutto il resto dei suoi poveri giorni. Qualcuno gli aveva gettato
il laccio da lontano senza farsi vedere, come il piccolo mandriano che nei
crepuscoli di primavera nascosto fra i cespugli getta il laccio al puledro
indomito.
Il ritorno del servetto lo scosse.
«
Zio Jò, dormite? Adesso accendo il lume. Che occhi avete; sembra che
abbiate la febbre. La levo la cassetta?»
«
No, lasciala lì.»
«
E se viene il dottore, dove si siede? E che dirà? Gli faremo veder tutto?
Ah», aggiunse curvandosi sulla cassetta, «che odore di roba buona!
Però adesso è quaresima e bisogna digiunare. Il prete oggi ha
fatto una predica così bella, ha detto mia madre, che tutti stavano
a bocca aperta. Persino tutte queste diavole di donne che stanno qui intorno
ci vanno. Solo Columba non ci va, io non so perché. Domani arriva lo
sposo per le pubblicazioni, e le porterà i doni; dicevano là,
nella strada, ch'egli si farà accompagnare da due carabinieri, tanto
valore porta...»
Gli occhi di Jorgj si riempirono di lagrime.
«
Ebbene, che tutto sia finito», pensò volgendo il viso al soffitto, «che
ella si sposi e che se ne vada. Dopo, forse, mi ridoneranno la fama... Ma che
importa anche questo? C'è ancora al mondo qualcuno che mi stima, se
mi manda dei fiori...»
Ed era questo pensiero, non la notizia dell'arrivo dello sposo, che lo faceva
piangere: il suo pianto era di amore, non di dolore, e rinfrescava le sue palpebre
come sponde riarse.
Il dottore tardava, quella sera. Finalmente nel silenzio del cortile s'udì un
suono di passi lenti rumorosi e un canto che voleva esser triste e solenne
ed era grottesco come il pianto d'un uomo forte.
Dai campi, dai prati...
Il servetto aprì e l'omone precipitò dentro col suo bastone,
i suoi piedi pesanti, il suo berretto e il suo collo di pelo: forse per effetto
di questo, poiché la notte era tiepida, egli era più rosso del
solito; come un brillante velo di sudore gli copriva il volto e i suoi occhi
splendevano.
Mentre Pretu si teneva fermo davanti allo sgabello pronto a levar la cassetta,
il dottore prese il polso di Jorgj.
«
E va benone! Come passiamo il tempo?»
«
Bene. Leva quella scatola, Pretu.»
La voce del malato era dolce, debole. Il ragazzo sollevò la cassetta
fra le braccia e stette fermo ostinatamente davanti al dottore; ma questi sedette,
allungò la gamba, batté per terra il bastone senza accorgersi
della novità e dell'insolita gioia che traspariva dal viso di Jorgj.
Anche lui era allegro, il dottore, rideva delle cose che raccontava - una avventura
di caccia, una specie di conflitto con le guardie forestali che lo avevano
sorpreso nel bosco a tirare ad una pernice.
«
Ma è il tempo della cova, dottore; perché lei va a caccia adesso?»
«
Ah, ah, è il tempo della cova? Sì, è primavera, hai ragione;
ma che il cacciatore in primavera non è un uomo? È uomo come
tutti gli altri, e va in campagna; e se non caccia che cosa deve fare? mettersi
sotto un albero a sognare una donna? Il cacciatore non è un poeta; egli
ha bisogno di uscire, in queste belle giornate, di lasciare quella galera aperta
che è il paese e respirare aria che non sappia di immondezza. E quando è là,
fuori, dimentica chi è e perché è uscito dal paese; fra
lui e il cielo non c'è che la pernice; l'unico scopo della sua vita,
in quel momento, è di far cadere la pernice. Se questo non avviene egli
soffre, egli non si ritiene più un uomo vivo, un essere che possa spiegarsi
il perché della sua stupida esistenza...»
«
Egli è un selvaggio... Tolstoi...»
«
Andate all'inferno, tu e il tuo Tolstoi, io amo quello che mi pare e piace;
la caccia, il tabacco, il vino se occorre... Tu e Tolstoi non mi seccate...
Io non faccio male a nessuno: gli animali non soffrono; io son qui grande e
grosso e vivrò a lungo, mentre tu col tuo amore per il prossimo ti sei
legate le gambe, hai fatto come le monache che si chiudono da sé in
prigione. Io voglio esser libero, libero - urlava e tutta la stamberga tremava
per i suoi colpi di bastone, - e infischiarmi di tutti, barbari o degenerati
che siate. Io vado dove mi pare e piace, e il cinghiale e il falco sono i soli
nemici che io mi degno di perseguitare. Di voi, uomini, m'infischio; e se domani
voglio fare una pazzia e questa non vi reca male, che v'importa a voi? Io faccio
quello che mi pare e piace!...»
Era inutile discutere: il dottore cambiava spesso d'opinione e urlava quando
era contento. Quella sera doveva essere molto felice: perché? Un sorriso
malizioso increspò le labbra di Jorgj.
«
E lo spirito è ancora riapparso a Margherita?»
L'omone si calmò, non solo, ma ricominciò a ridere e a cantare: «Margherita,
non sei più tu...».
«
Adesso vi racconterò che cosa ha fatto quella scema...»
Pretu si avvicinò silenzioso, fermandosi alle spalle del dottore; l'ombra
delle due teste, una enorme e saltellante come un ragno mostruoso, l'altra
profilata e immobile come un disegno in nero, coprirono tutta la parete in
fondo alla camera.
«
Quella scema dunque è ricorsa alla vostra medichessa, che al solito
le ha fatto bere i suoi intrugli. Pare che questi le abbiano sconvolto l'anima.
Tutti questi giorni la vedevo melanconica e più scema che mai. Oggi,
al ritorno dalla caccia, la trovo buttata per terra, gialla, istupidita: ebbene,
ottimo amico mio, sai cosa mi dice? Che ha un serpe nello stomaco! "Crepa",
le rispondo. E lei piange; mi abbraccia le ginocchia, mi prega di darle il
contravveleno! Le ho dato... due oncie di olio di ricino, e l'ho lasciata che
piangeva ancora. Eppure non è cattiva, ottimo Jorgeddu», i suoi
occhi fissarono quelli dello studente con uno sguardo malizioso e dolce. «Non è cattiva;
tu capisci... o almeno sembra disinteressata...»
«
Lei è un bell'uomo, dottore!»
Il bell'uomo rise di nuovo; pareva si beffasse d'un suo intimo pensiero, ma
anche la vanità, la soddisfazione, la gioia dell'uomo che si crede amato
vibravano nel suo riso sonoro.
«
Tu la credi capace di darsi per amore?», domandò in francese rivolgendosi
a Jorgj come ad un uomo di mondo che potesse meglio di lui conoscer la psicologia
d'un cuore femminile. «Io le ho detto brutalmente che non la sposerò.
Non ho sposato una borghese; figurati se mi metto il giogo per una paesana.
Ella dice che è più contenta così; ha l'anima della schiava...
superstiziosa, barbara, complicata più che un'anima modernissima. La
storiella dello spirito se l'è inventata lei, caro! Io non la chiamai,
l'altro giorno; entrò lei, nel mio studio, e disse che voleva andarsene
perché l'avevo sgridata tre volte in una mattinata. La cacciai via,
le dissi che se se ne andava mi faceva un piacere santissimo. Lo spavento è stato
questo, ottimo amico mio! che io la cacciassi via davvero. Ritornò mogia
mogia, e poco fa... accadde quel che doveva accadere. Ella mi baciava le mani;
le sue labbra ardevano. Dice che mi ama fin da quando aveva dodici anni: pare
che fosse malata, in quel tempo, e che io la curassi con premura... Basta,
basta. La terrò con me, sono contentone; ma sposarla no, non lo sogni
neppure!... "E non sperare neanche nel mio testamento" le dissi.
No, cara, io non credo all'amore delle donne: e neanche a quello degli uomini,
a nessun amore. Non esiste che l'istinto, l'interesse, l'abitudine...»
«
Allora lei un giorno o l'altro, quando sarà stanco, caccerà via
la sua serva...»
«
Questo no, mai!»
«
E se la terra, vuol dire che le vuol bene!... Se la terrà anche quando
non la desidera più vuol dire che l'amore esiste... Sì, sì,
esiste! Gli diamo diversi nomi: dovere, pietà, affetto, compassione,
anche abitudine. In fondo è tutto amore... Esiste! Esiste!»
Egli pensava alle violette, al benefattore sconosciuto, e siccome il dottore
sorrideva guardandolo ironico, finì col rivelargli la causa del suo
insolito entusiasmo.
«
Ascolti, dottore, qualcuno mi ha mandato dei fiori... A me, capisce, proprio
a me... Vuol dire che ho destato pietà a qualcuno, ma vera pietà,
vero amore... Sono così contento che mi sembra di dover da un momento
all'altro guarire... Pretu, fa vedere al dottore...»
Pronto, il ragazzo prese di peso la cassetta e la depose davanti al letto,
ma la scostò subito perché il dottore accennava a frugarvi dentro
col bastone.
«
Lei ride, eppure è così», riprese Jorgj, mentre Pretu rimesso
il pacco sulla cassa levava di nuovo la carta rosa e faceva veder da lontano
gli oggetti al dottore che scuoteva la testa di sotto in su e ridacchiava, «io
sono contento. Mi pare che un ponte sia stato gettato fra l'abisso ove sto
io e il mondo... Se potessi alzarmi... dottore!»
L'uomo s'alzò, batté forte il bastone al suolo e fissò gli
occhi lucenti in quelli del malato, quasi volesse suggestionarlo.
«
Se tu vuoi puoi! Alzati!»
Ma Jorgj sorrise con tristezza.
«
Lei non è Cristo!»
E che fosse un semplice mortale il dottore lo dimostrò avvicinandosi
a Pretu, togliendogli di mano gli oggetti e a sua volta esaminandoli con curiosità e
commentandone la provenienza.
IV.
Zuampredu Cannas, fermatosi a metà strada fra il suo e il paese della
fidanzata, smontò e tolse la briglia alla sua cavalla. Mentre la bestia
si abbeverava al fiumicello, egli si guardò attorno pensando che là forse
avrebbe fatto tappa con la sposa e col corteggio dei parenti quando, dopo le
nozze, avrebbe condotto Columba a Tibi.
Il luogo era adatto alla sosta; poco distante sorgeva la chiesetta ove tanti
anni prima eran state celebrate le paci, e qua e là nella grandiosa
desolazione dell'altipiano qualche quercia circondata di querciuoli come una
madre possente dà figli già grandi e forti, gettava la sua ombra
sul fieno fresco e sulle macchie di ginestra coperte di granellini d'oro. Anche
gli oleandri che seguivano la linea del fiumicello cominciavano a coprirsi
di bocciuoli rossi; tutto era dolce e puro in quel luogo di pace.
«
Se si parte presto, si può far qui anche un piccolo banchetto»,
pensa il grosso fidanzato volgendo qua e là i begli occhi castanei mentre
la cavalla si scuote e dalla sua briglia sprizzano goccie scintillanti. «C'è la
legna, c'è l'acqua: si potrebbero cuocere anche i maccheroni.»
E gli sembra di veder i cavalli legati alle quercie, Columba seduta sull'erba,
il fuoco acceso fra tre pietre e uno spiedo che gira accanto alla brage. Soddisfatto
egli rimonta in sella, e in breve la sua figura che a cavallo sembra imponente
ed ha qualcosa di barbarico e di patriarcale assieme, diventa una macchietta
nera, la sola che si muove nell'immensità deserta del paesaggio sullo
sfondo dei vapori azzurri e rossi dell'orizzonte. Anche le macchie e le pietre
formano un solo profilo nero su quello sfondo sempre più rosso; è il
crepuscolo, l'ora delle fantasmagorie; ma il fidanzato conosce bene la strada
e va dritto, con le mani sul pomo della sella, gli occhi pieni della visione
calma e lucida del suo mondo interno. Il suo mondo interno è la distesa
delle «sue» tancas coperte d'erba, di asfodelo
per pascolo, di quercie sugherifere, popolate di vacche, di vitelli, di giovenchi,
di servi, di cavalli, di cani; in fondo sorge il villaggio nero, con la «sua» casa,
il granaio, le cucine, il cortile, l'orto. Anche la figura di Columba, anima
questo mondo, un po' incerta però, come velata. Ma a misura che egli
s'avvicina al villaggio, che ne vede i lumi e sente qualche voce lontana, la
figura si fa più distinta, s'ingrandisce, si muove.
«
Sarà contenta dei doni?», egli si domanda quasi con tenerezza. «Non è molto
allegra, Columbedda, ma meglio così. Anche l'altra, la beata morta,
era una donna seria. Ma era sempre malata, piccola meschina; mentre Columba è sana,
agile. Farà molti figli; il primo lo chiameremo Zuanne Zoseppe, come
mio padre; il secondo Remundeddu. Se avremo sei figli a ciascuno toccherà una
metà di tanca e venti vacche figliate e qualche altra
cosa; eppoi il patrimonio aumenterà, perché Columbedda è seria
e solerte e non ha bisogno di rimettersi in mano alle serve, come fanno tante
altre. Inoltre, Dio aiutandoci, i ragazzi potranno sposarsi bene».
Egli si vedeva già circondato di figli agili e forti come lioncini:
questo era stato sempre il suo sogno, l'unico dispiacere che aveva turbato
il suo primo matrimonio. È vero che anche Banna non aveva figli; sì,
ma il marito di lei non era da paragonarsi a lui, Zuampredu Cannas, forte e
robusto (se non agile) come un leone.
E con la calma solenne del leone che va in cerca della sua leonessa smontò davanti
alla casa di Columba. Era già sera; qualche filo di luce usciva dalle
casupole silenziose e rischiarava la strada; un ragazzetto - Pretu - scese
di corsa dal viottolo della fontana e vedendo il nuovo arrivato si fermò a
curiosare.
Columba uscì sul portone con un lume in mano; Banna si affacciò alla
finestra.
«
Dio ti guardi, Zuampredu Cannas, bene arrivato!»
«
Come state, piccole donne?», egli domandò rozzo e timido nello
stesso tempo.
Eccola, adesso la vedeva bene, intera e distinta, la sua Columbedda: un po'
pallida e seria, ma calma e sicura anche lei come una lionessa. Senza guardarlo,
come se si trattasse di un semplice ospite, ella lo aiutava a togliere le bisacce,
la briglia e la sella alla cavalla. Non dimenticò neppure di domandare:
«
Ha bevuto? O la facciamo bere?».
«
Ha bevuto, sì, al rio, non ha sete. E zio Remundu?»
«
Adesso verrà. Entra e siediti.»
Con le bisacce in mano egli entrò nella cucina e cominciò a chiacchierare
con Banna che gli si aggirava attorno con le mani entro le spaccature della
gonna e non era avara di sguardi, di parole, di esclamazioni. Ma al vedovo
piaceva assai più il contegno taciturno di Columba. Ecco una donna che
non avrebbe perduto tempo con le sue vicine di casa.
Ma rientrato il vecchio, Zuampredu non diede più attenzione alle donne.
Dal canto suo zio Remundu lo fissava con affetto e con ammirazione, stringendogli
forte la mano.
«
Siediti, Zuampredu Cannas! Parla col cuore in mano, poiché sei in casa
di gente che apprezza i tuoi meriti. La tua cavalla è collocata bene?
Le hai dato da mangiare, Colù?»
Volle assicurarsi coi propri occhi e uscito nel cortile palpò i fianchi
della cavalla.
«
Sta bene», disse rientrando. «È grassa, adesso; pare gravida.»
«
Sì, lo è», rispose Zuampredu pensieroso. «Perciò ho
camminato piano; non voglio che perda il puledro come l'anno scorso.»
«
Una volta io ho avuto una giumenta che quando era in quello stato voleva sempre
camminare», rispose il vecchio; e mentre Columba aiutata da Banna apparecchiava
la tavola i due uomini parlarono di cavalli e di vacche come se null'altro
esistesse al mondo.
D'altronde Columba dopo le prime frasi di saluto non aveva più rivolta
la parola al fidanzato, e Banna, che nel pomeriggio aveva veduto Pretu fermo
a parlar con la sorella, frenava a stento la sua rabbia.
«
Ogni volta che quel piccolo ruffiano si ferma davanti alla nostra porta pare
che Columba veda un uccello di malaugurio», pensava. «Tace, ha
gli occhi cupi e sembra che una malìa la opprima.»
Anche lei provava la stessa penosa impressione che talvolta rattristava il
nonno; le pareva che un pericolo li minacciasse; allora per nascondere i suoi
timori fingeva un'allegria maligna e il suo viso prendeva un'espressione enigmatica,
di cattiva sfinge. Ma Columba conosceva quella maschera e aspettava una sola
parola per prorompere, per ribellarsi, pronta alla lotta come la fiera che
solo il fascino del domatore tiene apparentemente soggiogata.
Apparecchiata la tavola Banna andò via perché aspettava il ritorno
del marito dall'ovile, e i due uomini serviti da Columba cominciarono a mangiare.
«
Sì, ti dico, Zuampredu Cannas, una volta m'era venuta in mente l'idea
di comprar cavalli e di rivenderli: tutti mi portavano a vedere le loro bestie
e tutti cercavano d'ingannarmi. E uno non tinse il suo cavallo canuto, come
fanno certe donne coi loro capelli, a quel che ho sentito raccontare?... Rido
ancora pensandoci. No, figlio mio, ognuno deve fare il suo mestiere; ognuno
deve calzare le scarpe che van bene al suo piede...»
Il vedovo approvava, guardando di tanto in tanto le sue bisacce e sembrandogli
che Columba fosse di cattivo umore perché egli tardava a tirar fuori
i doni.
L'arrivo del marito di Banna parve mettere un po' d'allegria intorno.
«
E benvenuto sia lo straniero!», gridò stendendo al vedovo la sua
rozza mano con le dita aperte. «Dove sono questi regali, di cui mia moglie
parla notte e giorno a bocca aperta?»
Banna, che lo seguiva, lo urtò alle spalle, ma Zuampredu si alzò felice
e timido, per prender la bisaccia piccola, quella che sembrava di seta ricamata;
la mise sopra una sedia e ne trasse un cofanetto d'asfodelo legato entro un
fazzoletto rosso. Mentr'egli disfaceva i nodi strettissimi aiutandosi coi denti
Banna pensava:
«
Saranno i gioielli della sua prima moglie!», e il marito volendo al solito
scherzare disse:
«
Tu avevi lasciato in cucina quella bisaccia? Così si lascian queste
cose?».
«
Era in luogo sicuro!», disse gravemente il fidanzato.
Ma il vecchio sospirò ostentatamente e come una nuvola si alzò davanti
agli occhi di Columba; né il fulgore dei gioielli che piano piano, con
cautela, quasi esitando il fidanzato traeva dal cofanetto e deponeva davanti
a lei sulla tovaglia valse a dissiparla.
Dapprima furono due bottoni in filigrana d'oro, simili a due fragole gialle
unite fra loro da un nastrino verde; poi altri bottoni in argento per le maniche
del giubboncello, spille, un rosario di madreperla con una medaglia bizantina
applicata sopra una croce d'oro; una collana di corallo che sembrava fatta
di goccie di sangue; e infine orecchini e anelli con predas de ogu [16],
d'un rosso pallido sfumato in avorio come i petali non ancor dischiusi della
rosa, o con pietre gialle e verdi liquide e brillanti come goccie di rugiada
e di miele. Eran tutti gioielli antichi, pesanti e quasi rozzi, fatti apposta
per esser toccati da dita ruvide come quelle di Zuampredu Cannas. Banna gettava
un grido di ammirazione ad ogni gioiello che veniva fuori dal cofanetto; i
suoi occhi brillavano come riflettendo il luccichìo dell'oro e delle
pietre, mentre Columba guardava immobile, pallida, affascinata ma non commossa
dalla ricchezza dei doni.
Il vecchio guardava anche lui; non s'intendeva di simili cose e disprezzava
le cianfrusaglie, ma sapeva che accettando i doni Columba s'impegnava a sposare
il Cannas; presiedeva quindi con una certa solennità alla cerimonia
così semplice in apparenza ma che aveva un profondo significato. Ma
Columba taceva troppo, e di nuovo un lieve imbarazzo si sparse sul viso di
tutti. Banna disse, toccando gli anelli:
«
Misura, sorella mia, misura, non vedi che sembran gli anelli della Madonna
del Miracolo?»
Li misurava lei, mentre suo marito prendeva un grappolo di bottoni, li pesava
sul palmo della sua mano e diceva:
«
Scommetto che valgono quanto un branco di pecore!». E il nonno cominciò a
raccontare una storia:
«
In quei tempi, quando avevo le ginocchia svelte e giravo, incontrai un pastore
di Dorgali che mi raccontava i fatti suoi. Egli dunque s'era sposato, poco
tempo prima, e per "donare" la sposa aveva venduto il suo gregge.
Sì, cento pecore aveva, cento ne vendette; e comprò i gingilli,
ed ecco che non aveva più gregge, e due giorni dopo le nozze la sposa
gli disse: "bello mio, perché non vai all'ovile a guardare il tuo
gregge?" Egli rispose: "bella mia, il nostro gregge è dentro
la tua cassa!" Ma la sposa non era una sciocca: vendettero i gingilli
e ricomprarono il gregge!».
«
Zuamprè!», gridò il cognato, «tu certo non hai fatto
così!».
«
Marito mio, perché dici queste scempiaggini? Neanche per scherzo devi
dirle! Sorella mia, Columbé, misura...»
Columba pareva immersa in un sogno: lentamente aveva steso le mani brune e
toccava i gioielli, ma quasi furtivamente, come un ladro che è tentato
a prender un oggetto prezioso ma ha paura. A un tratto però decidendosi
all'improvviso allargò le dita e misurò gli anelli; ma tutti
erano larghi ed alcuni parevano anelli di gigantessa tanto erano grossi e pesanti.
Ella si mise a ridere: scosse la mano con le dita in giù, e gli anelli
ricaddero sulla tovaglia fra i bottoni aggrovigliati come grappoli d'oro e
d'argento.
Il vedovo disse goffamente:
«
Eh, non sapevo che avevi le dita così magre!».
Ella sollevò gli occhi e cessò di ridere.
«
Si vede che non mi guardi, Zuampredu Cà! Bene, non importa; farò stringere
gli anelli.»
Ma il cognato strizzò gli occhi maliziosi e disse:
«
Ingrosserai, va, ingrosserai tanto che ti verranno stretti!».
Il fidanzato diventò rosso per il piacere, mentre Columba, riabbassati
gli occhi, tornava a misurarsi gli anelli cercando i più stretti e Banna
contava i bottoni.
Dopo cena mentre i tre uomini continuavano a bere parlando di bestiame, Columba
raccolse i gioielli entro il cofanetto e li portò su, nella sua camera;
contò ancora una volta i bottoni e gli anelli, pesò con la mano
la croce d'oro, poi chiuse tutto nella cassa ove erano i suoi vestiti da sposa
e portò via la chiave.
Quando fu nel suo letto alto e duro ricominciò a pensare alle cose che
le aveva detto Pretu, poche ore prima che arrivasse il fidanzato. Anche Jorgj
aveva ricevuto un regalo di valore; cose tanto belle che non si potevano neanche
descrivere. Da chi? Da una donna certo... forse da qualche antica innamorata
o da qualche donna con cui egli aveva avuto relazioni segrete... Una strana
gelosia le pungeva il cuore, le dava l'insonnia; immobile sul suo materasso
di lana dura come il crine, guardava con occhi spalancati il chiarore grigiastro
della piccola finestra e cercava di scacciare il molesto pensiero, ma non poteva,
non poteva... Il regalo misterioso ricevuto da Jorgj la interessava più che
i doni recati a lei dal suo fidanzato.
L'indomani mattina il nonno e i due fidanzati salirono al Municipio per le
pubblicazioni. I due uomini camminavano avanti; i passi del vecchio risuonavano
forte nel silenzio della strada in pendìo: Columba seguiva, a testa
alta, con quell'atteggiamento fiero quasi selvaggio ch'ella prendeva davanti
alla gente. Banna dalla sua finestruola e tutte le vicine di casa dalle loro
porticine seguivano con uno sguardo di curiosità quei tre che se ne
andavano tranquilli come se i passi che facevano fossero eguali a quelli degli
altri giorni...
Era un mattino luminoso, senza vento, senza nuvole; i gridi degli uccelli vibravano
nell'aria pura e in lontananza s'udivano passi di cavalli, belati di capre,
l'abbaiare dei cani: tutto era chiaro e tranquillo e anche Columba si sentiva
quasi felice. No, non erano passi eguali a quelli degli altri giorni quelli
che faceva! Le sembrava di allontanarsi dal passato e di andare verso giorni
migliori; solo le dispiaceva di passare sotto le finestre di zia Giuseppa Fiore...
Ma le finestre e la porta di zia Giuseppa eran chiuse, ed ella passò oltre
rispondendo con un cenno di testa al saluto dei vecchioni seduti sulle panchine.
Davanti al Municipio s'aggruppavano molti paesani, decifrando un avviso applicato
alla porta; uno di essi, un pastore che aveva un tempo fatto la corte a Columba,
raccolse alcuni granelli di sabbione e li buttò in aria come si usa
coi grani del frumento quando passa una sposa per augurarle abbondanza.
Gli uomini risero, ma Columba trasalì e guardò bieca il giovinotto,
sembrandole che i paesani si burlassero di lei e del fidanzato vedovo, e che
quei granelli di sabbione le augurassero mala fortuna.
Il nonno e Zuampredu precedevano sempre; non s'erano accorti di nulla; ma quando
Columba li raggiunse, nella sala d'ingresso al primo piano, il fidanzato vide
che ella aveva ripreso la sua solita aria cupa.
Alcune donne aspettavano d'essere ricevute dal Commissario per domandargli
la revoca di un editto col quale egli proibiva che nelle strade del paese si
lasciassero liberi, come per lo innanzi, maiali, capre, asini ed agnelli; una
di loro, una vedova imponente dal forte profilo maschio, con la testa avvolta
da una benda e con un rotolo di carta in mano come nei ritratti della grande
Eleonora d'Arborea, diceva con sussiego ironico:
«
Se missignoria il Commissario terrà l'ordine che
non passino animali, nella strada non si vedrà più nessuno».
Zio Remundu allora s'avvicinò.
«
E che, anche tu ti metti nel numero delle bestie, Maria Antonia Pirastru?»
«
Dicevo per gli uomini soltanto, Remundu Corbu!»
Tutti compreso l'usciere si misero a ridere e discutere; Columba, verso cui
le donne nonostante le loro chiacchiere volgevan gli occhi curiosi, profittò di
quel momento di generale distrazione per uscire nel corridoio che dalla sala
d'ingresso metteva nelle stanze d'ufficio. Anche là seduti sulle panche
sucide alcuni postulanti aspettavano il loro turno, rigidi nei loro cappottini
neri d'orbace dalle maniche strette; parevano compresi dal rispetto del luogo,
ma quando videro Columba la salutarono con un rozzo cenno del capo, da sotto
in su, e un vecchio le domandò:
«
E che fai qui, Columba?».
Allora ella andò in fondo al corridoio e uscì in un balcone che
ne rasentava un altro dell'attigua casa di zia Giuseppa Fiore. Di lassù si
vedeva la parte occidentale del paese, la chiesa nera e grigia fra le roccie,
lo sfondo del paesaggio chiuso dalla linea dell'altipiano: la luce del mattino
coloriva d'azzurro tutte le cose, il sole dorava i vetri delle finestruole,
e in una di queste, in una casupola nera sgretolata, si sporgeva una bella
fanciulla in corsetto di panno giallo: tale un ranuncolo fiorente sul muro
di una rovina.
Ma tutta l'attenzione di Columba si fermava al balcone attiguo le cui imposte
erano aperte; una scarpetta bianca stava sullo scalino, ed ella la fissava
come un oggetto straordinario e si sentiva battere il cuore. A un tratto altre
due scarpette nere con la fibbia dorata apparvero accanto alla prima. Columba
si scostò fino all'angolo più lontano del balcone con un moto
quasi di paura ma immediatamente ebbe coscienza di ciò che provava e
s'irrigidì. Perché doveva aver paura di quella piccola ragazza
straniera che si permetteva di immischiarsi nei fatti altrui?
Eccola, appunto! Scende con un piccolo salto lo scalino e si ferma sul balcone,
a tre metri di distanza da Columba. Sembra una bambina, con la sua veste bianca
corta, i capelli neri e lucenti annodati con due nastri sulle orecchie, il
viso pallido e pienotto emergente da un alto colletto verdognolo a due punte
come un bocciolo di rosa dal calice spaccato. I suoi grandi occhi d'un nero
dorato hanno come una perla in fondo alla pupilla, e si volgono rapidamente
in giro, prima seguendo il semicerchio dell'orizzonte, posandosi poi sulla
chiesa, poi sulla ragazza dal corsetto giallo, finalmente su Columba.
Columba sente quello sguardo pungerla come un pugnale, e prova dolore e rabbia
sembrandole che la straniera ripeta a voce alta in modo che tutto il paese
la senta, le parole dette alla cucitrice: «Come quella ragazza non si
vergogna di sposarsi mentre un uomo muore per colpa sua?».
Offesa, piena d'ira, vorrebbe rispondere, ripetere anche lei tutte le proteste
e le ingiurie che da giorni e giorni rivolge col pensiero alla straniera; ma
non può, una specie di fascino la tiene immobile aggrappata al balcone
sotto lo sguardo scintillante della sua nemica.
La sua emozione era tale che ella non si accorse neppure di Zuampredu che la
cercava e la chiamava.
«
Columbé? Andiamo, che fai lì? Ci hanno già chiamato.»
«
Guardavo», disse con voce velata, come uscendo da un sogno.
Lo seguì; ma nel corridoio, nella sala d'ingresso e in quella delle
udienze due scintille vagavano sempre per aria davanti a lei come quei punti
luminosi che si vedono dopo aver fissato il sole.
Zuampredu Cannas e il nonno stavano fermi davanti a un tavolo verde: il Segretario
seduto dall'altro lato sollevava di tanto in tanto dal suo registro il viso
bruno barbuto che faceva contrasto col cranio nudo e bianco, e domandava qualche
cosa. Columba, seduta anche lei accanto al tavolo, sentiva le parole del nonno,
di Zuampredu, del Segretario, rispondeva quando questi la interrogava, ma col
pensiero assente.
Il nonno la toccò lievemente sull'omero come per richiamarla dal sogno
in cui sembrava caduta. Ella si scosse e lo guardò negli occhi come
per rassicurarlo.
