TRIUMPHUS CUPIDINIS

I


Al tempo che rinova i mie' sospiri
per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sí lunghi martiri,
già il Sole al Toro l' uno e l' altro corno
scaldava, e la fanciulla di Titone
correa gelata al suo usato soggiorno.
Amor, gli sdegni e 'l pianto, e la stagione
ricondotto m' aveano al chiuso loco
ov' ogni fascio il cor lasso ripone.
Ivi fra l' erbe, già del pianger fioco,
vinto dal sonno, vidi una gran luce,
e dentro assai dolor con breve gioco.
Vidi un vittorioso e sommo duce,
pur com' un di color che 'n Campidoglio
triumfal carro a gran gloria conduce.
I' che gioir di tal vista non soglio
per lo secol noioso in ch' i' mi trovo,
vòto d' ogni valor, pien d' ogn' orgoglio,
l' abito in vista sí leggiadro e novo
mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi,
ch' altro diletto che 'nparar non provo:
quattro destrier vie piú che neve bianchi,
sovr' un carro di foco un garzon crudo
con arco in man e con saette a' fianchi;
nulla temea, però non maglia o scudo,
ma sugli omeri avea sol due grand' ali
di color mille, tutto l 'altro ignudo;
d' intorno innumerabili mortali,
parte presi in battaglia, e parte occisi,
parte feriti di pungenti strali.
Vago d' udir novelle, oltra mi misi
tanto ch' io fui in esser di quegli uno
che per sua man di vita eran divisi.
Allor mi strinsi a remirar s' alcuno
riconoscessi ne la folta schiera
del re non mai di lagrime digiuno:
nesun vi riconobbi; e s' alcun v' era
di mia notizia, avea cangiata vista
per morte o per pregion crudele e fera.
Un' ombra alquanto men che l' altre trista
mi venne incontra e mi chiamò per nome,
dicendo: - Or questo per amar s' acquista! -
Ond' io meravigliando dissi: - Or come
conosci me, ch' io te non riconosca? -
Et e' : - Questo m' aven per l' aspre some
de' legami ch' io porto, e l' aer fosca
contende agli occhi tuoi; ma vero amico
ti son e teco nacqui in terra tosca. -
Le sue parole e 'l ragionare antico
scoverson quel che 'l viso mi celava;
e cosí n' assidemmo in loco aprico.
E' cominciò: - Gran tempo è ch' io pensava
vederti qui fra noi, ché da' primi anni
tal presagio di te tua vita dava. -
- E' fu ben ver, ma gli amorosi affanni
mi spaventâr sí ch' io lasciai la 'mpresa;
ma squarciati ne porto il petto e' panni. -
Così diss' io; et e' , quando ebbe intesa
la mia risposta, sorridendo disse:
- Oh, figliuol mio, qual per te fiamma è accesa! -
Io no' l' intesi allor; ma or sí fisse
sue parole mi trovo entro la testa,
che mai piú saldo in marmo non si scrisse.
E per la nova età, ch' ardita e presta
fa la mente e la lingua, il demandai:
- Dimmi, per cortesia, che gente è questa? -
- Di qui a poco tempo tel saprai
per te stesso - rispose - e sarai d' elli,
tal per te nodo fassi, e tu no 'l sai;
e prima cangerai vólto e capelli,
che 'l nodo di ch' io parlo si discioglia
dal collo e da' tuo' piedi anco rebelli.
Ma per empier la tua giovenil voglia,
dirò di noi, e 'n prima del maggiore,
che cosí vita e libertà ne spoglia.
Questi è colui che 'l mondo chiama Amore;
amaro, come vedi, e vedrai meglio
quando fia tuo com' è nostro signore;
giovencel mansueto, e fiero veglio:
ben sa chi 'l prova, e fíate cosa piana
anzi mill' anni; in fin ad or ti sveglio.
Ei nacque d' ozio e di lascivia umana,
nudrito di penser dolci soavi,
fatto signore e dio da gente vana.
Qual è morto da lui, qual con piú gravi
leggi mena sua vita aspra et acerba
sotto mille catene e mille chiavi.
Quel che 'n sí signorile et sí superba
vista vien primo è Cesar, che 'n Egitto
Cleopatra legò tra' fiori e l' erba.
Or di lui si triumfa, et è ben dritto,
s' e' vinse 'l mondo, et altri ha vinto lui,
che del suo vincitor sia gloria il vitto.
L' altro è suo figlio, e pure amò costui
piú giustamente: egli è Cesare Augusto,
che Livia sua, pregando, tolse altrui.
Neron è il terzo, dispietato e 'ngiusto;
vedilo andar pien d' ira e di disdegno:
femina il vinse, e par tanto robusto.
Vedi il bon Marco d' ogni laude degno,
pien di filosofia la lingua e 'l petto,
ma pur Faustina il fa qui star a segno.
Que' duo pien di paura e di sospetto,
l' uno è Dionisio e l' altr' è Alessandro:
ma quel di suo temer ha degno effetto.
L' altro è colui che pianse sotto Antandro
la morte di Creusa, e 'l suo amor tolse
a que' che 'l suo figliuol tolse ad Evandro.
Udito hai ragionar d' un che non volse
consentir al furor de la matrigna,
e da suoi preghi per fuggir si sciolse;
ma quella intenzion casta e benigna
l' occise, sí l' amore in odio torse
Fedra, amante terribile e maligna.
Et ella ne morío; vendetta forse
d' Ipolito e di Teseo e d' Adrianna,
ch' a morte, tu 'l sai bene, amando corse.
Tal biasma altrui che se stesso condanna;
ché, chi prende diletto di far frode,
non si de' lamentar s' altri lo 'nganna.
Vedi 'l famoso, con sua tanta lode,
preso menar tra due sorelle morte:
l' una di lui et ei de l' altra gode.
Colui ch' è seco è quel possente e forte
Ercole, ch' Amor prese, e l' altro è Achille,
ch' ebbe in suo amar assai dogliose sorte.
Quello è Demofoon, e quella è Fille,
quello è Giasone e quell' altra è Medea,
ch' Amor e lui seguío per tante ville.
E quanto al padre et al fratel piú rea
tanto al suo amante è piú turbata e fella,
ché del suo amor piú degna esser credea.
Isifile vien poi, e duolsi anch' ella
del barbarico amor che 'l suo l' ha tolto.
Poi vèn colei c' ha il titol d' esser bella;
seco è 'l pastor che male il suo bel vólto
mirò sí fiso, ond' uscir gran tempeste,
e funne il mondo sottosopra vòlto.
Odi poi lamentar fra l' altre meste
Enone di París, e Menelao
d' Elena, et Ermion chiamare Oreste,
e Laodomia il suo Protesilao,
et Argia Polinice, assai piú fida
che l' avara mogliera d' Amfiarao.
Odi 'l pianto e i sospiri, odi le strida
de le misere accese che li spirti
rendero a lui che 'n tal modo gli guida.
Non poría mai di tutti il nome dirti,
ché non uomini pur, ma dèi gran parte
empion del bosco e de gli ombrosi mirti.
Vedi Venere bella, e con lei Marte
cinto di ferro i pie', le braccia e 'l collo,
e Plutone e Proserpina in disparte.
Vedi Iunon gelosa, e 'l biondo Apollo,
che solea disprezzar l' etate e l' arco
che gli diede in Tesaglia poi tal crollo.
Che debb'io dire? In un passo men varco:
tutti son qui in pregion gli dèi di Varro,
e di lacciuoli innumerabil carco
vèn catenato Giove innanzi al carro. -


II

Stanco già di mirar, non sazio ancora,
or quinci or quindi mi volgea, guardando
cose ch' a ricontarle è breve l' ora.
Giva 'l cor di pensiero in pensier, quando
tutto a sé il trasser due che a mano a mano
passavan dolcemente lagrimando:
mossemi il lor leggiadro abito e strano,
e 'l parlar pellegrin, che m' era oscuro,
ma l' interprete mio mel facea piano.
Poi che seppi chi eran, piú securo
m' accostai a lor, ché l' un spirito amico
al nostro nome, l' altro era empio e duro.
Fecimi al primo: - O Massinissa antico,
per lo tuo Scipione e per costei
- cominciai - non t' incresca quel ch' i' dico. -
Mirommi, e disse: - Volontier saprei
chi tu se' inanzi, da poi che sí bene
hai spiato ambeduo gli affetti miei. -
- L' esser mio - gli risposi - non sostene
tanto conoscitor, ché cosí lunge
di poca fiamma gran luce non vène;
ma tua fama real per tutto aggiunge,
e tal che mai non ti vedrà né vide,
con bel nodo d' amor teco congiunge.
Or dimmi, se colui in pace vi guide
- e mostrai il duca lor - che coppia è questa,
che mi par de le cose rare e fide? -
- La lingua tua, al mio nome sí presta,
prova - diss' ei - che 'l sappi per te stesso,
ma dirò per sfogar l' anima mesta:
avend' io in quel sommo uom tutto 'l cor messo,
tanto ch' a Lelio ne do vanto a pena,
ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.
A lui Fortuna fu sempre serena,
ma non già quanto degno era il valore,
del qual, piú d' altro mai, l' alma ebbe piena.
Poi che l' arme romane a grande onore
per l' estremo occidente furo sparse,
ivi n' aggiunse e ne congiunse Amore;
né mai piú dolce fiamma in duo cori arse,
né farà, credo: o me! ma poche notti
fur a tanti desir sí brevi e scarse,
indarno a marital giogo condotti,
che del nostro furor scuse non false,
e i legittimi nodi furon rotti.
Quel che sol piú che tutto 'l mondo valse,
ne dipartí con sue sante parole;
ché di nostri sospir nulla gli calse.
E ben che fosse onde mi dolse e dole,
pur vidi in lui chiara vertute accesa;
ché 'n tutto è orbo chi non vede il sole.
Gran giustizia a gli amanti è grave offesa;
però di tanto amico un tal consiglio
fu quasi scoglio a l' amorosa impresa.
Padre m' era in onore, in amor figlio,
fratel ne gli anni; onde obedir convenne,
ma col cor tristo e con turbato ciglio.
Cosí questa mia cara a morte venne;
ché, vedendosi giunta in forza altrui,
morir in prima che servir sostenne.
Et io del dolor mio ministro fui;
ché 'l pregator e i preghi era sí ardenti,
ch' offesi me per non offender lui;
e manda' le il velen con sí dolenti
pensier, com' io so bene, et ella il crede,
e tu, se tanto o quanto d' amor senti.
Pianto fu 'l mio di tanta sposa erede;
lei, et ogni mio bene, ogni speranza
perder elessi per non perder fede.
Ma cerca omai se trovi in questa danza
notabil cosa, perché 'l tempo è leve
e piú de l' opra che del giorno avanza. -
Pien di pietate, e ripensando 'l breve
spazio al gran foco di duo tali amanti,
pareami al sol aver un cor di neve;
quand' io udi' dir su, nel passar avanti:
- Costui certo per sé già non mi spiace,
ma ferma son d' odiarli tutti quanti. -
- Pon - diss' io - il core, o Sofonisba, in pace,
ché Cartagine tua per le man nostre
tre volte cadde, et a la terza giace. -
Et ella: - Altro vogl' io che tu mi mostre:
se Affrica pianse, Italia non ne rise:
dimandatene pur l' istorie vostre. -
A tanto il nostro e suo amico si mise,
sorridendo, con lei nella gran calca,
e fur da lor le mie luci divise.
Come uom che per terren dubio cavalca,
che va restando ad ogni passo e guarda,
e 'l pensier de l' andar molto difalca,
cosí l' andata mia dubiosa e tarda
facean gli amanti; di che ancor m' aggrada
saver quanto ciascun e 'n qual foco arda.
I' vidi ir a man manca un fuor di strada,
a guisa di chi brami e trovi cosa
onde poi vergognoso e lieto vada.
Donar altrui la sua diletta sposa:
o sommo amore e nova cortesia!
tal ch' ella stessa lieta e vergognosa
parea del cambio; e givansi per via
parlando insieme de' lor dolci affetti,
e sospirando il regno di Soria.
Trassimi a que' tre spirti, che ristretti
eran già per seguire altro camino,
e dissi al primo: - I' prego che t' aspetti. -
Et egli, al suon del ragionar latino,
turbato in vista, si ratenne un poco;
e poi, del mio voler quasi indivino,
disse: - Io Seleuco son, questi è Antioco
mio figlio, che gran guerra ebbe con voi:
ma ragion contra forza non ha loco.
Questa, mia in prima, sua donna fu poi,
ché per scamparlo d' amorosa morte
gliel diedi; e 'l don fu lecito fra noi.
Stratonica è 'l suo nome, e nostra sorte,
come vedi, indivisa; e per tal segno
si vede il nostro amor tenace e forte;
ch' è contenta costei lasciar me e 'l regno,
io il mio diletto, e questi la sua vita,
per far, vie piú che sé, l' un l' altro degno.
E se non fosse la discreta aita
del fisico gentil, che ben s' accorse,
l' età sua in sul fiorire era finita.
Tacendo, amando, quasi a morte corse;
e l' amar forza, e 'l tacer fu vertute;
la mia, vera pietà, ch' a lui soccorse. -
Cosí disse; e, come uom che voler mute,
col fin de le parole i passi volse,
ch' a pena gli potei render salute.
Poi che dagli occhi miei l' ombra si tolse,
rimasi grave, e sospirando andai,
ché 'l mio cor dal suo dir non si disciolse
in fin che mi fu detto: - Troppo stai
in un penser a le cose diverse,
e 'l tempo ch' è brevissimo ben sai. -
Non menò tanti armati in Grecia Serse
quanti ivi erano amanti ignudi e presi,
tal che l' occhio la vista non sofferse:
varii di lingue e varii di paesi,
tanto che di mille un non seppi il nome,
e fanno istoria quei pochi ch' i' 'ntesi.
Perseo era l' uno e volsi saper come
Andromeda gli piacque in Etiopia,
vergine bruna i begli occhi e le chiome;
ivi il vano amador che la sua propia
bellezza desiando fu distrutto,
povero sol per troppo averne copia,
ché divenne un bel fior senza alcun frutto;
e quella che, lui amando, ignuda voce
fecesi, e 'l corpo un duro sasso asciutto;
ivi quell' altro al suo mal sí veloce,
Ifi, ch' amando altrui in odio s' ebbe,
con piú altri dannati a simil croce:
gente cui per amar vivere increbbe;
ove raffigurai alcun moderni,
ch' a nominar perduta opra sarebbe:
que' duo che fece Amor compagni eterni,
Alcione e Ceice, in riva al mare
far i lor nidi a' piú soavi verni;
lungo costor pensoso Esaco stare,
cercando Esperia, or sovra un sasso assiso
et or sott' acqua et or alto volare;
e vidi la crudel figlia di Niso
fuggir volando, e correr Atalanta,
da tre palle d' òr vinta e d' un bel viso;
e seco Ipomenès, che, fra cotanta
turba d' amanti miseri cursori,
sol di vittoria si rallegra e vanta.
Fra questi fabulosi e vani amori
vidi Aci e Galatea, che 'n grembo gli era,
e Polifemo farne gran romori;
Glauco ondeggiar per entro quella schiera
senza colei cui sola par che pregi,
nomando un' altr' amante acerba e fera;
Canente e Pico, un già de' nostri regi,
or vago augello; e chi di stato il mosse
lasciògli il nome e 'l real manto e i fregi.
Vidi 'l pianto d' Egeria; e 'n vece d' osse
Scilla indurarse in petra aspra ed alpestra,
che del mar ciciliano infamia fosse;
e quella che la penna da man destra,
come dogliosa e desperata scriva,
e 'l ferro ignudo tèn dalla sinestra;
Pigmalion con la sua donna viva;
e mille che Castalia, et Aganippe,
udí cantar per la sua verde riva;
e d' un pomo beffata al fin Cidippe.


