SULLA MORTE DI GIUDA

Gittò l'infame prezzo, e disperato
l'albero ascese il venditor di Cristo:
strinse il laccio, e col corpo abbandonato
dall'irto ramo penzolar fu visto.
Cigolava lo spirito serrato
dentro la strozza in suon rabbioso e tristo,
e Gesù bestemmiava, e il suo peccato
ch'empiea l'Averno di cotanto acquisto.
Sboccò dal varco al fin con un ruggito.
Allor Giustizia l'afferrò, e sul monte
nel sangue di Gesù tingendo il dito,
scrisse con quello al maledetto in fronte
sentenza d'immortal pianto infinito,
e lo piombò sdegnosa in Acheronte.
Piombò quell'alma all'infernal riviera,
e si fe' gran tremuoto in quel momento.
Balzava il monte, ed ondeggiava al vento
la salma in alto strangolata e nera.
Gli angeli dal Calvario in sulla sera
partendo a volo taciturno e lento,
la videro da lunge, e per pavento
si fêr dell'ale a gli occhi una visiera.
I demoni frattanto all'aere tetro
calâr l'appeso, e l'infocate spalle
all'esecrato incarco eran ferétro.
Così ululando e schiamazzando, il calle
preser di Stige, e al vagabondo spetro
resero il corpo nella morta valle.
Poiché ripresa avea l'alma digiuna
l'antica gravità di polpe e d'ossa,
la gran sentenza sulla fronte bruna
in riga apparve trasparente e rossa.
A quella vista di terror percossa
va la gente perduta: altri s'aduna
dietro le piante che Cocito ingrossa,
altri si tuffa nella rea laguna.
Vergognoso egli pur del suo delitto
fuggia quel crudo, e stretta la mascella,
forte graffiava con la man lo scritto.
Ma più terso il rendea l'anima fella:
Dio tra le tempie gliel'avea confitto,
né sillaba di Dio mai si cancella.
Uno strepito intanto si sentia,
che Dite introna in suon profondo e rotto:
era Gesù, che in suo poter condotto,
d'Averno i regni a debellar venìa.
Il bieco peccator per quella via
lo scontrò, lo guatò senza far motto:
pianse alfine, e da' cavi occhi dirotto
come lava di foco il pianto uscìa.
Folgoreggiò sul nero corpo osceno
l'eterea luce, e d'infernal rugiada
fumarono le membra in quel baleno.
Tra il fumo allor la rubiconda spada
interpose Giustizia: e il Nazareno
volse lo sguardo e seguitò la strada.

 

DOPO LA BATTAGLIA DI MARENGO

Bella Italia, amate sponde,
pur vi torno a riveder!
Trema in petto, e si confonde
l'alma oppressa dal piacer.
Tua bellezza, che di pianti
fonte amara ognor ti fu,
di stranieri e crudi amanti
t'avea posta in servitù.
Ma bugiarda e mal sicura
la speranza fia de' re.
Il giardino di natura
no, pei barbari non è.
Bonaparte al tuo periglio
dal mar libico volò,
vide il pianto del tuo ciglio,
e il suo fulmine impugnò.
Tremâr l'Alpi, e stupefatte
suoni umani replicâr,
e l'eterne nevi intatte
d'armi e armati fiammeggiâr.
Del baleno al par veloce
scese il forte, e non s'udì:
ché men ratto il vol, la voce
della Fama lo seguì.
D'ostil sangue i vasti campi
di Marengo intiepidîr,
e de' bronzi ai tuoni ai lampi
l'onde attonite fuggîr.
Di Marengo la pianura
al nemico tomba diè.
Il giardino di natura,
no, pei barbari non è.
Bella Italia, amate sponde,
pur vi torno a riveder!
Trema in petto, e si confonde
l'alma oppressa dal piacer.
Volgi l'onda al mar spedita,
o de' fiumi algoso re;
dinne all'Adria che finita
la gran lite ancor non è;
di' che l'asta il franco Marte
ancor fissa al suol non ha;
di' che dove è Bonaparte
sta vittoria e libertà.
Libertà, principio e fonte
del coraggio e dell'onor,
che il piè in terra, in ciel la fronte,
sei del mondo il primo amor;
questo lauro al crin circonda:
virtù patria lo nutrì,
e Desaix la sacra fronda
del suo sangue colorì.
Su quel lauro in chiome sparte
pianse Francia, e palpitò.
Non lo pianse Bonaparte,
ma invidiollo e sospirò.
Ombra illustre, ti conforti
quell'invidia, e quel sospir:
visse assai chi 'l duol de' forti
meritò nel suo morir.
Ve' sull'Alpi doloroso
della patria il santo amor,
alle membra dar riposo
che fur velo al tuo gran cor.
L'ali il Tempo riverenti
al tuo piede abbasserà;
fremeran procelle e venti,
e la tomba tua starà.
Per la cozia orrenda valle
usa i nembi a calpestar,
torva l'ombra d'Anniballe
verrà teco a ragionar:
chiederà di quell'ardito,
che secondo l'Alpe aprì.
Tu gli mostra il varco a dito,
e rispondi al fier così:
- Di prontezza e di coraggio
te quel grande superò:
Afro, cedi al suo paraggio;
tu scendesti, ed ei volò.
Tu dell'itale contrade
abborrito destruttor:
ei le torna in libertade,
e ne porta seco il cor.
Di civili eterne risse
tu a Cartago rea cagion:
ei placolle, e le sconfisse
col sorriso e col perdon.
Che più chiedi? Tu ruina,
ei salvezza al patrio suol.
Afro, cedi e il ciglio inchina;
muore ogni astro in faccia al sol.


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