«
Non inquietatevi se mi vedete così; oramai tutto è concluso,
tutto è finito», pareva gli volesse dire.
Il Segretario mise un gomito sul tavolo, la penna dietro l'orecchio e tese
la sua grossa mano di paesano a Zuampredu Cannas, facendogli i suoi augurii.
Sì, tutto era concluso, se non finito. Ed ecco i tre se ne andarono
tranquilli e in apparenza felici, i due uomini precedendo, la fidanzata seguendoli,
mentre la voce dell'usciere gridava:
«
Ohé, feminas, avanti...», e le donne spingevano
verso la sala delle udienze l'imponente vedova col rotolo in mano.
Nell'atrio i paesani discutevano a voce alta, molta gente saliva e scendeva
le scale ridendo e parlando come in luogo pubblico; solo Columba conservava
la sua aria pensierosa e provava un vago terrore nell'attraversare quel luogo
che il popolo considerava come casa sua, o almeno come un rifugio ove si potevano
far valere i propri diritti, mentre a lei sembrava un luogo fatale ove era
entrata libera e dal quale usciva legata per tutta la vita ad un uomo che non
amava.
Nella strada in pendio la serva del dottore, di ritorno dalla fontana, la raggiunse
e le domandò con premura:
«
Fatto?».
«
Fatto.»
«
Quando vi sposate?»
«
A Pentecoste.»
Margherita fissava la corta e rozza figura di Zuampredu che rassomigliava all'ombra
di zio Remundu; i suoi occhi ardenti brillavano di malizia ed a Columba, che
diffidava di tutto, quello sguardo pareva di beffa.
«
Anche tu, dicono, ti sposerai presto», le disse per vendicarsi. «Il
tuo padrone non è una bandiera, ma è dottore e ricco.»
Margherita dapprima si mise a ridere, poi si fece scura in viso.
«
Le male lingue dicono molte cose, Colù! Dicono persino che tu ti sposi
per dispetto, perché Jorgeddu ha una ricca dama che lo aiuta e gli vuol
bene...»
Columba non rispose per paura che l'altra alzasse la voce e si facesse sentire
da Zuampredu, ma la urtò guardandola con disprezzo: allora la serva
rise di nuovo, mentre l'acqua si spandeva dai vasi di sughero ch'ella reggeva
uno per mano e le bagnava l'orlo verde della gonna.
Così tutto contribuiva a indispettire Columba, e mentre ella faceva
i preparativi per le nozze dando gli ultimi punti al corredo o spezzando le
mandorle per i dolci, calma e fredda in apparenza, bastava una parola, spesso
anche un rumore nella strada o nel cortile, per renderla inquieta.
Il giorno di Pasqua un servo di Zuampredu Cannas le portò a nome di
questi un agnello vivo, un cestino di arancie e altri doni. Il servo, un uomo
alto e robusto dalla testa possente, conosceva tutti gli affari del padrone
del quale parlava con entusiasmo.
Seduto in mezzo alle sue bisacce, ancora con gli speroni ai piedi, si guardava
attorno osservando come tutto era in ordine in quella cucina di benestanti,
e sputava sul pavimento dicendo a Columba e a zio Remundu:
«
Il mio padrone è un'aquila, mettetevelo bene in testa: anche quando
sembra distratto è come l'aquila che ha le ali piegate e par che dorma,
e invece pensa a spiccare il volo. Ora dovete anche sapere che egli è dritto
come quel bastone vostro, zio Remù! Dritto! Non si piega né da
una parte né dall'altra: è buono, ma quando sa che una cosa è ingiusta
non perdona neanche se gli cavate gli occhi... Ora dovete sapere...».
«
Sappiamo tutto!», disse Columba con voce quasi irritata; ma il servo
non si offese, anzi la guardò con rispetto, poiché ella parlava
come fosse già la moglie legittima di Zuampredu Cannas.
Ma dopo un momento egli cominciò a enumerare le cose che possedeva il
suo padrone, gli alveari, i capi di bestiame, il frumento che aveva in casa,
tutte le sue ricchezze e la sua abilità. Banna, sopraggiunta, ascoltava
immobile fingendo un interesse straordinario e dando ogni tanto in gridi di
ammirazione che irritavano Columba.
Incoraggiato, il servo cominciò a esagerare.
«
Ora dovete sapere che egli, il mio padrone, è forse e senza forse il
miglior tiratore di tutta la Sardegna. Egli vede un cinghiale che scappa? Dice: "lo
voglio ferire sotto l'orecchio"; e spara, e anche se il cinghiale è dietro
un cespuglio la palla lo ferisce sotto l'orecchio. Una volta, vi racconterò...»
Ma il vecchio, toccato su quel tasto sensibile, sorrideva con lieve ironia.
«
Ti racconterò io», interruppe appoggiando le mani al suo bastone
lucente, «nei bei tempi, quando le mie ginocchia erano agili come rotelle
a cui si sia dato l'olio, un tale fu accusato di aver mirato sul suo nemico
senza colpirlo; quando egli si presentò alla giustizia sai cosa rispose
per sua sola difesa: "Sentite, gente, voi che capite la ragione: se io
avessi mirato quest'uomo" l'accusatore era presente all'udienza "egli
adesso non sarebbe qui!" E fu assolto.»
«
Quel tale eravate voi, lo sappiamo! Eravate un gran tiratore» disse l'uomo
commosso nonostante la sua ammirazione per Zuampredu Cannas.
Il vecchio sorrise con modestia, pago di aver rintuzzato la vanagloria del
servo. Più tardi Banna uscì nella strada e cominciò a
chiacchierare con le vicine, imitando il servo.
«
Ora dovete sapere che sorella mia, Columba mia, sarà più ricca
di donna Iuannicca Fiore... dovete sapere che in casa di Zuampredu Cannas la
roba s'ammucchia come nelle sagrestie delle chiese ove sian state portate le
decime...»
«
A chi molto e a chi niente, nel mondo», sospirò una vecchia: e
il mendicante seduto sulla sua pietra col rosario in mano guardava fisso il
gruppo delle donne con uno sguardo sospettoso.
Zio Remundu rientrò e andò a guardare il suo cavallo che quel
giorno era stato molto irrequieto per la vicinanza del cavallo del servo.
«
Quasi quasi me ne vado via stasera, la notte è chiara e calda»,
disse a Columba. «Preparami i viveri per il pastore.»
Il servo era partito, Columba stava per rientrare quando vide la figurina di
Pretu balzar fuori dal cortile, unirsi al gruppo delle donne e sogghignare
ascoltando Banna che descriveva i regali mandati da Zuampredu.
«
E cosa sono due arance e un agnello?», egli si mise a gridare. «Altro
che così ne ha ricevuto oggi il mio padrone; una cassetta di frutta
che sembran fresche e son tutte di miele; e altre cose ancora... e che vengono
da lontano... da lontano e perciò son più buone...»
«
Vattene via, bugiardo», strillò Banna, «vattene via, bavoso!».
Ma la vecchia che poco prima si era lamentata gemé di nuovo:
«È
vero, ho veduto io il vetturale. A me nessuno ha mandato una coscia di capra...».
«
Quando si sposa sorella mia vi daremo tutta la carne che vorrete. Ammazzeremo
tre vacche e dieci capre, e distribuiremo la carne ai buoni amici ed ai buoni
vicini», disse Banna, che voleva distoglier l'attenzione di Columba dalle
chiacchiere di Pretu; ma alle donne, più che le sue promesse, premevano
i regali misteriosi ricevuti dal malato, e tutte si rivolgevano al ragazzo
interrogandolo.
«
Sì, il mio padrone ha amici in tutte le parti del mondo. Anche oggi
ha ricevuto una lettera, ed era tanto bella che lui rideva e piangeva nel leggerla.»
Columba, sebbene il nonno stesse già a sellare il cavallo, non si muoveva
dalla porta. Banna disse:
«
Vattene via, bavoso. Sarà qualche elemosina, quella che vi faranno...».
«
Qualche elemosina? Se il mio padrone ne volesse la sua casa sarebbe piena come
un forno. Ma lui non ne vuole. Son regali quelli che gli mandano. C'è una
gran dama, a Roma... E anche qui... anche qui...», aggiunse con accento
di mistero, «vedrete cosa succederà qui...»
La vecchia, che invano aveva aspettato dai Corbu un regalo per Pasqua, disse: «Ho
sentito dire che il Commissario in persona andrà a visitare il povero
Jorgeddu. Sì, anima mia, c'è ancora gente caritatevole nel mondo.
Io sono povera, ma se il malato volesse potrei anch'io dargli qualche piccola
cosa...».
«
Oh, se egli ne volesse, tutti, tutti gliene darebbero, persino Dionisi!»
«
Io penso sia la sorella del Commissario a mandar regali a Jorgeddu» riprese
la vecchia. «Sì, quella è caritatevole: a una figlia di
Caterina Farre dà due lire perché stia ferma un momento davanti
a lei, per dipingerla...»
«
Ah, questo non vuol dire. A Margherita voleva dare dieci lire; ma voleva dipingerla
nuda!»
Banna diede un grido selvaggio d'orrore e si ritirò scandalizzata; allora
Pretu s'avvicinò a Columba che rimaneva come pietrificata sulla soglia
e le disse:
«
Datemela, un'arancia, dunque! Non mi darete il mondo!».
«
Passa più tardi», ella mormorò.
Più tardi Pretu ripassò. Il nonno era partito, le donne s'erano
ritirate, in lontananza s'udivano i canti e le grida degli ubbriachi che avevan
festeggiato la Pasqua bevendo come otri: coppie di amici (in quel giorno tutti
erano amici e compari) passavano ancora nella straducola, sostenendosi a vicenda,
chiamandosi scambievolmente frate meu e accomodandosi sul
capo la berretta che non voleva star ferma. Tutti avevano le tasche gonfie
di arancie da portare ai loro bambini e alle loro donne; pareva che un soffio
di allegria e di amore passasse sul paesetto disperdendo gli ultimi ricordi
di odio: persino i canti degli ubbriachi avevano una cadenza di tenerezza selvaggia.
«
Me la date dunque quest'arancia?», susurrò Pretu dalla fessura
della porta.
E per la prima volta dopo che Jorgj era malato Columba fece entrare il ragazzo.
Il cuore le batteva come ai bei tempi quando ella riceveva lo studente all'insaputa
dei suoi; alla sua angoscia si mischiava un senso di tenerezza, di dolcezza,
come nei canti degli ubbriachi nella via.
Il ragazzo si guardò attorno inquieto, ma fu un attimo; tosto ritornò tranquillo
e anche senza essere interpellato riprese a chiacchierare raccontando tutto
ciò che Columba voleva sapere.
«È
il terzo regalo che riceviamo», cominciò, facendo scorrere da
una mano all'altra l'arancia gialla e pesante che Columba gli aveva dato. «Se
continua così diventiamo ricchi e non c'è bisogno di vender la
casa. Giovedì, giusto, è arrivato il secondo regalo: zucchero,
caffè, candele, burro, datteri; sulle prime lui rideva e diceva: deve
essere la figlia di un botteghiere [17], ma ecco a un tratto
lo vedo diventar bianco più di quello che è, capite; in una scatola
c'era un biglietto, e lui lo leggeva e tremava. Poi scrisse, scrisse fino alla
notte e mi mandò a portar la lettera al vetturale, poi mi disse di lasciare
la porta del cortile aperta: si vede che aspettava qualcuno. Oggi arriva un
altro regalo e un'altra lettera; egli rideva e piangeva, leggendola; è allegro
come un uccellino quando sta per volare; pare che si debba muovere e guarire; è persino
rosso in faccia.»
Seduta al posto ove il servo del fidanzato aveva a lungo enumerato le virtù del
suo padrone Columba ascoltava intenta, mentre i suoi occhi brillavano di curiosità e
di gelosia.
«
Tu, Pretu, chi credi possa essere?»
«
Chi?»
«
Ma di chi parli, castigato [18]? Dico, la persona che manda
i regali.»
«
Io non lo so, zia mia!», egli disse, lanciando in alto l'arancia e riprendendola
nel cavo delle mani.
«
Da' retta a me, lascia l'arancia: credi tu che egli lo sappia?»
«
Chi, ziu Jorgj? Eh, certo, lui lo saprà!»
«
Ma sopra la lettera che tu hai portato al vetturale cosa c'era scritto?»
«
Non c'era scritto nulla! Si vede che quel diavolo sa tutto.»
«
Credi tu che sia la sorella del Commissario? Lui, ne parla?»
«
Sì, lui domanda sempre come è fatta questa ragazza. Io l'ho veduta
anche oggi, su in piazza, che passeggiava col prete e col Segretario; sì, è bella.
Mi ha anche sorriso.»
«
Credi tu che sia lei?»
«
Io non lo so, zia mia! Può darsi», rispose Pretu dando un morso
alla buccia dell'arancia. «Una donna è, quella che manda i regali,
lui stesso, zio Jorgj, lo dice. Ho sentito che diceva al dottore: "se
essa venisse mi pare che potrei alzarmi!". E quel matto del dottore rispondeva: "sicuro,
sicuro!". Sarebbe una cosa curiosa!»
Columba, coi gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate, si morsicava le
nocche delle dita. Dopo un momento di esitazione domandò:
«
E di noi parla ancora?».
«
Chi, zio Jorgj? Mai.»
«
Dimmi la verità, idiota; se no guai a te...»
«
Vi giuro che non ne parla! Io spesso gli dico: "Columba, quella che dovevate
sposar voi, spezza le mandorle per fare i dolci dello sposalizio": e lui
zitto. Prima qualche volta ne parlava; adesso più...»
«
Ebbene, che m'importa?» gridò a un tratto Columba, balzando in
piedi pallida d'ira contro se stessa che non sapeva frenare la sua stupida
curiosità. «Be'», aggiunse riaprendo la porta «adesso
vattene, chiacchierone. Perché sei venuto dentro? Vattene, e non parlare,
perché se no ti scortico la nuca con le unghie...»
Nonostante questa minaccia Pretu indugiò ad alzarsi; si levò la
lunga berretta e vi gettò dentro l'arancia, indi sollevò verso
Columba i begli occhi maliziosi.
«
Datemene un'altra, dunque; la porterò al mio fratellino Bore che se
la succhierà come una tetta...»
Ma Columba incalzava:
«
Vattene, vattene», ed egli si alzò a malincuore e se ne andò.
Ella chiuse la porta e si rimise a sedere al posto di prima. Le faceva male
il cuore, il respiro le mancava; le pareva di esser sola in mezzo al mondo
e che qualcuno avesse vuotato intorno a lei tutte le cose, come il servo aveva
vuotato le sue bisacce. Le tancas, le vacche, gli alveari,
le case, tutto era senza valore; tutto le appariva inutile poiché il
disgraziato Jorgj piangeva e rideva leggendo le lettere di un'altra donna.
E la passione che la urgeva le sembrava fosse ancora il dispetto, l'odio contro
l'uomo da cui si riteneva offesa e abbandonata; ma già una voce misteriosa
echeggiava in fondo alla sua coscienza, una voce selvaggia e tenera come quella
degli ubbriachi che cantavano in quella sera d'amore, ed ella si accorgeva
d'esser vissuta fino a quel momento come uno che ha smarrito la strada e si
ostina ad andare avanti senza chiedere indicazioni a nessuno e più va
innanzi più si smarrisce.
V.
Quando Pretu rientrò il padrone rileggeva ancora le letterine misteriose,
ma per non farsi scorgere dal servetto le chiuse fra le pagine del libriccino
e si mise a leggere i Salmi.
Qualcosa d'insolito rendeva meno triste la stamberga. L'odore dei canditi che
usciva dalla cassa, l'alito primaverile che entrava dalla porticina, scacciavano
il tanfo dell'umido e della miseria. Il malato, la cui testa delicata aveva
sul candore delle foderette inviate dalla misteriosa donatrice un'aria quasi
angelica, cominciò a leggere a voce alta i versetti del suo libriccino.
«
Non lasciar l'anima tua in preda alla tristezza e non opprimere te stesso coi
tuoi pensieri.
Abbi compassione dell'anima tua, per piacere a Dio, e manda lungi da te la
tristezza. Perocché dessa ne ha uccisi molti e non è buona a
nulla, e la letizia allunga i giorni dell'uomo.»
Con l'arancia dentro la berretta che gli scivolava dalla testa, Pretu intanto
preparava la cena e chiacchierava.
«
La Pasqua dunque è passata, sia lodato Dio. A mia madre han regalato
una coscia di capra; voleva darmene da portar qui, ma io le dissi: "noi
non vogliamo nulla da nessuno!". Sì, zia Giuseppa Fiore ha ammazzato
una vacca, per dar la carne ai poveri; però il filetto e le parti migliori
se le ha tenute lei, che una palla le trapassi il garetto! A mia madre, poi,
mio padre ha regalato cinque arance; ma aveva una sbornia, una sbornia come
non s'è visto mai. Egli però ha il vino buono; ride e dorme;
dorme e ride. Ecco una delle arance: ve ne darò la metà; due
spicchi li porterò a Bore, fratellino mio. Se vedeste come succhia l'arancia:
sembra un'ape sopra un fiore.»
Egli trasse l'arancia e cominciò a spaccarla, mettendo a parte la buccia
per portarla a sua madre.
«
Essa farà l'aranciata, ve ne serberò un pezzetto. Intanto, volete
assaggiare?»
Porse timidamente la metà dell'arancia, sospettoso che Jorgj ne indovinasse
la provenienza, ma il malato, il cui pensiero vagava nell'infinito spazio dei
sogni, prese appena uno spicchio succhiandolo senza smetter la sua lettura.
Solo più tardi mentre sorbiva la minestra di latte preparata dal ragazzo
si guardò attorno e disse:
«
Son sporche, sì, le pareti; bisogna far imbiancare; poi tu laverai bene
il tavolo, la cassa, la porta...».
Sulle prime il servetto non rispose; ma a un tratto sorrise malizioso e disse
d'un fiato:
«
Lo so chi aspettate. Il Commissario e sua sorella. A me non dite nulla, ma
io lo so, e lo sanno tutti, e zia Grazia diceva, là fuori, che i regali
ve li manda quella ragazza».
Jorgj palpitava; tuttavia disse:
«
Di chi parli, scimunito?».
«
Be' voi lo sapete! Di quella ragazza! Si chiama donna Mariana; è bella,
ma sembra un fungo bianco perché è bassotta ed ha il cappello
grande come un canestro: anche le scarpe ha, bianche. L'ho vista a passeggiare
col prete e il Segretario e mi ha sorriso; ha gli occhi grandi come due mandorle
fresche. E dev'essere ricca, malanno colga i diavoli! Io dico che il suo vestito
costa venti lire. E le scarpe? Almeno sette lire. Il Segretario faceva gli
occhi grossi come due rotelle di fuso, guardandola; ma lei certo non lo vuole.
Anche zia Giuseppa Fiore ha detto: per quella lì ci vuole un dottore.
Ma se voi guarite, zio Jò, voi diventate dottore...»
La conclusione inattesa fece sorridere il malato, ma dopo un momento egli sgridò il
servetto imponendogli d'accendere il lume e di andarsene.
«
Lascio la porta del cortile aperta?»
«
Lasciala pure.»
I tempi erano mutati. Il padrone non era più selvatico e intrattabile
come nei giorni passati: di nuovo aspettava qualcuno; ma tranne il dottore,
il mendicante e zio Arras, nessuno più andava a cercarlo.
Rimasto solo Jorgj fissò a lungo la candela; gli pareva che la fiammella
gli tenesse compagnia, che piegandosi mossa dall'aria gli accennasse il libriccino
deposto sul tavolo e fra le cui pagine stavano le due letterine. Piano piano
tese quindi il braccio, riprese il libro, rilesse.
Del resto le sapeva a memoria. Erano tutte e due scritte su foglietti giallognoli
profumati alla violetta, con caratteri lunghi e angolari.
«
La ringrazio vivamente di non aver respinto il mio modesto regalo. So che lei è fiero. È inutile
che io finga oltre d'esser lontana. Sono vicina a lei, sebbene per poco tempo,
e conosco tutta la sua storia, il suo lungo martirio. So
che la sua porta è chiusa agli indifferenti ed ai curiosi; ma io non
sono come gli altri, e oso pregarla di lasciarmi venire
a visitarla. Se vuole che io venga mi scriva per mezzo dell'amico vetturale.»
L'altra diceva:
«
Non mi ringrazi! Son io che devo ringraziar lei di permettermi di farle un
po' di bene. Verrò. Potessi farle rendere giustizia, dirle come Cristo
a Lazzaro: sorgi e cammina!».
«
Sorgi e cammina, sorgi e cammina!», egli ripeté dieci, cento volte,
fissando di nuovo la fiammella: poscia cercò nel libriccino la parabola
di Lazzaro.
Nella tiepida sera vibravano in lontananza i canti dei giovani pastori innamorati;
egli aspettava ancora, e l'inquietudine e la speranza con cui per settimane
e mesi aveva atteso Columba erano nulla in paragone dell'attesa presente. La
donna che doveva irradiare con la sua presenza la stamberga rappresentava per
lui la civiltà lontana, la giustizia, la pietà, tutte le cose
più grandi della vita. Già dalle chiacchiere del servetto quando
gli riferiva i discorsi delle donne nella strada capiva che la sua riabilitazione
era cominciata e gli aforismi del vecchio bandito gli tornavano in mente. «Il
tempo è il solo giudice. Pazienza e coraggio i soli incorruttibili testimoni».
E le parole della sua nuova amica gli vibravano oramai nel sangue. «Sorgi
e cammina; sorgi e cammina!»
Preso da un folle impeto di speranza tentò di sollevarsi, ma ricadde
vinto dalla vertigine. In quel momento, attraverso una specie di vapore che
roteava attorno a lui come un velo spinto dal vento, gli sembrò di veder
la porta aprirsi e l'orlo giallo della gonna di Columba apparire nella fissura;
poi tutto sparve, egli credette ad un'allucinazione e come gli avveniva sempre
dopo un accesso di vertigine cadde in un sonno profondo.
L'indomani mattina fece pulir bene la casa ed il cortile.
Dopo mezzogiorno, sebbene Pretu suonasse le sue leoneddas d'avena
seduto all'ombra fuor della porta, e a quel ronzìo dolce monotono come
il rumore di un piccolo zampillo anche le mosche s'addormentassero, egli non
poté chiuder occhio. Da qualche giorno la sonnolenza in cui prima rimaneva
continuamente immerso lo aveva abbandonato; una smania di vita lo agitava e
non potendo muoversi pensava. Le idee più strane e confuse, ora torbide
ora luminose, passavano nella sua mente come le nuvole sul cielo primaverile.
Soprattutto pensava e ripensava al furto misterioso di cui il nonno s'era detto
vittima. In realtà la vittima era stata lui, ma si domandava se a sua
volta non commetteva un'ingiustizia accusando il vecchio di simulazione di
reato. E se il furto era stato commesso davvero? Da chi? Il vecchio certo lo
sapeva, e taceva per odio; ma forse dopo le nozze di Columba avrebbe parlato. «Da
chi? Da chi?», si domandava Jorgj. Il contegno strano del mendicante,
le sue visite frequenti, gli davan l'idea che l'uomo fosse attirato nella stamberga
da un fascino misterioso, lo stesso che attira il delinquente verso il luogo
ove ha commesso il delitto.
Jorgj si meravigliava di non aver prima di quel tempo tentato di scoprire il
vero colpevole; ma di giorno in giorno, dopo i regali e le lettere della sua
nuova amica, il desiderio della riabilitazione diventava in lui volontà ferma
e cosciente.
Come attirato dalla suggestione di questa volontà, ecco ad un tratto
l'uomo s'affacciò alla porta, spandendo nella stamberga il suo cattivo
odore di stracci.
«
Vieni avanti. Che nuove nel mondo?», gridò Jorgj.
Dionisi s'avanzò guardando fisso coi suoi occhi rotondi e verdastri
lo sfondo del cielo azzurro solcato di nuvole bianchiccie.
«
Eh, pare che voglia piovere! Fa bene! Fa bene! I grani son secchi prima di
spuntare», disse pensieroso: e stette a lungo immobile, con gli occhi
sollevati, come affascinato dalla pace sonnolenta di quel gran cielo che con
le sue nuvole simili a gradini di marmo, a frammenti di colonne, a lapidi sgretolate,
rassomigliava a un cimitero.
In quel momento s'udì un coro di ragazzetti che giravano per il paese
con un fazzoletto legato ad una canna a guisa di stendardo e imploravano appunto
la pioggia.
Dazenos abba, Sennore,
Pro custa necessidade;
Sos anzones pedin abba
E nois pedimus pane... [19]
«Ecco», disse Jorgj accennando col dito alle voci lontane. «Sì,
il Signore ci castiga perché i nostri peccati son grandi.»
Come l'altro non rispondeva né si moveva gli accennò di accostarsi
al letto e ripeté a voce alta:
«
Il Signore ci castiga perché i nostri peccati son grandi! Sei stato
a confessarti? Dionì, l'hai fatto davvero il precetto pasquale?».
«
L'ho fatto sì! Ogni cristiano lo fa.»
Ma Jorgj lo fissava, stringendo le labbra, e scuoteva la testa sul cuscino;
da quella mimica l'uomo capiva meglio che dalle parole dette ad alta voce.
«
Come, non l'ho fatto? Va a domandare, allora, va da prete Defraja...»
«
Se potessi muovermi ne saprei delle cose! Tu non saresti qui, certo!»
«
E dove, allora? A San Francesco?»
«
Giusto», disse Jorgj mettendosi una mano sotto la guancia, «fra
un mese è la sua festa; ci andrai?»
Per tutta risposta l'uomo cominciò a baciare con fervore la medaglia
di San Francesco, brontolando parole di tenerezza.
«
Va, va alla festa, Dionì! Ma non offendere San Francesco perché è un
Santo vendicativo. Non entrare nella sua chiesa con intenzione di ingannarlo:
perché se tu hai rubato egli lo sa, se tu hai offeso Dio lui lo sa. È terribile,
quel piccolo uomo; dicono che fa persino morire all'improvviso i peccatori
che entrano nella sua chiesa.»
Ma Dionisi a sua volta scuoteva la testa e stringeva le labbra: finalmente
dopo averci pensato bene disse:
«
T'inganni, cuoricino mio. Ma se là vanno i più famosi banditi?
E allora quanti ne morrebbero in quella chiesa?».
Jorgj lo fissava. Voleva tentare una prova.
«
Dionisi», gli disse ad un tratto, «ma è vero che tu credi
all'inferno?»
«
Non c'è altro, cuoricino mio! Inferno qui, inferno là!»
«
Senti cosa ho sognato stanotte; avvicinati, non farmi gridar tanto. Dunque
senti, mi pareva d'esser già morto, e camminavo per arrivare al cielo.
Era una strada in salita, accanto a un torrente, come su Monte Albo, mettiamo.
E va e va non arrivavo mai; ecco a un tratto però vedo un frate scender
giù e venirmi incontro. Era San Francesco, "Dove vai?" mi
domanda. Glielo dico e lui comincia a ridere. "Vieni con me", dice, "ti
farò vedere una cosa". E mi fa cambiar strada e mi conduce in un
posto bellissimo sotto un pergolato carico di grappoli neri. "Siediti",
mi dice, "e mangia di quest'uva, così vedrai perché ho riso".
Seggo e stacco alcuni acini da un grappolo, ed ecco subito vedo ai piedi del
monte stendersi il mondo, e vedo nell'interno delle case, e vedo gli uomini
e ciò che hanno in tasca. Fra gli altri vedo me steso su questo letto,
e tu davanti con la bisaccia dentro la quale c'è la cassettina dei denari
rubati a zio Remundu Corbu... Intanto San Francesco dice: "vedi perché non
puoi arrivare alla porta del cielo? Perché lasciavi entrare in casa
tua un peccatore simile...".»
A misura che Jorgj parlava il mendicante sgranava gli occhi e aggrottava le
sopracciglia selvagge; il suo viso esprimeva la meraviglia, ma anche un po'
l'ironia e lo sdegno.
«
Sant'Anna ti aiuti», disse allontanandosi come per andarsene, «chi
ti ha messo quest'idea in testa?»
Si fermò in mezzo alla stamberga, volgendo il viso come per ascoltare
ciò che il malato diceva; ma Jorgj non parlava e solo continuava a fissarlo
ammiccando come per fargli capire che sapeva tutto.
All'improvviso il mendicante parve cambiar idea e si riavvicinò al letto:
il suo volto era diventato terreo, le sue grosse mani nerastre si contorcevano
come artigli, Jorgj ebbe paura.
«
Dionì... Dionì... che fai?», gridò coprendosi il
viso col lenzuolo.
In quel momento fu picchiato lievemente alla porta socchiusa del cortile e
l'uomo cadde in ginocchio presso al letto come per non venir sorpreso nella
sua attitudine minacciosa.
VI.
Mariana entrò, avanzandosi a passetti saltellanti. Era vestita di bianco,
con un gran cappello nero una cui falda le calava fino all'omero e l'altra
lasciava scorgere i suoi capelli lucidi e la rosa di nastro sull'orecchio.
Il suo ombrello era alto quasi come lei e una borsa a maglie d'argento come
se ne vedono nei libri illustrati delle fate dondolava appesa al suo braccio
nudo sottile.
Un profumo che Jorgj conosceva già, lo stesso che impregnava il suo
libriccino, si sparse per la stamberga; e ancora prima di distinguer bene il
volto della visitatrice egli credette di averlo già altre volte veduto:
erano gli occhi severi e scintillanti che gli erano apparsi a Nuoro nel chiarore
fantastico di una sera di festa. Egli cominciò a tremare.
«
Buon giorno; come sta?», ella domandò semplicemente con voce un
po' velata, fermandosi davanti al letto e guardando il mendicante.
Anche Jorgj lo guardava, ma non ricordava più perché l'uomo era
lì. Solo in confuso vedeva, accanto alla figura nera di Dionisi, la
figurina bianca della visitatrice e provava una grande umiliazione a venir
sorpreso in quella compagnia, con quell'uomo in quella posizione.
«
Alzati e vattene!», gridò aspramente, ma subito si pentì. «Oh
scusi, è un noioso... un idiota...»
L'uomo si alzava pesantemente e accennava a dire qualche cosa.
«
Vattene, ritornerai più tardi, vattene», ripeté Jorgj stendendo
il braccio e ritirandolo subito, vergognoso che la visitatrice vedesse la manica
slacciata della sua camicia.
Dionisi guardò in alto, poi piano piano se ne andò.
Allora parve a Jorgj che la stamberga si allargasse, diventasse spaziosa e
fragrante come un paesaggio primaverile.