III

Era sí pieno il cor di meraviglie
ch' i' stava come l' uom che non pò dire,
e tace, e guarda pur ch' altri il consiglie,
quando l' amico mio: - Che fai? che mire?
che pensi? - disse - non sai tu ben ch' io
son de la turba? e' mi convien seguire -
- Frate - risposi - e tu sai l' esser mio
e l' amor del saper che m' ha sí acceso,
che l' opra è ritardata dal desio. -
Et egli: - I' t' avea già, tacendo, inteso:
tu vuoli udir che son quest' altri ancora;
i' tel dirò, se 'l dir non è conteso.
Vedi quel grande il quale ogni uomo onora;
egli è Pompeo, et ha Cornelia seco,
che del vil Tolomeo si lagna e plora.
L' altro piú di lontan, quel è 'l gran greco;
né vede Egisto e l' empia Clitemestra:
or puoi veder Amor s' egli è ben cieco.
Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra,
vedi Piramo e Tisbe insieme a l' ombra,
Leandro in mare et Ero a la fenestra.
Quel sí pensoso è Ulisse, affabile ombra,
che la casta mogliera aspetta e prega;
ma Circe, amando, gliel ritene e 'ngombra.
L' altro è il figliuol d' Amilcare, e no 'l piega
in cotanti anni Italia tutta e Roma;
vil feminella in Puglia il prende e lega.
Quella che 'l suo signor con breve coma
va seguitando, in Ponto fu reina:
come in atto servil se stessa doma!
L' altra è Porzia, che 'l ferro e 'l foco affina;
quell' altra è Giulia, e duolsi del marito
ch' a la seconda fiamma piú s' inchina.
Volgi in qua gli occhi al gran padre schernito,
che non si muta, e d' aver non gl' incresce
sette e sette anni per Rachel servito:
vivace amor, che negli affanni cresce!
Vedi 'l padre di questo, e vedi l' avo
come di sua magion sol con Sara esce.
Poi vedi come Amor crudele e pravo
vince Davit, e sforzalo a far l' opra
onde poi pianga in loco oscuro e cavo.
Simile nebbia par ch' oscuri e copra
del piú saggio figliuol la chiara fama,
e 'l parta in tutto dal Signor di sopra.
De l' altro, che 'n un punto ama e disama,
vedi Tamar ch' al suo frate Absalone
disdegnosa e dolente si richiama.
Poco dinanzi a lei vedi Sansone,
vie piú forte che saggio, che per ciance
in grembo a la nemica il capo pone.
Vedi qui ben fra quante spade e lance
Amor, e 'l sonno, ed una vedovetta
con bel parlar, con sue polite guance
vince Oloferne; e lei tornar soletta
con una ancilla e con l' orribil teschio,
Dio ringraziando, a mezza notte, in fretta.
Vedi Sichem, e 'l suo sangue ch' è meschio
de la circoncisione e de la morte,
e 'l padre còlto e 'l popol ad un veschio:
questo gli ha fatto il súbito amar forte.
Vedi Assuero il suo amor in qual modo
va medicando a ciò che 'n pace il porte:
da l' un si scioglie e lega a l' altro nodo;
cotal ha questa malizia remedio
come d' asse si trae chiodo con chiodo.
Vuo' veder in un cor diletto e tedio,
dolce et amaro? Or mira il fero Erode:
Amore e crudeltà gli han posto assedio.
Vedi come arde in prima, e poi si rode,
tardi pentito di sua feritate,
Marianne chiamando, che non l' ode.
Vedi tre belle donne innamorate,
Procri, Artemisia, con Deidamia,
ed altrettante ardite e scelerate,
Semiramís, Biblí e Mirra ria:
come ciascuna par che si vergogni
de la sua non concessa e torta via!
Ecco quei che le carte empion di sogni,
Lancilotto, Tristano, e gli altri erranti,
ove conven che 'l vulgo errante agogni.
Vedi Ginevra, Isolda, e l' altre amanti,
e la coppia d' Arimino, che 'nseme
vanno facendo dolorosi pianti. -
Cosí parlava; et io, come chi teme
futuro male, e trema anzi la tromba,
sentendo già dov' altri anco no 'l preme,
avea color d' uom tratto d' una tomba,
quando una giovenetta ebbi dallato,
pura assai piú che candida colomba:
ella mi prese; et io, ch' avrei giurato
difendermi d' un uom coverto d' arme,
con parole e con cenni fui legato.
E come ricordar di vero parme,
l' amico mio piú presso mi si fece,
e con un riso, per piú doglia darme,
dissemi entro l' orecchia: - Omai ti lece
per te stesso parlar con chi ti piace,
ché tutti siam macchiati d' una pece. -
Io era un di color cui piú dispiace
de l' altrui ben che del suo mal, vedendo
chi m' avea preso, in libertate e 'n pace;
e come tardi dopo 'l danno intendo,
di sue bellezze mia morte facea,
d' amor, di gelosia, d' invidia ardendo.
Gli occhi dal suo bel viso non torcea,
come uom ch' è infermo, e di tal cosa ingordo
ch' è dolce al gusto, a la salute è rea.
Ad ogni altro piacer cieco era e sordo,
seguendo lei per sí dubbiosi passi
ch' i' tremo ancor, qualor me ne ricordo.
Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi,
e 'l cor pensoso, e solitario albergo
fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi;
da indi in qua cotante carte aspergo
di penseri, e di lagrime, e d' inchiostro,
tante ne squarcio, e n' apparecchio, e vergo;
da indi in qua so che si fa nel chiostro
d' Amore, e che si teme, e che si spera,
e, chi sa legger, ne la fronte il mostro.
E veggio andar quella leggiadra fera,
non curando di me né di mie pene,
di sue vertuti e di mie spoglie altera.
Da l' altra parte, s' io discerno bene,
questo signor, che tutto 'l mondo sforza,
teme di lei, ond' io son fuor di spene;
ch' a mia difesa non ho ardir né forza,
e quello, in ch' io sperava, lei lusinga,
che me e gli altri crudelmente scorza.
Costei non è chi tanto o quanto stringa,
cosí selvaggia e rebellante suole
da le 'nsegne d' Amore andar solinga:
e veramente è fra le stelle un sole,
un singular suo proprio portamento,
suo riso, suoi disdegni e sue parole;
le chiome accolte in oro o sparse al vento;
gli occhi ch' accesi d' un celeste lume
m' infiamman sí ch' i' son d' arder contento.
Chi poría 'l mansueto alto costume
aguagliar mai, parlando, e la vertute,
ov' è 'l mio stil quasi al mar picciol fiume?
Nove cose, e già mai piú non vedute,
né da veder già mai piú d' una volta,
ove tutte le lingue sarien mute!
Cosí preso mi trovo, et ella è sciolta;
io prego giorno e notte (o stella iniqua!),
et ella a pena di mille uno ascolta.
Dura legge d' Amor! ma, ben che obliqua,
servar convensi, però ch' ella aggiunge
di cielo in terra, universale, antiqua.
Or so come da sé 'l cor di disgiunge,
e come sa far pace, guerra, e tregua,
e coprir suo dolor quand' altri il punge;
e so come in un punto si dilegua
e poi si sparge per le guance il sangue,
se paura o vergogna avèn che 'l segua;
so come sta tra' fiori ascoso l' angue,
come sempre tra due si vegghia e dorme,
come senza languir si more e langue;
so de la mia nemica cercar l' orme,
e temer di trovarla, e so in qual guisa
l' amante ne l' amato si transforme;
so fra lunghi sospiri e brevi risa
stato, voglia, color cangiare spesso,
viver stando dal cor l' alma divisa;
so mille volte il dí ingannar me stesso;
so, seguendo 'l mio foco ovunque e' fugge,
arder da lunge et agghiacciar da presso;
so come Amor sovra la mente rugge,
e come ogni ragione indi discaccia,
e so in quante maniere il cor si strugge;
so di che poco canape s' allaccia
un' anima gentil, quand' ella è sola,
e non v' è chi per lei difesa faccia;
so come Amor saetta, e come vola,
e so com' or minaccia et or percote,
come ruba per forza e come invola,
e come sono instabili sue rote,
le mani armate, e gli occhi avolti in fasce,
sue promesse di fé come son vòte;
come nell' ossa il suo foco si pasce,
e ne le vene vive occulta piaga,
onde morte e palese incendio nasce.
In somma so che cosa è l' alma vaga,
rotto parlar con súbito silenzio,
che poco dolce molto amaro appaga,
di che s' ha il mèl temprato con l' assenzio.


IV

Poscia che mia fortuna in forza altrui
m' ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
di libertate ov' alcun tempo fui,
io, ch' era piú salvatico che i cervi,
ratto domesticato fui con tutti
i miei infelici e miseri conservi;
e le fatiche lor vidi, e i lor frutti,
per che torti sentieri e con qual arte
a l' amorosa greggia eran condutti.
Mentre io volgeva gli occhi in ogni parte,
s' i' ne vedesse alcun di chiara fama
o per antiche o per moderne carte,
vidi colui che sola Euridice ama,
e lei segue a l' inferno, e, per lei morto,
con la lingua già fredda anco la chiama.
Alceo conobbi, a dir s' amor sí scorto,
Pindaro, Anacreonte che rimesse
ha le sue muse sol d' Amore in porto.
Virgilio vidi, e parmi intorno avesse
compagni d' alto ingegno e da trastullo,
di quei che volentier già 'l mondo lesse:
l' uno era Ovidio, e l' altro era Catullo,
l' altro Properzio, che d' amor cantaro
fervidamente, e l' altro era Tibullo.
Una giovene greca a paro a paro
co i nobili poeti iva cantando,
et avea un suo stil soave e raro.
Cosí, or quinci or quindi rimirando,
vidi gente ir per una verde piaggia
pur d' amor volgarmente ragionando:
ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
ecco Cin da Pistoia, Guitton d' Arezzo,
che di non esser primo par ch' ira aggia;
ecco i duo Guidi, che già fur in prezzo,
Onesto bolognese, e i ciciliani,
che fur già primi, e quivi eran da sezzo;
Sennuccio e Franceschin, che fur sí umani
come ogni uom vide; e poi v' era un drappello
di portamenti e di volgari strani:
fra tutti il primo Arnaldo Daniello,
gran maestro d' amor, ch' a la sua terra
ancor fa onor col suo dir strano e bello.
Eranvi quei ch' Amor sí leve afferra:
l' un Piero e l' altro, e 'l men famoso Arnaldo,
e quei che fur conquisi con piú guerra:
i' dico l' uno e l' altro Raimbaldo
che cantò pur Beatrice e Monferrato,
e 'l vecchio Pier d' Alvernia con Giraldo;
Folco, que' ch' a Marsilia il nome ha dato,
et a Genova tolto, ed a l' estremo
cangiò per miglior patria abito e stato;
Giaufré Rudel, ch' usò la vela e 'l remo
a cercar la sua morte, e quel Guillielmo
che per cantar ha 'l fior de' suoi dí scemo;
Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo,
e molti altri ne vidi, a cui la lingua
lancia e spada fu sempre e targia et elmo.
E, poi conven che 'l mio dolor distingua,
volsimi a' nostri, e vidi 'l bon Tomasso,
ch' ornò Bologna, et or Messina impingua.
O fugace dolcezza! o viver lasso!
chi mi ti tolse sí tosto d' inanzi,
senza 'l qual non sapea movere un passo?
dove se' or, che meco eri pur dianzi?
Ben è 'l viver mortal, che sí n' agrada,
sogno d' infermi e fola di romanzi!
Poco era fuor de la comune strada,
quando Socrate e Lelio vidi in prima:
con lor piú lunga via conven ch' io vada.
O qual coppia d' amici! che né 'n rima
poria né 'n prosa ornar assai né 'n versi,
se, come dee, vertú nuda s' estima.
Con questi duo cercai monti diversi,
andando tutti tre sempre ad un giogo;
a questi le mie piaghe tutte apersi;
da costor non mi pò tempo né luogo
divider mai, sí come io spero e bramo,
in fino al cener del funereo rogo;
con costor colsi il glorioso ramo
onde forse anzi tempo ornai le tempie
in memoria di quella ch' io tanto amo.
Ma pur di lei che 'l cor di pensier m' empie,
non potei coglier mai ramo né foglia,
sí fur le sue radici acerbe et empie;
onde, ben che talor doler mi soglia,
come uom ch' è offeso, quel che con questi occhi
vidi m' è fren che mai piú non mi doglia:
materia di coturni, e non di socchi,
veder preso colui ch' è fatto deo
da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi!
Ma prima vo' seguir che di noi feo,
e poi dirò quel che d' altrui sostenne:
opra non mia, d' Omero o ver d' Orfeo.
Seguimmo il suon de le purpuree penne
de' volanti corsier per mille fosse,
fin che nel regno di sua madre venne;
né rallentate le catene o scosse,
ma straccati per selve e per montagne,
tal che nesun sapea in qual mondo fosse.
Giace oltra, ove l' Egeo sospira e piagne,
un' isoletta dilicata e molle
piú d' altra che 'l sol scalde o che 'l mar bagne:
nel mezzo è un ombroso e chiuso colle
con sí soavi odor, con sí dolci acque
ch' ogni maschio pensier de l' alma tolle.
Questa è la terra che cotanto piacque
a Venere, e 'n quel tempo a lei fu sagra
che 'l ver nascoso e sconosciuto giacque;
et anco è di valor sí nuda e magra,
tanto riten del suo primo esser vile,
che par dolce a i cattivi et a i buoni agra.
Or quivi triumfò il signor gentile
di noi e de gli altri tutti ch' ad un laccio
presi avea, dal mar d' India a quel di Tile:
pensieri in grembo e vanitadi in braccio,
diletti fugitivi e ferma noia,
ròse di verno a mezza state il ghiaccio;
dubbia speme davanti e breve gioia,
penitenzia e dolor dopo le spalle;
sallo il regno di Roma e quel di Troia.
E rimbombava tutta quella valle
d' acque e d' augelli, et eran le sue rive
bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle;
rivi correnti di fontane vive
al caldo tempo su per l' erba fresca,
e l' ombra spessa e l' aure dolci estive;
poi quand' è 'l verno e l' aer si rinfresca,
tepidi soli e giuochi e cibi et ozio
lento, che i semplicetti cori invesca.
Era ne la stagion che l' equinozio
fa vincitore il giorno, e Progne riede
con la sorella al suo dolce negozio.
O di nostre fortune instabil fede!
In quel loco e 'n quel tempo et in quell' ora
che piú largo tributo a gli occhi chiede,
triumfar volse que' che 'l vulgo adora.
E vidi a qual servaggio, et a qual morte,
a quale strazio va chi s' innamora:
errori e sogni et imagini smorte
eran d' intorno a l' arco triumfale,
e false opinioni in su le porte,
e lubrico sperar su per le scale,
e dannoso guadagno ed util danno,
e gradi ove piú scende chi piú sale;
stanco riposo e riposato affanno,
chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
perfida lealtate e fido inganno,
sollicito furor e ragion pigra,
carcer ove si vèn per strade aperte,
onde per strette a gran pena si migra,
ratte scese a l' entrare, a l' uscir erte,
dentro confusion turbida e mischia
di certe doglie e d' allegrezze incerte.
Non bollí mai Vulcan, Lipari od Ischia,
Stromboli o Mongibello in tanta rabbia:
poco ama sé chi 'n tal gioco s' arrischia.
In cosí tenebrosa e stretta gabbia
rinchiusi fummo, ove le penne usate
mutai per tempo e la mia prima labbia:
e 'n tanto, pur sognando libertate,
l' alma, che 'l gran disio fea pronta e lève,
consolai col veder le cose andate.
Rimirando, er' io fatto al sol di neve,
tanti spirti e sí chiari in carcer tetro,
quasi lunga pittura in tempo breve,
che 'l piè va inanzi, e l' occhio torna a dietro.

 


TRIUMPHUS PUDICITIE

Quando ad un giogo et in un tempo quivi
domita l' alterezza de gli dèi
e de gli uomini vidi al mondo divi,
i' presi essempio de' lor stati rei,
facendo mio profetto l' altrui male
in consolar i casi e i dolor mei;
ché s' io veggio d' un arco e d' uno strale
Febo percosso e 'l giovene d' Abído,
l' un detto deo, l' altro uom puro mortale,
e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido,
ch' amor pio del suo sposo a morte spinse,
non quel d' Enea, com' è 'l publico grido,
non mi debb' io doler s' altri mi vinse
giovene, incauto, disarmato e solo.
E se la mia nemica Amor non strinse,
non è ancor giusta assai cagion di duolo,
ché 'n abito il revidi ch' io ne piansi,
sí tolte gli eran l' ali e 'l gire a volo.
Non con altro romor di petto dansi
duo leon feri, o duo folgori ardenti
che cielo e terra e mar dar loco fansi,
ch' i' vidi Amor con tutti suoi argomenti
mover contra colei di ch' io ragiono,
e lei presta assai piú che fiamme o venti.
Non fan sí grande e sí terribil sòno
Etna qualor da Enchelado è piú scossa,
Scilla e Caribdi quando irate sono,
che via maggiore in su la prima mossa
non fusse del dubbioso e grave assalto,
ch' i' non cre' che ridir sappia né possa.
Ciascun per sé si ritraeva in alto
per veder meglio, e l' orror de l' impresa
i cori e gli occhi avea fatti di smalto.
Quel vincitor che primo era a l' offesa,
da man dritta lo stral, da l' altra l' arco,
e la corda a l' orecchia avea già stesa.
Non corse mai sí levemente al varco
d' una fugace cerva un leopardo
libero in selva, o di catene scarco,
che non fusse stato ivi lento e tardo,
tanto Amor pronto venne a lei ferire
ch' al volto ha le faville ond' io tutto ardo.
Combattea in me co la pietà il desire,
ché dolce m' era sí fatta compagna,
duro a vederla in tal modo perire.
Ma vertú, che da' buon non si scompagna,
mostrò a quel punto ben come a gran torto
chi abandona lei d' altrui si lagna;
ché già mai schermidor non fu sí accorto
a schifar colpo, né nocchier sí presto
a volger nave da gli scogli in porto,
come uno schermo intrepido et onesto
súbito ricoverse quel bel viso
dal colpo, a chi l' attende, agro e funesto.
Io era al fin co gli occhi e col cor fiso,
sperando la vittoria ond' esser sòle,
e di non esser piú da lei diviso.
Come chi smisuratamente vòle,
ch' ha scritte, inanzi ch' a parlar cominci,
ne gli occhi e ne la fronte le parole,
volea dir io: - Signor mio, se tu vinci,
légami con costei, s' io ne son degno,
né temer che già mai mi scioglia quinci -
quand' io 'l vidi pien d' ira e di disdegno
sí grave ch' a ridirlo sarien vinti
tutti i maggior, non che 'l mio basso ingegno;
ché già in fredda onestate erano estinti
i dorati suoi strali, accesi in fiamma
d' amorosa beltate e 'n piacer tinti.
Non ebbe mai di vero valor dramma
Camilla, e l' altre andar use in battaglia
con la sinistra sola intera mamma;
non fu sí ardente Cesare in Farsaglia
contra 'l genero suo, com' ella fue
contra colui ch' ogni lorica smaglia.
Armate era con lei tutte le sue
chiare virtuti (o gloriosa schiera!)
e teneansi per mano a due a due:
Onestate e Vergogna a la fronte era,
nobile par de le virtú divine,
che fan costei sopra le donne altera;
Senno e Modestia e l' altre due confine,
Abito con Diletto in mezzo 'l core,
Perseveranza e Gloria in su la fine;
Bella Accoglienza, Accorgimento fòre,
Cortesia intorno intorno e Puritate,
Timor d' infamia e Desio sol d' onore;
penser canuti in giovenile etate,
e (la concordia ch' è sí rara al mondo)
v' era con Castità somma Beltate.
tal venía contr' Amore e 'n sí secondo
favor del cielo e de le ben nate alme,
che de la vista e' non sofferse il pondo.
Mille e mille famose e care salme
tòrre gli vidi e scuotergli di mano
mille vittoriose e chiare palme.
Non fu il cader di súbito sí strano
dopo tante vittorie ad Aniballe,
vinto a la fin dal giovene romano;
non giacque sí smarrito ne la valle
di Terebinto quel gran Filisteo
a cui tutto Israel dava le spalle,
al primo sasso del garzon ebreo;
né Ciro in Scizia, ove la vedova orba
la gran vendetta a memorabil feo.
Com' uom ch' è sano e 'n un momento amorba,
che sbigottisce e duolsi, o còlto in atto
che vergogna con man da gli occhi forba,
cotale era egli, e tanto a peggior patto
che paura e dolor, vergogna et ira
eran nel volto suo tutte ad un tratto:
non freme cosí 'l mar quando s' adira,
non Inarime allor che Tifeo piagne,
né Mongibel s' Enchelado sospira.
Passo qui cose gloriose e magne
ch' io vidi e dir non oso; a la mia donna
vengo et all' altre sue minor compagne.
Ell' avea in dosso, il dí, candida gonna,
lo scudo in man che mal vide Medusa.
D' un bel diaspro er' ivi una colonna,
a la qual d' una in mezzo Lete infusa
catena di diamante e di topazio,
che s' usò fra le donne, oggi non s' usa,
legarlo vidi, e farne quello strazio
che bastò bene a mille altre vendette;
et io per me ne fui contento e sazio.
I' non poria le sacre e benedette
vergini ch' ivi fur chiudere in rima,
non Calliope e Clio con l' altre sette;
ma d' alquante dirò che 'n su la cima
son di vera onestate; in fra le quali
Lucrezia da man destra era la prima,
l' altra Penelopè: queste gli strali
avean spezzato e la faretra a lato
a quel protervo, e spennachiate l' ali.
Verginia a presso e 'l fero padre armato
di disdegno e di ferro e di pietate,
ch' a sua figlia et a Roma cangiò stato,
l' una e l' altra ponendo in libertate;
poi le tedesche che con aspra morte
servaron lor barbarica onestate;
Iudit ebrea, la saggia, casta e forte,
e quella greca che saltò nel mare
per morir netta e fuggir dura sorte.
Con queste e con certe altre anime chiare
triumfar vidi di colui che pria
veduto avea del mondo triumfare.
Fra l' altre la vestal vergine pia
che baldanzosamente corse al Tibro,
e, per purgarsi d' ogni fama ria,
portò del fiume al tempio acqua col cribro;
poi vidi Ersilia con le sue sabine,
schiera che del suo nome empie ogni libro;
poi vidi, fra le donne pellegrine,
quella che per lo suo diletto e fido
sposo, non per Enea, volse ire al fine.
Taccia il vulgo ignorante! io dico Dido,
cui studio d' onestate a morte spinse,
non vano amor come è il publico grido.
Al fin vidi una che si chiuse e strinse
sovra Arno per servarsi, e non le valse,
ché forza altrui il suo bel penser vinse.
Era il triumfo dove l' onde salse
percoton Baia, ch' al tepido verno
giunse, e a man destra in terra ferma salse.
Indi, fra monte Barbaro et Averno,
l' antichissimo albergo di Sibilla
lassando, se n' andâr dritto a Linterno.
In cosí angusta e solitaria villa
era il grand' uom che d' Affrica s' appella
perché prima col ferro al vivo aprilla.
Qui de l' ostile onor l' alta novella,
non scemato co gli occhi, a tutti piacque,
e la piú casta v' era la piú bella.
Né 'l triumfo non suo seguire spiacque
a lui che, se credenza non è vana,
sol per triumfi e per imperii nacque.
Cosí giugnemmo a la città sovrana,
nel tempio pria che dedicò Sulpizia
per spegner ne la mente fiamma insana;
passammo al tempio poi di Pudicizia,
ch' accende in cor gentile oneste voglie,
non di gente plebeia, ma di patrizia.
Ivi spiegò le gloriose spoglie
la bella vincitrice, ivi depose
le sue vittoriose e sacre foglie;
e 'l giovene toscan che non ascose
le belle piaghe che 'l fer non sospetto,
del comune nemico in guardia pose
con parecchi altri (e fummi il nome detto
d' alcun di lor, come mia sorte seppe)
ch' avean fatto ad Amor chiaro disdetto:
fra gli altri vidi Ipolito e Ioseppe.