Una pace luminosa, un trepido sogno di bellezza e di luce si stesero attorno
al suo letto, attorno alla casupola e via via per tutto il mondo.
«
Ma lei sta bene!», disse Mariana con meraviglia, sedendosi sullo sgabello
accanto al letto e appoggiando le mani e il mento al pomo dell'ombrello. «Ha
la voce sonora, il colorito naturale, e non è poi neppure tanto magro!»
Con gli occhi bassi fissi sulla borsa dondolante e scintillante, egli cominciò a
ridere; rideva e tremava.
«
Non c'è male!», disse rozzamente. «Lei parla così per
confortarmi!»
«
Ma le pare! Non sono bugiarda a quel punto!»
«
Oh, scusi! Sono rozzo, sa! È tanto tempo che non vedo nessuno! Solo
quel mendicante, ha veduto? viene qualche volta, si mette in ginocchio, prega,
chiacchiera... Io non posso mandarlo via; come faccio? È così sporco...
Lei non si insudicierà, su quello sgabello?»
«
Chi altri viene a trovarla?» ella domandò senza badare alle ultime
frasi di lui.
«
Chi vuole che venga? Qualche donnicciuola e il dottore...»
«È
bravo il dottore?»
«
Così! È un po' strano, ma buono e generoso in fondo.»
«
Lei non s'è mai fatto visitare da altri? Ha fatto le cure elettriche?»
«
Tutto, ho fatto! Sono stato tre mesi all'ospedale... Per me non c'è rimedio!»
«
Tutti i malati dicono così! Bisognerebbe che lei andasse in una buona
clinica, in continente...»
Ma egli fece un gesto di spavento.
«
No, no, signorina! Sono ritornato qui per morire e qui voglio morire!»
«
Ma che dice!», ella gridò con impazienza.
Egli sollevò gli occhi e la guardò arrossendo; poi disse in fretta: «Non
soffro molto; se sto immobile non sento alcun dolore, e neanche se mi muovo:
solo una gran vertigine, che mi esaurisce e mi fa svenire. Ma non parliamo
di questo adesso. Io sono contento; sono felice... Lei non ci crede, vero?».
Ella era diventata pensierosa. Che credesse o no alla felicità di lui
non traspariva dal suo volto serio; sembrava piuttosto preoccupata da un altro
pensiero.
«
Senta, e questo dottore dunque cosa dice? Nella sua lettera lei mi scrisse
che da bambino era stato malato...»
«
Sì, sono caduto da cavallo.»
«
E dopo?»
«
E dopo sono stato sempre sensibilissimo. All'ospedale i medici parlavano di
atonia di nervi e di paralisi parziale, conseguenza di quel malanno infantile;
il nostro dottore dice invece che è una forma di nevrastenia acuta,
causata da dispiaceri e da affanni... E forse ha ragione: i dolori mi hanno
abbattuto; ero così sensibile... così... così... come
una foglia d'erba che ad ogni soffio si curva... Anche adesso, veda, tremo
tutto... Perché lei è qui! Tremo eppure sono contento... Mi perdoni,
signorina! Io sono così... così contento...»
Si nascose il viso col braccio e scoppiò in pianto. Ella sollevò il
viso meravigliata, aprì la bocca ma non parlò; no, bisognava
lasciarlo piangere; era un pianto, se non di gioia, come egli voleva far credere,
di consolazione e di amore; e mentr'egli nascondendosi il viso vergognoso versava
tutte le lagrime che da tanto tempo gli gonfiavano il cuore, ella non molto
commossa si guardava attorno.
Vedeva le ragnatele agli angoli delle pareti, l'avanzo del focolare, la cassa
preistorica, il tavolinetto così nero che sembrava più antico
della cassa, la brocca sgretolata, la forchetta di latta con un dente mozzo,
la coperta del letto piena di macchie, la camicia di lui scolorita e rattoppata
sul gomito... E il tanfo di umido che impregnava la stamberga la colpiva lugubremente
come un odore di tomba. Le pareva di trovarsi davanti ad un sepolto vivo, e
i racconti, le insinuazioni, le suggestioni di zia Giuseppa Fiore, la quale
non le parlava d'altro che del disgraziato Jorgeddu, spingendola a proteggerlo,
a difenderlo, a vendicarlo, le parvero mille volte meno crudi e tristi della
realtà. Ed egli piangeva come un povero bambino seviziato da gente iniqua,
solo in fondo a quella caverna; egli che era pieno di intelligenza e di pensiero
e che amava la vita al punto di sentirsi ancora qualche volta felice nella
sua spaventosa tomba di vivente!
Un fremito di orrore la fece balzare in piedi, smaniosa di muoversi per assicurarsi
che era sana ed agile: poi le parole che zia Giuseppa Fiore ripeteva ad ogni
momento le punsero il cuore come un rimorso.
«
Lei che è ricca e potente deve aiutare il disgraziato ragazzo...»
Aiutarlo? Come? Ella depose i suoi impacci preziosi, intrecciò le piccole
mani e le scosse, disperata e impotente davanti all'angoscia di Jorgj. Ma ebbe
un'idea: ricordò che un suo adoratore una volta le aveva detto che l'uomo
infelice è come un bambino; basta spesso una carezza e una promessa
per confortarlo. Sciolse le mani e ne posò una sulla testa di Jorgj.
«
Signor Giorgio! Si faccia coraggio! L'aiuteremo...»
Il contatto della mano di lei diede quasi una convulsione al malato; furono
gemiti, singulti, parole indistinte: l'ascesso d'ira, di dolore e di umiliazione
che da mesi e mesi era andato formandosi entro il cuore di lui parve scoppiare
e sciogliersi in lagrime. Poi ad un tratto egli cessò di piangere e
tacque immobile ma col viso ancora nascosto, più che mai vergognoso
della sua debolezza.
«
Adesso basta», disse Mariana, tirandogli dolcemente la manica della camicia.
Il viso di lui apparve deformato dal pianto, ma con gli occhi fra le palpebre
rosse limpidi e vivi come due stelle sul cielo ancora torbido dopo l'uragano.
Ella si rimise a sedere e appoggiò il gomito al tavolinetto.
«
Così va bene; adesso possiamo chiacchierare con calma. Prenda qualche
cosa. Il suo servetto non viene?»
«
Verrà sul tardi; no, non ho bisogno di nulla, grazie.»
«
Quel ragazzo ha abbastanza forza per assisterla? È intelligente, vero?»
«
Oh, molto intelligente, ma è anche un gran chiacchierone.»
«
Del resto son tutti intelligenti, qui! E il paese è così pittoresco!
Dalla casa dove sto io...»
«
Lei sta da zia Giuseppa Fiore», interruppe Jorgj guardandola con diffidenza. «È questa
donna che le ha parlato di me?»
«
Un po' lei, un po' gli altri. Ma io sapevo già la sua storia; me la
raccontò il vetturale, mentre venivo in diligenza quassù. Io
venivo per visitare il paese, poiché mio fratello me ne aveva decantato
i paesaggi e i costumi; appena arrivai dissi che volevo venire da lei, signor
Giorgio, ma me ne dissuasero. "Non riceve nessuno", dicevano, "diffida
di tutti e si è chiuso nella casa come in un carcere; non vada a trovarlo
se non vuole recargli dolore." Io stetti a lungo indecisa; finalmente,
d'accordo col vetturale, mandai il primo pacco; il resto ella lo sa. No, nessuno
mi ha parlato male di lei, solo, tutti, dal prete a mio fratello, che non venne
ancora da lei per non destar attriti e chiacchiere in questa popolazione così facile
agli appigli, tutti, dicevo, hanno paura di lei!»
«
Sì, come d'un cane arrabbiato!»
«
Si sbaglia! Senta, io studio questo sentimento strano che i suoi compaesani
nutrono verso di lei. Sa cosa è? È vergogna. Essi hanno soggezione
di lei perché sanno che lei è stato calunniato, ed essi... essi
non han saputo difenderla! Lei è, me lo lasci dire, lo spettro del villaggio;
parlando di lei tutti diventano inquieti e pensierosi. Hanno vergogna di presentarsi
qui, ma già sentono il peso di questa loro viltà; e verrà un
giorno, creda a me, che tutti insorgeranno per difenderla, per vendicarla,
a meno che...»
«
A meno che?»
«
Che i suoi nemici non riconoscano prima il loro errore!»
«
Fantasie, signorina!», disse Jorgj con tristezza. «È lei
che è buona e s'immagina quindi che lo sieno anche gli altri. Io devo
tutto a lei; se lei non veniva nessuno si ricordava di me...»
«
Perché lei li ha respinti tutti! Il prete...»
«
Ah, quel prete!», interruppe Jorgj, «venne per farmi disperare
maggiormente; mi parlava di morte, mentre tutto è ancora vita in me!
Senta come batte il mio polso... senta come batte il mio cuore... Io non sono
stato mai così vivo come dopo che i miei nemici mi hanno inchiodato
qui come Cristo, e come Lui sento l'amore per gli uomini e la compassione per
i loro errori...»
«
Se lei compatisse, non andrebbe in collera contro quel disgraziato prete! Egli è più infelice
di lei. Quante volte, mi disse, è venuto qui fino alla porta e non ha
osato entrare! Egli è più solo di lei: lo lasci venire, signor
Giorgio; sarà lei che farà un'opera buona. Gli dico che venga?»
Ella aveva tratto le dita dal guanto e gli stringeva il polso.
Che benessere, che senso di dolcezza, quasi di ebbrezza, trasfondeva quel lieve
contatto in tutte le vene di lui!
Ma la fanciulla lasciò il polso ed egli tornò in sé.
«
Ed anche gli altri», ella riprese. «Tutti le vogliono bene e verranno
a dirglielo. Veda, mi lasci parlare, anche zia Giuseppa Fiore, per esempio...
Lei l'ha cacciata via, eppure quella donna le vuol bene come ad un figlio. È una
donna primitiva, che ha il culto dell'odio e della vendetta, è vero:
ma qui veniva spinta da un sentimento di protezione: univa al suo odio l'odio
che, ella si immaginava, Giorgio Nieddu doveva provare per il comune nemico...»
«
Lei è buona, signorina», ripeté Jorgj sorridendo come fra
sé, «ma lei non conosce ancora a fondo la psicologia complicata
dei miei compaesani... Io le farò leggere certe pagine che ho scritto
qualche tempo fa: credevo di dover morire abbandonato da tutti, e scrissi così,
come il naufrago che caccia i suoi ricordi entro una bottiglia e la butta in
mare... Vedrà; ho scritto verità dolorose... Del resto non importa;
perdono a tutti, non odio nessuno... Sì», aggiunse pensieroso, «appunto
come il Maestro posso ripetere: essi non sanno quel che si fanno!»
Arrossì e ricordò il suo primo incontro col vecchio Arras, la
sera del venerdì santo. Come era felice allora! Ma anche adesso provava
una gioia simile a quella che l'aveva accompagnato su per i sentieri della
valle: se il suo povero corpo era immobile, l'anima viaggiava attraverso uno
spazio pieno di luce e di armonia. La vita, personificata in Mariana, gli stava
accanto e lo accarezzava: come non perdonare ai nemici e non credere che l'unica
verità dell'universo è l'amore?
«
Come fa a scrivere?», ella domandò per distrarlo, sembrandole
di averlo stancato.
E parlarono di piccole cose, del paese e dei paesani, del servetto e del vetturale;
Jorgj si fece coraggio e le raccontò di averla già veduta una
volta, a Nuoro, come in sogno.
«
Avevo già tanti dispiaceri e... bevevo, quella sera! A un tratto vidi
lei con un'altra signora. Che sguardo mi diede! Terribile...»
«
Io non ricordo», ella disse ingenuamente.
«
C'era tanta folla: eppoi tutti guardavano lei... Era la più elegante;
aveva un vestito color d'argento e un velo scintillante... Chi avrebbe detto
che l'avrei riveduta qui?»
Poi come pauroso di rivelarle tutta la passione romantica che l'apparizione
di lei gli aveva destato si affrettò a domandarle:
«
Qui le piace, dica? Ha veduto che panorama, dalla terrazza del Municipio? C'è un
posto, dietro la chiesa, che io amo tanto, sa, all'angolo dell'abside: vada
là verso il tramonto, vedrà l'altipiano tingersi di rosso, poi
di violetto, e le parrà di essere ai piedi d'un castello barbarico.
Tutto il paesaggio ricorda l'epoca dei feudatari, col paesetto aggruppato e
recinto di roccie, coi sentieri che sembrano fatti apposta per gli agguati,
con le figure solitarie incappucciate e armate che attraversano a cavallo,
guardinghe, le chine solcate da muriccie a secco. Tutto ha un senso di poesia
antica e selvaggia».
«
Sì, è vero! Anche dalla casa dove sto io si godono i meravigliosi
panorami, ed io corro da una finestra all'altra ricordando i versi del poeta:
Il re veniva alle finestre a mare,
Il re veniva alle finestre a monte...
Avessi l'ale, potessi volare!»
«Le piace Pascoli?»
«
Lo so quasi tutto a memoria.»
«
E D'Annunzio?»
Allora fu uno sgranare di versi, un lieve discutere, un ripetere, «oh,
anche a me piace!», «no, era migliore prima», «oh, è sempre
giovane», «io dimentico i titoli», «oh, ricorda quei
versi»...
Mariana intanto s'era voltata verso il tavolino e toccava gli oggetti, dapprima
timidamente, poi con curiosità, infine con prepotenza, accomodando i
volumi gualciti che non volevano star chiusi, allontanando dalla penna la forchetta
zoppa; mandando giù per terra un pezzetto di biscotto che attirava tutte
le primaticce mosche della stamberga.
Jorgj lasciava fare e non sentiva più umiliazione della sua povertà.
Fra lui e la sua amica s'era squarciato il velo dell'ignoto: Mariana era penetrata
nel mondo di lui e poteva oramai muoversi, guardare, frugare e disporre tutto
come sul tavolino: ella non portava che ordine e gaiezza.
L'ora intanto correva e il sole stendeva ai piedi di lei un breve tappeto d'oro;
una scintilla brillava sul viso del piccolo Cristo come una lagrima di gioia,
e dalla valle saliva l'odore del biancospino.
A un tratto nella straducola risuonò di nuovo il coro dei ragazzetti
che imploravano la pioggia. Mariana, vinta da una curiosità infantile,
ed anche dal bisogno di muoversi, balzò su e corse nel cortile.
Jorgj ricordò le parole del servetto: «ella sembra una bambina» e
un sentimento di tenerezza s'unì all'entusiasmo che lo rendeva così felice.
Ma ella tardava a rientrare: come tardava! e tutto intorno taceva, aspettando
il suo ritorno. E se non ritornava? Se tutto era stato un sogno? E lui che
aveva da dirle ancora tante cose e voleva sapere tante cose da lei! Cercò il
taccuino che voleva offrirle, si pentì di non averle fatto preparare
da Pretu una tazza di caffè. Ma perché ella non rientrava? Il
coro dei ragazzetti non s'udiva più; la straducola era animata di persone
curiose. Egli riconosceva la gente dai passi: quello forte e un po' lento era
il passo del marito di Banna, quello alquanto più rapido ma più strascicato
era il passo di zio Remundu... Forse Columba era alla finestra o sul limitare
della porta e vedeva Mariana. Egli si sentiva battere il cuore, non sapeva
se per gioia o per timore, e avrebbe voluto gridare richiamando la sua amica...
Ah, ecco un fruscìo nel cortile, un passo saltellante simile a quello
di Pretu; ella rientra e nella stamberga tutto ritorna a vivere ed a risplendere.
«
Ho fatto un piccolo giro d'esplorazione intorno alla sua fortezza, signor Giorgio!
Com'è bello in fondo alla strada! Si vede tutta la valle. Poi sa chi
ho veduto? Quella donna. Sta sul limitare della porta, e
l'arco nero di questa e lo sfondo della vecchia casa inquadrano a meraviglia
la sua figurina gialla e nera, fina e cupa. E il vecchio col suo cavallo? Sembra
un gruppo del Peter: ricorda: "I due amici"? Tutte le donnicciuole
sono accorse nella strada e guardavano il vecchio e la ragazza, poi guardavano
me...»
«
Signorina», balbettò Jorgj stringendosi nervosamente il taccuino
al petto, «non dia attenzione a quella gente... per carità...
non badi a loro! Possono farle del male... perché è venuta qui!»
«
Sono così cattivi? Non mi sembra. La ragazza pare piuttosto infelice...»
«
Oh, non si fidi! Se sapesse come è finta! È tutto un mistero:
tace e abbassa le palpebre, tace e tesse con la mente le sue trame malefiche.
Anch'io la vedevo in una bella cornice, lassù, in una specie di veranda;
mi sembrava una piccola regina di Saba, con l'agnello ai piedi e la testa avvolta
in un velo di sogni... E invece mi ha fatto tanto male! È il fiore amaro
dell'oleandro!... Io le farò leggere tutto... prenda questi foglietti,
ma non li guardi adesso... Non vuole andarsene, no? È presto ancora;
ha freddo? Se sapevo che veniva oggi le facevo preparare il caffè...»
Ella sfogliò il taccuino, poi se lo mise sotto il braccio e tornò a
guardarsi attorno.
«
Vuole che lo faccia io il caffè? Dove è la caffettiera?»
Egli si vergognò di dire che Pretu usava il pentolino.
«
Mi pare fosse rotta... Il servetto deve averla portata ad accomodare. Ma era
per lei, non per me... Eppoi lei si sporcherebbe... e il suo vestito costa...»
Ella si mise a ridere aggirandosi per la stamberga col desiderio di aprir la
cassa e di frugarvi dentro.
«
Il mio vestito? Sa quanto costa in tutto? Sedici lire: l'ho fatto io; cosa
crede, ch'io sia buona a far niente? Faccio tutto, in casa. Lei sperava forse
ch'io fossi una duchessa?»
«
Lei è una regina», egli disse galantemente; ma ella cominciò a
sospirare.
«
Ah, quante cose mi mancano per esser regina!»
«
Che le manca? È sana, bella, giovine...»
«
Giovine? Lei crede ch'io sia giovine? Ah, come s'inganna, signor Giorgio! Io
non le dirò mai gli anni che ho; neanche se mi dà mezzo milione
glielo dico: e se anche glielo dicessi, lei non ci creda perché non
sarà mai la cifra giusta!... Del resto», aggiunse riprendendo
la sua borsa e rimettendosi a sedere accanto a lui, «che importano gli
anni? A volte ci sembra di averne sedici e sedici ne abbiamo davvero; a volte
ci sembra di averne cento e tanti ne abbiamo.»
«È
vero, è vero!», egli disse con fervore.
E ricominciarono le piccole confidenze, lo scambio dei pensieri, le citazioni
di versi: era come un gioco dolce e puerile, un andare e venire di frasi innocenti,
di aforismi, di innocui paradossi, di complimenti. Ma nonostante l'eccitazione
che lo animava facendogli dimenticare di essere infermo, Jorgj si sentiva stanco.
Aveva troppo parlato; i suoi occhi s'erano cerchiati d'azzurro, la sua mano
tremava; il sole salito sul letto gli portava la sua carezza quotidiana, ma
da amico appassionato sembrava geloso della straniera e pareva prendesse gusto
a far apparire le membra e il viso del malato in tutta la loro desolazione.
Come erano scarne e rimpicciolite quelle povere membra, e quel viso diafano
ove solo gli occhi vivevano com'era triste nella luce e nella gioia che lo
irradiava!
Mariana provò di nuovo un senso di pietà e di terrore.
Pensò:
«
Adesso me ne vado: è tempo», e guardando lo sfondo verde e azzurro
della porticina trasalì di gioia al pensiero che poteva andarsene: le
pareva di dover da un momento all'altro volare come l'allodola, scappar via
per la porta luminosa: ma gli occhi di Jorgj erano pieni di tenerezza e di
trepidazione come quelli di un bimbo che interroga, che confida e nello stesso
tempo ha paura.
«
Che farà quando io me ne andrò?», si domandava Mariana.
«
Non parli più, lei!», gli impose. «È stanco. Io resterò un
altro momento, poi me ne andrò; l'ho stancata e non le ho detto che
sciocchezze. Ma adesso le racconterò un po' della mia vita.»
Aprì la borsa, si guardò nello specchietto che c'era dentro,
trasse una caramella e gliela diede. Pareva incerta se metter o no dentro il
taccuino: finalmente si decise; chiuse la borsa e lasciò il taccuino
fuori.
«Deve sapere», ella ricominciò, «ch'io sono una ragazza
romantica, amantissima delle emozioni: perciò, forse, non mi è accaduto
mai nulla di straordinario! Amo cambiar spesso vita e mi stanco presto dei
luoghi e delle cose che vedo. Mio padre era un industriale; viaggiava di continuo,
ed è morto che io ero bambina ancora. Mia madre, invece, non si è mai
mossa dal nostro paesetto, poco più grande di questo; ma essa è la
donna "forte" della Bibbia, industre vegeta prudente: amministra
il nostro patrimonio, ed a lei i miei fratelli devono la loro educazione e
la loro fermezza di carattere. Ho anche una sorella maritata ad un nobile del
mio paese, e che rassomiglia molto a mia madre: economa, buona massaia, il
suo più gran divertimento è quello di andare alle feste campestri
od a quelle delle piccole città. È con lei che ci siamo recate
l'anno scorso alle feste di Nuoro. Io ho già molto viaggiato, invece:
dei miei fratelli uno è al Ministero degli Interni, l'altro è capitano
d'artiglieria ed ha sposato una donna ricca ed elegante, e l'altro è Giovanni
Mariano, quello che è qui: essi mi vogliono con loro un po' l'uno un
po' l'altro, ed io oggi son qui, nel suo eremo, signor Giorgio, domani sarò a
Roma, in estate ad Anzio od a Viareggio, in autunno di nuovo nel mio paese
umido e monotono, circondato di paludi, di canneti, con un orizzonte quasi
sempre livido solcato dal volo delle folaghe e di altri uccellacci migratori.
Laggiù io mi ubbriaco di noia e di melanconia. Abbiamo una casa che
era un convento: davanti si stende la pianura pietrosa, desolata e infinita,
con le paludi e il mare in fondo. Nuvole e corvi quanti ne voglio, signor Giorgio!
Qui è un luogo di vita in confronto: è la Svizzera troglodita,
o almeno di un'epoca anteriore a quella degli albergatori. La nostra casa è grande,
simile a un alveare vuoto: i miei fratelli son partiti uno dopo l'altro, come
partono quasi tutti i giovani intelligenti del paese, e solo di tanto in tanto
ritornano, con le loro mogli e i loro figli. Mia madre tiene sempre pronta
la casa per riceverli. Qualche volta le scriverò, dal mio paese, signor
Giorgio! Ma anche da Roma le scriverò; non dubiti. Intorno alla mia
casa, laggiù al mio paese, abbiamo un orto immenso, ed io mi diverto
a coltivare il giardino. Tre anni or sono ho piantato un melograno che dà già frutto.
Lei sa come bisogna potare le piante? bisogna lasciar appena le ultime fronde.
Avevo una pianta di oleandro selvatico, che a forza di cure ho fatto diventar
doppio; fiori che sembrano rose. Accanto alla nostra casa abita un vecchio,
un tipo curiosissimo, uno stregone, che invidiava il mio oleandro e cercava
di farmelo disseccare a forza di scongiuri; e come io ridevo, egli una notte
penetrò nel mio orto, sradicò il mio oleandro e me ne piantò uno
selvatico! Ma io mandai subito un servo nel poderetto dello stregone. Il servo
trovò il mio oleandro trapiantato in un angolo ombroso e tutto recinto
di siepi! La vita passa così, al paese! Quando non coltivo il giardino,
leggo i giornali e le riviste che mi mandano i miei fratelli: o vado a far
visite o aiuto mia madre a lavorare. Questo carnevale scorso mi mascherai con
una delle nostre serve, che aveva per bauta una pelle di lepre: ma un bel momento
tutti i monelli ci furono appresso e un paesano cominciò a molestarci;
allora la serva si strappò dal viso la pelle di lepre e gliela cacciò in
bocca e tutto il pelo gli andò in gola, di modo che si dovette chiamare
il medico perché al malcapitato veniva un accidente. Ma lei dirà:
che cosa mi racconta questa pazzarella?»
Jorgj ascoltava come cullato da una musica lontana; gli pareva di essere tornato
bambino, prima dell'epoca funesta della matrigna, quando ancora sua nonna gli
raccontava le puerili storielle della sua fanciullezza.
«
Racconti, racconti!», supplicò.
«
Al mio paese, poi, ho tutta una coorte di adoratori; tutti piccoli mascalzoni,
però, ragazzetti discoli, studentelli, il barbiere, il postino, persino
un piccolo mercante di pelli di capretto: ma tutti molto giovani, sa, dai sedici
ai diciannove anni. Dopo i diciannove anni non li guardo più.»
«
Prima dei diciannove sì?»
«
Cioè... non mi guardano loro! Dopo i diciannove capiscono che... non
c'è nulla da sperare; mettono giudizio, ecco tutto! Ma i ragazzi dai
sedici ai diciotto mi seguono come affascinati: per loro io sono colei che
viene dalle terre lontane dove tutto è grande e bello. Essi adorano
in me il mondo che sognano: Roma, le spiagge di moda, la vita fantastica dei
potenti della terra! Io mi compiaccio di questa loro illusione, mentre mia
madre, mia sorella e mio cognato mi sgridano scandolezzati, e in tutto il paese
godo una terribile fama di civetta. D'altronde io son contenta di questo, perché non
voglio che agli uomini seri del mio paese, ai nobili che vanno ancora con l'aratro,
od ai ricchi proprietari di vacche, salti in testa l'idea di volermi sposare.
No, signor Giorgio, meglio morire che sposarsi, meglio morire due volte che
sposarsi e rimanere tutta la vita nel paese natìo...»
Jorgj rideva, piano, piano, con dolcezza: come le parole di lei lo divertivano
e lo consolavano!
«
Ma qualche volta avrà fatto all'amore!»
«
E dunque? Perché negarlo? Il primo è stato un bel ragazzo pallido,
verde anzi, sottile come uno stelo; adesso è morto, non parliamone più.
Sono stata anche fidanzata: era un piccolo medico condotto di cui avevo sentito
parlare come di un portento di ingegno. Venne a casa nostra, una sera: c'era
gente ed egli non aprì bocca, ed io credetti che lo facesse per sdegno
o per posa; ma poi ritornò altre volte, e ci trovammo anche soli, ma
occorrevano sforzi inauditi per trargli qualche parola di bocca. Tutt'al più sorrideva
e quando era commosso tremava. Morto anche lui.»
«
Tutti morti, signorina?»
«
Peggio che morti, dimenticati!», disse Mariana, e s'accostò la
borsetta alla bocca per nascondere uno sbadiglio.
Era stanca, oramai, e desiderava che arrivasse qualcuno per potersene andare.
Il sole tramontò ed ella era ancora lì, combattuta dal desiderio
di andarsene e dalla pietà, dalla certezza che la sua presenza recava
un conforto ineffabile al malato.
«
Egli forse morrà fra qualche giorno», pensava, «mentre io
vivrò a lungo, forse quaranta, forse cinquant'anni ancora...»
Perché non sacrificargli qualche ora di questo mezzo secolo di vita?
Tuttavia provò un senso di sollievo quando s'udì nel cortile
un passo pesante e il rumore d'un bastone battuto qua e là sui muri
e sui ciottoli. Il dottore entrò, sbuffante, già in costume estivo
(per lui non esisteva la mezza stagione): larghi calzoni bianchi, giacca di
alpaga nera svolazzante, cappellino di paglia con nastro tricolore. Sembrava
quasi giovane e i suoi occhi erano d'un azzurro primaverile.
«
Benone», disse avanzandosi senza guardare Mariana che s'era alzata per
cedergli il posto.
Ma all'improvviso, mentre tastava il polso di Jorgj, si volse e gridò additando
lo sgabello:
«
Perbacco, si rimetta a sedere, signorina! Ma cosa fa lì in piedi?».
«
Grazie; tanto devo andarmene...»
«
Come, se ne va già?», disse Jorgj spaventato.
Il dottore prese con ambe le mani lo sgabello, lo sollevò, lo rimise
accanto a lei.
«
Si rimetta a sedere, la prego, ottima signorina! La sua presenza è l'unico
farmaco per il mio cliente. Una canaglia, sa; la sua malattia è tutta
una finzione; ma uno di questi giorni lo vedremo alzarsi e andarsene a spasso.
Ma si metta a sedere, lei; crede forse di crescere?»
E curvo batteva forte la mano sullo sgabello.
«
Oh, magari!», disse Mariana andando a sedersi sulla cassa e mettendo
in mostra i suoi piccoli piedi lucenti. «Ecco una cosa che la scienza
dovrebbe inventare. Quanta gente farebbe felice!»
«
Se tutti fossero alti, lei sarebbe la prima a domandare il contrario!»
«
Schopenhauer...»
«
Mi lasci in pace col suo Schopenhauer!»
«
Ma io volevo dire che egli sbaglia quando afferma che le donne alte piacciono
agli uomini di bassa statura mentre le donne piccole...»
«
Piacciono agli uomini alti e anche a quelli di bassa statura! Purché siano
belle come lei!»
«
Grazie!», ella disse inchinandosi esageratamente.
Egli rise soddisfatto della sua galanteria e Mariana non sdegnò di civettare
allegramente con lui, Jorgj diventò geloso. Gli pareva che quei due
si dimenticassero di lui, ed egli a sua volta stanco e triste chiuse gli occhi
e vide la figurina di Pretu avanzarsi dal fondo della stamberga, avvicinarsi
al letto, curvarsi su lui.
«
Se domanda della caffettiera dille che l'hai portata dallo stagnino...»
Ma il dottore diede una formidabile bastonata ai piedi del letto gridando:
«
Questa donna ha ragione!».
Jorgj sussultò, riaprì gli occhi, rivide Mariana tutta bianca
seduta sulla cassa nera, e nello sfondo della porticina il cielo argenteo solcato
di nuvole azzurre.
Ella rideva curvando il capo fino a coprirsi le ginocchia con le falde del
cappello, e agitava i bei piedini eleganti. Come era allegra! Era la personificazione
stessa della gioia e della giovinezza; gli adolescenti del suo villaggio avevano
ben ragione di correrle dietro affascinati. Ed egli, egli era là, come
una foglia caduta dal grande albero della vita e che piano piano marcisce e
ritorna alla terra muta: più nulla per lui; né riflessi di sole
né fremiti di vento; solo, di tanto in tanto, l'eco della vita lontana,
l'ombra delle nuvole, il grido funebre dei corvi che ella odiava. Perché era
venuta? Egli era più felice prima, quando ancora non la conosceva.