 

 

TRIUMPHUS MORTIS

I

Quella leggiadra e gloriosa donna
ch' è oggi ignudo spirto e poca terra
e fu già di valore alta colonna,
tornava con onor da la sua guerra,
allegra, avendo vinto il gran nemico
che con suo' ingegni tutto il mondo atterra,
non con altre arme che col cor pudico
e d' un bel viso e de' pensieri schivi,
d' un parlar saggio e d' onestate amico.
Era miracol novo a veder ivi
rotte l' arme d' Amore, arco e saette,
e tal morti da lui, tal presi e vivi.
La bella donna e le compagne elette
tornando da la nobile vittoria,
in un bel drappelletto ivan ristrette:
poche eran, perché rara è vera gloria,
ma ciascuna per sé parea ben degna
di poema chiarissimo e d' istoria.
Era la lor vittoriosa insegna
in campo verde un candido ermellino,
ch' oro fino e topazi al collo tegna.
Non uman veramente, ma divino
lor andare era, e lor sante parole:
beato s' è qual nasce a tal destino!
Stelle chiare pareano, in mezzo un sole
che tutte ornava e non togliea lor vista,
di rose incoronate e di viole.
E come gentil cor onore acquista,
cosí venía quella brigata allegra,
quando vidi una insegna oscura e trista;
et una donna involta in veste negra,
con un furor qual io non so se mai
al tempo de' giganti fusse a Flegra,
si mosse, e disse: - O tu, donna, che vai
di gioventute e di bellezze altera,
e di tua vita il termine non sai,
io son colei che sí importuna e fera
chiamata son da voi, e sorda e cieca
gente a cui si fa notte inanzi sera.
Io ho condutto al fin la gente greca
e la troiana, a l' ultimo i romani,
con la mia spada, la qual punge e seca,
e popoli altri barbareschi e strani;
e giugnendo quand' altri non m' aspetta,
ho interrotti infiniti penser vani.
Ora a voi, quando il viver piú diletta,
drizzo il mio corso, inanzi che Fortuna
nel vostro dolce qualche amaro metta. -
- In costor non hai tu ragione alcuna,
et in me poca; solo in questa spoglia
- rispose quella che fu nel mondo una. -
Altri so che n' avrà piú di me doglia,
la cui salute dal mio viver pende;
a me fia grazia che di qui mi scioglia. -
Qual è chi 'n cosa nova gli occhi intende
e vede ond' al principio non s' accorse,
di che or si meraviglia e si riprende,
tal si fe' quella fera; e poi che 'n forse
fu stata un poco: - Ben le riconosco
- disse - e so quando 'l mio dente le morse. -
Poi, col ciglio men torbido e men fosco,
disse: - Tu, che la bella schiera guidi,
pur non sentisti mai del mio tosco:
se del consiglio mio punto ti fidi,
che sforzar posso, egli è pure il migliore
fuggir vecchiezza e suoi molti fastidi;
io son disposta a farti un tale onore
qual altrui far non soglio, e che tu passi
senza paura e senz' alcun dolore. -
- Come piace al Signor che 'n cielo stassi,
et indi regge e tempra l' universo,
farai di me quel che de gli altri fassi. -
Cosí rispose; et ecco da traverso
piena di morti tutta la campagna,
che comprender no 'l pò prosa né verso:
da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
el mezzo avea già pieno e le pendici
per molti tempi quella turba magna.
Ivi eran quei che fur detti felici,
pontefici, regnanti, imperadori;
or sono ignudi, miseri e mendici.
U' sono or le richezza? u' son gli onori?
e le gemme e gli scettri e le corone,
e le mitre e i purpurei colori?
Miser chi speme in cosa mortal pone
(ma chi non ve la pone?) e se si trova
a la fine ingannato, è ben ragione.
O ciechi, el tanto affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran madre antica,
e 'l vostro nome a pena si ritrova.
Pur de le mill' è un' utile fatica,
che non sian tutte vanità palesi?
Chi intende a' vostri studii, sí mel dica.
Che vale a soggiogar gli altrui paesi
e tributarie far le genti strane
co gli animi al suo danno sempre accesi?
Dopo le 'mprese perigliose e vane,
e col sangue acquistar terre e tesoro,
vie piú dolce si trova l' acqua e 'l pane,
e 'l legno e 'l vetro, che le gemme e l' oro.
Ma per non seguir piú sí lunga tema,
tempo è ch' io torni al mio primo lavoro.
Io dico che giunta era l' ora estrema
di quella breve vita gloriosa,
e 'l dubbio passo di che il mondo trema,
ed a vederla un' altra valorosa
schiera di donne, non dal corpo sciolta,
per saper s' esser pò Morte pietosa.
Quella bella compagna era ivi accolta
pure a vedere e contemplare il fine
che far convensi, e non piú d' una volta;
tutte sue amiche, e tutte eran vicine.
Allor di quella bionda testa svelse
Morte co la sua man un aureo crine:
cosí del mondo il piú bel fiore scelse,
non già per odio, ma per dimostrarsi
piú chiaramente ne le cose eccelse.
Quanti lamenti lagrimosi sparsi
fur ivi, essendo que' belli occhi asciutti
per ch' io lunga stagion cantai et arsi!
E fra tanti sospiri e tanti lutti
tacita, e sola lieta, si sedea,
del suo bel viver già cogliendo i frutti.
- Vattene in pace, o vera mortal dea -
dicean; e tal fu ben, ma non le valse
contra la Morte, in sua ragion sí rea.
Che fia de l' altre, se questa arse et alse
in poche notti, e si cangiò piú volte?
O umane speranze cieche e false!
Se la terra bagnar lagrime molte
per la pietà di quell' alma gentile,
chi 'l vide, il sa; tu 'l pensa che l' ascolte.
L' ora prima era, il dí sesto d' aprile,
che già mi strinse, et or, lasso, mi sciolse:
come Fortuna va cangiando stile!
Nesun di servitú già mai si dolse
né di morte quant' io di libertate,
e de la vita ch' altri non mi tolse:
debito al mondo e debito a l' etate
cacciar me inanzi, ch' ero giunto in prima,
né a lui tòrre ancor sua dignitate.
Or qual fusse il dolor qui non si stima,
ch' a pena oso pensarne, non ch' io sia
ardito di parlarne in versi o 'n rima.
- Virtú mort' è, bellezza e leggiadria! -
le belle donne intorno al casto letto
triste diceano - omai di noi che fia?
chi vedrà mai in donna atto perfetto?
chi udirà il parlar di saver pieno,
e 'l canto pien d' angelico diletto? -
Lo spirto per partir di quel bel seno
con tutte sue virtuti in sé romito,
fatto avea in quella parte il ciel sereno.
Nesun de gli adversarii fu sí ardito
ch' apparisse già mai con vista oscura
fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
Poi che deposto il pianto e la paura
pur al bel vólto era ciascuna intenta,
per desperazion fatta secura,
non come fiamma che per forza è spenta,
ma che per se medesma si consume,
se n' andò in pace l' anima contenta,
a guisa d' un soave e chiaro lume
cui nutrimento a poco a poco manca,
tenendo al fine il suo caro costume.
Pallida no, ma piú che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca:
quansi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso.