«
Lei non viene, signorina? L'accompagno», disse finalmente il dottore
ricordando che doveva andarsene.
Ma ella rimase. Appena il dottore fu uscito si riavvicinò al letto e
si curvò sul malato che la guardava con occhi pieni di tristezza.
«
Povero signor Giorgio! L'abbiamo stancato, vero? Che tipo, quel dottore...»
«È
matto da legare! È innamorato della sua serva e fa il grazioso anche
con le altre!...»
Mariana ricominciò a ridere; una foglia delle roselline del suo cappello
cadde sul viso di Jorgj. Quando ella mormorò riprendendo dal guanciale
la fogliolina:
«
Domani ritornerò... se non le do noia», egli riprese a singhiozzare
e a dire:
«
Sempre, sempre... quando vuole... Ormai lei è tutto... tutta la mia
vita!...».
Allora ella tacque di nuovo e impallidì; e mentre nella straducola già invasa
dall'ombra del crepuscolo risuonava ancora la voce del dottore:
Amore, mistero...
e nel cortile s'udiva il passo lieve di Pretu, ella si curvò ancora
di più sul malato e lo baciò sulla fronte.
Pretu li sorprese così, e un'ora dopo disse a Columba che, appena guarito,
il suo padrone avrebbe sposato la sorella del Commissario.
PARTE TERZA
I.
Una notte Columba, agitata dall'insonnia, s'alzò e scese in cucina.
Il nonno aveva già ribattuto i piuoli sul muro del portico come prima
delle nozze di Banna, ed ella aveva finito di spezzare le mandorle e di pulire
il grano per i dolci e il pane dello sposalizio. Ancora una settimana e sarebbe
sposa; le sembrava già di veder le bisacce appese qua e là nella
cucina e nel portico, le pecore squartate, le galline appese a testa in giù col
sangue che sgocciolava dai becchi aperti e faceva una piccola buca rossa nella
polvere del cortile; tuttavia le pareva che ancora lungo tempo dovesse passare
prima di Pentecoste. A Pentecoste doveva far quasi caldo, mentre adesso il
vento e il freddo regnavano ancora sul paese e sui monti.
Dopo il bel tempo di Pasqua la pioggia tanto invocata era giunta in abbondanza,
seguita anche dalla neve; nuvole grigie e rosse salivano continuamente dal
mare e anche quando il sole splendeva sopra la valle, Monte Bardia e Monte
Albo, Monte Acuto e Monte Gonare, da un capo all'altro dell'orizzonte si guardavano
attraverso un velo di nebbia come quattro vecchioni seduti in mezzo al fumo
attorno a un focolare di pietra. Passava il vento e spegneva il sole: allora
tutto era triste davvero; la pioggia scrosciava fragorosa e i viottoli del
paese diventavan torrenti. Poi di nuovo il sole brillava, il cielo diventava
simile a un mosaico azzurro e grigio e in lontananza verso l'agro di Siniscola
un raggio di sole illuminava una striscia verde che sembrava acqua ed era invece
un campo di orzo già alto. Tutti i cespugli della valle eran fioriti,
ma curvi, arruffati, sfogliati, quasi avviliti dalle incessanti frustate del
vento. Che primavera melanconica! Pareva che la terra e gli elementi fossero
in disaccordo: la prima s'ostinava a sorridere ed a fiorire, il vento la schiaffeggiava
come un amante feroce.
E Columba aveva anche lei un aspetto di donna percossa; aveva la schiena fiaccata
dalle notti insonni, il pensiero pieno di nebbia, e nulla tranne la sua angoscia
la interessava.
Neppure le chiacchiere delle sue vicine di casa intorno ai più importanti
avvenimenti di quei giorni, il ritorno definitivo in paese del vecchio Arras,
la festa di San Francesco, la scomparsa di Dionisi Oro il mendicante, la scuotevano
dalla sua idea fissa. Dionisi s'era appunto recato alla festa campestre e non
aveva più fatto ritorno; le donnicciuole ogni tanto penetravano nella
casupola di lui, nera puzzolente come una tana di cinghiale, e ne uscivano
tenendosi su le gonne e scuotevano la testa.
«
Dev'esser morto.»
«
Deve aver seguito qualche altro mendicante, recandosi con lui alle feste di
Fonni...»
«
L'hanno veduto qui, l'hanno veduto là... L'avranno ammazzato... si sarà trovato
presente a qualche fatto di sangue e l'avranno soppresso perché non
testimoniasse...»
Il ritorno di zio Innassiu Arras diede un diversivo alla curiosità delle
donne. I parenti e gli amici del vecchio fecero una specie di questua per lui,
ottenendo una capra o qualche altro capo di bestiame da quasi tutti i pastori
del paese; così gli formarono un gregge ed egli riprese l'antica vita.
Solo alla domenica lo si vedeva in chiesa rigido e solenne, con la sua lunga
barba in colore del granito, calmo come un patriarca che avesse passato tranquillamente
la sua vita tra i suoi figliuoli e i suoi nipoti. All'uscita di chiesa andava
a sedersi sulle panchine della piazza con gli altri vecchioni, o si recava
da Jorgj Nieddu.
Un giorno nel passare davanti alla casa dei Corbu vide il nonno sul limitare
della porta intento a ritagliare un pezzo di canna per farne un astuccio da
fiammiferi. Si salutarono con un cenno del capo, ma sul viso di entrambi passò un
sorriso di reciproco scherno; mentre gli occhi verdastri del nonno guardavano
il bastone biforcuto, il mite vincastro al quale l'ex-bandito era tornato dopo
tanti anni di fiera ribellione, gli occhietti porcini di zio Innassiu fissavano
il coltellino e l'astuccio di canna del suo nemico: ed entrambi pareva si dicessero
con lo sguardo:
«
Ecco a che cosa sei ridotto!».
Columba accese il fuoco e preparò il caffè. Il nonno era assente
e la sua stuoia arrotolata e appoggiata all'angolo dietro il focolare pareva
vegliasse anch'essa nella notte fredda aspettando il ritorno del vecchio. Il
vento sibilava nel cortile. Appena Columba aprì la porta per andare
a prender la legna dal portico, un odore di erba e di terra bagnata la colpì,
ricordandole l'odore della stamberga di Jorgj.
Tenendosi coi denti il fazzoletto che il vento voleva portarle via, prese la
legna, rientrò e chiuse; ma l'odore la seguiva, ed egli era
lì, davanti a lei, piccolo e cereo in viso come un bambino morto, immobile
sul suo letto tutto bianco in fondo alla stamberga nera. Sì, ella aveva
fatto questo: era andata due volte da lui; la prima volta la notte di Pasqua,
senza osare di avanzar dalla porta, poi una mattina all'alba, prima che le
vicine si alzassero. Egli dormiva con la testa avvolta in un fazzoletto bianco;
il suo viso era ancora più bianco del fazzoletto, e i capelli neri divisi
sulla fronte, il cerchio violetto delle palpebre, l'ombra sopra il labbro superiore
si vedevano da lontano:
Sembrava un bimbo, un bimbo morto; era diventato così piccolo, doveva
esser leggero come un uccellino. Ecco perché Pretu riusciva a sollevarlo
e ad aiutarlo come un fratellino minore. Ed ella era fuggita senza svegliarlo,
s'era chiusa in casa, aveva ripreso a vagare per le camere e i nascondigli
quasi cercando il suo Jorgj d'altri tempi, quello che l'aveva baciata e insultata,
offesa e abbandonata. Ma non le riusciva più di trovarlo: era sparito
per sempre, lo studente protervo, il nemico di nonno Corbu; era morto, soffocato
forse dalle sue collere e dal suo orgoglio; ed era un altro Jorgj quello che
adesso giorno e notte viveva nel pensiero di lei, un piccolo Jorgj debole,
un bambino morente...
A volte ella desiderava di andare ancora da lui, di prenderlo fra le sue braccia
e cullarlo sul suo seno.
Il suo desiderio era simile a quello di una madre per un suo bambino lontano,
e anche la sua gelosia, al pensiero che un'altra donna era là, accanto
a lui, che lo curava e lo baciava, che giorno per giorno glielo prendeva tutto,
era la terribile gelosia della madre per un'altra donna che il suo bambino
ama più di lei. Davanti a questa passione materna sparivano i rimorsi,
la pietà, l'amore, la stessa gelosia d'amante. Il pensiero che Jorgj
morisse senza perdonarle, portandosi al di là il ricordo dell'altra,
la straziava giorno e notte.
Tutto questo non le impediva di dare l'ultima mano ai preparativi per le nozze.
Anche quella notte, fatto ch'ebbe il caffè ne bevette una tazza, poi
un'altra; depose il lume sopra una sedia accanto al focolare e si mise a cucire.
Il cane mugolava di tanto in tanto, altri cani rispondevano, e il vento nella
valle pareva l'eco di questi lamenti irrequieti. Columba sollevava la testa
ricordando le notti di terrore della sua infanzia, quando la mamma ascoltava
paurosa il vento che annunzia disgrazia; poi ripensava ai convegni con Jorgj,
alla sua paura di venir scoperti, e le pareva di sentir ancora i passi di lui,
nella strada, così leggeri che i palpiti del suo cuore le sembravan
più forti.
Ma è un inganno del suo cuore? Ecco che esso palpita di nuovo come allora,
così forte che i passi ch'ella crede di sentire, ch'ella sente davvero
davanti alla sua porta, risuonano meno. Per un attimo un velo le cade davanti
agli occhi e la separa dal presente; egli è lì...
egli è lì... e batte con le unghie alla porta. È guarito,
o forse è morto: ad ogni modo s'è alzato, ed è là,
come un tempo, e la vuole...
D'un balzo fu alla porta e aprì senza neppure domandare chi fosse.
«
Zia Colù! Sono io! Ho veduto luce e ho detto: forse lei deve fare il
pane. Datemi un po' di fuoco, perché il mio padrone si sente male, e
il mio carbone è così umido che non si accende, malanno al tempo!
Vi siete spaventata?»
Pretu entrò con una tegola in mano e andò dritto al focolare.
«
Tu stai lì anche alla notte? Che ha?» domandò Columba con
voce rauca.
«
No, di notte non ci sto quasi mai, ma si sentiva male già da ieri e
allora donna Mariana ha voluto che io dormissi là... Lei ci ha regalato
anche una macchinetta a spirito, ma io ho paura ad accenderla, può scoppiare
e allora è come se entrasse in casa il diavolo. Vi sentite male anche
voi?»
«
Mi sono alzata perché ho da lavorare. Prendine, prendine pure» ella
disse, spingendo con la paletta la brage nella tegola. «Che ha?»
«
Lo so io il male che ha! È viziato, adesso. Gli farò un po' di
caffè. Voi l'avete già fatto?»
«
Senti, Pretu: vuoi prenderne un po' in una scodella?... Ebbene, gli dirai che
lo avevi già pronto...»
«
Sì! Uomo da ingannarsi così, quello! È tutt'occhi...»
«
Va, va, anima mia», ella disse, visto che il ragazzo s'indugiava. «Magari,
dopo, se si addormenta, ritorni...»
Dalla porta vide la figurina nera di lui scender la strada rasentando il muro:
il vento rapiva un po' di scintille dalla tegola; i cani urlavano nelle tenebre
come anime infernali.
«
Io vado...», disse Columba a se stessa, e sceso lo scalino attirò a
sé la porta: ma il vento gliela prese di mano e la respinse quasi per
significarle che faceva male ad allontanarsi di casa sua.
Ella risalì lo scalino, richiuse, aspettò il ragazzo.
«
Jorgj morrà; ecco perché il vento sibila e i cani gemono. Madonna
mia del Consolo, egli s'è ammalato per colpa mia e una straniera bada
a lui... una che non lo conosceva, che non lo ha veduto ragazzo, che non ha
ballato con lui!...»
Sedette di nuovo accanto al fuoco e nascose il viso fra le mani. Eccolo, egli è di
nuovo davanti a lei, piccolo, cereo, magro... È ancora bambino: la matrigna
lo bastona ed egli fugge attraverso il viottolo: dall'alto si volge e piange
e ride nello stesso tempo, mentre lei, Columba, curva sulla finestra, lo segue
con uno sguardo di beffa crudele...
«
Da bambina ero cattiva», pensa in un momento di lucidità cosciente. «Perché avevo
piacere che la matrigna lo bastonasse? E adesso? È la stessa cosa. E
Banna è cattiva con me, e il nonno peggio ancora... Noi lo abbiamo bastonato,
il povero orfano: lo abbiamo ridotto così, entro quel letto, così piccolo,
così giallo... E la straniera...»
Il ricordo della straniera le dava un tremito nervoso; tutto il dispetto e
il rancore che aveva nutrito per Jorgj, adesso si riversavano sopra Mariana.
«
Ma io vado e glielo riprendo; io vado e appena egli mi vede dimentica l'altra.
Essa non può volergli bene: essa, m'han detto, si lava le mani dopo
che lo ha toccato, e non rimane a vegliarlo alla notte. Io posso star là cento
notti, mille notti, senza stancarmi, finché egli guarirà. E poi?
E il mio sposo? Ebbene, che egli vada in ora mala...»
Adesso le sembra di odiare anche il suo sposo. Di nuovo si alza, respinge col
piede il cestino da lavoro, torna alla porta. Il vento e i cani mugolano sempre
più lamentosi; forse Jorgj muore... Columba chiude la porta, lotta un
po' col vento che le solleva le vesti, scende il viottolo rasentando il muro,
come ha visto fare a Pretu... Il suo fazzoletto svolazza come un grande uccello
nero, contro il muro; ma arrivata all'angolo della casa dove questa svolta
verso il cortile di Jorgj, un colpo più furioso di vento la investe
tutta. Ha mutato parere, il vento; adesso la spinge laggiù, verso la
porticina nera filettata di oro, laggiù, verso il suo destino...
II.
Quando la vide apparire sulla porta, Pretu, accoccolato presso il fornello
a mano in attesa che il pentolino del caffè bollisse, diede un grido
di sorpresa.
Jorgj invece guardò silenzioso senza muoversi sembrandogli di continuare
a sognare. Una delle tante figure che la febbre faceva correre intorno a lui
s'avanzava nella stamberga illuminata da un moccolino deposto accanto a Pretu,
mentre l'ombra enorme del servetto copriva tutto il soffitto movendosi sfrangiata
sulle pareti come un ragno mostruoso. S'avanzava... s'avanzava... Era Columba...
E Columba si tirava il fazzoletto sugli occhi mordendone le cocche per un istinto
di nascondersi, o per celare e frenare il suo turbamento; ma arrivata davanti
al letto cadde in ginocchio, come un giorno il mendicante, affondò il
viso sulla coltre e scoppiò a piangere. Era un pianto nervoso, pieno
di grida simili a guaiti; ed ella sussultava talmente, annaspando con le mani
convulse la coperta, che Jorgj e Pretu spaventati ebbero entrambi il medesimo
dubbio: che fosse diventata pazza.
«
Zia Colù... zia Colù...», disse il ragazzo con voce tremante,
senza riuscir a dir altro.
Jorgj guardava: finalmente mormorò con la voce velata dei febbricitanti:
«
Pretu, accendi la candela e va fuori un momento...»
Allora Columba sollevò il viso, balzò in piedi.
«
Perché lo mandi via? Non m'importa che mi veda... né lui né altri
m'importa più che mi vedano...»
«
Be', calmati allora! Cosa vuoi?»
«
Voglio sapere come stai...»
«
E non lo vedi? Adesso te ne sei ricordata... a quest'ora?...»
Che amarezza fredda tagliente nella sua voce! Ah, era sempre lui, il suo Giorgio
grande e superbo, che la umiliava ancora; ma s'egli in fondo al suo letto caldo
di febbre era sempre lo stesso, ella era diventata piccola e debole; la sua
anima spezzata si piegava e si lasciava umiliare come il ramo stroncato dalla
bufera.
Pretu depose la candela sul tavolinetto e il viso di Jorgj apparve pallido,
pieno di disgusto, con gli occhi come coperti da un velo lucente. Columba s'asciugava
il viso con la manica della camicia, appoggiando le ginocchia tremanti al letto,
un po' curva sul malato dal cui petto scoperto esalava un calore ardente, un
odore di febbre.
Anche le mani di lui tremavano annaspando le lenzuola.
«
A quest'ora, sì...», ella balbettò. «A quest'ora... È notte,
lo so, ma fa lo stesso, per me... La notte è peggio del giorno...»
«
Che cosa vuoi?», egli ripeté meno duramente.
«
Che tu mi perdoni.»
«
Cento volte ti ho perdonato, prima d'oggi. Va, torna a casa...»
«
Non è vero, tu non mi hai perdonato, Jorgj, anima mia! Non mi cacceresti
via, adesso...»
Egli non rispose.
«
Così dovevamo rivederci, Jorgj! Ah, tu te ne sei andato e non sei ritornato
mai più!»
«
Dovevi venire tu, Columba!»
«
Avevo paura che tu mi cacciassi via! Ed ecco che lo fai!... Perché?»
Egli esitava a rispondere: che doveva dirle? Che non gli importava più nulla
di lei?
«
Dovevi venir prima... molto prima; lo sapevi. Adesso!...», disse sollevando
e scuotendo la mano come per accennare a qualcosa che svanisce per aria.
«
Adesso... tu puoi guarire; stando tranquillo lo puoi... ha detto il dottore!
Io ti curerò... vedrai. Sì, sì, il dottore dice che se
tu provi una gran gioia puoi guarire... Ecco perché son venuta... Lo
vedi, lo vedi? Sono qui... sono Columba, la tua Columba! Mi riconosci, Jorgé,
dimmi, mi riconosci?»
Egli la guardò con pietà. Ah, era lei che delirava!
«
Io non guarirò mai, Columba; ma non importa... non prendertene pensiero;
va, sta tranquilla, non pensare a me... Perché t'è venuto in
mente, adesso, di pensare a me?»
«
Io ci ho sempre pensato... Sei tu che non mi volevi bene... come io desideravo!
Tu mi umiliavi sempre: io ero una donna ignorante, per te! Sì, sì,
lo ero davvero; rimproverami pure, ma non mandarmi via! Jorgeddu mio, perdonami:
io sono qui come una che sta per morire e va da chi può darle un rimedio...»
Egli non rispose. Ah, il suo silenzio la esasperava più che le parole
amare di lui. Ella cominciò a torcersi le mani.
«
Non mi senti? Non mi dici nulla? Io sono più malata di te, io odio tutti...
tutti quelli che ci hanno assassinato... Se ci avessero lasciato in pace nulla
sarebbe accaduto... lo capisco, non credere che sia così stupida! Io
non so parlare, ma so pensare. Qui dentro, qui dentro», aggiunse stringendosi
la testa con le mani, «qui c'è qualcosa che arde sempre... Certi
momenti mi viene il desiderio di battermela contro una pietra, questa testa
maledetta. Sì, quando ci vedevamo io tacevo, ma tante cose mi venivano
in mente: e tu non capivi... tu credevi che io era una stupida, cattiva e finta...
Ecco perché non mi potevi vedere... E anche quel giorno, quando tu sei
tornato da Nuoro, ed io ti ho raccontato quell'orribile fatto... anche quel
giorno tu non hai voluto sentirmi, ed io non ho saputo parlare... Se no, non
sarei qui, adesso, a quest'ora, e tu non saresti così... così,
così, anima mia, ridotto così, come uno straccio, buttato lì,
piccolo... malato, come un povero bimbo orfano e paralitico...»
Lagrime di pietà le solcavano il viso, né ella cercava più di
nasconderle; ed anche lui sentiva aumentare la sua pietà per lei.
«
Pretu», disse ancora al ragazzo che ascoltava avidamente, «senti,
vattene fuori: abbiamo da parlare di cose che tu non devi sentire...»
«
Ma io non dirò niente, zio Jò! Ve lo giuro in mia coscienza;
può testimoniarlo zia Columba, se io mai ho aperto bocca. Ditelo dunque...»
Ma essa non badava a lui.
«
E questo caffè lo volete o no? Ecco; poi starete meglio.»
Versò il caffè nella tazza slabbrata soffiandovi su per farlo
raffreddare; Jorgj cercò di sollevarsi; Columba gli mise una mano dietro
la testa, prese la tazzina e gliel'accostò alle labbra... Ma la tazzina
sobbalzava per i singhiozzi di lei; egli la tenne ferma, bevette, si sentì racconsolato.
«
Prendi anche tu un po' di caffè, Columba, e mettiti a sedere, ma calmati;
mi fa male la testa, ho la febbre e non posso vederti a piangere... Che ora è?»,
insisté rivolto a Pretu. «Mi pare di veder albeggiare: se tu andassi
a prendere il latte?»
Il ragazzo capì che bisognava assolutamente andarsene; prese la bottiglia
del latte e uscì. Allora anche Columba parve calmarsi: sedette sullo
sgabello e tentò di metter la sua mano su quella di Jorgj: ma egli istintivamente
la ritirò ed ella capì da questo gesto più che da qualunque
parola che nulla più di comune vi era fra loro.
«
Io sono contento che tu sii venuta. Devo morire ed è meglio che me ne
vada in pace con tutti... Ma, non voglio che si ricomincino le questioni...
fai male a me ed a te...», egli le disse con tristezza.
«
Io sono padrona di me; posso fare quello che il cuore mi detta...»
«
Dovevi farlo prima: adesso è tardi!»
«
Perché tardi? Perché sei malato? Ma io starò qui e ti
curerò; se tu ti fossi ammalato dopo non sarei stata
con te lo stesso?»
«
No, tu non mi capisci, Columba!»
«
Ti capisco, invece! Tu non mi vuoi più bene; tu vuoi dire questo. Tu
hai ragione: io ti ho rovinato... Ma tu sei solo, anima mia; chi ha cura di
te? Un povero ragazzetto ignorante e ciarlone. Anche se tu non mi vuoi bene
io resterò lo stesso... sarò io la tua serva... e tu, un po'
per volta, mi vorrai bene ancora; io lascerò tutti, per te, parenti,
amici, lo sposo, il nonno... tutti, tutti... come tu volevi...»
«
Ma adesso non voglio più! Allora ero sano. Se tu venivi forse non mi
ammalavo...»
«
Chi lo sa? Forse il dispiacere continuava lo stesso... Se io venivo, la calunnia...
la calunnia... continuava...»
Ella non proseguì; pareva avesse difficoltà a pronunziare le
parole che ricordavano l'orribile fatto. E si meravigliò nel sentir
Jorgj a parlarne con calma.
«
Non è vero! Se tu venivi io non mi ammalavo: io trovavo la forza per
lottare. Non mi sono mai curato della calunnia; doveva cadere, come tutte le
calunnie, col tempo. La verità esiste, Columba: chi ti ha spinto adesso
a venir qui, a quest'ora? La verità! Ah, sono contento per questo! E
verrà qui anche il tuo nonno, e tua sorella, e tutti i miei nemici.
Se tu venivi subito, da me, entrambi avremmo sentito questa gioia che adesso
io solo sento: e non mi sarei ammalato... Ma non importa... Sono contento lo
stesso; solo mi dispiace per te. Ma bisogna che anche tu ti faccia forza, e
che tu capisca...»
Ella capiva; confusamente, ma capiva.
«
Tu sei intelligente» egli proseguì: «per questo ti ho voluto
bene. Se tu fossi nata in un'altra casa... oh, come saremmo stati felici! Come
tanti altri, che si incontrano, si amano, formano una famiglia... Ma è inutile
pensarci, adesso! Tu, del resto, non sarai sfortunata, la famiglia l'avrai,
sarai una buona madre, ti dimenticherai di me. Va, va, ritorna a casa e sta
tranquilla; tuo nonno non c'è, vero? Che quando ritorna ti ritrovi a
casa... va, va, e che tua sorella non si accorga che sei venuta... Col tempo
verranno anch'essi qui; ma adesso non irritarli... Va...».
«
E se io volessi restare? Che faresti?»
«
Io? Nulla, Columba! Che posso fare, io, Columba?», egli disse, con un
sorriso che la offese più di qualunque minaccia. «Non potrei certo
prenderti per il braccio e ricondurti alla porta; ma...»
«
Io dico che se io restassi, Jorgj, tu finiresti col volermi bene ancora...»
«
Cristo disse di voler bene anche al nemico; ed io non ti voglio male; ma appunto
perché non ti voglio male ti ripeto: vattene, è meglio per te...»
«
Ma se io restassi?... Se io restassi?...», ella ripeteva febbrilmente.
«
Il tuo posto non è qui. Se tu restassi contro la mia volontà mi
faresti credere che vuoi tormentarmi ancora... È inutile... è inutile...»
Allora Columba tacque, e per alcuni momenti un silenzio grave di tutti i ricordi
e di tutti i rimpianti li riunì più che tutte le inutili promesse
e le inutili spiegazioni.
Ella parve a un tratto destarsi dal suo sogno e capì che doveva andarsene;
ma la pietà e la gelosia la trattenevano ancora.
«
Che accadrà di te, Jorgeddu? Come farai?»
«
Come ho fatto finora...»
«
Ah, finora? Sei vissuto disperato: avevi chiuso la porta... eri come un condannato
in cella...»
«
D'ora in avanti non sarà così: farò la pace con tutti,
vedrai, persino col nonno: diglielo, anzi: se vuol venire che venga...»
Columba scuoteva la testa, curva, a occhi chiusi, con le mani giunte.
«
Tu parli così, adesso, perché sei contento: lo so, sì,
che sei contento... Ma quando sarai di nuovo solo, chiuderai di nuovo la porta...»
«
No, no, vedrai: non sarò più solo...»
E di nuovo tacquero. Né l'uno né l'altra pronunziarono il nome
della straniera; ma ella era in mezzo a loro, ed egli la vedeva, bianca e ridente,
con le vesti che pareva susurrassero esalando un profumo di fiori; e gli sembrava
che ella spalancasse la porta della stamberga e fosse lei a far inargentare
il cielo sopra l'altipiano, a far cessare il vento, nell'alba di maggio, a
far cantare le cinzie fra i cespugli umidi del ciglione.
Anche Columba credeva di vederla, bianca, con gli occhi scintillanti, come
quella mattina su al balcone del Municipio: la sua voce le diceva:
«
Vattene, vattene; non ti vergogni a star qui, dopo che ti sei legata con quell'altro?».
Sì, bisognava andarsene: era l'alba, il nonno poteva tornare da un momento
all'altro, trovarla lì, bastonarla.
La realtà la riprendeva, a misura che la luce penetrava dal finestrino
e dalle fessure della porta.
Pretu rientrò.
«
Il vento è cessato; finalmente torna il bel tempo. Ecco il latte; ma
mi ha dato una cattiva misura, stamattina, zia Artura.»
Jorgj guardava Columba pallida come l'alba, e pensava: «Perché non è venuta
prima? Ne avrei davvero provato tanta gioia da sollevarmi. Adesso è tardi... è troppo
tardi...».
«
Quando ti sposi?», le domandò.
«
A Pentecoste.»
«
Così presto? Te ne vai subito?»
«
Subito.»
«
E il nonno con chi resta?»
«
Solo: forse si cercherà una serva...»
«
Io ne so una...», disse subito Pretu che versava il latte dalla bottiglia
al tegamino.
In quel momento s'udì nella straducola un passo di cavallo, e Columba
balzò in piedi pensando al nonno.
«
Non è lui», disse Jorgj, che conosceva il passo del cavallo di
zio Remundu. «Però, sì, è meglio che tu te ne vada.
Addio e... buona fortuna...»
Columba si nascose gli occhi col lembo del fazzoletto, porse l'altra mano.
«
Addio; stringimi almeno la mano... Jorgj Nieddu!...»
Egli prese quella mano piccola, dura e bruna, che un tempo gli era parsa la
mano di Rachele e la strinse nella sua umida e ardente; ma pensava alla mano
piccola molle e bianca di Mariana, e Columba indovinava questo pensiero!
«
Addio», ella ripeté, e uscì rapida, col viso nascosto nel
lembo del fazzoletto.
Ma quando fu nel cortile si scoprì guardandosi attorno timida e diffidente
come una cerbiatta smarrita. Tutto le sembrava nuovo intorno a lei, e la luce
chiara dell'alba le destava meraviglia.
Se ne andò come era venuta, incalzata dalla pietà e dalla gelosia;
e tornò a chiudersi nella vecchia casa aspettando che il nonno tornasse:
ma anche là dentro penetrava la luce, ed ella continuava a provare un
senso di stupore come se tutte le cose avessero cambiato aspetto.
Pretu intanto scaldava il latte, dopo aver spento la candela, e diceva:
«
Se Columba non si sposasse, chi sposereste voi, zio Jò; lei o la sorella
del Commissario?».
Ma Jorgj aveva chiuso gli occhi e pareva dormisse, vinto da uno di quei sonni
profondi che lo coglievano dopo una crisi nervosa.
Il vento era completamente cessato; nell'alba argentea come un chiaro di luna,
un grillo cantava ancora; e quel zirlio tremulo dava a Pretu l'idea d'un filo
che uscisse dalla bocca della bestiola, sottile come quello dei ragni, imperlato
dalla rugiada.
All'improvviso Jorgj trasalì svegliandosi di soprassalto; spalancò gli
occhi, li richiuse, ricadde nel suo sopore mormorando:
«
Il nonno... il nonno...».
Pretu dapprima credette che il padrone sognasse, ma poi sentì davvero
un passo di cavallo nel viottolo.
«È
zio Remundu che torna... Adesso vado ad ascoltare cosa gli dice Columba...»
Non era la prima volta che si prendeva quel gusto: uscì quindi nel cortile
senza troppo affrettarsi, dopo aver tolto il latte dal fornellino e coperto
il fuoco, e s'avanzò cauto lungo il muro, fino alla porta di Columba.
Il cielo si colorava sopra la straducola, in fondo alla quale si vedeva una
lontana cima di monte rossa come un bocciuolo di rosa. L'aurora trionfante
di maggio saliva dal mare, e tutte le cose stanche dal vento ch'era appena
cessato pareva l'accogliessero stupite più che liete. Nel silenzio,
- anche i cani e i galli tacevano, - si sentiva la voce di Columba ma lontana,
dal portico, e solo si distingueva qualche parola; a un tratto però la
voce del nonno tonò in cucina, così forte che Pretu si scostò di
là spaventato.
«
Tu sei pazza, nipote mia; che sogni hai fatto stanotte?»
La voce di Columba brontolava laggiù; spinto da un'ispirazione felice
Pretu rientrò nel cortile e s'arrampicò sul muro, a costo di
esser veduto dalla ragazza. Ah, di lassù si sentiva bene: sporgendo
un po' la testa egli poteva anche veder Columba che rimetteva in ordine alcuni
oggetti e attaccava ai piuoli la sella, il freno, le bisacce. Il vecchio cavallo
del nonno ruminava l'erba, insensibile alle vicende dei suoi padroni.
«
Sì, brutti sogni ho fatto!», ella disse; e tacque; poi riprese
più forte: «tutta la mia vita è un brutto sogno! Bella
Pasqua di rose sarà la mia: rose piene di spine velenose... Voi l'avete
voluto... Voi... Voi... Voi...».
La sua voce rauca vibrava di dolore più che di collera, e il nonno dovette
commuoversi perché tornò a uscire nel portico e disse con tristezza
ma anche con una certa solennità:
«
Columbé, nipote mia! L'avevo detto già che non bisognava lasciarti
sola! Il demonio ti accerchia, quando sei sola! ed è una brutta compagnia,
quella! Chi è venuto da te? Cosa ti hanno raccontato?»
«
Nulla mi hanno raccontato. Volete sentirlo? Ho veduto io con questi occhi...
sì, sì... fate quel che volete, non vi temo più, babbu Corbu!
L'ho veduto io quel disgraziato; è piccolo piccolo, come un bambino
paralitico; è dentro la sua tomba come un agnellino ferito... E voi
gridate? Oh, gridate pure, come l'avvoltoio dopo che ha ferito l'agnello, ma
Dio non paga giorno per giorno; e la punizione verrà!»
«
Verrà per te, lingua infernale, donna pazza come il vento...»
«
Per me è venuta, babbu Corbu! Da molto è venuta,
e verrà... sempre più forte... Ah, voi non volete lasciarmi sola
perché il demonio mi tormenta! Dunque lo sapete! Sì, sì,
il demonio mi tormenta, giorno e notte, e non mi lascerà in pace finché non
morrò... Ma chi l'ha voluto? Voi... Voi... Voi...»
Ella parve vacillare: appoggiò il braccio al muro come per non cadere,
il viso sul braccio, e ricominciò a piangere.
Il vecchio taceva sbalordito. Andò accanto al cavallo, gli palpò il
fianco, tornò nel portico; le sue dita s'aprivano e si chiudevano come
artigli, ed egli sembrava combattuto dal desiderio e dal timore di bastonare
la nipote.
Ella piangeva appoggiata al muro e diceva:
«
Se mi aveste ucciso, quando ero in culla, avreste fatto meglio! Cosa avete
fatto di me, dite, dite? Mi avete piegata in due, mi avete legata come un covone
d'orzo... Be', adesso sarete contento; e anche sorella mia sarà contenta...
Ci vedrete morire tutti e due, lui, il povero colombo, nella sua grotta scura,
io laggiù, nella casa ricca di Zuampredu Cannas... Io camminerò ma
sarò più paralitica di lui; finché cadrò come un
frutto marcio. Allora sarete ancora più contento, voi... voi... voi...
Seduto accanto al focolare deserto, solo come lo sparviero fra le pietre, direte:
così va bene...».
Il vecchio mugolò di rabbia e di dolore slanciandosi contro di lei col
pugno sollevato.
«
Basta, Columba! Taci una buona volta, o ti strappo di bocca quel serpente di
lingua, Ah», disse poi quasi soffocato dall'ira, scostandosi e battendosi
la testa col pugno, «perché son vivo? Nemici ne ho avuto, da combattere,
ma nessuno come te, nipote mia... Meglio m'avesse colto una palla in mezzo
alla foresta, e i corvi m'avessero spolpato come una pecora... Tu mi uccidi
peggio, nipote mia, tu mi spolpi peggio, Columbé!»
Ella mormorò qualche parola, ma il vecchio gridò ferocemente:
«
Basta, adesso, perdio!», ed ella tacque continuando a singhiozzare.
Aggrappato al muro Pretu provava un'impressione quasi di vertigine: gli anni
passeranno, egli non dimenticherà mai quella scena, i sospiri e il mugolio
del vecchio, i pugni che egli si dava sul capo quasi per sfogarsi, per impedirsi
di darli a Columba; le parole e il pianto disperato di lei che s'era appoggiata
al muro come fosse ferita e invece di lagrime versasse sangue.
Finalmente il nonno disse, calmatosi alquanto:
«
Be', ricordati quello che ti ho detto l'altra sera: sei libera ancora, fa quello
che vuoi. Vuoi tornartene lì, da quel malaugurato pezzente? Torna pure:
io non aprirò più bocca. Ma che sia finita; va!».
Columba sollevò il viso e disse con accento di sfida:
«
Se egli mi avesse voluta non sarei qui!».
«
E allora cos'è che vuoi?»
«
Nulla voglio, per me! Io ho tutto» ella riprese con cupa ironia; «che
cosa mi manca? Voi mi avete procurato tutto... Ma a lui bisogna restituire
il mal tolto: questo voglio...»
E si drizzò davanti a lui minacciosa.
«
Questo voglio!»
Ma la pazienza del nonno era esaurita. Senza più pronunziar parola sollevò di
nuovo la mano e la percosse. Pretu sentì il rumore degli schiaffi e
si sporse risolutamente sul muro gridando:
«
Lasciatela, lasciatela! Corvo!».
Ma il vecchio parve non sentirlo e continuò a dar pugni e spintoni a
Columba, finché non l'ebbe ricacciata in cucina.
Tutto fu di nuovo silenzio; anche il vecchio cavallo aveva smesso di ruminare
l'erba e scuoteva la coda inquieto. Pauroso che il vecchio cercasse di bastonarlo,
Pretu rimase per qualche momento appollaiato sul muro; poi saltò a terra
e corse col proposito di raccontare ogni cosa al suo padrone. Ma Jorgj dormiva
tranquillo e per ogni buon fine Pretu chiuse a chiave la porta del cortile.
III.
Nonostante il diversivo di Jorgj Mariana cominciava ad annoiarsi, lassù nel
paesetto ventoso. I poteri del Commissario suo fratello scadevano in giugno;
ma ella voleva partire prima. Il cattivo tempo le guastava il piacere di render
felice il suo disgraziato protetto; la pioggia le sciupava i vestiti, i cappelli
e soprattutto le scarpette. E soprattutto la preoccupazione per le sue scarpette
aumentava il suo cattivo umore: ella doveva pulirsele da sé, poiché la
serva di zia Giuseppa Fiore invece di crema e di biacca non si peritava a usare
sevo e lucido; e pulendosi le scarpette ella si sciupava le unghie a punta
simili a spine di rosaio novello. Bisognava partire, scuotersi da quella specie
di sogno fatto di chiaroscuri, di poesia e di tristezza, di pietà e
di disgusto; era tempo di consultare i cataloghi dei Magazzini del Louvre e
di ordinare le belle robe per l'estate.
Talvolta, seduta davanti al letto dello studente mentre egli la guardava come
un poeta melanconico denutrito guarda la stella della sera, ella cadeva in
una meditazione profonda: doveva o no ordinare anche le calze, in colore del
vestito? Ma se la Moda illustrata diceva che si usavano
violette? ebbene, poteva ordinarle violette e anche in colore del vestito...
Risoluto il problema ella si scuoteva ridendo e diceva a Jorgj:
«
Sono frivola, vero? Talvolta non posso dormire, pensando a queste piccolezze,
e provo rimorso perché so che al mondo c'è tanta, gente che soffre;
poi alla mattina mi alzo allegra come un passero perché deve arrivare
il pacco da Parigi. Quando arriva, questo pacco, mi pare che arrivi un pezzetto
stesso della gran città! Sa quanti veli ho? Indovini...».
«
Tutti i veli di un crepuscolo di ottobre e di una notte lunare di aprile...»
«
Sì», ella riprendeva, seria «per la spiaggia occorrono molti
veli. Sì, quest'anno si va a Viareggio: mia cognata mi scrive che ha
già fissato un appartamento nel Viale degli Oleandri, sa, una strada
tutta ombreggiata da oleandri in fiore... Conosce i versi di Gabriele d'Annunzio?»
Ma il viso di lui si copriva di ombra; ella sentiva freddo al cuore, come nei
primi giorni di autunno, e riprendeva quasi sottovoce:
«
Guai se piove, però! Viareggio si copre di fango, allora, e la pineta,
coi monti che fumano come vulcani, mi sembra la landa del mio caro paese natìo:
mi pare ci sieno anche i corvi...».
Per confortarlo finiva col suggestionarsi; i bei posti ai quali di solito pensava
con nostalgia, le sembravano melanconici e inospitali. Bisognava scappare presto;
altrimenti avrebbe finito con l'ammalarsi anche lei nonostante le abluzioni
e le disinfezioni che praticava ogni volta che tornava a casa dopo aver visitato
Jorgj. Una cosa la tratteneva ancora; il fermo proposito di condurre suo fratello
a far visita al malato; ma il Commissario era restio, aveva paura di fare un
atto grave, quasi compromettente, contrario ai principii d'imparzialità assoluta
che si era imposto nell'andar a governare un paese di puntigli come Oronou.
I casi di Jorgj, riferiti e commentati quotidianamente da zia Giuseppa, dalla
serva Lia, da Mariana e da tutte le conoscenze di questa, non lo commovevano
più, o meglio non lo avevano mai commosso: egli ci scherzava su, e quando
aveva tempo e voglia si divertiva anche a far stizzire le donne, zia Giuseppa
in ispecial modo, mettendo in dubbio l'innocenza e la virtù del disgraziato
studente. Riguardo alle visite di Mariana al malato, egli non vi si opponeva,
anche perché sapeva che sarebbe stato inutile, ma aveva quasi piacere
che ella partisse, pur di sapere interrotta una relazione inutile a lei, noiosa
per lui.
«
Il disgraziato, poi, partita te, sarà più disgraziato di prima»,
diceva a Mariana, nei brevi momenti che si vedevano intorno alla tavola di
zia Giuseppa.
«
Non sarà più disgraziato perché almeno avrà un
ricordo buono, fra tanti cattivi, e... una speranza...»
«
Quale?»
Ella sorrideva, guardando la florida bruna Lia che serviva a tavola silenziosa
e tutta compresa da un sacro rispetto per l'alta dignità del Commissario.
E Lia metteva sulla mensa, con una mano sola, un gran piatto con l'arrosto
di montone per venti persone, pensando: «ella lo sposerà, se egli
guarisce e diventa dottore»; mentre il Commissario, preoccupato e nervoso,
diceva senza aspettare la risposta della sorella:
«
E neanche oggi insalata, Lié? Ma che paese è questo? Neanche
in primavera avete erba?».
«
Erba ce n'è, missignoria, ma non fa per vosté; è di
campagna.»
«
Che cos'è? Cicoria? Ma se ti ho detto mille volte che la voglio: puliscila
subito e portala.»
Uscita Lia, Mariana diceva:
«
Quale speranza? Quella del mio ritorno!».
«
Tu? Ah, ah, tu tornerai qui quando ci ritornerò io, mia cara! Si viene
in questi posti come si va in Terra Santa: una volta e basta.»
«
Io non ho detto che tornerò; ho detto che lui avrà la speranza
del mio ritorno...»
«
Ed egli s'innamorerà di te.»
«
Non può più innamorarsene perché se n'è già innamorato.»
«
E tu credi di far del bene?»
«
Molto bene. Si vive d'illusioni, caro mio. D'altronde se tu vieni a fargli
visita tutto il paese si metterà ad adorarlo; egli riavrà la
sua buona fama, e forse anche guarirà. Io voglio questo...»
«
Io non verrò! Ho abbastanza noie.»
«
Tu verrai, non solo, ma gli farai assegnare dal Comune un sussidio mensile...»
«
Tu diventi matta, cara mia! Senti, è meglio che tu parta...»
«
Io non partirò se tu non verrai a fargli visita...»
«
Be', Lia, quest'insalata?»
Lia rientra, grassa eppure agile, col piatto della cicoria nerastra e la bottiglia
dell'olio appoggiata al seno colmo; il suo viso fino e bruno è atteggiato
a severa dignità.
«
La padrona non voleva che missignoria mangiasse di questa
erba.»
«
Dille che anche Gesù nel deserto si contentava di quello che aveva.»
«
Vieni oggi, Mariano? Su, vieni, così parto tranquilla! Parto domani,
se vieni oggi.»
«
Ma neanche per sogno! Forse prima di partire... un giorno o due; ma per adesso
no, è inutile, non vengo, non voglio aver seccature.»
Il giorno dopo la visita notturna di Columba al malato, Mariana e prete Defraja
entrarono nella stamberga.
Ella si tolse il cappello, prese di mano al prete il tricorno e se lo misurò,
guardandosi nello specchietto, di cui Jorgj, ancora abbattuto dalle vicende
straordinarie della notte, seguiva con gli occhi tristi il riverbero danzante
sui muri.
Egli pensava a Columba sembrandogli di veder ancora la figurina nera di lei
piegata convulsa implorante perdono e amore. Ah, quale contrasto fra le due
donne; una nera e piena di mistero come la notte, l'altra bianca e lieta come
il giorno! Egli la guardava e sentiva cessare i suoi mali.
«
Finalmente abbiamo bel tempo», disse prete Defraja passandosi la bianca
mano sui capelli dorati. «Ma adesso verrà subito il caldo, che,
a quanto dicono, qui non scherza!»
«
Ma se in casa sua si sta come sulle Alpi!», disse allora Jorgj scuotendosi. «Su
nella piazza c'è sempre fresco, e dalla panchina di angolo si vede il
mare... Ah, come mi piace quella panchina! Io ci stavo ore ed ore.»
«È
bello, sì: ma è anche lontanuccio quel mare...»
«
Io amo il mare così da lontano», disse Mariana rimettendo lo specchietto
nella borsa e il tricorno nelle mani del prete. «Ah, il suo cappello
non mi piace; eppoi porta disgrazia. Se lo tenga, non lo voglio!»
«
Ma io non glielo avevo dato, signorina!»
«
Se lo volevo, lei me lo dava!»
«
Ma neanche per sogno.»
«
Un altro mi diceva così, per un'altra cosa», ella disse con forza,
guardando il prete negli occhi, «e invece adesso s'è piegato e
farà quello che vorrò io!»
«
Chi? Chi?», domandarono a una voce i due uomini, indovinando ch'ella
accennava al fratello. Jorgj arrossì d'emozione.
Ah, se il Commissario si decideva a fargli visita, la sua rivincita era completa!
Mariana però non volle dire altro. Trasse da un pacco che aveva portato
con sé un grosso volume e da lontano fece leggere il titolo ai due uomini:
il prete si nascose gli occhi con la mano ed ella si mise a ridere.
«
Tanta paura le fa? Ha ragione! È un libro di vita e di morte, e tutte
e due sono terribili! Ma il signor Giorgio lo leggerà con piacere perché lui
non ha paura né dell'una né dell'altra.»
«
Dia, dia», supplicò il malato tendendo la mano mentre il prete
scuoteva la testa e muoveva le labbra come mormorando uno scongiuro.
Mariana ficcò il libro sotto il cuscino di Jorgj: era Forse
che sì forse che no.
«
Io ho visitato il palazzo ducale di Mantova cinque anni or sono. Sì,
proprio cinque anni or sono; cosa crede, ch'io sia giovane? Son vecchia, prete
Defrà: se no, non mi farei accompagnare da un uomo pericoloso come lei!
Sì, ricordo la sala del Paradiso, dalle cui vetrate si vede il lago
melanconico come uno stagno. Mi ricordo: era d'autunno; attraverso i canneti
gialli salivano piccole nubi rosse che mi sembravano fenicotteri, i bei fenicotteri
vermigli consacrati al sole... Poi ricordo la sala da pranzo coi grandi fiumi
rappresentati da vecchioni incoronati di giunchi... e la galleria degli specchi,
e il letto di Napoleone, simile al letto di tanti altri piccoli uomini sconosciuti;
e la camera dell'Imperatrice con le pareti coperte da un velo finto; e le salette
di Isabella col ritratto di lei sullo stipite dell'uscio... Ma il palazzo del
T m'ha fatto più impressione del palazzo ducale: è ancora più abbandonato,
più triste, ma d'una tristezza solenne. Guarda su una peschiera vuota,
su un giardino desolato, pieno di qualcosa di tetro, di più tetro dell'acqua
morta di certi stagni; pieno di ricordi! In fondo c'è una grotta con
stalattiti che non splendono più, con una fontana che non dà più acqua;
e sulle pareti delle sale, nel palazzo, cavalli enormi e giganti che hanno
la fisonomia bonaria dei mantovani moderni, viso rosso, occhi chiari, capelli
e baffi rossicci, labbra grosse e fossetta sul mento, s'agitano in una lotta
che dura da secoli ed è sempre tanto grandiosa quanto vana...»
I due uomini ascoltavano, e sebbene ancora accigliato il prete finì col
domandare:
«
Signorina, perché non scrive?».
«
Sì! Ho scritto una novellina, una volta, e me l'hanno subito pubblicata
e subito criticata: sì, ho avuto questo successo; mi dissero subito
che la mia novella era "deprimente", vale a dire peggio che immorale.
Come era? Chi lo ricorda più?»
«
Perché non continua a scrivere?»
«
La signorina è una brava pittrice, anche», disse il prete, «ma
non vuole neppure dipingere... Allora...»
«
A che, prete Defrà?», ella riprese di nuovo fissandolo. «Tutte
le nostre battaglie sono come quelle dei giganti negli affreschi di cui parlavo:
possono durare secoli e non finiscono se non quando il tempo le cancella. Meglio
non far nulla; meglio restare immobili come il nostro Jorgj Nieddu: egli solo è il
forte: noi andiamo, andiamo, giriamo come farfalline intorno al lume, cadiamo
con le ali bruciate...»
«
Le sue parole sono deprimenti come la sua novella», disse Jorgj fattosi
scuro in viso. «Lo so, tanto, perché parla così. Perché vuol
partire!»
Allora ella cambiò ancora discorso.
«
Sa chi ho veduto, poco fa?... Il dottore che andava a caccia. Si voltava e
rivoltava e io, tutta lusingata, credevo fosse per me... Ma poi vidi la sua
Margherita che veniva su. Sentite: io ho osservato una cosa curiosissima. Il
dottore è brutto, vero? È l'uomo più brutto del paese!
ebbene, quando sta vicino a quella ragazza diventa bello: sembra giovane, ha
gli occhi luminosi, il viso pieno di dolcezza... Eppure in casa di zia Giuseppa
si parla di un avvenimento straordinario. Il dottore cerca un marito per Margherita
perché, dicono, ha paura di sposarsela lui!»
Ma i due uomini avevano appena cominciato a commentare il fatto, quando Mariana
tornò a frugare nella sua borsa ricordandosi che aveva da dare qualche
altra cosa a Jorgj.
«
Mi prometta di non farla vedere a nessuno: neanche a prete Defraja. Volti la
testa dall'altra parte; non voglio che veda, lei, prete Defraja!»
Porse una busta al malato, ed egli ne trasse il ritratto di lei, su un cartoncino
oblungo; i capelli sfumavano su uno sfondo tenebroso, ma avevano qua e là qualche
riflesso bianco: una collana sarda di argento brunito, fatta di rosette, di
simboli, col pesce, la colomba, la spada, l'uomo a cavallo, le circondava il
collo nudo. Le labbra sorridevano benevole e infantili mentre lo sguardo era
triste e quasi minaccioso.
Il prete si curvò a guardare.
«È
proprio lei; il diavolo vestito da angioletto!»
Quasi offeso Jorgj mise l'immagine diletta nel cavo delle sue mani giunte,
come in una nicchia, e stette a guardarsela, tutta per sé, finché prete
Defraja non si decise ad andarsene. Rimasto solo con Mariana sollevò gli
occhi e disse:
«
Grazie. Adesso, anche se lei partirà io sarò più tranquillo...»,
indi aggiunse sottovoce: «sa, stanotte è venuta Columba...».
Credeva che Mariana si meravigliasse e s'ingelosisse; ella invece sedette accanto
al letto tranquilla pregandolo di raccontarle tutto.
«
Lo sapevo», disse quando egli ebbe raccontato. «Doveva succeder
così. E adesso che fare? Come mandar via l'altro sposo?»
«
Ma perché mandarlo via?», disse Jorgj irritandosi. «Io non
amo più Columba; credevo di odiarla, ma mi sono accorto che neppure
la odio; solo mi desta pietà.»
Ad onta di queste proteste, Mariana restava pensierosa. Ma ad un tratto si
scosse e parve riprender la sua solita gaiezza per annunziargli che suo fratello
il Commissario, pregatone anche da prete Defraja, s'era finalmente deciso a
fargli visita. Mentre Jorgj si rallegrava per questa notizia ella riprese a
filosofare.
«
Chissà!», disse appoggiando la guancia al pomo dell'ombrello. «Lei,
signor Giorgio, è qui, vinto dalla sua passione per quella donna; e
adesso... adesso... dice che non gliene importa più nulla! Perché?
Perché le nostre passioni cadono come vapori? E il peggio è che
rinascono sempre, ritornano sempre, appunto come i vapori nell'aria! E così,
lei mi dimenticherà, signor Giorgio! Guarirà, si alzerà,
tornerà ad amare e ad odiare: e un bel giorno troverà fra le
sue carte la mia fotografia sbiadita e dirà: è di quella signorina
frivola che era venuta al mio paese...»
«
Non si prenda gioco di me! Io non sono né il dottore né il prete...»
Ma ella parlava sul serio, vinta da un indicibile senso di tristezza.
«
Le dico che è così! Vedrà!»
«
Ma le pare possibile?» egli disse allora, cercando sotto il guanciale
l'astuccio con la penna che ella gli aveva regalato. «Io non guarirò...
lo sento; ma non importa... Non mi dispero; e sa perché? Perché sono
quasi felice di viver così, immobile, già sepolto, per poter
pensare a lei, sempre a lei... Io stavo tanto male, prima che venisse lei,
perché non amavo, non sentivo pietà di nessuno, neppure di me
stesso. Era questa la vera paralisi che mi angosciava. L'orgoglio solo mi sosteneva,
ma sentivo indebolirsi anche quello, e la morte aleggiava intorno a me. Ma
lei venne, Mariana, lei che è la vita, ed ha cacciato via il lugubre
fantasma. Come posso dimenticarmi di lei? Solo quando le diranno: "Giorgio è morto",
solo allora potrà ripetere le parole che disse poco fa...»
Scrisse qualche parola sul margine della fotografia e riprese:
«
Se vuole, parta pure. Vada, si diverta, viva. Non ho paura a star solo, oramai,
poiché ella mi ha promesso di ricordarsi di me. Vivrò aspettandola...».
Sollevò la fotografia ed ella lesse sul margine bianco:
Nessuno ti amerà dell'amor mio,
e non seppe perché, ella che era sana e fortunata, che poteva andarsene per il mondo lieta e lieve come l'allodola su pei cieli, ebbe invidia del suo povero amico malato.
Più tardi ritornò il prete. Diventato amico intimo di Jorgj
egli andava ogni giorno a trovarlo.
«È
impossibile parlare quando c'è quella ragazza», disse stringendogli
la mano. «Essa non lascia in pace nessuno e tu, d'altronde, quando c'è lei,
non capisci nulla. Devo parlarti di una cosa molto grave.»
Sulle prime Jorgj credette che egli volesse parlare della visita di Columba
e dell'alterco di lei col nonno: ma prete Defraja si passava e ripassava la
mano sui capelli, come ogni volta ch'era molto preoccupato, e accennava a voler
dire qualcosa di più grave.
«
Tu mi hai spesso parlato dei tuoi sospetti su Dionisi il mendicante. Si tratta
di lui. Tu non l'hai più riveduto?»
«
No, perché? Che c'è di nuovo?»
Siccome il prete taceva continuando a lisciarsi i capelli, Jorgj s'inquietò.
«
Io non sospetto; sono convinto! Perché egli è sparito, dopo quel
giorno? Egli veniva spesso da me, in questi ultimi tempi; il rimorso e la paura
lo guidavano. Quando io gli raccontai d'aver sognato ch'era lui il ladro, egli
cadde lì in ginocchio, convulso, minaccioso. Che avrebbe detto, che
avrebbe fatto se in quel momento non fosse entrata Mariana? Avrebbe confessato
o mi avrebbe ucciso? Questo non lo so; ma sono certo che egli è colpevole,
e spesso ho paura di vedermelo ricomparire davanti...»
«
Ebbene, senti; e se egli fosse davvero colpevole, che faresti?»
«
Non lo so ancora. In tutti i casi non toccherebbe a me denunziarlo; toccherebbe
al derubato.»
«
Senti, Jorgj», disse il prete stringendogli forte la mano e curvando
il viso contro il viso di lui, «è proprio Dionisi Oro il colpevole.
Adesso vedremo il da farsi.»
«
Ah», sospirò Jorgj; e parve liberarsi da un incubo.
Il suo primo pensiero fu per Mariana. Oramai egli poteva comparire davanti
a lei puro e lavato da ogni macchia; degno di lei.
«
Come ha saputo? Mi racconti, Defraja, mi racconti!»
«
Ieri mattina presto quando uscivo dalla messa mi si avvicinò ziu Innassiu
Arras pregandomi di recarmi al suo ovile per confessare un pastore gravemente
malato di polmonite. "Ho pronti qui i cavalli, se vuol venire", mi
disse. Partimmo e lungo il viaggio (egli ha l'ovile poco distante dalla chiesetta
del Buon Consiglio) mi parlò sempre di te. Mi diceva: "Jorgeddu è venuto
a trovarmi in mezzo alle pietre e mi ha sempre difeso e s'è forse rovinato
per difendermi; ma io non sono un ingrato; io farò per lui quello che
né Giuseppa Fiore né la sorella del Commissario riusciranno a
fare." Finalmente, dopo queste ed altre frasi incisive, e dopo lunghi
silenzi più significativi ancora, mi disse: "Ebbene, devo dirle
una cosa, prete Defraja; l'uomo che lei viene a confessare è il ladro
dei denari di Remundu Corbu". " Chi è?" domandai. Sulle
prime non volle rispondermi. Poi mi disse che si trattava di Dionisi Oro. "Jorgeddu
mi aveva accennato ai suoi sospetti", proseguì, "e quando
seppi che Dionisi era sparito cominciai a dargli la caccia. Lo trovai nella
chiesa di San Francesco, durante la festa, e lì cominciai a investirlo
di domande e a minacciarlo. Egli negava, si fingeva sordo più di quello
che è, ma aveva paura; poi un bel momento mi scappò di mano e
sparì. Seppi che frequentava un ovile nei dintorni di San Francesco
e andai a cercarlo fin là: vedendomi allibì e cercò di
sfuggirmi ancora, ma io lo indussi a seguirmi fino al mio ovile; là lo
legai come un cane e minacciai di andare a chiamare i carabinieri se non mi
raccontava come erano andate le cose. Egli stette due giorni silenzioso e cupo;
finalmente diede in ismanie; cominciò a lamentarsi e a gemere e a darsi
pugni sulla testa, e mi disse che voleva il prete e che solo a lui avrebbe
confessato ogni cosa. Ecco perché son venuto a chiamarla". Arrivammo
all'ovile con quel tempaccio orribile ch'era ieri. Dionisi stava buttato per
terra, ancora legato, e non tentava neppure di liberarsi. Lo feci slegare e
sollevare; sembrava istupidito ed io rimproverai a zio Arras di averlo ridotto
così; ma il vecchio disse a voce alta: "È il peccato mortale
che lo ha ridotto così, non io". Allora Dionisi cominciò a
tremare e mi disse che voleva confessarsi. Dopo la confessione mi raccontò che
ogni notte vede in sogno San Francesco, vestito da pastore, con una gran barba
e due occhi terribili, che gli ordina di restituire il mal tolto. Per placare
il Santo egli ha nascosto la cassettina rubata a zio Remundu dietro il muro
di cinta del cortile di San Francesco; ma i sogni non cessano. Cosa curiosa;
spesso gli si riproduce l'identico sogno che tu gli hai raccontato, gli par
d'essere al tuo posto, e prova un gran terrore parlando di te. "Che andavate
a fare da lui?" gli chiesi. "Volevate confessargli ogni cosa?" Egli
pensò alquanto, poi, forse suggestionato dalla mia domanda, rispose
di sì. "Disgraziato", gli dissi, "ma sapete tutto il
male che avete causato? Voi adesso restituirete il mal tolto e andrete per
qualche anno in prigione, ma i dispiaceri, il disonore, la malattia, i danni
che avete causato a Jorgeddu come li sconterete?" Egli non rispose: che
poteva dirmi, d'altronde? Rientrò il vecchio e anche davanti a lui Dionisi
confessò di aver rubato i danari e diede indicazioni precise sul luogo
ove li aveva nascosti.»
Jorgj disse:
«
Bisogna andare da zio Remundu e rimettersi a lui. Ma c'è una cosa ben
più grave ancora. Columba è venuta qui da me stanotte. Sapeva
ella già di Dionisi?».
«
No, nessuno ancora lo sa! Ah, ella è venuta qui? Ah, raccontami!»
E mentre Jorgj ripeteva il racconto che pareva quello di un sogno, il prete
ascoltava turbato profondamente.
«
La cosa è grave, sì, Jorgj! Se ella adesso viene a conoscere
la storia di Dionisi è capace di fare uno scandalo e mandare a monte
il suo matrimonio.»
«
Ed io non voglio!», disse Jorgj con forza. «Tutto posso subire
fuorché l'amore di lei: io non l'amo più; la sua unica salvezza è il
suo matrimonio col vedovo. Che se ne vada dunque; vivremo entrambi più tranquilli.»
«
Che fare allora?»
«
Tacere finché ella non si sposa e se ne va.»
Discussero ancora ma il prete non trovava giusta l'idea di Jorgj.
«
Se la scoperta del vero colpevole ha da portare un gran dolore a Columba, meglio
prima che dopo il matrimonio: parrebbe che noi vogliamo renderci strumenti
del suo castigo, e questo noi non dobbiamo volere.»
«
Ebbene, allora io mi rimetto a lei, prete Defraja», disse Jorgj stanco.
«
Ma che Columba non torni più qui. Io la conosco: essa oramai è spinta
dalla gelosia e dal rimorso: si tormenterà, inutilmente, inutilmente!
Perché può risorgere un morto dalla sua tomba, non un amore che è stato
spento dall'odio e... seguito da un altro amore!...»
Allora il prete se ne andò di nuovo fino alla piazza della chiesa e
cominciò a passeggiare su e giù inquieto e perplesso. Di tanto
in tanto tossiva, fermandosi come richiamato da un ricordo improvviso. Anche
le pagine sbiadite della sua vita racchiudevano un episodio romantico: una
donna lo aveva amato, lo aveva tradito, poi era tornata a lui quando un amore
più grande di tutte le passioni umane unite assieme, l'amore di Dio,
lo aveva già liberato dal piccolo amore terreno. Ma se l'anima è forte
il corpo è fragile; e per sfuggire alle persecuzioni della donna egli
era partito rifugiandosi sulla montagna come un eremita.