II

La notte che seguí l' orribil caso
che spense il sole, anzi 'l ripose in cielo,
di ch' io son qui come uom cieco rimaso,
spargea per l' aere il dolce estivo gelo,
che con la bianca amica di Titone
suol da' sogni confusi tòrre il velo,
quando donna sembiante a la stagione,
di gemme orientali incoronata,
mosse vèr me da mille altre corone,
e quella man, già tanto desiata,
a me, parlando e sospirando, porse,
onde eterna dolcezza al cor m' è nata:
- Riconosci colei che 'n prima torse
i passi tuoi dal publico viaggio? -
Come 'l cor giovenil di lei s' accorse,
cosí, pensosa, in atto umíle e saggio
s' assise, e seder fèmmi in una riva
la qual ombrava un bel lauro et un faggio.
- Come non conosco io l' alma mia diva?
- risposi in guisa d' uom che parla e plora -
Dimmi pur, prego, s' tu se' morta o viva. -
- Viva son io, e tu se' morto ancora
- diss' ella - e sarai sempre, in fin che giunga
per levarti di terra l' ultima ora.
Ma 'l tempo è breve, e nostra voglia è lunga:
però t' avisa, e 'l tuo dir stringi e frena,
anzi che 'l giorno, già vicin, n' agiunga. -
Et io: - Al fin di questa altra serena
c' ha nome vita, che per prova il sai,
deh, dimmi se 'l morir è sí gran pena. -
Rispose: - Mentre al vulgo dietro vai
et a la opinion sua cieca e dura,
esser felice non puoi tu già mai.
La morte è fin d' una pregione oscura
all' anime gentili; all' altre è noia,
c' hanno posto nel fango ogni lor cura.
Et ora il morir mio, che sí t' annoia,
ti farebbe allegrar se tu sentissi
la millesima parte di mia gioia. -
Cosí parlava, e gli occhi avea al ciel fissi
devotamente; poi mosse in silenzio
quelle labbra rosate, in fin ch' i' dissi:
- Silla, Mario, Neron, Gaio e Mezenzio,
fianchi, stomachi, e febri ardenti fanno
parer la morte amara piú ch' assenzio. -
- Negar - disse - non posso che l' affanno,
che va inanzi al morir, non doglia forte,
e piú la tema de l' etterno danno;
ma, pur che l' alma in Dio si riconforte,
e 'l cor, che 'n se medesmo è forse lasso,
che altro ch' un sospir breve è la morte?
Io avea già vicin l' ultimo passo,
la carne inferma, e l' anima ancor pronta,
quando udi' dir in un son tristo e basso:
"O misero colui che' giorni conta,
e pargli l' un mille anni! Indarno vive,
ché seco in terra mai non si raffronta.
E' cerca il mare, e tutte le sue rive,
e sempre un stil, ovunqu' e' fusse, tenne;
sol di lei pensa, o di lei parla, o scrive".
Allora in quella parte onde 'l suon venne
gli occhi languidi volgo, e veggio quella
che amò noi, me sospinse e te ritenne.
Riconobbila al volto e a la favella,
che spesso ha già il mio cor racconsolato,
or grave e saggia, allor onesta e bella.
E quando io fui nel mio piú bello stato,
ne l' età mia piú verde, a te piú cara,
ch' a dire et a pensare a molti ha dato,
mi fu la vita poco men ch' amara
a rispetto di quella mansueta
e dolce morte ch' a' mortali è rara:
ché 'n tutto quel mio passo er' io piú lieta
che qual d' essilio al dolce albergo riede,
se non che mi stringea di te sol pièta. -
- Deh, madonna - diss' io - per quella fede
che vi fu, credo, al tempo manifesta,
or piú nel volto di chi tutto vede,
creòvi Amor pensier mai nella testa
d' aver pietà del mio lungo martire,
non lasciando vostra alta impresa onesta?
Ché vostri dolci sdegni e le dolci ire,
le dolci paci ne' belli occhi scritte,
tenner molti anni in dubbio il mio desire. -
A pena ebb' io queste parole ditte,
ch' io vidi lampeggiar quel dolce riso
ch' un sol fu già di mie vertuti afflitte.
Poi disse sospirando: - Mai diviso
da te non fu 'l mio cor, né già mai fia;
ma temprai la tua fiamma col mio viso,
perché a salvar te e me null' altra via
era, e la nostra giovenetta fama;
né per ferza è però madre men pia.
Quante volte diss' io meco: "Questi ama,
anzi arde; or si conven ch' a ciò proveggia,
e mal pò proveder chi teme o brama.
Quel di fuor miri, e quel d' entro non veggia".
Questo fu quel che ti rivolse e strinse
spesso, come caval fren, che vaneggia.
Piú di mille fiate ira dipinse
il volto mio, ch' Amor ardeva il core:
ma voglia, in me, ragion già mai non vinse.
Poi, se vinto ti vidi dal dolore,
drizzai in te gli occhi allor soavemente,
salvando la tua vita e 'l nostro onore;
e se fu passion troppo possente,
e la fronte e la voce a salutarti
mossi, et or amorosa et or dolente.
Questi fur teco miei ingegni e mie arti,
or benigne accoglienze et ora sdegni:
tu 'l sai, che n' hai cantato in molte parti.
Ch' i' vidi gli occhi tuoi talor sí pregni
di lagrime, ch' i' dissi: "Questi è córso,
chi non l' aita, sí 'l conosco a i segni".
Allor providi d' onesto soccorso.
Talor ti vidi tali sproni al fianco,
ch' i' dissi: "Qui conven piú duro morso".
Cosí caldo, vermiglio, freddo e bianco,
or tristo, or lieto, in fin qui t' ho condutto
salvo (ond' io mi rallegro), ben che stanco. -
Et io: - Madonna, assai fora gran frutto
questo d' ogni mia fé, pur ch' i' 'l credessi -
dissi tremando e non col viso asciutto.
- Di poca fede! or io, se no 'l sapessi,
se non fusse ben ver, perché 'l direi?
- rispose, e 'n vista parve s' accendessi -
S' al mondo tu piacesti a gli occhi mei,
questo mi taccio; pur quel dolce nodo
mi piacque assai che 'ntorno al cor avei;
e piacemi il bel nome, se vero odo,
che lunge e presso col tuo dir m' acquisti;
né mai in tua amor richiesi altro che 'l modo.
Quel mancò solo, e mentre in atti tristi
volei mostrarmi quel ch' i' vedea sempre,
il tuo cor chiuso a tutto il mondo apristi.
Quinci il mio gelo, onde ancor ti distempre;
ché concordia era tal dell' altre cose
qual giunge Amor, pur ch' onestate il tempre.
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
almen poi ch' i' m' avidi del tuo foco;
ma l' un le palesò, l' altro l' ascose.
Tu eri di mercé chiamar già roco,
quando tacea, perché vergogna e tema
facean molto desir parer sí poco.
Non è minor il duol perché altri il prema,
né maggior per andarsi lamentando;
per ficzion non cresce il ver né scema.
Ma non si ruppe almen ogni vel, quando,
soli, i tuo' detti, te presente accolsi,
"dir piú non osa il nostro amor" cantando?
Teco era il core, a me gli occhi raccolsi:
di ciò, come d' iniqua parte, duolti,
se 'l meglio e 'l piú ti diedi, e 'l men ti tolsi!
Né pensi che, perché ti fossin tolti,
ben mille volte, e piú di mille e mille,
renduti e con pietate a te fur volti;
e state foran lor luci tranquille
sempre ver' te, se non ch' ebbi temenza
delle pericolose tue faville.
Piú ti vo' dir, per non lasciarti senza
una conclusion che a te fia grata,
forse, d' udire in su questa partenza:
in tutte l' altre cose assai beata,
in una sola a me stessa dispiacqui,
che 'n troppo umil terren mi trovai nata;
duolmi ancor veramente ch' i' non nacqui
almen piú presso al tuo fiorito nido:
ma assai fu bel paese ond' io ti piacqui;
ché potea il cor, del qual sol io mi fido,
volgersi altrove, a te essendo ignota,
onde io fora men chiara e di men grido. -
- Questo non - rispos' io - perché la rota
terza del ciel m' alzava a tanto amore,
ovunque fusse, stabile et immota. -
- Or, cosí sia - diss' ella - i' n' ebbi onore,
ch' ancor mi segue. Ma per tuo diletto
tu non t' accorgi del fuggir de l' ore;
vedi l' Aurora da l' aurato letto
rimenar a i mortali il giorno, e 'l Sole
già fuor de l' oceàno infino al petto:
questa vien per partirne, onde mi dole;
s' a dire hai altro, studia d' esser breve,
e col tempo dispensa le parole. -
- Quant' io soffersi mai, soave e leve
- dissi - m' ha fatto il parlar dolce e pio;
ma 'l viver senza voi m' è duro e greve.
Però saper vorrei, madonna, s' io
son per tardi seguirvi, o se per tempo. -
Ella, già mossa, disse: - Al creder mio,
tu starai in terra senza me gran tempo. -

 

 

TRIUMPHUS FAME

I

Da poi che Morte triumfò nel volto
che di me stesso triumfar solea,
e fu del nostro mondo il suo sol tolto,
partissi quella dispietata e rea,
pallida in vista, orribile e superba,
che 'l lume di beltate spento avea;
quando, mirando intorno su per l' erba,
vidi da l' altra parte giugner quella
che trae l' uom del sepolcro e 'n vita il serba.
Quale in sul giorno un' amorosa stella
suol venir d' oriente innanzi al Sole,
che s' accompagna volentier con ella,
cotal venía. Et, oh!, di quali scole
verrà il maestro che discriva a pieno
quel ch' io vo' dire in simplici parole?
Era d' intorno il ciel tanto sereno
che, per tutto 'l desir ch' ardea nel core,
l' occhio mio non potea non venir meno.
Scolpito per le fronti era il valore
de l' onorata gente, dov' io scorsi
molti di quei che legar vidi Amore.
Da man destra, ove gli occhi in prima porsi,
la bella donna avea Cesare e Scipio,
ma, qual piú presso, a gran pena m' accorsi:
l' un di Vertute e non d' Amor mancipio,
l' altro d' entrambi. E poi mi fu mostrata,
dopo sí glorioso e bel principio,
gente di ferro e di valore armata:
sí come in Campidoglio al tempo antico
talora o per via Sacra e per via Lata
venian tutti, in quell' ordine ch' io dico,
e leggeasi a ciascuno intorno al ciglio
il nome al mondo piú di gloria amico.
Io era intento al nobile pispiglio,
a i volti, a gli atti; ed ecco i primi due,
l' un seguiva il nipote e l' altro il figlio,
che sol, senza alcun pari, al mondo fue;
e quei che volsero a' nemici armati
chiudere il passo co le membra sue;
duo padri, da tre figli accompagnati:
l' un giva inanzi, e duo ne venian dopo,
e l' ultimo era il primo fra' laudati.
Poi fiammeggiava a guisa d' un piropo
colui che col consiglio e co la mano
a tutta Italia giunse al maggior uopo:
di Claudio dico, che notturno e piano,
come il Metauro vide, a purgar venne
di ria semenza il buon campo romano:
egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
et un gran vecchio il secondava a presso,
che con arte Anibále a bada tenne.
Duo altri Fabii, e duo Caton con esso,
e duo Pauli, duo Bruti, e duo Marcelli;
un regol ch' amò altrui piú che se stesso;
un Curio et un Fabrizio, assai piú belli
con la lor povertà che Mida o Crasso
con l' oro, onde a virtú furon rebelli;
Cincinnato e Serran, che solo un passo
senza costor non vanno; e 'l gran Camillo
di viver prima, che di ben far, lasso,
perch' a sí alto grado il ciel sortillo,
che sua virtute chiara il ricondusse
onde altrui cieca rabbia dipartillo.
Poi quel Torquato che 'l figliuol percusse,
e viver orbo per amor sofferse
della milizia, perché orba non fusse.
L' un Decio e l' altro, che col petto aperse
le schiere de' nemici: o fiero voto,
che 'l padre e 'l figlio ad una morte offerse!
Curzio venia con lor, non men devoto,
che di sé e dell' arme empié lo speco
in mezzo il Foro orribilmente voto.
Mummio, Levino, Attilio; et era seco
Tito Flamminio, che con forza vinse,
ma vie piú con pietate, il popol greco.
Eravi quei che 'l re di Siria cinse
d' un magnanimo cerchio, e co la fronte
e co la lingua a sua voglia lo strinse;
e quel ch' armato, sol, difese un monte,
onde poi fu sospinto; e quel che, solo,
contra tutta Toscana tenne un ponte;
e chi a grande opra nel nemico stuolo
mosse la mano indarno, e poscia l' arse,
sí seco irato che non sentí il duolo;
e chi 'n mar prima vincitor apparse
contr' a' Cartaginesi, e chi lor navi
fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
Appio conobbi a gli occhi, e ' suoi che gravi
furon sempre e molesti a l' umil plebe.
Poi vidi un grande con atti soavi,
e, se non che 'l suo lume all' estremo ebe,
forse era il primo, e certo fu fra noi
qual Bacco, Alcide, Epaminonda a Tebe:
ma 'l peggio è viver troppo! E vidi poi
quel che da l' esser suo destro e leggiero
ebbe nome, e fu 'l fior de gli anni suoi;
e quanto in arme fu crudo e severo,
tanto quei che 'l seguiva era benigno,
non so se miglior duce o cavalero.
Poi venia que' che livido maligno
tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
nobil Volumnio e d' alta laude digno;
Cosso e Filon, Rutilio, e dalle spesse
luci in disparte tre soli ir vedeva,
rotti i membri e smagliate l' arme e fesse:
Lucio Dentato, e Marco Sergio, e Sceva,
que' tre folgori e tre scogli di guerra,
ma l' un rio successor di fama leva;
Mario poi, che Iugurta e ' Cimbri atterra
e 'l tedesco furore, e Fulvio Flacco,
ch' a l' ingrati troncar a bel studio erra;
et il piú nobil Fulvio, e solo un Gracco
di quel gran nido garulo inquieto,
che fe' il popol roman piú volte stracco;
e quel che parve altrui beato e lieto,
non dico fu, ché non chiaro si vede
un chiuso cor profondo in suo secreto:
Metello dico, e suo padre, e suo' rede,
che già di Macedonia e de' Numidi
e di Creta e di Spagna addusser prede.
Poscia Vespasian col figlio vidi,
il buono e bello, non già il bello e rio,
e 'l buon Nerva, e Traian, principi fidi,
Elio Adriano, e 'l suo Antonin Pio,
bella successione in fino a Marco,
ché bono a buono ha natural desio.
Mentre che vago oltre co gli occhi varco,
vidi il gran fondatore, e i regi cinque;
l' altro era in terra di mal peso carco,
come adivien a chi vertú relinque.