Ma il disgraziato Jorgj non poteva fuggire: come aiutarlo?
Fra Jorgj e Columba l'anima del prete esitava; egli sentiva pietà d'entrambi,
ma la bilancia pendeva dal lato di Jorgj. Finalmente, dopo lunghe esitazioni
e discussioni con se stesso, decise di favorire l'amico.
IV.
Contrariamente a quanto affermava Pretu le nozze di Columba si celebrarono
con semplicità, quasi con segretezza, come si conveniva a una ragazza
che sposava un vedovo.
Invece della domenica furono celebrate il sabato, e lo stesso giorno gli sposi
partirono. L'uomo era felice, d'una felicità calma e serena. Vestito
come un signorotto del medio evo - corpetto di velluto, sopragiacca ricamata,
cintura con cartucciera, ghette e speroni - finché stava in sella o
seduto su una scranna sembrava giovine e bello; ma appena si moveva l'incanto
svaniva. Columba non poteva abituarsi a seguire il movimento delle gambe corte
di lui e camminando le pareva di imitarlo.
Una sorella anziana, Maria Juanna, alta e dritta come un pioppo, e alcuni nipoti
e cugini, tutti bei giovani agili irrequieti, avevano accompagnato lo sposo.
Quest'allegra compagnia, e il trovarsi sotto lo sguardo scrutatore della nuova
cognata, avevano tenuto Columba in uno stato di sovreccitazione che sembrava
gioia: ma a un tratto, prima della partenza, ella era ridiventata pallida,
preoccupata, e con la scusa di dare alcune avvertenze a Banna era scomparsa
dal pian terreno della casa.
Un'idea fissa la incalzava: riveder Jorgj ancora una volta, domandargli perdono.
Ma come fare? Impossibile arrivare sino a lui senza esser veduta.
Nel caldo meriggio i cavalli carichi di bisacce di lana a striscie bianche
e nere scalpitavano pronti a incamminarsi; tutte le donnicciuole del vicinato,
i parenti, gli amici e molti curiosi gremivano la strada, per assistere alla
partenza degli sposi.
Un vociare allegro, risate e grida risuonavano intorno; zio Remundu faceva
distribuire vino e dolci sotto l'atrio ove si notava un agitarsi confuso di
teste di donne, lunghe sotto i fazzoletti frangiati, e di teste d'uomini con
le berrette ripiegate o penzolanti su un orecchio.
A un tratto la gente riunita nella strada fece largo e lasciò passare
il prete, il quale aveva preso parte al banchetto intimo della famiglia degli
sposi e se ne andava dopo averli un'ultima volta benedetti. Ma invece di risalire
la strada egli passò salutando col capo e socchiudendo gli occhi al
sole, ed entrò nel cortile di Jorgj; le donne lo seguivano con lo sguardo
e molte tacquero, altre si urtarono col gomito. Qualcosa di melanconico, come
l'ombra di un ricordo triste, passò su quei visi pieni di curiosità e
di malizia.
Zio Remundu uscì a cavallo dal portone; i giovani parenti dello sposo
montarono anch'essi sulle loro cavalcature, accomodandosi la berretta sul capo,
il fucile sulle spalle, curvandosi poi per salutare gli amici improvvisati
e i nuovi parenti che rimanevano in paese.
Columba non riappariva. Banna, ferma davanti al cavallo del nonno, con una
lunga cuffia sotto il fazzoletto fiorito, riceveva alcune istruzioni dal vecchio,
fissandolo coi suoi occhi verdognoli, scintillanti nel suo viso rosso e fiero
più prepotente del solito: pareva lei la sposa, e una gioia proterva,
come un orgoglio di vittoria, le traspariva da tutta la persona forte e irrequieta.
Columba non compariva. La sorella dello sposo, seduta a cavalcioni su una giumenta
bianca, uscì curvandosi sotto l'arco del portone, tanto era alta, e
subito dietro di lei ecco lo sposo, sulla groppa del cui cavallo baio era fissato
una specie di sedile fatto con un cuscino e un cercine rosso che doveva servire
per la sposa. Ma essa non appariva.
«È
ritornata su: aveva dimenticato qualche cosa», disse Zuampredu alla sorella
che lo interrogava con gli occhi.
«
Columbé, Columbé! Andiamo?», gridò il marito di
Banna dall'alto del suo cavallo, sollevando il viso verso la finestra.
Allora Banna corse dentro; risalì al piano superiore e vide Columba
che chiudeva l'uscio sulla veranda e piangeva. Aveva detto addio a Jorgj, da
lontano, poiché non poteva andargli vicino: aveva detto addio al passato,
piangendo l'uno e l'altro egualmente morti per lei.
«
Columba! Su, Columba, sorella mia! Coraggio», disse Banna andandole incontro.
La prese per la vita e si mise a piangere anche lei. «Non darti pensiero
di nulla», proseguì singhiozzando, «tutto... tutto resterà in
ordine... Non hai più nulla da dirmi?»
Fin dal giorno prima Columba le aveva dato consegna della casa, che d'altronde
Banna conosceva meglio di lei; non c'era più nulla da dirle, no, non
c'era più nulla da dire fra loro; ma la sposa continuò a piangere,
mentre la sorella la conduceva quasi a forza giù per la scala, come
l'aveva sempre condotta nella vita. Asciugandosi gli occhi col dorso della
mano, Banna diceva:
«
Su, non farti veder così alla gente, anima mia: che diranno? che vai
ad un funerale?».
Columba si fermò svincolandosi dall'abbraccio: s'asciugò anche
lei il viso e cercò di ricomporsi.
«
Banna», disse sottovoce, perché già in fondo alla scala
appariva qualche viso curioso, «ti vorrei domandare un piacere...»
«
Parla, sorella mia, parla!»
«
Sentimi, io me ne vado ed è come che sia morta davvero; non tornerò più qui.
Ma tu e babbo Corbu... diglielo, sai... tu e lui non tormentate più quel
disgraziato... Restituitegli la fama... e se muore fatelo accompagnare dal
prete e dalle confraternite... e fategli dire la messa cantata... pagherò tutto
io...»
«
Columba... sorella mia...», cominciò Banna battendosi i pugni
sulle anche; ma non proseguì: la sposa era già in fondo alla
scala e diceva a voce alta:
«
Addio, addio; statevi bene e venite presto a trovarmi...».
Si legò il fazzoletto sotto il mento e trasportata da un gruppo di donne
che la baciavano ridendo e piangendo, uscì nella strada e montò agilmente
sullo schienale di una sedia donde balzò sulla groppa del cavallo di
Zuampredu.
«
Stai bene, Columba?», egli le chiese, col viso sull'omero. «Accomodati
bene le sottane intorno alle gambe.»
«
Bene, bene, addio, conservatevi; Banna, addio; chiudi il portone...»
Le donne le accomodarono le sottane intorno alle gambe; ella passò il
braccio intorno alla vita dello sposo, e il cavallo impaziente di mettersi
a capo dei compagni si mosse attraverso la gente che si scostava.
Un visetto bruno, due grandi occhi scintillanti di curiosità apparvero
a Columba, quasi sotto ai suoi piedi: era Pretu seduto sulle pietre del mendicante.
Egli le fece un cenno di addio con la mano: ella rispose con uno sguardo disperato,
e gli occhi le si riempirono di lagrime; ma provò un senso di sollievo
perché le parve che il ragazzo si alzasse per andar a portar l'addio
di lei al povero Jorgeddu. Allora si tirò il fazzoletto sugli occhi
per ripararsi dal sole; vide ancora una volta la casa, il portone, la sorella,
il muro del cortile di Jorgj; addio; tutto era finito, tutto era stato un sogno.
Ricordò che aveva dimenticato il ditale sulla veranda e fu presa da
una vaga inquietudine: ah, lassù, nel paese nuovo, bisognava comprare
un altro ditale, cominciare un'opera nuova... Come era il cortile lassù?
Si poteva cucire senza esser osservati dai vicini? Ella voleva stare nascosta,
vivere sola col suo pensiero segreto.
All'improvviso tutta la valle rimbombò come per una battaglia: i cavalli
trasalirono e Zuampredu strinse la mano a Columba per paura che ella scivolasse
dal suo sedile. Grida selvaggie accompagnavano gli spari che i parenti degli
sposi eseguivano in segno di gioia; e le valli e l'altipiano, nel sereno meriggio,
rispondevano gravemente con la voce dell'eco.
Columba guardava di sotto al suo fazzoletto il cui orlo descriveva come una
cornice intorno al quadro ch'ella ancora vedeva. Lassù è la chiesa,
sul cielo chiaro e quasi triste; ecco l'albero della casa rossa del dottore;
ecco le casupole nere; ecco la casa paterna, e ancora il muro del cortile di
Jorgj... La gente s'agita ancora lassù, nel sole: una figurina bianca
e una figurina nera appaiono un momento davanti al muro, come due ombre una
luminosa, l'altra scura; Columba crede di riconoscer Pretu e la straniera e
nasconde il viso contro la spalla di Zuampredu mentre egli continua a stringerle
la mano e ogni tanto si volge per domandare al nonno, indicandogli col lembo
delle redini un muro o una distesa di macchie:
«
E quel terreno lì di chi è? E a chi è affittato?».
Il nonno, il cui vecchio cavallo aveva anch'esso la velleità di sorpassare
i compagni, si metteva la mano sull'orecchio per sentir meglio, ma mentre rispondeva
ad alta voce, con gli occhi vivaci non cessava di guardare Columba. Ah, gli
occhi di lei eran rossi, all'ombra del fazzoletto coperto di fiori: non erano
occhi da sposa felice, quelli! Anche a lui pareva di aver dimenticato qualche
cosa, lassù nel villaggio, e ne provava inquietudine.
La comitiva scese un tratto della valle, poi riprese la salita su verso l'altipiano.
I giovani cantavano, guidati dal marito di Banna, e la sorella dello sposo,
rigida e alta sulla sua cavalla bianca, sembrava una amazzone pronta ad attraversare
pianure e montagne, calma nell'ora del tripudio, calma nell'ora del pericolo.
Le macchie di alaterno e di ginepro fiorito, i gigli selvatici e le peonie
che crescevano all'ombra delle roccie come in un giardino abbandonato, profumavano
l'aria.
La comitiva seguiva la stessa strada un giorno percorsa dalle famiglie nemiche
che andavano a giurar pace nella chiesetta dell'altipiano: ed era appunto intenzione
dello sposo di fermarsi lassù per fare uno spuntino.
Il nonno raccontava, stendendo la mano in avanti:
«
Ecco, qui sbucò fuori quel matto di Innassiu Arras, e si mise accanto
al vescovo... Uomo buono, quel vescovo, ma la sua fetta di pazzia ce l'aveva
anche lui nella sua testa; era un uomo che quel che voleva voleva. Così non
si venne a nessun accordo, agnelli miei: il prefetto invece era un uomo furbo,
palla che gli trapassi il fegato; la sua intenzione io la capii subito, sì,
belli miei, egli voleva metterci tutti al riparo dalle pioggie... e insegnarci
a far la calza!... [20]»
Sostarono davanti alla chiesetta e il sogno di Zuampredu si avverò:
Columba sedette all'ombra d'una quercia e il marito di Banna trasse dalla bisaccia
pane, vino, dolci. Ma nessuno aveva fame; solo i giovani bevettero, poi condussero
i cavalli al fiumicello la cui acqua già scarsa stagnava qua e là riflettendo
i giunchi e gli oleandri fioriti.
Un fischio risuonò dietro i querciuoli dell'altura, un capretto nero
dai grandi occhi lucidi scese al fiumicello, seguito da alcune pecore già tosate
a cui serviva da guida, altri capretti sporsero il muso fra i cespugli, qua
e là sulle piante e sulle roccie apparvero le capre grigiastre che guardavano
con curiosità gli uomini e i cavalli fermi fra gli oleandri.
Il pastore le richiamava fischiando: era un vecchio con una lunga barba a due
punte, col cappuccio in testa e una borsa di cuoio sulle spalle. Il marito
di Banna, allegro più del solito, cominciò a scherzare con lui.
«Ziu Innassiu Arras, e che, ve le portate sempre appese alle
spalle le vostre ricchezze?»
«
Le ricchezze a te», rispose il vecchio con voce stridente. «E che
fai da queste parti, con tutti questi puledri?»
«
Li ho condotti a bere, non vedete?»
Il vecchio fissò gli occhi scrutatori sui bei giovani che ridevano e
gridavano di gioia, e per un momento rimase come perplesso. Egli era lì,
fin dalla mattina, come in agguato, aspettando il passaggio degli sposi e di
Remundu Corbu: aveva da dir loro qualche cosa, ma adesso esitava, come dolente
di turbare, più che la gioia degli sposi, l'allegria di tutti quei «giovani
puledri».
Ma un sentimento di giustizia lo spingeva. Jorgeddu, il suo piccolo parente,
colui che era andato una sera a cercarlo nel suo eremo di pietre, giaceva sotto
il peso della calunnia, mentre coloro che l'avevano ucciso, scorrazzavano attraverso
i campi fioriti, sotto il bel sole di giugno, e sorridevano di felicità.
Era giusto, questo? Tutto lo spirito protervo del vecchio si ribellava a quest'iniquità:
ma senz'accorgersene, egli, come zia Giuseppa Fiore, univa alle sue personali
ragioni di odio contro i Corbu le ragioni di Jorgj Nieddu: la sua sete di vendetta
si confondeva con la sua sete di giustizia.
Jorgj lo aveva pregato di lasciar sposare e partire Columba, prima di riferire
al nonno chi era il ladro del suo tesoro: ebbene, Columba si era sposata ed
era partita, e nulla più poteva trattenere il vecchio dal parlare.
«
Sono i parenti nuovi?», domandò accennando ai giovani col suo
vincastro. «E gli sposi dove si nascondono?»
«
Sono lassù, all'ombra della quercia. Venite lassù a bere?»
«
Dio mi assista, sì!»
E ciò che non s'era concluso in tanti anni, la pace, parve concludersi
allora: egli seguì i Tibesi e bevette il buon vino degli sposi.
«
Ebbene», disse fissando Columba che stava seduta su una grossa radice
e taceva guardandolo, «non venite nel mio piccolo ovile? Vi darò la
giuncata e anche il siero, che rinfresca...».
Egli parlava con malizia, ma zio Remundu credette di mortificarlo dicendogli:
«
Essi non hanno il calore che avevamo noi alla loro età!».
«
Venite, venite, andiamo», proseguì il vecchio imperturbabile,
facendo cenno con la testa a Columba di alzarsi e di incamminarsi. «È qui
a due passi. C'è anche un vostro vicino di casa.»
«
Chi? chi?»
«
Come, non lo sapete? Dionisi Oro.»
Columba trasalì, ma il nonno disse con disprezzo:
«
Bel vicino! Il barone di Siniscola! Che fa lì?».
«
Tu lo sai meglio di me; è malato e s'è confessato: come si fa
a cacciarlo via? Andiamo su; tanto, a voi tutti, che importa del suo debito?»
Il nonno lo afferrò per le braccia, fissandolo con gli occhi ardenti
dell'antica fiamma. Un solo sguardo bastò ad entrambi per capirsi.
«
Innassié, che debiti può avere un pezzente?»
«
Remundé» rispose il vecchio Arras ricambiandogli il diminutivo, «tu
lo sai meglio di me.»
«
E tre!» gridò il nonno lasciandolo libero e incrociando nervosamente
le braccia sul petto. E scuoteva la testa in segno di sarcastica approvazione.
«
Malanno! Io lo so meglio di te; ma che cosa?»
Ziu Arras guardò Columba che era balzata in piedi appoggiando
una mano al tronco della quercia, e ammiccò accennandole il nonno, quasi
volesse dirle: come sa fingere!
Certo, se il nonno fingeva, fingeva bene; mentre Columba, che aveva capito
tutto fin dalle prime parole del vecchio, tremava visibilmente appoggiandosi
alla quercia per non cadere.
Zuampredu s'era messo davanti a ziu Arras squadrandolo con
curiosità.
«
Se davvero non lo sai», riprese questi, sempre strizzando l'occhio e
rivolgendosi di tanto in tanto a Columba come alla sola ch'era disposta a capirlo, «ebbene,
al ritorno ripassa qui e vieni al mio piccolo ovile, poiché non vuoi
venirci adesso...».
«
Che m'importa d'un pitocco idiota? Impiccalo! Bevi, bevi ancora, Innassié;
noi abbiamo fretta di ripartire. Ebbene, sì, al ritorno passerò nel
tuo piccolo ovile; fammi trovare un capretto arrostito.»
«
Va bene, ti farò trovare il capretto arrostito... Adiosu,
Columbé; buona fortuna e figli maschi. Non dimenticarti del paese natìo.»
Ella sentiva un'allusione in ogni parola di lui: e l'improvvisa sollecitudine
del nonno a partire aumentava i suoi sospetti. Il cuore le batteva forte, di
angoscia ma anche di gioia. Ah, il Signore dunque aveva pietà di lei
e le mandava almeno il conforto di veder Jorgeddu purificato dalla sua onta:
la verità risorge sempre, come il sole dopo le tenebre, e la sua luce
illumina egualmente la strada ai pellegrini che s'incamminano pregando e ai
malfattori che rientrano dopo aver commesso il male...
Ma ella voleva saperla tutta, la verità; in un attimo si sentì riprendere
dalle smanie che l'avevano tormentata durante tutti quei mesi di incertezza.
Mentre il marito di Banna, che non aveva aperto bocca ma aveva capito anche
lui ogni cosa, sollecitava i giovani a rimettere le selle e i freni ai cavalli,
ella si staccò dal tronco e mettendosi davanti a ziu Arras
a sua volta strizzò lievemente un occhio.
«
Dionisi dunque s'è confessato? Ma il confessore lo ha assolto?»
«
Io non lo so, Columbé! Non ero io, era prete Defraja, il confessore!»
«
Da parte mia, ziu Innà, ditegli che si confessi meglio,
che si confessi a voce alta, e che restituisca il mal tolto.»
Il vecchio capì bene che ella alludeva alla fama tolta al disgraziato
Jorgeddu, ma colse l'occasione per rivelare tutto il suo pensiero.
«
Senti», disse accostando la bocca all'orecchio di Columba, ma in modo
che anche gli altri potessero sentire, «va alla chiesa di San Francesco:
il pezzente ha sepolto la vostra pecunia sotto il muro accanto al pozzo...»
Il viso di lei si fece azzurrognolo: i suoi occhi spalancati fissarono quelli
del nonno.
«
Avete sentito, babbu Corbu?»
Il nonno riafferrò le braccia del suo antico nemico e lo scosse digrignando
i denti.
«
Ti succhi il cuore il vampiro, ti abbracci la forca, Innassiu Arras! E vieni
a raccontarmele così, queste storie? In mezzo alla strada, in un momento
come questo?»
«
Tutti i momenti son buoni, per la verità!»
«
Ma è la verità, questa?»
«
A queste parole non rispondo, no, perdio, Remundu Corbu! Del resto, ecco, guarda
il viso di tua nipote e vi leggerai la verità!»
Columba si sentiva tremar le ginocchia, ma faceva uno sforzo supremo per non
cadere svenuta. Zuampredu la guardava e le si accostò come per sostenerla;
ma che le importava di lui e di ciò che egli poteva pensare? Le cose
di cui parlavano i due vecchi non lo riguardavano: riguardavano lei sola ed
ella doveva aggiustarle.
«
Avete sentito, babbu Corbu?» ripeté, «Andate...
cercate... restituite il mal tolto...»
E d'un tratto, mentre la voce del nonno risuonava furibonda fra il nitrir dei
cavalli impazienti di ripartire, ella si piegò come per sedersi, tese
le braccia in avanti e cadde distesa a bocca a terra ai piedi del suo sposo.
«
Columba! Columba!»
«
Columbé, anima mia!»
Il luogo tranquillo risuonò di grida; in un attimo tutti formarono un
gruppo nero attorno a quel corpo che si abbandonava come morto sul terreno
umido. Maria Juanna però fece cenno a tutti di scostarsi; sedette per
terra e appoggiò sulle sue ginocchia la testa di Columba, ordinando
a Zuampredu:
«
Stendile bene sul suolo le gambe... Datemi un po' di vino», aggiunse,
slacciandole il corsetto.
Le diedero il bicchiere dove aveva bevuto zio Arras, e solo allora il vecchio
impassibile parve commuoversi. Anche zio Remundu taceva guardando Columba come
spaventato. S'ella fosse morta? Egli, egli l'aveva uccisa.
E sognò un orribile sogno: Columba stesa sul carro nuziale, quello che
trasportava le sue robe da Oronou a Tibi (le corna dei buoi erano coperte di
foglie e di fiori come rami a primavera), Columba che ritornava verso il paese
natìo, dopo il suo viaggio fatale, già stanca e muta ancor prima
di esser giunta alla sua casa nuova: e lo sposo che, tolto dalla bisaccia e
indossato di nuovo il suo vestito da vedovo, seguiva il carro nuziale trasformato
in carro funebre...
Era una cosa talmente iniqua e contro natura che il nonno si ribellò;
un istinto di reazione lo spinse a rivolgersi contro l'antico nemico. Bisognava
che qualcuno pagasse per la sorte crudele.
«
Innassiu Arras, sarai contento! Ecco cos'hai fatto!»
Ma Zuampredu curvo ansante su Columba si sollevò diventato anche lui
feroce.
«
Basta, perdio! Zitti; ritorna in sé.»
Ella infatti riaprì gli occhi, si rialzò a sedere, abbassò la
testa come per ricordarsi cos'era accaduto; poi balzò in piedi vergognosa
della sua debolezza.
«
Ah, le forze mi son mancate; che dirai, Zuampredu Cannas? Ah, fratelli miei,
non lo dite a nessuno!»
I giovani la circondarono ridendo, tuttavia ancora un po' spauriti per l'incidente
che aveva offuscato la loro gioia.
«
Oh, che donna sei! Di formaggio fresco?»
«
Dritta, su, se no ti leghiamo in mezzo a tre canne come l'alberello di susine...»
«
Columbé, scusami!», esclamò allora zio Innassiu tendendole
la mano, un po' timido e pentito. «Io credevo che sapeste già!»
Ma Zuampredu s'interpose di nuovo, energico, e battendo una mano sulla spalla
del vecchio lo fissò coi suoi occhi limpidi.
«Ziu Innà, sentitemi. Lasciateci andare, abbiamo fretta
di arrivare: se babbu Corbu ha da schiarire cose con voi,
che egli rimanga; ci raggiungerà. Egli è ancora svelto.»
Il nonno era diventato pensieroso e pareva un altro uomo, col braccio appoggiato
al fianco del cavallo, la testa curva. Ma quando tutti furono di nuovo in sella
egli accennò verso la strada e disse con voce mutata:
«
Andate: vi raggiungerò».
Così i due antichi avversari rimasero soli, all'ombra della quercia,
in faccia alla chiesetta che non aveva accolto la loro promessa di pace.
Al ritorno, dopo aver raggiunto e accompagnato gli sposi fino alla loro casa,
il nonno andò alla chiesa di San Francesco.
Quanti ricordi lungo la via, attraverso le brughiere dei monti di Lula, attraverso
le macchie che lo avevano veduto fanciullo in groppa al cavallo del nonno,
poi adolescente selvaggio, poi sposo accompagnato dalla sposa, anima lucente
e inflessibile come l'acciaio; poi uomo incalzato dalle passioni più violente,
l'odio, la sete di vendetta che spesso prende l'apparenza di sete di giustizia,
eroe errante, cacciatore e selvaggina al tempo stesso, cuore d'aquila che sfugge
al nemico, occhio d'avvoltoio che lo cerca... e adesso vecchio che aveva sepolto
le sue passioni inutili e pericolose come il mendicante ladro aveva sepolto
il tesoro rubato...
Sì, egli sentiva che qualcosa s'era spezzata entro di lui ed era precipitata
in un abisso come la pietra che si stacca dalla cima della roccia percossa
dal fulmine.
«
E se Columba fosse morta?», pensava continuamente.
Neppure la morte di sua moglie, neppure il pericolo ch'ella aveva corso una
volta nella foresta quando egli aveva urlato come un leone, l'avevano colpito
come lo svenimento di Columba. Egli tentava di liberarsi dalla sua idea fissa,
cercando come altre volte di risalire il fiume dei suoi ricordi, ma ogni tanto
il suo pensiero tornava là, all'ombra della quercia, e il viso bianco
di Columba, i suoi occhi chiusi, il suo corpo inerte, gli stavano continuamente
davanti.
«
Sei rimbambito, Remundu Corbu», diceva a se stesso, battendo il pugno
sul pomo della sella. «La tua schiena è come la canna fracida».
Infatti s'era alquanto incurvato, in quei due giorni; ogni tanto si raddrizzava
per ripiegarsi tosto. L'unica spiegazione che riusciva a soddisfarlo, a confortarlo
per la sua improvvisa debolezza di corpo e di mente, era questa:
«
Tu sei invecchiato; tu sei rimbambito, Remundu Corbu».
Come spiegare altrimenti la sua improvvisa docilità davanti al suo antico
nemico? Egli non aveva quasi replicato, e quasi neppure badato alle insinuazioni
maligne, ai rimproveri, agli insulti del vecchio «poltrone», preoccupato
solo del pensiero della sua Columba. Se ella sveniva ancora? Se moriva per
la strada?
«
Rimbambito, rimbambito», tornava a ripetersi: ma intanto mentre il vecchio
cavallo scendeva cautamente l'erta attento a non scivolare sulle lastre di
schisto che scintillavano come argento brunito, egli rivedeva di nuovo il viso
pallido di Columba, non più all'ombra della quercia, ma nella casa dello
sposo. Ella si aggirava come smarrita, di qua e di là, nelle cucine
quasi buie, nelle stanzette un po' umide impregnate dall'odore del formaggio
e della lana. La casa dello sposo era grande, ma non molto allegra; dava l'idea
di un antico monastero trasformato in ovile.
«
Columbedda mia non si spaventa, se c'è da lavorare, e da custodire molta
roba; è abituata», pensa il nonno tirando le redini del suo cavallo. «Dopo
tutto, sì, è stato un bel matrimonio: Zuampredu è un uomo
d'oro ed ella vivrà là come in una nicchia.»
Sì, del resto anche le Sante nelle loro nicchie non sono molto allegre:
e Columba non lo è stata mai. Ma non è l'immagine della sposa
melanconica che turba il vecchio: è quell'idea fissa che lo perseguita.
«
Se ella fosse morta!»
E va e va, il vecchio protervo, e non si accorge che in fondo alla sua coscienza è la
pietra caduta dall'alto, che pesa: non sa confessarlo a se stesso, ma sente di
aver ucciso la giovinezza di Columba, il suo amore, il suo cuore, e che la
vera immagine di lei, oramai, è quella che lo perseguita: una Columba
inerte, pallida cieca distesa come morta all'ombra del grande albero della
vita.
Arrivato davanti a San Francesco smontò, si fece il segno della croce,
si tolse la berretta e attraversò i cortili tirandosi addietro il cavallo.
L'erba cresceva lungo i muri di cinta e sui tetti delle casupole che circondano
il santuario; solo le rondini coi loro voli e i loro stridi simili a trilli
di chitarre animavano il luogo deserto.
Egli legò il cavallo a un piuolo, nel cortile interno, ed entrato nella
chiesa s'inginocchiò sul pavimento fissando il severo Santo barbuto
che dall'alto della sua nicchia pareva lo guardasse diffidente e curioso.
«
Anche tu sei qui?», pareva volesse dirgli. «Ebbene, che t'è accaduto?
Noi ci conosciamo da un pezzo!»
Quanti uomini agitati dalle passioni, incalzati da desiderii e da paure, quanti
persecutori e quanti perseguitati s'erano genuflessi lì, ai piedi del
Santo barbuto, loro amico e giustiziere! Ma il nonno sapeva che non è facile
ingannare San Francesco di Lula.
«
San Francesco, avvocato dei buoni, non son qui per domandarvi una cosa ingiusta.
Son peccatore e mi pento, ma vengo da voi, solo per chiedervi consiglio. Io
sono vecchio ed ho errato, ma qual è l'uomo che non erra? La vostra
esperienza è più grande della mia, Santu Franziscu abbocadu!
Ditemi dunque che cosa devo fare in questo frangente. Io scaverò sotto
il muro, adesso, e se troverò i denari lì lascerò a voi;
ma voi consigliatemi che cosa devo fare, poiché se io ho errato è stato
appunto ogni volta che ho fatto di testa mia, credendo alla mia sapienza e
al mio giudizio!...»
Si alzò e preso dalla sua bisaccia un piccolo badile di cui s'era provveduto
in casa di Columba andò a scavare nel sito indicatogli da Innassiu Arras.
L'ombra del muro stendeva un largo nastro bruno sull'erba della china, e nella
quiete profonda del pomeriggio solo lo strido delle rondini interrompeva il
silenzio del luogo.
Ed ecco che la punta del badile incontrò qualcosa di duro e di metallico:
il cuore del vecchio batteva come se egli stesse per scoprire un tesoro nascosto
fin dagli antichi tempi. Quando la cassettina venne fuori, annerita dall'umido,
egli si gettò a sedere sulla terra smossa, tremando, turbato come un
ladro...
Di che tremava? Egli non sapeva. Di rabbia, di umiliazione, d'inquietudine.
Gli avevan fatto ben altri dispetti, nella vita; ben altre sorprese egli aveva
provato; ma nessuna lo aveva umiliato come questa.
Aprì la cassettina e contò i denari. C'eran tutti; le monete
d'oro e quelle d'argento; i biglietti ripiegati che l'umido aveva annerito
e faceva marcire come foglie.
«
Così marcisca l'anima tua nel profondo dell'inferno!», gridò esasperato,
e la sua voce echeggiò come in un cimitero; una rondine che sporgeva
la testina curiosa al di sopra del muro volò via spaventata.
Egli appoggiò una mano a terra, si alzò, riprese il badile e
ritornò nella chiesa.
«
Che fare?» si domandava.
Adesso non c'era più via d'uscita: bisognava render giustizia a Jorgj
Nieddu. Zio Innassiu Arras aveva parlato chiaro:
«
O tu restituisci la fama a quel disgraziato o io ti svergognerò in pubblica
piazza».
«
Che fare, pertanto, San Francesco avvocato?»