II

Pien d' infinita e nobil meraviglia,
presa a mirar il buon popol di Marte,
ch' al mondo non fu mai simil famiglia,
giungea la vista con l' antiche carte
ove son gli alti nomi e ' sommi pregi,
e sentiv' al mio dir mancar gran parte.
Ma disviarmi i pellegrini egregi:
Anibal primo, e quel, cantato in versi,
Achille, che di fama ebbe gran fregi,
i duo chiari troiani e ' duo gran persi,
Filippo e 'l figlio, che da Pella a gl' Indi
correndo vinse paesi diversi.
Vidi l' altro Alessandro non lunge indi,
non già correr cosí, ch' ebbe altro intoppo:
quanto del vero onor, Fortuna, scindi!
I tre Teban ch' i' dissi, in un bel groppo;
ne l' altro Aiace, Diomede, Ulisse,
che desiò del mondo veder troppo;
Nestor, che tanto seppe e tanto visse,
Agamenón e Menelao, che 'n spose
poco felici al mondo fer gran risse;
Leonida, ch' a' suoi lieto propose
un duro prandio, una terribil cena,
e 'n poca piazza fe' mirabil cose;
et Alcibiade, che sí spesso Atena
come fu suo piacer volse e rivolse,
con dolce lingua e con fronte serena;
Milciade, che 'l gran gioco a Grecia tolse,
e 'l buon figliuol, che con pietà perfetta
legò se vivo, e 'l padre morto sciolse;
Teseo, Temistoclès con questa setta,
Aristidès, che fu un greco Fabrizio:
a tutti fu crudelmente interdetta
la patria sepoltura, e l' altrui vizio
illustra lor, ché nulla meglio scopre
contrari duo com' piccolo interstizio.
Focion va con questi tre di sopre,
che di sua terra fu scacciato morto:
molto diverso il guidardon da l' opre.
Com' io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto,
e 'l buon re Massinissa, e gli era aviso,
d' esser senza i roman, ricever torto.
Con lui, mirando quinci e quindi fiso,
Iero siracusan conobbi, e 'l crudo
Amilcare da lor molto diviso.
Vidi, qual uscí già del foco ignudo
il re di Lidia, manifesto essempio
che poco val contra Fortuna scudo.
Vidi Siface pari a simil scempio;
Brenno, sotto cui cadde gente molta,
e poi cadde ei sotto il delfico tempio.
In abito diversa, in popol folta
fu quella schiera; e mentre gli occhi alto ergo,
vidi una parte tutta in sé raccolta:
e quel che volse a Dio far grande albergo
per abitar fra gli uomini, era il primo;
ma chi fe' l' opra, gli venía da tergo:
a lui fu destinato, onde da imo
produsse al sommo l' edificio santo,
non tal, dentro, architetto, com' io estimo.
Poi quel ch' a Dio familiar fu tanto
in grazia, a parlar seco a faccia a faccia,
che nesun altro se ne pò dar vanto;
e quel che, come uno animal s' allaccia,
co la lingua possente legò 'l Sole,
per giugner de' nemici suoi la traccia:
o fidanza gentil! chi Dio ben cole,
quanto Dio ha creato aver suggetto
e 'l ciel tener con semplici parole!
Poi vidi il padre nostro, a cui fu detto
ch' uscisse di sua terra e gisse al loco
ch' a l' umana salute era già eletto;
seco il figlio e 'l nipote, a cui fu il gioco
fatto de le due spose, e 'l saggio e casto
Iosef dal padre lontanarsi un poco.
Poi, stendendo la vista quant' io basto,
colui vidi oltra il qual occhio non varca,
la cui inobedienza ha il mondo guasto.
Di qua da lui, chi fece la grande arca,
e quei che cominciò poi la gran torre,
che fu sí di peccato e d' error carca.
Poi quel buon Iuda, a cui nesun pò tòrre
le sue leggi paterne, invitto e franco
come uom che per giustizia a morte corre.
Già era il mio desio presso che stanco,
quando mi fece una leggiadra vista
piú vago di mirar ch' i' ne fossi anco:
i' vidi alquante donne ad una lista,
Antiope ed Oritia armata e bella,
Ipolita, del figlio afflitta e trista,
e Menalippe, e ciascuna sí snella
che vincerle fu gloria al grande Alcide:
e' l' una ebbe, e Teseo l' altra sorella;
la vedova che sí secura vide
morto 'l figliolo, e tal vendetta feo
ch' uccise Ciro, et or sua fama uccide,
però che, udendo ancora il suo fin reo,
par che di novo a sua gran colpa muoia,
tanto quel dí del suo nome perdeo.
Poi vidi quella che mal vide Troia;
e, fra queste, una vergine latina
ch' in Italia a' Troian fe' molta noia.
Poi vidi la magnanima reina,
ch' una treccia ravolta e l' altra sparsa
corse a la babilonica rapina;
poi Cleopatra: e l' un' e l' altra er' arsa
d' indegno foco. E vidi in quella tresca
Zenobia, del suo onore assai piú scarsa:
bella era, e nell' età fiorita e fresca,
quanto in piú gioventute e 'n piú bellezza
tanto par ch' onestà sua laude accresca.
Nel cor femineo fu sí gran fermezza,
che col bel viso e coll' armata coma
fece temer chi per natura sprezza:
io parlo de l' imperio alto di Roma,
che con arme assalío, ben ch' a l' estremo
fusse al nostro triumfo ricca soma.
Fra ' nomi che 'n dir breve ascondo e premo,
non fia Iudit, la vedovetta ardita
che fe' il folle amador del capo scemo.
Ma Nino, ond' ogni istoria umana è ordita,
dove lasc' io? e 'l suo gran successore,
che superbia condusse a bestial vita?
Belo dove riman, fonte d' errore,
non per sua colpa? dove Zoroastro,
che fu de l' arte magiche inventore?
e chi de' nostri dogi, che 'n duro astro
passar l' Eufrate, fece il mal governo,
a l' italiche doglie fero impiastro?
Ov' è 'l gran Mitridate, quello eterno
nemico de' roman, che sí ramingo
fuggí dinanzi a lor la state e 'l verno?
Molte gran cose in picciol fascio stringo.
Ov' è un re Arturo, e tre Cesari Augusti,
un d' Affrica, un di Spagna, un Lottoringo?
Cingean costui suo' dodici robusti,
poi venía solo il buon duce Goffrido,
che fe' l' impresa santa e ' passi giusti:
questo (di ch' io mi sdegno e 'ndarno grido)
fece in Ierusalem colle sue mani
il mal guardato e già negletto nido.
Gite superbi, o miseri cristiani,
consumando l' un l' altro, e non vi caglia
che 'l sepolcro di Cristo è in man de' cani!
Raro o nesun che 'n alta fama saglia
vidi dopo costui, s' io non m' inganno,
o per arte di pace o di battaglia.
Pur, come uomini eletti ultimi vanno,
vidi verso la fine il Saracino
che fece a' nostri assai vergogna e danno.
Quel di Luria seguiva il Saladino;
poi il duca di Lancastro, che pur dianzi
era al regno de' franchi aspro vicino.
Miro, come uom che volentier s' avanzi,
s' alcuno ivi vedessi qual egli era
altrove a gli occhi mei veduto inanzi,
e vidi duo che si partir ier sera
di questa nostra etate e del paese;
costor chiudean quella onorata schiera:
il buon re cicilian che 'n alto intese,
e lunge vide, e fu veramente Argo;
dall' altra parte il mio gran Colonnese,
magnanimo, gentil, constante e largo.


III

Io non sapea da tal vista levarme,
quand' io udi': - Pon mente a l' altro lato,
ché s' acquista ben pregio altro che d' arme. -
Volsimi da man manca, e vidi Plato,
che 'n quella schiera andò piú presso al segno
al qual aggiunge cui dal cielo è dato;
Aristotele poi, pien d' alto ingegno;
Pitagora, che primo umilemente
filosofia chiamò per nome degno;
Socrate e Senofonte, e quello ardente
vecchio a cui fur le Muse tanto amiche
ch' Argo e Micena e Troia se ne sente.
Questo cantò gli errori e le fatiche
del figliuol di Laerte, e d' una diva,
primo pintor delle memorie antiche.
A man a man con lui cantando giva
il mantovan che di par seco giostra,
et un al cui passar l' erba fioriva:
questo è quel Marco Tullio in cui si mostra
chiaro quanti eloquenzia ha frutti e fiori;
questi son gli occhi de la lingua nostra.
Dopo venía Demostene, che fori
è di speranza omai del primo loco,
non ben contento de' secondi onori:
un gran folgor parea tutto di foco;
Eschine il dica, che 'l poteo sentire
quando presso al suo tuon parve già fioco.
Io non posso per ordine ridire
questo o quel dove mi vedessi o quando
e qual andar inanzi e qual seguire;
ché cose innumerabili pensando,
e mirando la turba tale e tanta,
l' occhio e 'l pensier m' andava disviando.
Vidi Solon, di cui fu l' util pianta,
che, se mal colta è, mal frutto produce,
co gli altri sei di che Grecia si vanta.
Qui vid' io nostra gente aver per duce
Varrone, il terzo gran lume romano,
che, quando il miri piú, tanto piú luce;
Crispo Salustio, e seco a mano a mano
un che già l' ebbe a schifo e 'l vide torto,
cioè 'l gran Tito Livio padovano.
Mentr' io 'l mirava, subito ebbi scorto
quel Plinio veronese suo vicino,
a scriver molto, a morir poco accorto.
Poi vidi il gran platonico Plotino,
che, credendosi in ozio viver salvo,
prevento fu dal suo fero destino,
il qual seco venia dal materno alvo,
e però providenzia ivi non valse;
poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba e Calvo
con Pollion, che 'n tal superbia salse
che contra quel d' Arpino armar le lingue,
cercando ambeduo fame indegne e false.
Tuchidide vid' io, che ben distingue
i tempi e ' luoghi e l' opere leggiadre,
e di che sangue quel campo s' impingue.
Erodoto, di greca istoria padre,
vidi, e dipinto il nobil geometra
di triangoli e tondi e forme quadre;
e quel che 'n ver di noi divenne petra,
Porfirio, che d' acuti silogismi
empié la dialetica faretra,
faccendo contra 'l vero arme i sofismi;
e quel di Coo, che fe' vie miglior l' opra,
se bene intesi fusser gli aforismi.
Apollo et Esculapio gli son sopra,
chiusi ch' a pena il viso gli comprende,
sí par che i nomi il tempo limi e copra.
Un di Pergamo il segue, et in lui pende
l' arte guasta fra noi, allor non vile,
ma breve e scura; e' la dichiara e stende.
Vidi Anassarco intrepido e virile,
e Senocrate piú saldo ch' un sasso,
che nulla forza volse ad atto vile.
Vidi Archimede star col viso basso,
e Democrito andar tutto pensoso,
per suo voler di lume e d' oro casso.
Vidi Ippia, el vecchiarel che già fu oso
dir - Io so tutto -; e poi di nulla certo,
ma d' ogni cosa Archesilao dubbioso.
Vidi in suoi detti Eraclito coverto;
e Diogene cinico, in suo' fatti,
assai piú che non vuol vergogna, aperto;
e quel che lieto i suo' campi disfatti
vide e deserti, d' altre merci carco,
credendo averne invidiosi patti.
Ivi era il curioso Dicearco;
et in suo' magisteri assai dispari
Quintiliano e Seneca e Plutarco.
Vidivi alquanti c' han turbati i mari
con venti adversi e con ingegni vaghi,
non per saver, ma per contender chiari,
urtar come leoni, e come draghi
co le code avinchiarsi: or che è questo,
ch' ognun del suo saver par che s' appaghi?
Carneade vidi in suo' studi sí desto,
che, parlando egli, il vero e 'l falso a pena
si discernea, cosí nel dir fu presto.
La lunga vita e la sua larga vena
d' ingegno pose in accordar le parti
che 'l furor litterato a guerra mena;
né 'l poteo far, ché, come crebber l' arti,
crebbe l' invidia, e col savere inseme
ne' cori enfiati i suo' veneni ha sparti.
Contra 'l buon Siro, che l' umana speme
alzò ponendo l' anima immortale,
s' armò Epicuro, onde sua fama geme,
ardito a dir ch' ella non fusse tale;
cosí al lume fu famoso e lippo,
co la brigata al suo maestro eguale:
di Metrodoro parlo e d' Aristippo.
Poi con gran subbio, e con mirabil fuso,
vidi tela sottil tesser Crisippo.
De gli stoici il padre alzato in suso,
per far chiaro suo dir, vidi Zenone
mostrar la palma apera e 'l pugno chiuso;
e per fermar sua bella intenzione,
la sua tela gentil ordir Cleante,
che tira al ver la vaga opinione.
Qui lascio, e piú di lor non dico avante.