Il Santo barbuto guardava dall'alto della sua nicchia. Vide il vecchio accostarsi
alla cassetta delle offerte e farvi cadere una dopo l'altra le monete e introdurvi
i biglietti; poscia segnarsi, genuflettersi ancora e curvar la testa come stanco
e vinto. Fu l'offerta cospicua o fu il turbamento del vecchio a commuovere
il Santo? A un tratto il consiglio implorato illuminò la mente di zio
Remundu Corbu.
Egli stette a lungo immobile, a testa china, come intento a una voce lontana;
finalmente si alzò, guardò un'ultima volta il Santo e col capo
gli fece segno di sì. Sì, sì, come un buon cliente che
paga e si lascia guidare dagli accorti consigli del suo avvocato, egli era
deciso a dar ascolto alla voce che gli diceva: «va da Jorgj Nieddu e
rendigli giustizia».
V.
Tornaron le chiare notti di giugno. La luna illuminava il paesetto, l'Orsa
maggiore e l'Orsa minore brillavano una per parte della chiesa sopra la linea
dell'altipiano, e zio Remundu seduto sullo scalino della porta col suo bastone
lucido fra le gambe come lo aveva veduto Jorgj bambino, raccontava alle donne
le sue storielle, compresa quella del tesoro rubatogli e ritrovato poi sotto
il muro di San Francesco. Ma taceva il nome del ladro anche se le donne si
volgevano sogghignando verso la casupola sempre chiusa di Dionisi Oro.
Tutti oramai lo sapevano, che il ladro era stato il mendicante; ma nessuno
pronunziava quel nome commentando l'avventura. Perché buttare la pietra
contro l'uomo caduto? Contro un uomo che era già un cadavere? Ma non
era la pietà che li ratteneva; era come un senso di vergogna. Essi tutti
che un tempo avevano lapidato Jorgj Nieddu, colui che li aveva offesi nel combattere
i loro pregiudizi, non sentivano rancore contro l'innocuo Dionisi: tutti gli
avevan dato un pezzo di pane e un bicchiere d'acqua, e tacendo il suo nome,
quando parlavano della sua colpa, credevano di fargli ancora l'elemosina. Un
giorno il brigadiere, lo stesso che s'era addormentato nella stamberga di Jorgj
Nieddu, chiamò in caserma Banna, il nonno, zio Innassiu, il prete, zia
Giuseppa Fiore, le donnicciuole vicine di casa dei Corbu; e a tutti domandò se
constava loro che il ladro dei denari di zio Remundu fosse Dionisi.
A nessuno constava: a zio Innassiu bastava che Jorgeddu avesse riacquistato
la sua fama, se non la sua salute, e non voleva fare la spia d'un miserabile
pezzente che egli ospitava: il prete non era obbligato a parlare, zia Giuseppa
Fiore disse solo che Remundu Corbu poteva rispondere con coscienza, e Remundu
Corbu rispose fieramente che a lui toccava denunziare il colpevole, non far
da testimonio, e che lo avrebbe denunziato quando la sua coscienza glielo avrebbe
imposto.
Allora il brigadiere mandò a cercare il colpevole; ma il colpevole era
sparito anche dall'ovile di zio Arras.
Aggruppate attorno al nonno le donnicciuole commentavano continuamente il fatto
e le più povere dicevano:
«
Remundu Cò! dovevi sparpagliarle qui le tue monete, non darle al Santo
che è più ricco di noi! Perché hai fatto questo?».
Ma le altre protestavano perché non bisogna scherzare così con
San Francesco.
Anche Banna non approvava il sacrificio del nonno; ma egli non si pentiva,
e se di giorno in giorno rimandava la sua visita a Jorgj non era per disobbedire
al Santo, ma perché un puerile senso di soggezione glielo impediva.
Egli aveva quasi paura di presentarsi a Jorgj Nieddu: come entrare, che cosa
dirgli? E avrebbe il superbo ragazzo capito il sentimento che guidava il vecchio?
«
Egli crederà che io vada là, adesso che Columba è lontana,
perché non ho più nulla a temere da lui. Egli si riderà di
me, come un tempo... Invece il mio cuore è mutato; s'è rammollito
come il frutto maturo...»
Ma questa sua incertezza lo rendeva inquieto, lo umiliava ai suoi occhi stessi.
Come poteva aver soggezione d'un povero ragazzo impotente, di cui egli medesimo
aveva fiaccato l'orgoglio? Pensandoci bene talvolta s'arrabbiava, e se la prendeva
con Simona la vecchia serva che Banna gli aveva messo in casa.
Simona era taciturna quasi quanto la giovine padrona che se n'era andata, ma
non altrettanto alacre e svelta; non sempre la casa era in ordine, e ogni volta
che zio Remundu tornava dall'ovile lo si sentiva strillare come un'aquila.
La serva taceva, ma si sfogava poi con Pretu il suo piccolo collega...
«
Il vecchio non è contento, perciò lo compatisco. Domenica scorsa è andato
a Tibi ed è ritornato col muso come un vampiro. Sì, così ti
dico; pare che Columba non stia volentieri lassù, in quel paese dove
c'è più vento che qui...»
«
E perché non se ne viene a star qui?»
«
Eh, come si fa? Il marito sta là. Ebbene, pare che nei primi giorni
ella piangesse: Zuampredu le domandò che cosa desiderava, e lei gli
chiese: "non ti sarebbe possibile andarcene a stare a Oronou? Ho sempre
pensiero del nonno". Al che Zuampredu diventò triste come la notte,
ma rispose che era impossibile. E pare che adesso anche lui sia sempre di cattivo
umore. Sai cosa ti dico, Pretu; ma non lo ripetere: è il castigo di
Dio.»
Pretu correva a riferir tutto al suo padrone, esagerando i racconti della serva,
ma con meraviglia s'accorgeva che Jorgj non si rallegrava molto per il male
dei suoi nemici.
Anche là dentro nella stamberga tutto era ricaduto nell'ordine e nel
silenzio di prima. Mariana era partita. Il caldo richiamava le mosche attorno
al letto del malato, e a giorni egli era così sofferente che pareva
dovesse morire; ma quando dopo il tramonto un soffio di frescura scendeva dall'altipiano
e il chiarore rosso del crepuscolo rendeva meno triste la stamberga, egli si
rianimava, diventava quasi allegro, chiacchierava con Pretu contando i giorni
che ancora rimanevano per arrivare all'ottobre.
Allora... allora... quando le rondini sarebbero partite... quell'altra rondine
forse tornerebbe. Forse? No, egli era certo che sarebbe tornata, sia pure per
un giorno o per un'ora; e passava i giorni ricordando il passato e vivendo
nell'attesa di quell'ora...
Tutto il resto non lo riguardava: né la scomparsa del mendicante, né le
chiacchiere della gente intorno alle avventure del dottore che continuava a
cercare un marito per Margherita, né la supposta infelicità di
Columba.
Eppure un giorno egli si sorprese a pensare a lei. Dai burroni della valle
saliva il grido dei falchi in amore, e quello strido lamentoso che pareva il
gemito d'un desiderio inappagato gli ricordava il suo doloroso idillio. Rivedeva
Columba sulla veranda, con l'agnellino ai piedi, accanto il vaso di basilico,
e il pensiero che ella oramai apparteneva ad un altro uomo gli dava un senso,
se non di gelosia, di tristezza e di rimpianto.
Egli non avrebbe più le gioie complete dell'amore, egli si consumerebbe
inutilmente, come il cero davanti alle immagini immobili nelle loro nicchie
dorate; anche Mariana un giorno apparterrebbe ad un altro uomo... Ah, era questo
il pensiero che lo tormentava; non di Columba fra le braccia del ricco pastore,
ma di Mariana fra quelle di un ignoto. Era questo pensiero che gli faceva echeggiare
entro il cuore gridi melanconici e selvaggi come quelli dei falchi in cerca
delle loro compagne...
L'immagine di Mariana sostituì quella di Columba: ella tornò a
sedersi sullo sgabello, davanti al letto di lui, con un mazzolino di rose in
mano e il bel viso più bianco del solito velato da un'ombra che non
era quella del gran cappello nero.
Le parole ch'ella gli aveva detto prima di partire risuonavano ancora nel silenzio
della stamberga, riempivano il cuore di lui di echi e di vibrazioni.
«
Addio, Giorgio: io ritornerò presto. Sono contenta che tutti le rendano
giustizia; che si sia scoperto il vero colpevole. Io non ho mai, neppure per
un istante, dubitato di lei, Giorgio, e tanto meno che la sua innocenza non
trionfasse presto. Ma se per un caso impossibile io venissi a sapere che il
colpevole è lei, io non la dimenticherei egualmente. Oramai noi siamo
amici, e l'amicizia non conosce né innocenti né colpevoli; è una
parentela che nulla può sciogliere.»
Ed ella se n'era andata; era sparito il suo vestito bianco, il suo cappello
nero, la sua borsa scintillante; ma il suo sguardo e la sua voce restavano
lì, sempre, attorno a lui, e spesso alla notte egli si svegliava con
l'impressione di vederla da un momento all'altro riapparire e l'aspettava come
aveva aspettato Columba.
Le sue sorti s'erano completamente rialzate dopo la visita del Commissario.
Le persone più cospicue del paese mandavano a domandar sue notizie;
il prete lo visitava tutti i giorni, gli leggeva il giornale, ed assieme commentavano
le notizie del mondo lontano.
Un giorno - era la vigilia di San Giovanni - gli lesse un fatto straordinario
accaduto in una piccola città dell'Umbria. Una donna, madre di un unico
figlio adorato, se lo era veduto morire all'improvviso, e il suo dolore era
stato tale da abbatterla anche fisicamente. Una paralisi nervosa l'aveva tenuta
immobile per tre anni; ma una notte ella sognò il diletto figlio, ancora
vivo e sano, che le porgeva la mano dicendole: «madre, sorgi e cammina!».
Ella si alzò e guidata da lui uscì nel giardinetto, sedette con
lui sulla panchina sotto il pero, al posto ove soleva vigilare i giuochi di
lui bambino: assieme guardarono le stelle, ov'egli diceva che emigrano i nostri
spiriti, assieme pregarono. Svegliandosi, la donna provò ad alzarsi
e le riuscì.
Era guarita.
Jorgj ascoltava e invano cercava di frenare un tremito.
«
Sorgi e cammina!», erano le parole che Mariana gli aveva detto.
Sopraggiunto il dottore presero a commentare il fatto, mentre Pretu, dopo aver
per alcuni momenti ascoltato avidamente, profittando della distrazione di Jorgj,
uscì nella straducola e comunicò le sue idee a zia Simona.
«
Io penso che al mio padrone accadrà la stessa cosa, come a quella donna
del figlio: lo dice anche il dottore; volete venire ad ascoltarlo?»
Ma zia Simona, seduta sullo scalino della porta, aspettava il ritorno del vecchio,
ed era stanca e credeva solo ai miracoli dei Santi.
«
La donna avrà implorato Santu Iazintu, che dicono sia il protettore
dei paralitici. Ma il tuo padrone, bello mio, il tuo padrone non crede in Dio
e non guarirà mai.»
«
Eppure...», disse Pretu con aria di mistero, ma non proseguì.
«
Sai una cosa che fa bene, ma a chi crede in Dio? L'acqua di sorgente, ma attinta
proprio dove sgorga e a mezzanotte, stanotte. Sì, l'acqua di San Giovanni,
bello mio; non c'è altro, per i paralitici, ma solo per quelli che credono
in Dio...»
«
Sì, me lo disse anche zia Martina Appeddu. Eppoi un'altra cosa; ma non
ve la voglio dire... Ebbene, sì, ve la dico lo stesso, una medicina
che zia Appeddu farà stasera, al sorgere della luna, e che io dovrò...
Ah, ma no, non devo dirlo; altrimenti non riesce...»
Egli era agitato; da tanti giorni covava il suo segreto e non ne poteva più!
«
Sentite», disse sottovoce, curvandosi davanti a zia Simona, «d'accordo
con Lia, la serva di zia Giuseppa Fiore, ho pregato zia Martina Appeddu di
tentare qualche rimedio per il mio padrone. Se egli guarisce sposa la sorella
del Commissario! le dissi: "Ci aiuterà tutti, pensate; e se non
volete farlo per questo, fatelo per amor di Cristo. Egli è lì che
si consuma come un cero, il mio padrone; proviamo, proviamo qualche rimedio".
Ella rifiutava; aveva paura del dottore, così grande amico di Jorgeddu.
Allora sono ricorso a Simona, la figlia cieca di zia Martina; e sebbene Simona
non abbia fiducia nei rimedi di sua madre, promise d'interessarsene.»
«
Ci vuole la fede; se non si crede in Dio non si riesce in nulla», ripeté la
serva di zio Remundu, immobile, gialla e ieratica sullo sfondo nero della porta.
In quel momento Banna, che tornava dal fare una visita a una sua comare, apparve
nella straducola. Fiera, scalpitante, coperta di vesti grevi nonostante il
caldo, con una catenella piena di amuleti attraverso il petto, ella guardò il
ragazzo col suo solito sguardo sprezzante, e mentre si bottonava i polsi della
camicia riferì a zia Simona le chiacchiere della comare.
«
Ah, zia Simona mia, se vedeste com'è bella la mia figlioccia! Aveva
gli orecchini che le ho regalato io, belli come due stelle; sì, orecchini
che costano due scudi l'uno. Ma quando io faccio un regalo non bado se quello
che cavo di tasca è uno scudo o un reale; grazie a Dio si può far
buona figura. Ebbene, comare Lisendra diceva che anche quella malandata di
Margherita, la serva del dottore, deve fare un figlio... Così egli raddoppierà la
dote, se le troverà il marito...»
«
Piano!», mormorò la serva, accennando con la testa alla casa di
Jorgj. «Egli è là.»
«
Ebbene, che m'importa?», disse Banna avviandosi a casa sua. «La
mia lingua non ha paura di nessuno, quando dice la verità.»
«È
perché la sua borsa è piena», mormorò zia Simona
riprendendo la sua posizione ieratica. «Ma anche dicendo la verità bisogna
aver paura di Dio.»
Pretu non si era azzardato ad aprir bocca. Banna era la sola persona che gli
destava soggezione, e d'altronde quel giorno egli aveva da pensare ai suoi
piccoli intrighi e i fatti altrui lo interessavano meno del solito.
D'un balzo fu di nuovo nella stamberga e vide che il suo padrone, immobile
anche lui sul suo guanciale bianco, col pallido viso illuminato dal riflesso
del tramonto, conservava la sua espressione sognante, mentre quei due, il prete
e il medico, continuavano la loro discussione.
Il dottore, tutto vestito di bianco, con un abito di tela pulito e stirato
di recente (gli altri anni il medesimo vestito aveva sempre un colore di terra
e di ruggine), dava forti pugni al giornale quasi volesse sfondarlo come una
porta.
«
Lombroso basa le sue esperienze su ritagli di cronache di giornali, dice lei?»,
gridava rivolto al prete. «Ma io rispetto più un numero di giornale
con la data di oggi, di ieri, di un mese fa, che tutti i vostri antichi scartafacci.
Il giornale è la realtà, ottimo amico; tutto il resto, compresi
i libri di storia, tutto il resto è fantasia. Ebbene, questi sono fatti,
questa è la verità; e questa brava donna che ha sognato suo figlio
e s'è alzata ed è guarita è la prova che la nostra scienza
non s'inganna.»
Ma il prete sorrideva ironico e benevolo. Batté una sull'altra le mani
bianche, sottili come quelle d'una donna, e guardò Jorgj.
«
Basta, basta, dottore! Non discutiamo oltre, tanto è inutile. Del resto,
nessuno sarà più felice di me se al nostro Jorgeddu stanotte
apparirà in sogno la personcina che lui sa e gli darà la mano
per aiutarlo ad alzarsi...»
«
Egli non ha bisogno di sogni: gli basterebbe la sua sola volontà; ma è questa
che gli manca. Egli ha finito con l'abituarsi alla sua posizione, e prende
gusto alla sua immobilità; egli è semplicemente un poltrone,
come dice il vetturale.»
Come evocato da queste parole ecco il vetturale attraversare zoppicando il
cortile e battere alla porta sebbene aperta della stamberga.
«
Posta!»
Jorgj aveva già sentito il passo e palpitava ansioso: i suoi occhi si
fecero grandi e luminosi, il suo braccio scarno parve allungarsi straordinariamente
per prender con maggior rapidità la lettera che il vetturale porgeva.
«
Ebbene, come andiamo, Jorgeddu? Ancora a letto? A quest'ora? Alzati, su, poltrone,
stanotte è San Giovanni; andremo a coglier l'alloro per metterlo sui
muri onde i ladri e le volpi non li possano saltare...»
Il dottore rideva fragorosamente, additando l'uomo a prete Defraja.
«
Lo sente? I suoi Evangelisti parlavano così!»
Jorgj guardava come affascinato la sottile lettera che gli tremava fra le mani,
azzurra e profumata come un fiore, e non pensava ad aprirla. Voleva esser solo,
per godersi tutta la sua gioia: prete Defraja lo capì e si alzò per
andarsene, mentre il vetturale si batteva una mano sulla gamba indolenzita
dicendo al dottore:
«
Di tanto in tanto mi fa questo scherzetto, sì, e l'unico rimedio, per
farla trottare, è di minacciarla della sega!... Allora si muove, vi
dico!».
Il dottore rideva guardando prete Defraja.
«
Lo sentite? Questo è un uomo!»
Ma il prete non aveva voglia di continuare a discutere e se ne andò,
col suo passo cauto eppure rapido. Nell'uscire dal cortile incontrò zio
Remundu che tornava dall'ovile sul suo cavallo carico di fasci d'erba fra cui
rosseggiava qualche papavero e spiccava l'oro di qualche ranuncolo.
Anche sul cielo lucido del crepuscolo brillava l'oro delle prime stelle; cadeva
una sera pura e dolce, l'aria odorava di erbe aromatiche, le rondini stridevano
ancora volando da una casupola all'altra come eccitate anch'esse da una smania
di vita che ritardava l'ora del loro riposo.
La figura di zia Simona s'era mossa dalla sua cornice nera: il nonno fermò il
cavallo e salutò il prete.
«
Come andiamo, pride Defrà?», domandò a
voce alta; ma anche la sua voce, come la sua figura, s'era come rammollita.
Egli aveva nell'aspetto, nello sguardo, in tutta la persona, un segno di languore,
di stanchezza dolce e melanconica.
«
Bene, ziu Remundu. E voi?»
«
E noi invecchiamo, pride Defrà! Ah, sì, tutte
le stagioni arrivano!»
«
La vecchiaia è l'età più bella! È il tempo della
raccolta, ziu Remù!»
«
E se la semina non è stata buona?»
«
Ah, be', ma io parlo per quelli che han seminato bene, come voi!»
Parlava con ironia, il prete? Dall'alto del suo vecchio cavallo il nonno abbassò gli
occhi che avevano ancora lo sguardo dell'aquila, e accennò di sì,
di sì, approvando, ma pur esso alquanto ironico.
«
Tutti crediamo di seminar bene. Ma tante volte è la semente che c'inganna!
Basta, vuol venire a bere un bicchiere di vino nero?»
«
Grazie, è tardi: domani, che è festa.»
Il prete fece un passo per andarsene, ma il vecchio lo richiamò.
«Pride Defrà, mi dica, come sta Jorgj Nieddu?»
Il prete lo guardò sorpreso. Era la prima volta che il nonno domandava
notizie di Jorgj. Ma appena ebbe la risposta: «sempre lo stesso» il
vecchio spinse il cavallo verso il portone che la serva aveva spalancato e
rientrò senza dir altro.
Prete Defraja andò fino alla chiesa e si mise a passeggiare sullo spiazzo.
Le sue mani diafane e il suo pallido viso d'albino parevano al chiarore del
crepuscolo più cerei del viso e delle mani di Jorgj.
Egli camminava su e giù: pareva recitasse le sue preghiere, tanto i
suoi occhi erano velati e spesso rivolti al cielo; ma all'improvviso si fermò al
parapetto che dava sulla valle, si curvò alquanto, si mise una mano
sul petto e cominciò a tossire. Tutto il suo viso parve gonfiarsi, diventò paonazzo,
poi livido, poi ritornò scarno e pallido d'un pallore mortale. Sul fazzoletto
ch'egli s'era avvicinato alla bocca rimase una macchia, rossa come i papaveri
che zio Remundu aveva portato in mezzo all'erba. Allora s'appoggiò al
parapetto; sentì le sue ginocchia tremare e la sua gola chiudersi come
stretta da una catena ardente.
«È
finita», mormorò.
L'estate gli portava i suoi fiori sanguigni, e l'autunno l'avrebbe cosparso
dei suoi crisantemi. Ed egli, egli non aveva nessuno che lo confortasse, e
neppure il vetturale portava per lui, dalle azzurre lontananze dell'orizzonte,
un soffio di vita e di sogno...
Egli invidiò Jorgj; ma poi si sollevò e si rimise a camminare,
mentre dal paesetto salivano gridi di gioia e davanti alla chiesetta di San
Giovanni, al di là del Municipio, alcuni buontemponi accendevano qualche
razzo e i fanciulli davano fuoco a una catasta di rami di lentischio.
«
Morire!», pensava prete Defraja andando su e giù per lo spiazzo
come una rondine inquieta. «Ebbene, questo è il nostro destino;
perché ribellarsi? Oggi, domani, adesso o poi, è lo stesso; ma
non che sia spenta la fiamma d'amore divino, l'amore di Dio che ci guida ed è l'anima
nostra.»
Sul cielo rosso del crepuscolo i razzi salivano come corde d'oro lanciate dal
basso sciogliendosi in grappoli azzurri e violetti, in diamanti e smeraldi.
La luna che spuntava sopra Monte Acuto pareva indecisa a salire sul cielo,
offesa per lo spettacolo di quei fuochi insolenti che pretendevano d'illuminare
loro la sera; una stella rossastra ferma sopra la torre della chiesa guardava
invece fissa e melanconica, un po' pallida e come rattristata dal falso splendore
dei razzi...
E prete Defraja camminava, camminava, pensando che le passioni umane, l'odio,
il piacere, l'amore della donna, gli onori e i poteri sono simili ai fuochi
di gioia in una sera di festa.
Il suo amore di Dio, la gioia di ricongiungersi presto a Lui, erano davanti
alle altre passioni come la stella fissa davanti a quei fuochi rapidi e vani.
Eppure egli continuava a pensare a Jorgj, alla lettera che era come un piccolo
brano dei mari lontani, dei lontani orizzonti del mondo, e come la stella sopra
la torre della chiesa anche il suo amore di Dio impallidiva davanti all'amore
per le cose del mondo...
VI.
Anche nella stamberga rischiarata dalla luce rossa del crepuscolo, Jorgj e
il dottore discutevano d'amore.
L'omone voleva fare una confidenza a Jorgj, e quando aveva un segreto era come
Pretu: non poteva tenerlo e non si interessava ad altro.
Andati via il prete e il vetturale, accostò dunque lo sgabello al letto,
senza smettere di dare colpettini al giornale; e senza accorgersi che Jorgj
desiderava di restar solo, disse sbuffando:
«
Ti faccio sapere che Margherita è incinta!».
La sua voce era turbata, il suo viso s'era coperto di rossore come quello di
una fanciulla.
Jorgj volse gli occhi, destandosi dai suoi sogni.
«
Ebbene, e non è una cosa naturale?»
«
Non è questo che mi preoccupa... Adesso... adesso, caro mio, capirai, è impossibile
trovarle marito.»
«
Ma perché vuol darle marito?»
«
Perché? Mi pare d'avertelo già detto e ripetuto; per non sposarla
io!»
Jorgj si mise a ridere.
«
Questo non me lo ha mai detto! Solo, diceva che non l'avrebbe mai sposata:
poi una sera mi confidò che aveva paura di venir meno ai suoi propositi;
diceva che avrebbe finito con lo sposarla per bastonarla, tanto Margherita
lo fa spesso stizzire: diceva, sì, queste sciocchezze...»
«
Sciocchezze?», esclamò il dottore abbassando e scuotendo la testa
e ripetendo a se stesso la parola di Jorgj. «È giusto!»
Ma dopo un momento d'esitazione sollevò il capo con un gesto energico.
«
Eppure, vedi, io sono stupidamente felice, Jorgj, capisci, io non sono più solo.»
Nessuno più di Jorgj poteva capire questa gioia, ma quasi per un puerile
desiderio di fargli dispetto disse:
«
Lei non era solo, dottore: non c'era la donna, che lo amava?».
«
La donna? Al diavolo! Essa mi ama oggi, chissà perché; forse
per ignoranza, forse per interesse, ma mi vorrà bene domani? E soprattutto
le vorrò bene io, domani? Non mi stancherò, non la caccerò via?
Ecco perché volevo darle marito, per non sposarla e non legarla a me
come il randello alla vite; utile oggi, dannoso domani. Ma il figlio è altra
cosa, ottimo amico; è parte di noi stessi; è il nostro seme.
Egli potrà anche abbandonarmi e dimenticarmi, un giorno; io sarò sempre
suo padre; io non sarò più solo anche se lui sarà all'altro
capo del mondo: non sarò solo perché avrò con me il mio
amore per lui. Che c'entra la compagnia materiale, la convivenza, i vincoli
sociali? Non c'entrano per nulla. La legge è qui; i vincoli son qui,
la compagnia è qui!»
Egli si dava forti pugni sul petto: Jorgj approvava e la lettera azzurra si
scaldava sul suo cuore palpitante di quell'amore che appunto non ha bisogno
di contatto e che varca il tempo e gli spazi.
«
Quest'amore può nutrirsi anche per creature non unite a noi da vincoli
di sangue», osservò timidamente, «perché, del resto,
non siamo già noi tutti fratelli?»
«
Vecchie parole, mio caro, fruste e rifruste e false prima ancora che fossero
inventate. Non esiste che l'amore per noi stessi, ed è questo che si
riflette sui parenti, e specialmente sui figli. Noi li amiamo perché essi
son noi: null'altro. Il dolore, in noi, qualunque forma esso prenda, non è che
il terrore della fine, della sparizione di noi stessi o di una parte di noi
stessi; ora, un figlio ci salva da questo terrore: egli ci sopravviverà,
porterà nella sua corsa attraverso la vita la fiaccola che noi gli abbiamo
trasmessa. Ecco perché noi lo amiamo, ecco perché non sentiamo
più intorno a noi la solitudine, cioè la morte, la fine.»
«
Eppure ci son di quelli che amano senza speranza di veder proseguita la loro
esistenza. Le dico di sì! Se il dolore in ogni sua forma, com'ella dice, è il
terrore della fine, cioè della morte, l'amore, in ogni sua manifestazione, è il
segno stesso della vita. Noi amiamo e vogliamo essere amati per provare a noi
stessi che siamo vivi. Sì, avviene così in tutti, anche in quelli
che come me son già sepolti...»
«
Tu risorgerai», disse il dottore alzandosi e troncando il colloquio che
per Jorgj, al solito, volgeva al sentimentale. «Chi parla come te ha
ancora la fiaccola in mano; l'importante è di non lasciarla spegnere.
Buona sera.»
Rimasto solo Jorgj aprì la lettera attento a non far volar via neanche
un pezzetto della busta: la luce moriva nella stamberga, ma a lui sembrava
che le parole scritte sul foglietto azzurro scintillassero come stelle sul
cielo della sera.
Un tremito lo agitava tutto e si comunicava al foglietto. Ah, ciò che
ella gli scriveva era così dolce, così ardente che gli dava un'ebbrezza
vertiginosa. Gli pareva d'esser ad un tratto salito fino alle altezze del sole
e di dominare l'infinito, pronto però a precipitare di nuovo nell'abisso.
«
Io tornerò, sì, Giorgio, non dubiti, perché anch'io l'amo,
come lei, Giorgio, mi ama; e il nostro amore non può venir distrutto
né dal tempo né dalla lontananza: sorgente inesausta che alimenta
la nostra vita, esso è lo stesso amore dell'amore...»
Quando Jorgj riprese coscienza della realtà era quasi notte. S'udivano i gridi dei bimbi, le voci delle donne che si giuravano amicizia stringendo i nodi del comparatico di San Giovanni; ed egli si rivide ragazzetto, poscia adolescente: rivide le valli inondate dal chiarore azzurro della luna, i sentieri gialli attraverso il bosco nero dell'altipiano e le greggie vaganti e il mare lontano... Il desiderio di alzarsi e di correre attraverso il mondo lo faceva rabbrividire. Gli pareva d'essere ancora ragazzetto, sotto la tirannia della matrigna, e meditava il modo di scappare, come allora...
Pretu rientrò e gli disse:
«
Mangiate, ziu Jò, io poi andrò a cogliere
l'alloro e i fiori di San Giovanni ed a bagnarmi i piedi nella sorgente. Vi
porterò un po' d'acqua: su, mangiate, ripasserò prima di andare
al bosco; su, sorge la luna lucente e bella come un viso di sposa. Ecco la
vostra zuppa».
E andò via di corsa, diretto alla casa di Martina Appeddu.
Nella straducola le donnicciuole, Banna, la serva, i ragazzi, parlavano di
andar alla sorgente per bagnarsi, e stringevano fra loro il comparatico di
San Giovanni annodando e snodando sette volte le cocche d'un fazzoletto. Il
nonno seduto sullo scalino col bastone fra le gambe guardava e taceva. Quando
vide uscire Pretu lo seguì con lo sguardo, poi abbassò la testa,
cosa che non gli accadeva mai, fino ad appoggiarla alle mani ferme sul pomo
del bastone. Così parve addormentarsi.
Pretu balzava su per la scalinata del Municipio come un piccolo muflone; nella
piazza raggiunse il prete che se ne tornava a casa nero e lieve come un'ombra,
gli baciò la mano, vide zia Giuseppa e Lia sedute sul patiu intente
anch'esse a chiacchierare con altre donne.
Parlavano di Margherita e Lia diceva con malizia:
«
L'ho veduta poco fa a passare qui dietro: forse andava da Martina Appeddu per
qualche medicamento... Ah, ecco Preteddu che forse anche lui va da Martina.
Pretu, animalino, senti qui, vieni...».
Ma il ragazzo aveva fretta, e non si sarebbe fermato se anche zia Giuseppa
non l'avesse chiamato con la sua voce imperiosa.
«
Pretu! Non torni più, stasera, dal tuo padrone? Ripassa di qui, che
devo darti una cosa per lui.»
Egli promise e riprese a correre. La luna ancora bassa sopra i monti al di
là della vallata illuminava la piazza con un chiarore dorato di lume
lontano; metà della valle rimaneva oscura mentre l'altra metà era
tutta argentea, e d'argento azzurrognolo parevano le montagne spiegate come
grandi ale al di qua e al di là dell'Orthobene coperto d'ombra.
Pretu ridiscese un viottolo, dall'altro lato della piazza, s'inoltrò in
una specie di sobborgo ove viveva la parte più misera della popolazione
di Oronou. Erano catapecchie addossate alle roccie, muricciuoli, siepi, tettoie,
tutto un agglomeramento di piccole costruzioni primitive che sembravano fatte
da antichissimi uomini nomadi, lì di passaggio per qualche giorno, e
che invece vi si erano poi fermati per secoli.
Pretu abitava in una di queste casupole senza finestre, piccola e buia quanto
era grande e luminoso l'orizzonte su cui invano guardava. Ma passò dritto
davanti al muricciuolo del viottolo, al di là del quale si sentiva il
pianto del suo fratellino Bore cullato dalla voce sonnolenta della madre. Più in
là zia Martina Appeddu viveva in una strana casetta, vera abitazione
di fattucchiera; una specie di torretta circolare fabbricata con piccole pietre
nerastre e con fango, e al cui piano superiore si saliva per mezzo di una scaletta
esterna riparata da un alto muro a secco di macigni. Tutta la casa dava l'idea
d'un nuraghe, e non mancava il patiu,
come davanti alla casa di zia Giuseppa Fiore, cioè una specie di cortiletto
sollevato, dove Pretu vide Simona, la figlia cieca di zia Martina, che filava
e pregava.
«
Vado su da vostra madre, zia Simò.»
«
C'è gente. Aspetta.»
Egli sedette accanto a lei sul muricciuolo.
«
Come sta il tuo padrone?»
«
Bene, ma non tanto... E voi?»
Ella filava, e la sua conocchia gonfia di lino sembrava una testa bionda da
cui le agili dita di lei traevano un filo interminabile dorato come quello
di un sogno.
«
Anch'io bene... ma non tanto!» La sua voce era dolce e ironica. «E
il dottore cosa dice?»
«
Che dice? Che guarirà. Ma io...»
«
Ma tu?»
«
Son venuto per quella medicina che mi avete promesso... Madre vostra deve averla
fatta poco fa, al sorgere della luna. E a voi perché non ve la fa?»
La cieca filava sorridendo al filo d'oro che scorreva fra le sue dita: i suoi
grandi occhi neri, sotto le folte sopracciglia arcuate, parevano sani.
«
Contro il volere di Dio non esiste medicina», disse sottovoce. «Sia
fatta la sua volontà; basta che in questo mondo ci sia la pace; la salute
vera sarà nell'altro.»
Ma Pretu non la intendeva così: egli era pieno di vita e cominciò a
saltellare intorno al patiu impaziente di veder zia Martina.
«
Lo so chi c'è; Margherita la serva del dottore! Fatemi dunque salire.»
«
Ah, diavoletto, come lo sai?»
«
Eh, lo so», egli disse con aria di mistero; e poiché il convegno
fra zia Martina e Margherita si prolungava troppo, egli finse di andarsene,
ma eludendo l'attenzione della cieca s'arrampicò sulla scaletta fino
al ballatoio sul quale dava la porticina della camera superiore.
La cieca però aveva l'udito fino: lo chiamò due volte e, non
ottenendo risposta, salì anch'essa a tastoni sul ballatoio.
«Mama, mama», disse, «c'è qualcuno.»
Pretu, col viso ansioso sull'apertura della porticina, socchiusa, aveva già veduto
Margherita e la fattucchiera ferme davanti a un tavolinetto coperto da un fazzoletto
nero sul quale zia Martina disponeva in semicerchio un mazzo di carte da gioco.
La stanzetta non aveva nulla di particolare; ma la lampadina di ferro a tre
becchi, appesa alla parete sopra il tavolinetto, pareva un uccello nero con
una fiammella per lingua; e l'ombra che si spandeva sul muro, e le figure delle
due donne, pallida e triste quella di Margherita, tragica e nervosa quella
di zia Martina le cui sopracciglia si movevano di continuo e le cui dita adunche
correvan sulle carte come zampe di aquila, davano alla scena alcunché di
satanico. Pretu provò un senso di paura e di piacere.
«
Il gioco è buono», diceva zia Martina. «Non aver timore,
tortorella! Egli ti sposerà!»
In quel momento s'udì la voce di Simona: zia Martina corse alla porta
e vide Pretu sul ballatoio.
«
E chi ti ha permesso di venir su? Ah, Simoné, perché l'hai lasciato
salire?»
«
M'è scappato, mama!»
«
Ebbene, tanto lo sapevo chi c'era!», disse Pretu con coraggio. «Non è vero,
zia Simona, che lo sapevo già? Datemi quella cosa, zia Martina, poi
me ne andrò: vi giuro sulla mia coscienza che non dirò nulla
a nessuno.»
Per levarselo di tra i piedi la donna prese col dito da un vaso rosso un po'
di manteca e l'avvolse in un pezzo di carta.
«
Va, ecco; e se tu dici di aver veduto qui Margherita guai a te. Mi capisci?»
«
Zia Martina, mi possiate veder cieco se io aprirò bocca. Addio.»
D'un balzo fu nel viottolo e di lì in piazza, col prezioso involtino
in seno. Zia Giuseppa Fiore lo aspettava; voleva consegnargli per Jorgj un
vaso di sughero colmo di latte cagliato, ma egli si rifiutò di prenderlo.
«
Domani, domani, adesso ho fretta.»
«
Martina ti ha dato il farmaco?», domandò Lia rincorrendolo fino
alla scalinata. «E Margherita?»
«
Era là», egli disse impavido. «Sì, il farmaco l'ho
qui: adesso Jorgeddu il mio padrone dormirà, perché di solito
egli sonnecchia, appena calata la sera. Io gli ungerò la fronte e il
lobo delle orecchie e la gola, e stanotte stessa, se egli si sveglia, troverà giovamento.
Poi andrò anche a prendere l'acqua della sorgente che fa bene.»
Tornata verso la padrona Lia riferì i progetti del ragazzo: zia Giuseppa
allora raccontò fatti straordinari accaduti la notte di San Giovanni,
e concluse:
«
E può darsi che Jorgeddu trovi giovamento. Se egli riesce ad alzarsi
ed a riprendere i suoi spiriti, ah, egli... egli riacquisterà il tempo
perduto...».
Ella non diceva tutto il suo pensiero; ma la serva fedele e anche le vicine
di casa conoscevano le sue speranze.
«
Sì», disse Lia, «l'uomo malato è come lo straccio
sporco, tutti lo disprezzano; ma se Jorgj guarirà sarà di nuovo
buono a qualche cosa e si vendicherà.»
La luna saliva fra gli alberi della piazza illuminando il patiu e
le donne sedute in giro. Su proposta di Lia un gruppo di esse partì per
andare a bagnarsi i piedi alla sorgente ed a cogliere l'alloro e il timo sull'orlo
della valle: altre si ritirarono; zia Giuseppa rimase sola sulla sua panchina,
col recipiente del latte accanto e col pensiero di Jorgj in mente.
S'egli fosse guarito! Ella non era riuscita a vendicarlo, ed anzi aveva veduto
la fortuna dei Corbu crescere e divenire quasi insolente. Ma egli, il disgraziato
fanciullo, era sempre circondato di cattivi consiglieri; dal dottore pazzo,
dal prete bonaccione, da donnicciuole, da ragazzi e da vecchi rimbambiti. Sì,
anche quell'Innassiu Arras era diventato sciocco e ciarlone come una femminuccia!
Zia Giuseppa non era più riuscita a trovar solo Jorgeddu ed a fargli
capire la ragione: ma adesso, adesso che tutti sapevano il nome del vero colpevole,
era tempo di invitare nuovamente il disgraziato a rivendicare il suo onore.
A un tratto s'alzò, chiuse la porta, prese il recipiente del latte e
s'avviò. Come l'altra volta, scese la scalinata della piazza dirigendosi
alla casa di Jorgj. Alcuni ragazzi per non andar troppo lontano si bagnavano
i piedi nel rigagnolo che scendeva dalla fontana, e spruzzandosi l'acqua sul
viso si rincorrevano ridendo.
Seguita dalla sua ombra che aveva pur essa un recipiente dondolante in mano,
la vecchia passò davanti alla casa dei Corbu, ma vide solo la serva
seduta sullo scalino, al posto del nonno. La straducola era deserta, essendo
le donne andate alla sorgente; ma nel cortiletto di Jorgj c'era Pretu, immobile,
con un omero appoggiato al muro, una mano sul petto, un piede sollevato. Appena
vide zia Giuseppa le corse incontro e le si mise avanti per impedirle di avanzarsi.
«
Siete venuta voi? Ebbene, non entrate, adesso c'è gente.»
«
Chi, il dottore o il prete?»
Siccome ella faceva atto di avanzarsi egualmente, Pretu le saltellò intorno
dicendo sottovoce:
«
Ebbene, sentite: c'è zio Remundu!».
Ella si fermò attonita.
«
Sì! c'è lui! Pare voglia far la pace col mio padrone. Stanno
lì a discorrere da quando son tornato, voi m'avete veduto. Zio Jorgeddu
mi ha mandato fuori, dicendo di non lasciar entrare nessuno...»
Zia Giuseppa non pronunziò parola: bruscamente indietreggiò fino
all'ingresso del cortiletto e se ne tornò a casa scalpitando come una
vecchia giumenta frustata. Il cuore le batteva di rabbia e di vergogna; sì,
vergogna di esser ancora viva in questi tristi tempi di transazioni e di viltà.
Ah, il vecchio sparviero voleva far pace con l'uccellino che aveva dapprima
acciecato e mezzo divorato? E Jorgj Nieddu, fiero con gli amici e i benefattori,
accettava la visita del suo carnefice? Tempi da agnelli e da lucertole! Ebbene,
che i vili se ne stiano coi vili; l'aquila non cesserà per questo di
esser aquila. E la vecchia tornò a sedersi sul suo patiu,
come un'antica abitatrice dei nuraghes, insensibile ai canti
della notte serena, pieno il cuore di ricordi d'odio e di grandiosi progetti
di vendetta.
VII.
Veduto Pretu allontanarsi e credendo che per quella sera non tornasse più,
il nonno aveva atteso che le donnicciuole andassero alla sorgente e a cogliere
l'alloro; s'era poscia alzato per avviarsi alla stamberga di Jorgj.
Era calmo e sapeva quel che faceva. Si meravigliava anzi di non averlo fatto
prima: tuttavia, entrato nel cortiletto si fermò e parve specchiarsi
nella sua ombra, accomodandosi bene sul capo la berretta e cambiando il bastone
da una mano all'altra: infine s'avanzò risoluto, picchiò lievemente
alla porta socchiusa ed entrò.
Jorgj rileggeva la lettera di Mariana, e fu attraverso una atmosfera di sogno
che vide la figura scura del vecchio avanzarsi fino al lettuccio. Anche lui
non si meravigliò (aspettava da tanto quella visita!) ma provò un
senso di sorpresa nel veder l'uomo molto invecchiato, curvo, rammollito.
«
Dev'esser malato ed ha paura di morire», pensò nascondendo la
lettera sotto il guanciale.
Il vecchio sedette sullo sgabello senza salutare, quasi fosse abituato ad entrar
tutti i momenti da Jorgj, e solo dopo alcuni istanti domandò:
«
Ebbene, come andiamo?».
«
Bene», disse Jorgj con un filo di voce.
E tacquero. Che dovevano dirsi? Troppe cose, per poterle esprimere con semplici
parole.
Il nonno tornò ad accomodarsi la berretta, si guardò attorno
per accertarsi che era proprio lì, nella stamberga di Jorgj Nieddu,
e finalmente disse:
«
Non ti rechi meraviglia se son qui: dovevo venir prima, ma molte cose me ne
hanno distolto. Io devo domandarti un parere... Che vogliamo fare! dimmi? Dobbiamo
denunziare Dionisi Oro?».
Jorgj rispose senza esitare: «Non tocca a me».
«
Sei stato tu il più danneggiato; toccava a te denunziare il colpevole,
appena hai saputo chi era. Perché non l'hai fatto?»
«
E voi perché non lo avete fatto?»
«
Ebbene, Jorgé, ascoltami, parliamoci chiaro. Perché io fino ad
oggi non ero sicuro.»
Jorgj sorrise suo malgrado e il vecchio capì il significato di quel
sorriso triste e sarcastico. Accostò lo sgabello al letto, accavalcò le
gambe e appoggiò le mani al bastone: adesso i suoi occhi splendevano
e il suo sguardo andava dritto come un raggio fino agli occhi di Jorgj.
«
Tu dirai: vengono adesso questi scrupoli al vecchio rimbambito? Sì,
ti vedo queste parole sulle labbra. Ebbene, sì; perché non deve
arrivare l'ora degli scrupoli? Arrivano tutte le ore, Jorgj Nié; anche
quella della morte, archibugiata la trapassi! E perché si è vissuti
al buio si deve morire al buio? Ascoltami: non c'è uomo al mondo che
non abbia errato: ebbene, dimmene uno, ma con coscienza di dire la verità,
ed io ti crederò. Cristo? Cristo non era uomo: era Dio; gli altri, tutti,
compresi gli Apostoli, tutti abbiamo errato. Tu forse no? Pensaci bene e vedrai
che tu pure hai commesso errore. Dimmi di no, in tua coscienza, ed io allora
mi vergognerò di confessare che anch'io sono stato un uomo di questo
mondo!»
Jorgj non sorrideva più: ascoltava, e nelle parole del vecchio sentiva
fremere, non il rimorso, il pentimento, la debolezza, ma lo stesso orgoglio
che aveva sostenuto lui come il puntello sostiene l'edifizio in rovina.
«
Ascoltami, Jorgeddu, è più facile dire: "non mi sono sbagliato",
che riconoscere il contrario. Anche tu, che studiavi legge e sapevi molte lingue,
ti sei sbagliato quando mi hai ritenuto un uomo ignorante e di cattivo cuore.
Ignorante, sì, ma non idiota; superbo, sì, ma non di cattivo
animo. Quando tu mi giudicavi così eri tu il cattivo; perché noi
siamo tanti specchi e vediamo la figura nostra nella persona che giudichiamo.
Se io ho l'odio in cuore vedo il mio nemico col viso nero come l'ho io che
ho la fisionomia del demonio; e se ho l'amore vedo bello anche il nemico che
ha il coltello nel pugno... E così lui in me...»
«È
vero!», disse Jorgj. «Ma perché queste idee non vi son venute
prima?»
«
Cosa ne sai tu? Eppoi tu non eri disposto ad ascoltarmi, come adesso, ed io
non ero disposto a vederti ridere come avevi ricominciato a ridere poco fa!
Tu non volevi bene a me né io a te. Questo era l'accidente! Ma!... Basta,
quello che è accaduto è accaduto; è inutile parlarne.
Tu pensa a guarire e tutto si dimenticherà.»
«
Io non guarirò», disse Jorgj, «l'odio mi ha fulminato, e
neanche l'amore può disfare le opere del male!»
Il vecchio scuoteva la testa.
«
Chi lo sa? Sei giovane, Jorgé; non dire mai: "questo non accadrà".
Adesso dunque ti dirò perché son qui... Il tuo servetto non torna?»
«
No per stasera.»
Allora il vecchio raccontò sottovoce come il suo antico nemico Innassiu
Arras gli aveva rivelato che il vero colpevole era il mendicante e dove questi
aveva nascosto il tesoro. Un resto di malizia, e poiché gli sembrava
che gli occhi scintillanti di Jorgj lo guardassero ancora con diffidenza e
con disprezzo, gli impedì di parlare di Columba e della paura e della
pietà che lo svenimento di lei gli avevan destato in cuore. Solo osservò:
«
Innassiu Arras mi ha rivelato il fatto in un momento poco opportuno: ma egli è stato
sempre così, un uomo senza prudenza. Vada alla forca! Basta; gli ho
tutto perdonato; come lui ha perdonato a me. Siamo vecchi entrambi; e le passioni
cadono coi denti. Come ti dicevo dunque io filai dritto a San Francesco, trovai
i denari, maledetti come quelli di Giuda; e ne feci... bene, questo non importa.
E subito pensai di venir da te; ma cosa dovevo dirti? Ero sicuro del fatto
mio? No; perché tutto poteva essere una finzione di Innassiu Arras.
Avevo sempre il dubbio ch'egli volesse prendersi beffa di me. E così passavano
i giorni, agnello mio, brutti come giorni d'inverno. Ma ieri venne da me il
prete e mi disse: "Passando davanti all'ovile di Innassiu Arras entrate,
zio Remù; c'è qualcuno che vuol parlarvi". Io lo guardai
ed egli mi guardò, e ci siamo capiti, Jorgj, perché gli occhi
son più sinceri delle labbra. "Prete Defraja", gli dissi, "lei
sa tutto; che cosa mi consiglia di fare?" Egli mi rispose: "Ciò che
vi consiglia la vostra coscienza" Queste parole, agnello mio, queste parole
mi hanno stretto il cuore più che tutti gli insulti, i rimproveri, le
bestemmie di Innassiu Arras. Perché io la coscienza ce l'ho, Jorgj,
sì, e sempre sveglia come il tarlo entro il legno. Basta, poiché prete
Defraja insisteva, misi la sella al cavallo e partii; trovai l'uomo lassù,
nell'ovile di Innassiu, buttato in un angolo come un cinghiale ferito; aveva
la febbre e delirava raccontando come entrò in casa mia, come rubò,
come nascose i denari; e parlava di te, e ti rivolgeva la parola, chiamandoti
come un bambino, domandando perdono. Parve non riconoscermi, ma mi raccontò tutto
perché lo racconta a chiunque gli va davanti. "Adesso crederai
alle tue orecchie", disse Innassiu Arras, "che dobbiamo fare?" Ed
io sono venuto da te, Jorgj Nieddu: che dobbiamo fare?».
«
Quello che il vostro cuore vi consiglia.»
Il viso del vecchio si rischiarò.
«
Ah, tu credi dunque al mio cuore? Ebbene, il mio cuore mi direbbe di lasciar
correre... Quando io avrò denunziato quel pezzente che cosa ne ricaverò?
Egli non può più far male a nessuno: e far male a lui, oramai, è come
far male a un ladro già impiccato. Ma tu, Jorgé, ma tu...»
La sua voce tremò alquanto e le sue parole parvero spegnersi in un sospiro;
ma Jorgj capì.
«
Non vi preoccupate di me!», disse, e cercò di render aspro il
suo accento per nascondere la sua commozione.
In quel momento rientrò Pretu: visto il nonno spalancò gli occhi,
poi si mise a ridere: ma bastò che la terribile testa del vecchio si
volgesse e la voce del padrone si facesse sentire, perché la tragica
serietà del momento s'imponesse anche sull'animo del ragazzo: e Jorgj
non aveva finito di dire: «Che c'è da ridere? Va fuori e non lasciar
entrare nessuno», che già Pretu era di sentinella nel cortile.
Il nonno volse di nuovo gli occhi verso quelli del malato; non parlò,
ma il suo sguardo era così ansioso che Jorgj abbassò le palpebre.
«
Ebbene, ziu Remundu, se il vostro cuore vi dice di perdonare
perdonate. Per conto mio, io... da lungo tempo ho già perdonato... a
lui... a tutti!...»
Il nonno diede un lungo sospiro: aprì le labbra per riprendere il discorso
ma all'improvviso un fremito convulso gli alterò i lineamenti: le sue
sopracciglia selvagge s'avvicinarono, distesero come una nuvola fra gli occhi
corruscanti e la fronte oscura solcata da rughe simile ad un orizzonte tempestoso;
la bocca si contrasse, e le labbra che avevano conosciuto la menzogna, la maledizione,
l'urlo dell'odio, tremarono come quelle d'un bimbo che sta per piangere.
Ma egli si vantava di non aver pianto neanche da bambino; vinse quindi il suo
turbamento, mentre stendeva la mano, tenendola alquanto sospesa su quella di
Jorgj, quasi per assicurarsi prima se questa era disposta alla stretta: finalmente
la posò, nera e ancora potente, su quella piccola mano cerea che non
andava incontro ma neppure sfuggiva a quell'atto di pace.
«
Sei un uomo, Jorgé!»
Di nuovo entrambi tacquero, senza guardarsi, le mani unite. Jorgj però si
sentiva ripreso dal suo antico spirito maligno: domande acerbe gli salivano
alle labbra, sospetti e dubbi turbavano la sua gioia.
Il nonno parve capire quell'istinto di diffidenza. Ritirò la mano e
riprese:
«
Ascoltami, Jorgé: oggi son ritornato nell'ovile di Innassiu Arras. Il
pezzente era più tranquillo e mi riconobbe: non parlava più e
solo, quando mi vide, nascose il viso sotto un lembo della bisaccia. Io gli
parlai scherzando: gli dissi: "Resta qui finché starai bene, poi
torna in paese e va da Jorgeddu e fa ciò che egli ti dirà di
fare: poiché tu non hai offeso me, Remundu Corbu, togliendomi quei pochi
denari, vile pecunia che va e che viene; ma mi hai offeso togliendomi la pace
della famiglia e della coscienza, ed hai soprattutto offeso quel disgraziato
ragazzo" Egli dunque verrà un giorno o l'altro da te, e tu, se
credi, digli ciò che stasera è passato fra noi. E adesso me ne
vado, Jorgé: qualche volta, di tanto in tanto, ritornerò e chiacchiereremo,
fino al giorno in cui ti rialzerai e riprenderai con più lena la strada.
Poi toccherà a me cadere: e quando io sarò sulla stuoia, buttato
per non più rialzarmi, verrai tu qualche volta... Addio, buona notte».
Si alzò appoggiandosi con una mano al bastone, e rimettendo l'altra
su quella di Jorgj: ma adesso la diafana mano si volse e afferrò la
mano nera ancora potente: i limpidi occhi che il dolore rendeva più vividi
cercarono quelli del vecchio e parvero voler afferrare l'anima di lui come
la mano afferrava la mano.
«
Aspettate; voglio domandarvi una cosa sola. M'avete davvero creduto colpevole?»
«
Al primo momento sì.»
«
Ma perché? Ma perché?»
«
Perché ti odiavo e tu mi odiavi. E l'odio è come la gelosia;
sospetta di tutto senza ragione.»
«
Dio mio, Dio mio!» gemé Jorgj ripreso dall'angoscia del passato.
«
Si vive di errori...», riprese il nonno, dopo un momento di silenzio.
E batté il bastone per terra. «Basta, adesso! L'importante è di
riconoscere d'aver sbagliato. Buona notte, Jorgeddu... non mi saluti?»
«
Buona notte», rispose alfine Jorgj, calmandosi; e solo allora il vecchio
se ne andò.
Nel cortile si fermò e parve volesse dire qualcosa a Pretu, ma il ragazzo
lo sfuggì, premuroso di rientrare dal suo padrone.
Jorgj era pallidissimo, con gli occhi circondati come da un'impronta nera,
ma vivi e brillanti. Mentre di solito, dopo una crisi nervosa o un avvenimento
straordinario cadeva in un sopore febbrile, quella sera non trovava pace e
non gli riusciva di addormentarsi.
«
Giusto questa sera!», pensava Pretu palpando di tanto in tanto il suo
involtino; e per non eccitare oltre il padrone non gli domandò il perché della
visita del nonno.
A sua volta Jorgj desiderava di restar solo per raccogliere le sue idee e frenarne
il tumulto. A momenti gli pareva d'esser trasportato violentemente nello spazio
dalla corsa stessa della terra, a momenti che tutto intorno a lui fosse vuoto
e immobile. Gli sembrava che le sue tempie scricchiolassero, pronte a spezzarsi
come argini alla piena di un fiume, e che il loro tremito si comunicasse a
tutte le sue povere membra inerti.
«
Hai veduto?», disse sottovoce a Pretu mentre questi gli accomodava le
coperte prima di andarsene, «anche il vecchio s'è piegato! Adesso
sono contento! Ma sono stanco e voglio dormire. Vattene!»
«
Sì, sì, dormite, dormite...»
Pretu uscì sollecito e attese. La luna sempre più alta illuminava
la straducola; il nonno aveva ripreso il suo posto sullo scalino, con le mani
appoggiate al bastone aspettando il ritorno delle donne.
Il paese sembrava deserto, abbandonato a un tratto dai suoi antichi abitatori
nomadi; solo il nonno era rimasto sul suo alto scalino di pietra, a custodire
i ricordi e a ricordare a sua volta tutta un'età scomparsa.
Ma una figura armata, preceduta da due cani allegri, apparve in fondo alla
straducola, su, su, come emergendo dalla valle; si disegnò nera e grande
sullo sfondo lunare, e cantando, accompagnata da un tintinnìo di catenelle,
di sproni, di campanellini, attraversò la strada solitaria. Tutto il
paese parve risvegliarsi; i cani abbaiavano, l'eco rispondeva, e la voce del
dottore che andava alla caccia della lepre riempì di vibrazione il silenzio
della notte.
Amore, mistero...
Solenne, profondo...
Pretu origliava alla porta del suo padrone; il lume era spento, tutto taceva
nella stamberga. Pian pianino rientrò lasciando la porta spalancata
perché entrasse un po' di chiarore: trasse l'involtino, si fece il segno
della croce, prese col dito un po' dell'unto portentoso e in punta di piedi
s'avvicinò al letto.
Jorgj non dormiva, ma messo in sospetto dalle manovre del ragazzo stava immobile
con le palpebre abbassate; sentì un respiro ansioso a stento frenato,
un dito freddo e unto che gli sfiorava la fronte, il mento, il lobo delle orecchie:
poi il chiarore incerto della porta sparì, il passo lieve di Pretu strisciò nel
silenzio del cortile e parve sperdersi sulle traccie della voce lontana del
dottore.
Jorgj indovinò ciò che il ragazzo aveva voluto tentare e asciugandosi
col fazzoletto il viso cominciò a ridere. A poco a poco la sua risata,
dapprima lieve, si fece alta, nervosa, insistente. Egli la sentiva risonare
nel buio, e gli pareva la risata di un altro, di un uomo felice che si moveva,
si disponeva ad uscire e ad andarsene per il mondo pieno di gioia. E pur abbandonandosi
alla sua gaiezza puerile se ne domandava sorpreso il perché. Perché?
perché?
Era lui l'uomo felice. Gli sembrava di non esser più malato: le chiacchiere
del dottore, la visita del nonno, le fattucchierie di Pretu, tutto gli appariva
così bello, così divertente!
Ma un singhiozzo nervoso seguì la risata, e di nuovo un abbattimento
profondo lo vinse. Perché ridere così? Aveva ragione di ridere?
Ah, perché quest'insonnia, stanotte? Non manca che l'insonnia, adesso,
per render più completa la sua miseria. Ebbene, che importa se anche
il nonno riconosce i suoi torti? Può rendergli l'onore, non gli rende
la salute; ed è questa che egli vuole, adesso che ha riavuto tutto il
resto: la fama, la giustizia, l'amore.
E ricomincia a turbarsi, a palpitare, e ripensa alla lettera della sua amica,
ma gli sembra di averne dimenticate le parole.
Riaccende il lume e rilegge:
«
Anch'io l'amo, come lei, Giorgio, mi ama; e il nostro amore non può venir
distrutto né dal tempo né dalla lontananza: sorgente inesausta
che alimenta la nostra vita, esso è lo stesso amore dell'amore...».
Attorno alla parola «amore» le altre della lettera si aggruppavano
come pianeti intorno alle stelle fisse; e a lungo, nella notte serena, di cui
l'aria profumata e la dolcezza lunare penetravano fino alla stamberga, Jorgj
fissò il foglietto azzurro come una volta dall'orlo del ciglione contemplava
il cielo stellato.
Per calmarsi volle scrivere alla sua amica; prese dal tavolinetto il libro
e la carta, accostò il calamaio, il lume, la penna. Ma questa cadde
a terra. Egli non ne aveva altra e per raccattarla doveva curvarsi sul letto.
Questo movimento gli portava sempre la vertigine: tuttavia senza esitare egli
si volse col petto sull'orlo del lettuccio, la testa in giù, il braccio
teso a cercare.
Trovò la penna e si rimise nella solita posizione; e solo allora si
accorse che aveva potuto muoversi senza provare la vertigine.
Un sudore gelato lo coprì tutto; le sue tempia, i suoi polsi e le sue
dita pulsarono violentemente, ma i pensieri rimasero lucidi, le cose intorno
non si mossero nel solito giro vorticoso...
Egli credette di morire per la gioia: una gioia simile all'angoscia, così violenta
che gli spezzava il cuore.
Rimase immobile per alcuni momenti. Non ricordava più neanche la sua
amica. Solo vedeva uno splendore lontano, come di un incendio.
Ma il timore d'illudersi tornò ad offuscare ogni cosa. Si sollevò e
stette seduto in mezzo al giaciglio ardente e umido di sudore, coi pugni tremanti
e i pollici fissi come due chiodi sul materasso. La sua testa tremava e dondolava,
i suoi denti battevano; ma i pensieri continuavano a sfilar lucidi nella sua
mente e le cose intorno rimanevano ferme, di nuovo illuminate da uno splendore
abbagliante.
Allora fu certo d'esser guarito. Piano piano si tirò su, respinse il
cuscino sulla testiera del letto e vi appoggiò la schiena; mosse la
testa, si guardò attorno. E le cose rimanevano ferme, e tutto gli sembrava
bello, luminoso. La povera cassa che conteneva i suoi vestiti, lo sgabello
ove Mariana s'era tante volte seduta, l'antico focolare, la brocca donde aveva
bevuto tanti sorsi amari, i miseri arnesi e persino le tele dei ragni agli
angoli delle pareti, tutte, tutte le cose erano belle come gli oggetti e le
tende della casa di un re: il velo scintillante che le copriva era fatto di
lagrime che si tramutavano in perle.
Le ore passarono, il lume si spense; ma egli rimase seduto, immobile, al buio,
aspettando l'alba.
FINE
Note:
[1] Mia Signoria.
[2] Un piffero.
[3] Vassoi di legno.
[4] Un tesoro.
[5] Il borghese con le calze.
[6] Vaso di sughero.
[7] Pane biscotto che si sgretola facilmente.
[8] Acquavite all'anice.
[9] Cesto di asfodelo.
[10] Casa di Jana: piccola fata.
[11] Uno - uno è Dio,
Due - due il cielo e la terra,
Tre - la Trinità,
Quattro, - i quattro Vangeli.
[12] Grossi coltelli.
[13] Laudi sacre.
[14] Piffero.
[15] Perdona, si dice al mendicante quando non gli si vuol dare l'elemosina.
[16] Pietre di fuoco: coralli.
[17] Droghiere.
[18] Idiota.
[19] Dateci acqua, Signore,
Per questa necessità;
Gli agnelli chiedono acqua
E noi domandiamo pane.
[20] In carcere.