 

 

TRIUMPHUS TEMPORIS

De l' aureo albergo, co l' Aurora inanzi,
sí ratto usciva il Sol cinto di raggi,
che detto avresti: - E' si corcò pur dianzi! -
Alzato un poco, come fanno i saggi,
guardossi intorno, et a se stesso disse:
- Che pensi? omai conven che piú cura aggi:
ecco, s' un che famoso in terra visse
de la sua fama per morir non esce,
che sarà de la legge che 'l ciel fisse?
E se fama mortal morendo cresce,
che spegner si devea in breve, veggio
nostra eccellenzia al fine; onde m' incresce.
Che piú s' aspetta? e che puote esser peggio?
che piú nel ciel ho io, che 'n terra un uomo,
a cui esser egual per grazia cheggio?
Quattro cavai con quanto studio como,
pasco nell' oceáno, e sprono e sferzo,
e pur la fama d' un mortal non domo!
Ingiuria da corruccio, e non da scherzo,
avenir questo a me, s' i' fossi in cielo
non dirò primo, ma secondo o terzo!
Or conven che s' accenda ogni mio zelo,
sí ch' al mio volo l' ira adoppi i vanni,
ch' io porto invidia a gli uomini, e no 'l celo;
de' quali io veggio alcun dopo mille anni,
e mille e mille, piú chiari che 'n vita;
et io m' avanzo di perpetui affanni.
Tal son qual era anzi che stabilita
fusse la terra, dí e notte rotando
per la strada ritonda ch' è infinita. -
Poi che questo ebbe detto, disdegnando
riprese il corso, piú veloce assai
che falcon d' alto a sua preda volando,
piú dico, né pensier poria già mai
seguir suo volo, non che lingua o stile;
tal che con gran paura il rimirai.
Allor tenn' io il viver nostro a vile
per la mirabil sua velocitate,
vie piú che inanzi no 'l tenea gentile,
e parvemi terribil vanitate
fermare in cose il cor che 'l Tempo preme,
che, mentre piú le stringi, son passate.
Però chi di suo stato cura o teme,
proveggia ben, mentr' è l' arbitrio intero,
fondare in loco stabile sua speme,
ché quant' io vidi il Tempo andar leggiero
dopo la guida sua, che mai non posa,
io no 'l dirò, perché poter non spero:
i' vidi il ghiaccio, e lí stesso la rosa,
quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo,
che, pur udendo, par mirabil cosa.
Ma chi ben mira, col giudizio saldo,
vedrá esser cosí. Ché no 'l vid' io?
di che contra me stesso or mi riscaldo.
Segui' già le speranze e 'l van desio;
or ho dinanzi a gli occhi un chiaro specchio
ov' io veggio me stesso e 'l fallir mio,
e quanto posso al fine m' apparecchio,
pensando al breve viver mio, nel quale
stamani era un fanciullo et or son vecchio.
Che piú d' un giorno è la vita mortale?
Nubil' e brev' e freddo e pien di noia,
che pò bella parer, ma nulla vale.
Qui l' umana speranza e qui la gioia,
qui ' miseri mortali alzan la testa,
e nesun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del Sole,
la ruina del mondo manifesta.
Or vi riconfortate in vostre fole,
gioveni, e misurate il tempo largo!
Ma piaga antiveduta assai men dole.
Forse che 'ndarno mie parole spargo,
ma io v' annunzio che voi sete offesi
da un grave e mortifero letargo,
ché volan l' ore e ' giorni e gli anni e ' mesi:
inseme, con brevissimo intervallo,
tutti avemo a cercar altri paesi.
Non fate contra 'l vero al core un callo,
come sete usi, anzi volgete gli occhi,
mentre emendar si pote il vostro fallo;
non aspettate che la morte scocchi,
come fa la piú parte, ché per certo
infinita è la schiera de gli sciocchi.
Poi ch' io ebbi veduto e veggio aperto
il volar e 'l fuggir del gran pianeta,
ond' io ho danni et inganni assai sofferto,
vidi una gente andarsen queta queta,
senza temer di Tempo o di sua rabbia,
ché gli avea in guardia istorico o poeta.
Di lor par che piú d' altri invidia s' abbia,
ché per se stessi son levati a volo,
uscendo for de la comune gabbia.
Contra costor colui che splende solo
s' apparecchiava con maggiore sforzo,
e riprendeva un piú spedito volo:
a' suoi corsier radoppiato era l' orzo;
e la reina di ch' io sopra dissi,
d' alcun de' suoi già volea far divorzo.
Udi' dir, non so a chi, ma 'l detto scrissi:
"In questi umani, a dir proprio, ligustri,
di cieca oblivion che scuri abissi!
Volgerà il Sol, non pure anni, ma lustri,
e secoli, vittor d' ogni cerebro,
e vedrà i vaneggiar di questi illustri.
Quanti fur chiari fra Peneo et Ebro,
che son venuti e verran tosto meno!
quanti sul Xanto, e quanti in val di Tebro!
Un dubbio iberno, instabile sereno
è vostra fama, e poca nebbia il rompe,
e 'l gran tempo a' gran nomi è gran veneno.
Passan vostre grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni:
ogni cosa mortal Tempo interrompe,
e, ritolta a' men buon, non dà a' piú degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie e' vostri ingegni.
Cosí fuggendo il mondo seco volve,
né mai si posa, né s' arresta o torna,
fin che v' ha ricondotti in poca polve.
Or, perché umana gloria ha tante corna,
non è mirabil cosa s' a fiaccarle
alquanto oltra l' usanza si soggiorna.
Ma quantunque si pensi il vulgo o parle,
se 'l viver vostro non fusse sí breve,
tosto vedresti in fumo ritornarle".
Udito questo, perché al ver di deve
non contrastar, ma dar perfetta fede,
vidi ogni nostra gloria, al sol, di neve;
e vidi il Tempo rimenar tal prede
de' nostri nomi ch' io gli ebbi per nulla,
ben che la gente ciò non sa né crede:
cieca, che sempre al vento si trastulla,
e pur di false opinion si pasce,
lodando piú il morir vecchio che 'n culla.
Quanti son già felici morti in fasce!
quanti miseri in ultima vecchiezza!
Alcun dice: - Beato chi non nasce! -
Ma per la turba, a' grandi errori avezza,
dopo la lunga età sia il nome chiaro:
che è questo però che sí s' apprezza?
Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né piú che contra 'l primo è alcun riparo.
Cosí 'l Tempo triumfa i nomi e 'l mondo!

 

 

TRIUMPHUS ETERNITATIS

Da poi che sotto 'l ciel cosa non vidi
stabile e ferma, tutto sbigottito
mi volsi al cor, e dissi: - In che ti fidi? -
Rispose: - Nel Signor, che mai fallito
non ha promessa a chi si fida in lui:
ma ben veggio che 'l mondo m' ha schernito,
e sento quel ch' i' sono e quel ch' i' fui,
e veggio andar, anzi volare, il tempo,
e doler mi vorrei, né so di cui;
ché la colpa è pur mia, che piú per tempo
devé' aprir li occhi, e non tardar al fine,
ch' a dir il vero, omai troppo m' attempo.
Ma tarde non fur mai grazie divine;
in quelle spero che 'n me ancor faranno
alte operazioni e pellegrine. -
Cosí detto e risposto. Or se non stanno
queste cose che 'l ciel volge e governa,
dopo molto voltar, che fine avranno?
Questo pensava: e mentre piú s' interna
la mente mia, veder mi parve un mondo
novo, in etate immobile ed eterna,
e 'l Sole e tutto 'l ciel disfar a tondo
con le sue stelle, ancor la terra e 'l mare,
e rifarne un piú bello e piú giocondo.
Qual meraviglia ebb' io quando ristare
vidi in un punto quel che mai non stette,
ma discorrendo suol tutto cangiare!
E le tre parti sue vidi ristrette
ad una sola, e quella una esser ferma
sí che, come solea, piú non s' affrette,
e, quasi in terra d' erbe ignuda et erma,
né fia, né fu, né mai, né inanzi, o 'ndietro,
ch' umana vita fanno varia e 'nferma!
Passa il penser sí come sole in vetro,
anzi piú assai, però che nulla il tene.
O qual grazia mi fia, se mai l' impetro,
ch' i' veggia ivi presente il sommo bene,
non alcun mal, che solo il tempo mesce,
e con lui si diparte, e con lui vene!
Non avrà albergo il Sol Tauro né Pesce,
per lo cui variar nostro lavoro
or nasce, or more, et ora scema, or cresce.
Beat' i spirti che nel sommo coro
si troveranno, o trovano, in tal grado
che sia memoria eterna il nome loro!
O felice colui che trova il guado
di questo alpestro e rapido torrente
c' ha nome vita, e a molti è sí a grado!
Misera la volgare e cieca gente,
che pon qui sue speranze in cose tali
che 'l tempo le ne porta sí repente!
O veramente sordi, ignudi e frali,
poveri d' argomenti e di consiglio,
egri del tutto e miseri mortali!
Quei che 'l mondo governa pur col ciglio,
che conturba et acqueta gli elementi,
al cui saver non pur io non m' appiglio,
ma li angeli ne son lieti e contenti
di veder de le mille parti l' una,
et in ciò stanno desiosi e 'ntenti!
O mente vaga, al fin sempre digiuna,
a che tanti penseri? Un' ora sgombra
quanto in molt' anni a pena si raguna:
quel che l' anima nostra preme e 'ngombra,
dianzi, adesso, ier, deman, matino e sera,
tutti in un punto passeran com' ombra;
non avrà loco fu, sarà, ned era,
ma è solo, in presente, et ora, et oggi,
e sola eternità raccolta e 'ntera.
Quasi spianati dietro e 'nanzi i poggi,
ch' occupavan la vista, non fia in cui
vostro sperare e rimembrar s' appoggi;
la qual varietà fa spesso altrui
vaneggiar sí, che 'l viver par un gioco,
pensando pur - che sarò io? che fui? -
Non sarà piú diviso a poco a poco,
ma tutto inseme, e non piú state o verno,
ma morto il tempo, e variato il loco;
e non avranno in man li anni il governo
de le fame mortali; anzi chi fia
chiaro una volta, fia chiaro in eterno.
O felici quelle anime che 'n via
sono o seranno di venire al fine
di ch' io ragiono, quandunque e' si sia!
E tra l' altre leggiadre e pellegrine,
beatissima lei che Morte occise
assai di qua dal natural confine!
Parranno allor l' angeliche divise,
e l' oneste parole, e i penser casti,
che nel cor giovenil natura mise.
Tanti volti che Morte e 'l Tempo ha guasti,
torneranno al suo piú fiorito stato;
e vedrassi ove, Amor, tu mi legasti,
ond' io a dito ne sarò mostrato:
- Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto
sovra 'l riso d' ogni altro fu beato! -
E quella di ch' ancor piangendo canto
avrà gran meraviglia di se stessa,
vedendosi fra tutte dar il vanto.
Quando ciò fia, no 'l so: se fu soppressa
tanta credenza a' piú fidi compagni,
a sí alto segreto chi s' appressa?
Credo io che s' avicini, e de' guadagni
veri e de' falsi si farà ragione,
che tutti fíen allor opre d' aragni.
Vedrassi quanto in van cura si pone,
e quanto indarno s' affatica e suda,
come sono inganate le persone:
nesun segreto fia chi copra o chiuda;
fia ogni conscienza, o chiara, o fosca,
dinanzi a tutto 'l mondo aperta e nuda:
e fia chi ragion giudichi e conosca.
Ciascun poi vedrem prender suo viaggio
come fier scacciata che s' imbosca;
e vedrassi quel poco di paraggio
che vi fa ir superbi, e oro, e terreno,
esservi stato danno, e non vantaggio;
e 'n disparte, color che sotto 'l freno
di modesta fortuna ebbero in uso,
senz' ogni pompa, di godersi in seno.
Questi triumfi, i cinque in terra giuso
avem veduto, et a la fine il sesto,
Dio permettente, vederem lassuso;
e 'l Tempo, a disfar tutto cosí presto,
e Morte, in sua ragion cotanto avara,
morti insieme seranno e quella e questo;
e quei che fama meritaron chiara,
che 'l Tempo spense, e i be' visi leggiadri,
che 'mpallidir fe' 'l Tempo e Morte amara,
l' oblivion, gli aspetti oscuri et adri,
piú che mai bei tornando, lascieranno
a morte impetuosa, a' giorni ladri:
ne l' età piú fiorita e verde avranno
con immortal bellezza eterna fama.
Ma, innanzi a tutte ch' a rifar si vanno,
è quella che piangendo il mondo chiama
con la mia lingua e con la stanca penna;
ma 'l ciel pur di vederla intera brama.
A riva un fiume che nasce in Gebenna,
Amor mi die' per lei sí lunga guerra,
che la memoria ancora il cor accenna:
felice sasso, che 'l bel viso serra!
che poi ch' avrà ripreso il suo bel velo,
se fu beato che la vide in terra,
or che fia dunque a rivederla in cielo?

 


[TRIUMPHUS MORTIS Ia]

Quanti già ne l' età matura et acra
triumfi ornaro il glorioso colle,
quanti pregion passar per la via Sacra
sotto 'l monarca ch' al suo tempo volle
far il mondo descrivere universo,
che 'l nome di grandezza a gli altri tolle,
o sotto quel che non d' argento terso
die' bere a' suoi, ma d' un rivo sanguigno:
tutti poco o niente foran verso
quest' un ch' io parlo. E sí candido cigno
non fu già mai che non sembiasse un corvo
presso al bel viso angelico benigno.
E cosí, in atto dolcemente torvo,
l' onesta vincitrice in vèr l' occaso
seguío il lito tirren sonante e córvo.
Ove Sorga e Durenza in maggior vaso
congiungon le lor chiare e torbide acque,
la mia Academia un tempo e 'l mio Parnaso,
ivi, onde a gli occhi miei il bel lume nacque
che gli volse al bon porto, si ratenne
quella per cui ben far prima mi piacque.

 

 

[TRIUMPHUS FAME Ia]

Nel cor pien d' amarissima dolcezza
risonavano ancor gli ultimi accenti
del ragionar ch' e' sol brama et apprezza,
e volea dir - O dí miei tristi et lenti! -
e piú cose altre, quand' io vidi allegra
girsene lei fra belle alme lucenti.
Avea già il Sol la benda umida e negra
tolta dal duro volto della Terra,
riposo della gente mortale egra;
il sonno, e quella ch' ancor apre e serra
il mio cor lasso, a pena eran partiti,
ch' io vidi incominciar un' altra guerra.
O Polimnia, or prego che m' aiti,
e tu, Memoria, il mio stile accompagni,
che 'mprende a ricercar diversi liti.
Uomini e fatti gloriosi e magni,
per le parti di mezzo e per l' estreme,
ove sera e matina il Sol si bagni,
io vidi, molta nobil gente inseme
sotto le 'nsegne d' una gran reina,
che ciascun l' alma, riverisce e teme.
Ella a veder parea cosa divina,
e da man destra avea quel gran romano
che fe' in Germania e 'n Francia tal ruina;
Augusto e Druso seco a mano a mano
e ' duo folgori veri di battaglia,
il maggior e 'l minor Scipio Affricano;
e Papirio Cursor, che tutto smaglia,
Curio e Fabrizio, e l' un e l' altro Cato,
e 'l gran Pompeo, che mal vide Tesaglia.
E Valerio Corvino, e quel Torquato
che per troppa pietate occise il figlio;
e 'l primo Bruto li sedea da lato;
poi il buon villan che fe' il nume vermiglio
del fero sangue, e 'l vecchio ch' Aniballe
frenò con tarditate e con consiglio;
Claudio Neron, che 'l capo d' Asdruballe
presentò al fratello aspro e feroce,
sí che di duol li fe' voltar le spalle;
Muzio, che la sua destra errante coce;
Orazio, sol contra Toscana tutta,
che né foco né ferro a vertú noce;
e chi con sospizion indegna lutta,
Valerio, di piacer al popol vago
sí che s' inchina, e sua casa è distrutta;
e quel che i latin vince sovra il lago
Regillo, e quel che prima Affrica assalta,
e i duo che prima in mar vinser Cartago,
dico Appio audace e Catulo, che smalta
il pelago di sangue, e quel Duillo
che d' aver vinto allor sempre s' esalta.
Vidi 'l vittorioso e gran Camillo
sgombrar l' oro, menar la spada a cerco,
e riportare il perduto vessillo.
Mentre con gli occhi quinci e quindi cerco,
vidivi Cosso, con le spoglie ostili,
e 'l dittator Emilio Mamerco;
e parecchi altri di natura umíli,
Rutilio, e Volumnio, e Gracco, e Filo,
fatti per vertú d' arme alti e gentili:
costor vid' io fra 'l nobil sangue d' Ilo
misto col roman sangue chiaro e bello,
cui non basta né mio né altro stilo.
Vidi ' duo Paoli, e 'l buon Marco Marcello,
che 'n su riva di Po, presso a Casteggio,
occise di sua mano il gran rebello.
E, volgendomi indietro, ancora veggio
i primi quattro buon ch' ebbero in Roma
primo, secondo, terzo e quarto seggio,
e Cincinnato con la inculta chioma,
e 'l gran Rutilian col chiaro sdegno,
e Metello orbo con la nobil soma;
Regolo Attilio, sí di laude degno
e vincendo e morendo, et Appio cieco
che Pirro fe' di veder Roma indegno.
Era un altro Appio, spron del popol, seco,
duo Fulvii, e Manlio Volso, e quel Flaminio
che vinse e liberò 'l paese greco.
Ivi fra gli altri tinto era Virginio
del sangue di sua figlia, onde a que' dieci
tiranni tolto fu l' empio dominio;
e larghi due di lor sangue o tre Deci,
e ' duo gran Scipion che Spagna oppresse,
e Marzio che sostenne ambe lor veci.
E come a' suoi ciascun par che s' appresse,
l' Asiatico era ivi, e quel perfetto
ch' ottimo solo il buon senato elesse.
E Lelio a' suoi Cornelii era ristretto;
non cosí quel Metello al qual arrise
tanto Fortuna che felice è detto:
parean, vivendo, lor menti divise,
morendo, ricongiunte; e seco il padre
era, e 'l suo seme, che sotterra il mise.
Vespasian poi a le spalle quadre
riconobbi et al viso d' uom che ponta,
con Tito suo dall' opre alte e leggiadre.
Domizian non v' era, ond' ira et onta
avean, ma la famiglia che per varco
d' adozion al sommo imperio monta:
Traiano et Adriano, Antonio e Marco,
che facea d' adottar anch' egli il meglio;
al fin Teodosio di ben far non parco.
Questo fu di vertú l' ultimo speglio,
in quell' ordine dico; e dopo lui
cominciò forte il mondo a farsi veglio.
Poco in disparte, accorto anco mi fui
d' alquanti in cui regnò vertú non poca,
ma ricoperta fu dall' ombra altrui:
ivi era quel che ' fondamenti loca
d' Albalunga in quel monte pellegrino,
et Ati, e Numitor, e Silvio e Proca,
e Capi, e 'l vecchio e 'l novo re Latino,
Agrippa, e i duo ch' etterno nome denno
al Tevero et al bel colle Aventino.
Non m' accorgea, ma fummi fatto un cenno,
e quasi in un mirar dubbio notturno
vidi quei ch' ebber men forza e piú senno,
primi italici regi: ivi Saturno,
Pico e Fauno e Iano, e poi non lunge
pensosi vidi andar Camilla e Turno.
E perché gloria in ogni parte aggiunge,
vidi, oltra un rivo, il gran cartaginese,
la cui memoria ancor Italia punge:
l' un occhio avea lasciato al mio paese,
stagnando al freddo tempo il fiume tosco,
sicché gli era, a vederlo, stranio arnese,
sovra un grande elefante un doge losco.
Guarda' gli intorno, e vidi 'l re Filippo
similemente dall' un lato fosco.
Vidi 'l Lacedemonio ivi, Santippo,
ch' a cruda gente fece il bel servigio,
e d' un nido medesmo uscir Gilippo.
Vidi color ch' andaro al regno stigio,
Ercole, Enea, Teseo et Ulisse,
e lasciar qui di fama tal vestigio.
Ettor col padre, quel che troppo visse,
Dardano, e Tros, et eroi altri vidi
chiari per sé, ma piú per chi ne scrisse;
Diomedès, Achille, e i grandi Atridi,
duo Aiaci, e Tideo, e Polinice,
nemici in prima, amici poi sí fidi;
e la brigata ardita et infelice
che cadde a Tebe; e quell' altra ch' a Troia
fece assai, credo, ma di piú si dice.
Pantasilea, ch' a' greci fe' gran noia,
Ipolita ed Oritia, che regnaro
là presso al mar ov' entra la Danoia.
E vidi Ciro, piú di sangue avaro
che Crasso d' oro, e l' un e l' altro n' ebbe
tanto ch' al fine a ciascun parve amaro;
Filopomene, a cui nulla sarebbe
nova arte in guerra, e chi di fede abonda,
Massinissa, nel qual sempre ella crebbe;
Leonida, e 'l tebano Epaminonda,
Milciade e Temistocle, che i persi
cacciar di Grecia, vinti in terra e 'n onda.
Vidi Davit cantar celesti versi,
e Iuda Maccabeo, e Iosuè,
a cui 'l Sole e la Luna immobil fersi;
Alessandro, ch' al mondo briga die',
or l' ocean tentava, e potea farlo;
Morte vi s' interpose, onde no 'l fe';
poi alla fine vidi Arturo e Carlo.

 


[TRIUMPHUS FAME IIa]

Poi che la bella e gloriosa donna
cosí ornata giunse da man destra,
volsimi a l' altra, del suo onor colonna,
e vidi a quella man gente selvestra,
tacita e grave, che pensando avea
fatto al ciel co' l' ingegno alta fenestra.
Ivi vidi colui che pose idea
ne la mente divina, e chi di questo
e d' altre cose seco contendea,
ed era amico, ciò dicea, ma presto...
Poi vidi il padre di filosofia,
Socrate, un vecchiarello allegro, onesto.
Que' la trasse del cielo ove era pria
ed allogolla in terra fra i mortali
perché il vivere umano utile sia.
Poi vidi alcuni alzarsi ed aprir l' ali
ove non bisognava ad ora ad ora,
e far dal ciel nel fango brutti cali.
Pitagora che 'l nome, il qual onora
suoi possessor se 'n dritta parte è preso,
prima trovò; l' altra è tuba sonora,
Senofonte, e Solon che diede a Creso
il buon consiglio di guardare al fine,
da molti udito, ma da pochi inteso;
e gli altri sei in non men pellegrine
sedie vidi io, ma fama il ver non muta.
Poi contendea Demostene ed Eschine:
ciascun con sí tagliente e con sí aguta
lingua, ch' udendo lor querele tante,
Grecia mi parve sbigottita e muta.
Senocrate, Anassagora e Cleante
e Zenone e Ferecide, radice
onde uscir molte verdi e liete piante;
ed Epicuro che col popol dice,
pur che 'l diletto sensual trabocchi,
un uom razional porco felice.
Poi colui ch' a se stesso tolse gli occhi,
perché 'l pensier la vista non occupe
forse, o per non veder fiorir li sciocchi;
e Crisippo a le cose oscure e cupe
non meno intento e duo bon poverelli,
l' un in un tino e l' altro in una rupe.
Diogene e Parmenide son quelli
di ch' io ragiono; Antistene, Anacarse,
Crantor, Anassimene eran con elli;
Anassarco e Calan, che vivo s' arse
di viver sazio, e cui vaneggiando
Mongibello sepolcro onesto parse;
Varro e 'l gran Tullio che venian parlando
lingua latina, e Seneca il seguía;
e Virgilio ed Omero alto cantando.
Dolce mi fu il mirar lor leggiadria,
in atto in lingue in abito distinta,
ed udir lor celeste melodia.
Di lauro avea ciascun la fronte cinta,
o d' edera o di mirto, altri ch' un solo,
che cantava canzon vera e non finta.
Euripide vid' io levarsi a volo
e Sofoclè, duo nobili tragedi,
....................................
E Greci e nostri, che son fatti eredi
del monte di Parnaso e per quei gioghi
mosser piú tardo, non men presti, i piedi.
Tal al parlar, tal riconobbi ai luoghi:
quel era di Volterra e quel d' Aquino,
ciascun par che suo sdegno in verso sfoghi.
Dinanzi a questo Orazio venusino
con la sua lira e 'l Fiorentin ch' è messo
a cantar Pluto e Stillico e Ruffino.
Vidi Stazio a Virgilio ir sí da presso
che li dava del piè nelle calcagna,
e reverente umiliar se stesso.
Poi vidi con Lucan d' ultima Spagna
Columella venir e Marziale
ch' un gran Guascone aveva in lor compagna.
Non è l' ingegno né lo stile equale
a la materia, onde di mille taccio,
ma non posso tacer...................
Lucilio, Ennio, Pacuvio, Plauto ed Accio,
Nevio ed altri che poser in trastullo
il mal d' amor, ricever fiamma e ghiaccio:
Anacreonte, Alceo e con Catullo,
nodrito in Campo Marzo veronese,
e Properzio ed Ovidio era e Tibullo.
Ibico il grande amante calabrese
iva con lor; fra ta' sette vidi una
giovane Greca assai bella e cortese
d' amor lagnarsi, di sua ria fortuna.
Poi vidi ond' ave appoggi ed alimenti
nostra memoria fragile e digiuna.
Livio il gran padoan, da' fondamenti
il qual di Roma cosí passo passo
venne col tempo alle famose genti,
era il primo fra questi e questi lasso
parea del gran viaggio e poi il secondo,
Crispo Sallustio che non parla in casso.
Trogo che col suo stile abbraccia il mondo,
non stringe, e Iustin seco e Festo e Floro
toccar la superficie ma no 'l fondo.
Erodoto e Tuchidide e con loro
Polibio e Quinto Claudio, che tesseo
di rozza trame un nobile lavoro;
e in ciò sembiante il veritiero ebreo
Iosefo ed Egesippo, in cinque libri
che poi l' istoria sua piú breve feo;
e Iulio Celso ch' io non so qual vibri
meglio o 'l ferro o la penna; e Dare e Dite
fra lor discordi e non è chi 'l ver cribri;
cosí rimansi ancor l' antica lite
di questi e d' altri e gli argomenti interi,
ché le certe notizie son fallite.
Vidi ancor duo Corneli e duo Valeri,
Orosio, Eutropio, Curzio ed altri molti,
tutti d' ingegno e d' eloquenzia alteri.

*

Cinea e Carneadès che di memoria
vinsero ogni uomo, sicome Grecia afferma;
Ortensio, ch' à gran parte in questa gloria;
Plinio con libri suoi quattro e settanta
di sua romana e natural istoria.

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